Lettori fissi

domenica 27 dicembre 2020

 



FILOSOFIA PRET A PORTER 

Un pensiero che non vuole più essere inattuale   

<<Polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose>> recitava Eraclito, non a caso fra i filosofi più amati da Marx. Ma mentre Marx inquadrava il detto nella cornice del pensiero dialettico, pensando alla guerra di classe, più che alla guerra in generale, il pensiero ermeneutico ricama su questo frammento presocratico (come su molti altri) per estrarne tutt’altro, dal momento che il conflitto antagonistico è stato espulso dall’orizzonte dei temi “politicamente corretti”. E dal catalogo della correttezza politica è stata espulsa anche la vocazione alla inattualità del pensiero, visto che gli autori inattuali tendono a coltivare visioni utopistiche che oggi vengono automaticamente associate ai campi di sterminio. 

In un bell’articolo pubblicato sul sito di Micromega http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/07/30/filosofia-del-ritiro-ritiro-della-filosofia/?fbclid=IwAR2pbt022V8vXY5SxTtSlzWp-zFjTa-qNXfOxvLxhwZAUoPALcNsHxGwN-o Yuri Di Liberto utilizza, per definire questa svolta antipolitica che accomuna larga parte del pensiero contemporaneo, la categoria di "filosofia del ritiro": <<non si tratta di un progetto filosofico univoco, ma di una linea di tendenza della filosofia occidentale che, sulla base dell’equazione potere=totalitarismo, ha forgiato una panoplia di concetti che mirano alla reinterpretazione dello scenario del conflitto in termini di un’opposizione manichea tra il potere costituito (il male assoluto) e la relazionalità immanente;  o, per usare i termini di Deleuze e Guattari, tra il molare (Stato, paranoia) e il molecolare (il desiderio, lo “schizo”>>.

Concordo sul fatto che non si tratta di un progetto filosofico univoco, visto che attraversa un ampio ventaglio di correnti accademiche (postmodernismo, postrutturalismo, postcoloniale, postumano, ecc.) le quali, nondimeno, condividono l’appartenenza a quella (pseudo)rivoluzione epistemologica che viene generalmente identificata con la cosiddetta svolta linguistica delle scienze sociali, con quel fenomeno culturale, cioè, che ha avuto la sua culla in alcuni dipartimenti delle università francesi e, in una fase successiva, nordamericane (con una fitta trama di rimbalzi e contaminazioni reciproche fra le due sponde dell’Atlantico). 

Svolta, aggiungo, che non è il frutto di una “illuminazione” di alcune menti innovatrici ma, come suggerisce Di Liberto, è il riflesso di una temperie politico ideologica che ha coinvolto la maggioranza degli intellettuali marxisti (soprattutto francesi), sconvolti dalle “rivelazioni” sugli orrori del socialismo reale e prontamente pentitisi, per evitare di essere accomunati all’onta di Jean Paul Sartre, imputato di avere impersonato il ruolo di “utile idiota” al servizio del regime stalinista. Una volta stabilito – come sosteneva Hannah Arendt e come i pentiti in questione ritengono inconfutabile - che il progetto emancipatorio della rivoluzione socialista si trasforma inevitabilmente in totalitarismo, <<l’unica prescrizione che vale, scrive Di Liberto, è quella di ritirarsi dall’ordine dato, rifuggire qualsiasi mira di potere, ripulirsi del fascismo che ciascuno di noi ha dentro di sé, non credere più ad alcuna guida partitica. Si tratta di una tendenza post-marxista che, agitando lo spauracchio di Stalin, ha prodotto vari elogi del ritiro, immanentismi pigri, apologie dell’inoperosità ecc.>>. 

Questo ritiratismo filosofico, aggiunge, si basa su due postulati: qualsiasi presa di potere è foriera di totalitarismo, e l’unica azione rivoluzionaria è la resistenza-ritiro. <<La parola d’ordine è ritirarsi, creare concatenamenti desideranti, combattere il fascismo che è dentro di noi, non-fare, diventare inoperosi. Il ritiratista è costantemente impegnato a indicare il fascismo degli altri e a mondare il proprio (…). Il fascismo storico diventa secondario rispetto al fascismo posturale, quello che hanno un po’ tutti, anche senza saperlo>>. 

Noto, per inciso, che questa concezione paradossale del fascismo come categoria della mente individuale, soggettiva, oltre a inflazionare la definizione, privandola di senso (l'etichetta si estende a macchia d’olio fino a comprendere, oltre alla totalità dell’elettorato di centrodestra, l’intera popolazione maschile, bianca, eterosessuale, politicamente scorretta, a meno che non venga riscattata dall’appartenenza a un qualche tipo di “differenza” militante), è il carburante di un dispositivo colpevolizzante che inibisce qualsiasi volontà di lotta per attribuire potere politico ai soggetti che dal sistema vigente ne sono esclusi.

Il ritiratismo è alla radice della fobia nei confronti dello Stato, del partito e del potere politico in generale, mette sul banco degli imputati tutte le ipotesi verticaliste che imbrigliano le relazioni orizzontali del desiderio (sull’ideologia orizzontalista rinvio al libro di Onofrio Romano La libertà verticale, Meltemi editore). I primi a subire la condanna sono, ovviamente, il marxismo (soprattutto nella variante leninista) e il freudismo (ma anche Lacan finisce sotto accusa nell’Anti Edipo di Deleuze e Guattari). <<Il marxismo e il freudismo, scrive Di Liberto, sono accusati di rinchiudere o di escludere il desiderio: in un caso il desiderio delle masse si svilisce nel partito, in Lenin, nella guida, nel programma; nell’altro esso perde le sue potenzialità creatrici, costruttive, venendo riportato forzatamente nel letto di Procuste del triangolo mamma-papà-figlio/a>>. 

Come si vede, l’attenzione si concentra qui soprattutto su Deleuze e Guattari, ma credo la si potrebbe estendere a molti altri, a partire da Antonio Negri e dagli intellettuali post operaisti che contaminano marxismo e ritiratismo. Nel caso di costoro l’orizzontalismo assume una peculiare coloritura ideologica: l’esaltazione delle singolarità, della moltitudine come reticolo che le interconnette e che può fare a meno del comando capitalistico in quanto capace di auto valorizzarsi, di auto gestire la produttività del lavoro sociale, è la chiave di volta di una visione che annuncia l’avvento del “comunismo del capitale”, di un livello tale di sviluppo del general intellect incorporato nel sistema digitalizzato delle macchine da consentire la transizione diretta e pacifica a un più avanzato modo di produzione. 

La metafora del rizoma serve a immaginarizzare questo sogno di una rivoluzione senza conflitto. Purtroppo, nota ancora Di Liberto, l’assimilazione dei modelli di business di imprese come Google, Uber e Facebook a questo modello funzionalista fa sì che, del connessionismo filosofico, rischi di non rimanere altro <<se non una versione romanzata del neoliberismo delle piattaforme>>. 

Questo accenno a una visione romanzata chiama in causa lo stile della filosofia ritiratista (e che io, per ragioni che spiegherò più avanti, preferisco definire filosofia prêt a porter), uno stile fatto di metafore, immagini suggestive, astrusi neologismi, arditi giochi di parole, calembour, facile, brillante, scorrevole, finalizzato a creare l’illusione della profondità mentre sarfa sulla superficie delle parole. Uno stile che evoca un “convitato di pietra” che occhieggia sullo sfondo dell’articolo in questione, e al quale l’autore accenna solo di sfuggita e, se ben ricordo, in un’unica occasione: mi riferisco, ovviamente, a Michel Foucault, re indiscusso del genere letterario che viene qui posto sotto accusa. 

Ecco perché, la seconda parte di questo intervento è dedicata all’ultimo numero della rivista Micromega, interamente centrato sul pensiero di Foucault. Il numero prende avvio da una lettera aperta del direttore della rivista Paolo Flores D’Arcais al filosofo Roberto Esposito, seguita dalla replica del destinatario. Lo spunto polemico è l’uso (o meglio l’abuso) della categoria di biopolitica nel dibattito che la crisi pandemica ha innescato anche nella comunità filosofica. Flores D’Arcais ed Esposito svolgono il ruolo, rispettivamente, di critico radicale e di apologeta del pensiero foucaultiano, mentre una dozzina di altri autori sono convocati a dire la loro. Nelle pagine che seguono, non mi occuperò tuttavia delle letture “biopolitiche” della crisi pandemica (che del resto anche molti autori usano come pretesto per parlar d’altro) e prenderò spunto, oltre che dal dialogo fra Flores D’Arcais ed Esposito, dagli articoli di Carlo Sini, Carlo Galli e Maurizio Ferraris. Non perché gli altri non contengano elementi interessanti, ma perché questi mi sono sembrati quelli più utili per la nostra discussione.        

Il tono  della requisitoria di Flores D’Arcais è a dir poco duro. Come rileva uno scandalizzato Esposito, la definizione teorica che Foucault e i suoi allievi danno della biopolitica viene liquidata come un’invenzione, un’elucubrazione, una fantasia onirica, un vaniloquio, un’allucinazione, un sabba di astrazioni. Questi giudizi si infittiscono nei passaggi in cui D’Arcais esprime tutta la sua irritazione nei confronti dello stile letterario di Foucault (ma è l’intera opera di questo autore che viene ridotta a puro esercizio di scrittura, per cui la condanna dello stile fa tutt’uno con la condanna dei contenuti scientifici, peraltro giudicati inesistenti).

Ma veniamo alle critiche di merito. Non ho qui lo spazio, né l’estro, di seguire Flores D’Arcais nella fitta serie di argomentazioni che corroborano la sua requisitoria, quindi mi limito a sintetizzarne alcuni passaggi. Mi pare di poter dire che il nocciolo fondamentale consista nell’attacco alla tesi foucaultiana secondo cui, a partire da una certa fase della storia moderna (difficile da stabilire, perché Foucault, scrive Flores D’Arcais, si contraddice più volte in merito alla datazione di tale origine, anche se sembra prevalentemente orientato a collocarla nel Seicento), si sarebbe prodotta una transizione dalla sovranità, intesa come il diritto di dare la morte, alla biopolitica, in quanto potere che nutre la propria forza incrementando la salute e la felicità dei sudditi. 

Flores D’Arcais ironizza su quest’ultima definizione, ricordando come solo nella seconda metà dell’Ottocento il potere politico abbia iniziato a preoccuparsi della salute – se non della felicità – dei sudditi appartenenti alle classi subalterne, decidendosi finalmente a interferire sulla “libertà” della classe imprenditoriale e a fissare qualche limite allo sfruttamento bestiale del lavoro in generale e di quello minorile in particolare. Dopodiché contesta l’idea stessa che si possa fissare un inizio relativamente recente delle pratiche politiche che si occupano della salute e del benessere dei cittadini, e sostiene, citando ad esempio il potere imperiale romano, che il potere che gestisce la vita è sempre esistito. Foucault vede discontinuità laddove non esistono, incalza Flores D’Arcais, mentre appare incapace di riconoscerle laddove sono evidenti: vedi la tesi secondo cui la Rivoluzione Francese non avrebbe marcato una vera discontinuità con la logica dell’Ancien Regime, in quanto il filosofo francese considera entrambe come articolazioni del medesimo regime biopolitico.    

Il punto è che il cosiddetto metodo genealogico – o archeologico che dir si voglia – non è una alternativa alla ricerca storica scientifica, è una sequenza di costruzioni immaginarie, di suggestioni letterarie che di scientifico non hanno nulla, né pretendono di averlo, visto che Foucault liquida il razionalismo illuminista e il moderno metodo scientifico come “dispositivi”, pratiche discorsive che non servono a interpretare la realtà ma bensì a costruire “regimi di verità”. 

Ma è soprattutto sulla concezione foucaultiana del potere che si puntano gli strali di Flores D'Arcais: è infatti qui, sostiene, che si annida la contraddizione che sfugge a tutti quei fan di sinistra di Foucault che si illudono di riconoscere nel suo pensiero un'intenzione rivoluzionaria. Da un lato, Foucault sembra nutrire una vera e propria fobia nei confronti di tutte le forme di gerarchia che limitano la libertà dell’individuo.  A partire dal potere dello Stato, di cui contrabbanda addirittura l’estinzione (Flores D’Arcais cita in proposito il seguente passaggio: <<lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a tutt’una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc.>>). Oppure si scaglia contro il potere medico (esponente di quei “poteri tecnici” che sono gli unici a stimolare la sua attenzione critica) che si impone all’individuo che questi sia o meno malato (Flores D’Arcais annota ironicamente che lo si potrebbe considerare il santo patrono dei No Vax - con allusione piuttosto chiara a certe esternazioni “complottiste” di Agamben sull’uso “biopolitico” della pandemia ). 

Dall’altro lato, questa vis polemica non si traduce – al contrario di quanto sostengono i suoi adepti post sessantottini – in un progetto di “assalto al cielo”.  Al contrario: per Foucault la lotta al potere è parte dell’esercizio del potere. Nei suoi “dispositivi” non si intravede alcuna via di uscita dalla auto riproduzione circolare della logica del potere, per cui, scrive Flores D’Arcais, egli attribuisce alla stessa categoria <<lo sfruttamento capitalistico e le lotte delle “forze che resistono” a detto potere>>. E ancora: <<le lotte in tal modo diventano un ingranaggio dialettico del dominio>>. Detto lapidariamente: Foucault è un venditore di fumo che spaccia un’ideologia conservatrice, se non reazionaria.   

Passando alla replica di Esposito, mi pare si possa affermare che la sua arringa difensiva, almeno in certe parti, va quasi più a beneficio della vasta comunità dei suoi seguaci che del maestro. Il testo è altrettanto lungo e articolato di quello dell’accusatore per cui, anche in questo caso mi limiterò a evidenziarne quelli che ritengo i nodi più interessanti. Il primo è quella che definirei una risentita rivendicazione della onorabilità dell’imputato a fronte dei sanguinosi insulti rivoltigli da Flores D’Arcais. Non si tratta così, scrive il nostro, un “classico” del pensiero moderno che, udite udite, è uno dei due più grandi filosofi del 900 assieme ad Hannah Arendt (con un colpo di bacchetta magica i varti Wittgenstein, Lukacs, Heidegger, Bataille, Husserl e altri si vedono declassati a esponenti del pensiero minore del secolo XX). 

Ma perché Foucault sarebbe un classico? Curiosamente Esposito, prima di sostanziare l’affermazione dimostrando la rilevanza del suo contributo al pensiero universale, si avvale dell’argomento della “chiara fama”: Foucault è un classico perché chiamato a insegnare al Collège de France, nonché tradotto e studiato in tutto il mondo con centinaia di monografie e migliaia di saggi a lui dedicati. È possibile che tutti si sbaglino, si chiede Esposito? Forse, risponde, ma è statisticamente (sic!) improbabile: <<mi pare fuori questione che qualcosa di esso si sia accampato nel cuore della contemporaneità, sia entrato in sintonia con la sensibilità contemporanea>>. È vero che ciò può essere liquidato come un fenomeno di moda, riconosce, ma anche la moda, scrive, è una <<modalità del tempo>>. 

Apro una parentesi di approfondimento su quanto appena citato. L’accostamento Foucault-Arendt è cruciale. Esposito è infatti da tempo impegnato a costruire una “filosofia dell’impolitico” di cui il concetto di immunità rappresenta l’approdo finale. Si tratta di un  percorso che ha l’obiettivo di neutralizzare la concezione schmittiana del politico come tracciamento del confine amico/nemico, visione che Esposito considera distruttiva (la traduzione politica della metafora biologica del sistema immunitario serve a evidenziare gli effetti negativi di un eccesso di aggressività nei confronti dei fattori esterni che minacciano i confini del sistema, siano essi nazionali, sociali, etnici, religiosi o altro). 

Neutralizzare il conflitto antagonistico significa però liquidare l’intera eredità della moderna filosofia politica, da Machiavelli ai giorni nostri. Ed è esattamente quanto Esposito ha tentato di fare nelle sue opere, avvalendosi tanto del concetto foucaultiano di biopolitica quanto del concetto arendtiano di totalitarismo. Non va dimenticato che Arendt esaltò la rivoluzione americana rispetto a quella francese, nella quale Marx e Lenin vedevano una sorta di prologo della rivoluzione socialista, laddove la Arendt le addebitava di essere stata piuttosto il prologo del totalitarismo novecentesco. 

Altro inciso. L’arringa esordisce con una esibizione di  orgoglio istituzionale: il maestro insegnava al Collège de France, e molti dei suoi allievi non sono da meno (Esposito si abbandona a un vezzo narcisistico ricordando di essersi meritato <<la fortuna di insegnare alla Scuola Normale Superiore>>). A parte questa nota di colore, vagamente dissonante rispetto allo spirito anti istituzionale e antigerarchico di Foucault, il quale difficilmente avrebbe evocato la propria auctoritas a sostegno delle sue idee, ciò che balza agli occhi è lo “spirito di corpo” che traspare da questa risentita difesa di una comunità accademica. 

In effetti, in questo botta e risposta fra Flores D’Arcais ed Esposito, la posta in palio va al di là delle intenzioni dei due protagonisti: si tratta qui di una questione di egemonia culturale. La “filosofia del ritiro” – di cui il paradigma biopolitico è parte integrante – ha infatti ereditato le postazioni egemoniche che, almeno fino alla fine degli anni Settanta, erano appannaggio degli accademici marxisti e post marxisti che operavano nei dipartimenti delle scienze umane. 

Con una differenza cruciale: quella egemonia era un prolungamento in ambito universitario dell’egemonia che la “vecchia” sinistra esercitava sulle classi subalterne e su consistenti settori della società e delle istituzioni politiche. Viceversa  questa egemonia è sostanzialmente rinserrata nelle mura di alcuni ambiti universitari (dove, dar retta a quanto dicono alcuni giovani ricercatori che non appartengono al clan, viene difesa con un accanimento in cui gli interessi corporativi si sommano all’odio settario nei confronti di chi non appartiene alla grande famiglia postmodernista) e riesce a proiettarsi all’esterno solo su quegli strati di classe media “riflessiva” che si identificano con ciò che resta di una nuova sinistra sempre più emarginata dalla sinistra liberista. 

Questa inversione del rapporto fra accademia e società rispecchia la torsione che le filosofie del ritiro hanno impresso al concetto gramsciano di egemonia. Una torsione che traspare chiaramente laddove Esposito replica alle accuse di Flores D’Arcais in merito al carattere contraddittorio del discorso foucaultiano (vedi sopra) e al suo ridursi a esercizio di stile letterario. 

Da un lato, Esposito non nega le contraddizioni che punteggiano il percorso teorico di Foucault, che peraltro considera un tratto comune a ogni grande pensatore, e che ritiene vitali in quanto contornano delle “brecce” del sistema teorico dalle quali possono fuoruscire fecondi percorsi di arricchimento del paradigma. Dall’altro lato, rivendica l’efficacia (la performatività) della ricchezza e della creatività letteraria di un discorso che procede per metafore, sottigliezze, esercizi di stile. Questo perché, argomenta, siamo di fronte a una teoria che non va valutata come un banale contenitore di significati, bensì in quanto pratica produttiva di determinati eventi. 

In breve: il concetto di egemonia è qui strettamente associato a quello di performatività, l’egemonia non si fonda, gramscianamente, sulla capacità di “dare voce” alla lotta di soggetti di classe sprovvisti di strumenti culturali, né si propone di tradurre in discorso una materia sociale fatta di “verità”, di meri dati di fatto, ma si riduce a chiacchiera capace di produrre “effetti di verità”. La lotta di classe lascia il posto al duello fra retori, al gioco fra avversari che si riconoscono reciprocamente, disinnescando le spiacevoli conseguenze dell’inimicizia politica.  

Vengo a Carlo Sini, il quale esordisce rilanciando l’interrogativo se la biopolitica possa essere considerata come un fenomeno di moda. Nel rispondere prende le distanze sia da Flores D’Arcais che da Esposito. Al primo obietta che, definendolo tale, si finisce per avvalorarne l’interesse, dando così ragione a Esposito, il quale rovescia l’accusa in prova del fatto che il paradigma in questione si è insediato nel cuore della contemporaneità ed è entrato in sintonia con la sua sensibilità. Al secondo replica che <<non c’è affatto da pensare che in una moda oggi straordinariamente diffusa debba necessariamente esserci qualcosa di buono>>. Con ciò, precisa, non intende dire che la biopolitica si riduca a un fenomeno di moda culturale, tuttavia aggiunge che non è possibile ignorare la marea di sciocchezze che vengono fatte circolare con la copertura del “marchio”,  per cui, continuerei io sostituendomi a di Sini (e forzandogli la mano) si potrebbe dire che, mentre i discorsi di Foucault e dei suoi migliori epigoni appartengono a una haute couture della cultura filosofica, quelli della legione di epigoni minori – per tacere delle estemporanee traduzioni dei militanti della nuova sinistra – scadono al livello di un mediocre prêt-à-porter.

Riguardo alla polemica Sini si schiera con Esposito su due punti: 1) condivide l’idea che il discorso filosofico non è un contenitore neutro di messaggi bensì una pratica produttiva di determinati eventi; 2) riconosce a Foucault ha il merito di avere scosso la sovranità del soggetto, dimostrando che <<l’uomo non può darsi nella trasparenza sovrana e immediata di un cogito>> (personalmente, non vedo come gli si possa attribuire il primato esclusivo di tale “scoperta”, visto che i “maestri del sospetto” – Marx, Nietzsche e Freud – lo hanno di gran lunga anticipato). 

Dopodiché rovescia contro Foucault – con una  specie di mossa di judo – gli effetti nichilistici del suo concetto di verità: <<Se il procedimento archeologico non può giustificare la sua “verità” allora ciò di cui parla ripete nell’oggetto ancora se stesso. Questo Foucault lo sa ma si rifiuta di applicarlo davvero anche a se stesso>>. Infine problematizza i concetti  foucaultiani di corpo, vita, nuda vita, dei <<corpi viventi assoggettati al potere>>. Ma questa è una discussione che ci porterebbe lontano dai temi che mi propongo qui affrontare, per cui passo oltre. 

L’articolo di Carlo Galli è forse quello che affronta più di petto le implicazioni politiche del discorso foucaultiano: ammesso che la realtà non è un oggetto pienamente descrivibile da un soggetto, né l’esito pratico di un fare razionale, bensì il prodotto di poteri in lotta, e ammesso che ciò che conta sono gli esiti di verità e potere dei diversi dispositivi storici, la loro interna conflittualità, e appurato infine che la “genealogia” non mette a nudo l’origine del potere, ma il fatto che esso ha sempre direzioni ed effetti, che include ed esclude, quale lezione politica trae Foucault da tutto ciò?

Foucault, argomenta Galli, <<è un pensatore francese in rivolta contro lo Stato sovrano, contro il soggetto sovrano, contro la nazione sovrana, contro la ragione sovrana>>; <<Una ribellione che si manifesta anche attraverso una volontà di épater con paradossi, esagerazioni, improvvisazioni, sofisticherie, provocazioni. Se a ciò si aggiungono una certa arroganza intellettuale, sostenuta da una intelligenza brillantissima, le numerose frettolosità d’interpretazione di fatti e pensieri (…) e soprattutto la trasformazione – che in molti foucaultiani si è acuita – del suo pensiero in una dogmatica scolastica, in una clavis universalis  onniesplicativa, in un gergo oggetto di compiaciuto “consumo vistoso” (a proposito del degrado della haute couture in prêt-à-porter  N.d.A.) allora l’insofferenza di alcuni (…) è ben spiegabile…>>

Al netto dell’insofferenza innescata dalle caratteristiche appena elencate, dove va a parare la “rivolta” foucaultiana? Da nessuna parte, risponde Galli, perché nel Foucault politico <<c’è una fissità dello sguardo che sembra fargli pensare che il controllo della vita sia l’unica preoccupazione del potere,  e che gli fa collocare sullo sfondo altre logiche  di potere (economiche, concettuali e categoriali, politico strategiche: l’autonomia del politico) e altri poteri, quelli sociali, che non sono sempre in sintonia con il potere biopolitico>>. Così nel suo pensiero <<le lotte di classe, i poteri costituenti, le rivoluzioni, le catastrofi degli ordinamenti sembrano ridursi a diagrammi monodimensionali, all’automovimento di funzioni epistemico- potestative di cui i soggetti reali (Stati, classi, popoli, individui) sono solo l’espressione>>

Come spiegare allora la fortuna della vulgata foucaultiana fra i militanti dei movimenti sociali post sessantottini? Semplicemente con il fatto che la narrazione foucaultiana ventila una possibilità di resistenza individuale al potere (vedi slogan come il personale è politico), consentendo a chi imbocca questa via di evitare la durezza della lotta collettiva per conquistare il potere, e non solo per limitarlo. Ed è da qui che nasce il rischio, (in  realtà è ben più di un rischio!) che la filosofia critica di Foucault possa rovesciarsi <<in un’illusione di critica, in a-criticità, in un assecondamento involontario di un trend, quello del neoliberismo individualistico, che nega la rilevanza dell’agire strategico strutturale>>. 

Concludo con una lunga citazione dal contributo di Maurizio Ferraris che mi pare sintetizzi perfettamente il senso di questo excursus sulla filosofia del ritiro, o sulla filosofia prêt-à-porter. Scrive Ferraris: <<La dialettica signoria/servitù, in quanto figura costituiva dei movimenti rivoluzionari (…) si basava sul presupposto che lo schiavo avrebbe avuto la meglio. Oggi succede esattamente il contrario. Si postula che le forme della signoria (…) vincano sempre, più o meno come il banco nei casinò, e che l’unico compito della riflessione di sinistra consista nel versare qualche lacrima sugli sconfitti, o addirittura non piangere affatto, atteggiandosi a esprits forts (…). Dalla figura della signoria e della servitù siamo passati a un’altra, la coscienza infelice. La biopolitica di Foucault è un esempio insigne di questo atteggiamento, e non è forse un caso che abbia tutt’ora un numero così’ ampio di seguaci (…). Va detto a onore di Foucault che lui, personalmente non è mai stato di sinistra, che politicamente era giscardiano, e che questo lo si vede molto chiaramente nell’ammirazione che riserva alla tecnocrazia>>.

mercoledì 23 dicembre 2020

Due comunicazione di servizio per chi mi segue su questa pagina: 1) ho ricevuto un commento firmato Unknown e, pur condividendone i contenuti non l'ho pubblicato. Questo perché ritengo sia giusto che chiunque interviene in un dibattito pubblico è giusto che ci metta la faccia...Quindi chi pensa di intervenire sui miei post dovrà firmarsi; 2) i commenti sono moderati quindi mi riservo di pubblicare solo quelli che ritengo appropriati: scemenze, insulti, off topics saranno inesorabilmente cassati.


martedì 22 dicembre 2020


 LE SUPERDONNE CHE PIACCIONO AL CAPITALISMO
La svolta reazionaria del femminismo mainstream 

Che la svolta "post socialista" delle correnti maggioritarie del femminismo - quelle, per intenderci, che dedicano il proprio impegno esclusivamente al conseguimento della parità di genere in tutti i campi dell'attività economica, sociale e politica e al riconoscimento identitario, avendo abbandonato ogni pretesa di superamento del capitalismo - abbia trasformato un movimento originariamente anti sistemico in un'ideologia reazionaria, in quanto funzionale alla conservazione dello stato di cose esistente, dovrebbe essere ormai scontato per chiunque insista a considerare attuale lo slogan "socialismo o barbarie". Ma, a quanto pare, non è così. Ricevo infatti da Cristiana Fischer una mail in cui riversa il testo di un suo commento alla pagina di un'amica che aveva rilanciato il mio precedente post su questo blog. Non riporto tutto il testo ma solo alcuni passaggi della seconda parte (le frasi evidenziate in corsivo sono sottolineature mie).
Fischer dice che io non ho colto cosa significhi <<sempre di più e più ampiamente>> il femminismo, come dimostrerebbe il fatto che mi interrogo sul perché l'ascesa al potere di figure femminili come Clinton Merkel, Von der Leyen, Kamala Harris dovrebbe rappresentare di per sé un passo verso un mondo migliore. Ecco come la Fischer cerca di farmi vedere la luce: <<Qui la prospettiva politica gli rende impossibile vedere che quelle donne potenti mostrano a tutte noi una cosa semplicissima: che ogni donna può cercare di ottenere quello che vuole, può dirigere la propria vita e migliorare quella di altri. (...)
Il potere che le donne vogliono ottenere, sostenendosi tra loro, imparando a conoscersi in relazione tra loro e confrontandosi tra loro, è la padronanza sulle proprie vite. Quelle "donne potenti" lo hanno fatto, quindi manifestano che è possibile. Poi verranno valutate - soprattutto dalle altre donne! - per quello che hanno fatto, e come. Il femminismo vuole dare forza a tutte: anche alle schiave sessuali sulla Domiziana, alle badanti che abbandonano i loro figli e genitori vecchi per badare a nostri, in sostanza a tutte le donne che temono di credere in loro stesse e nell'aiuto delle loro simili >>.
Tutto questo discorso, ma in particolare i passaggi evidenziati, sono il motivo per cui, sul mio profilo Facebook, le ho replicato dicendo che le sue parole sono la migliore conferma di quanto affermo in apertura, cioè del fatto che un certo femminismo - ahimé maggioritario - è oggi uno dei più formidabili pilastri della conservazione del mondo esistente. Le ho anche promesso che avrei argomentato in modo meno apodittico il mio secco giudizio su questa pagina. Lo farò sia riprendendo le argomentazioni critiche di intellettuali femministe che non fanno parte della corrente mainstream del femminismo (quella che nei miei libri definisco femminismo di regime) sia evidenziando come le frasi incriminate confermino l'adesione di fatto della Fischer a questa corrente. 
Parte delle femministe latino americane avevano preso le distanze dal mito della sorellanza universale ("il femminismo vuole dare forza a tutte"?) già alla fine degli anni Ottanta, in un documento discusso al IV incontro delle donne latino americane (ne parla l'argentina Iris D'Atri in un libro che cito ne La variante populista), in cui si contestavano assunti quali tutte le femministe sono uguali, esiste un'unità "naturale" per il solo fatto di essere donne, ecc. Qualche anno dopo la boliviana Marta Cabeza Fernandez denuncerà la vergognosa opposizione delle parlamentari femministe (bianche della classe media) del suo Paese nei confronti delle richieste delle lavoratrici domestiche (indie di estrazione contadina) che lottavano per un salario minimo garantito ("perché dovremmo pagarle, le trattiamo come fossero nostre figlie, hanno vitto e alloggio e imparano lo spagnolo..."). Immagino siano le stesse femministe che l'anno scorso, dopo il golpe fascista che ha rovesciato il governo socialista di  Evo Morales, hanno detto che lo scontro fra generali e militanti socialisti era un gioco di potere fra maschi che non le riguardava (forse le migliaia di donne indie che sono scese in piazza finendo uccise o stuprate non erano dello stesso avviso). Anche la "donna potente" che è stata messa a capo dello Stato dal golpe (e per fortuna cacciata dalle ultime elezioni che hanno restituito il potere al MAS di Morales) è un esempio del fatto che "si può fare"?
Se fossi coerente dovresti rispondere affermativamente: conta solo che siano donne, dopodiché, dici, verranno valutate per quello che hanno fatto e come, <<ma soprattutto dalle altre donne!>>. Questa è una chicca: il fatto che la Clinton, la più guerrafondaia esponente dell'establishment Usa, abbia giustificato le guerre "per esportare la democrazia" e liberare le donne dall'oppressione islamica, guerre che hanno fatto centinaia di migliaia di vittime (donne, uomini, vecchi e bambini) va giudicato soprattutto dalle donne? Le altre vittime contano meno? Non hanno facoltà e diritto di giudizio sull'operato della "donna potente"? Qui aleggia puzza di eurocentrismo, sessismo alla rovescia e razzismo. Così Jessa Crispin (che ho citato nel precedente post) denuncia il paternalismo (pardon: maternalismo) occidentale nei confronti delle povere donne islamiche da "liberare" (lo vogliano o no) a suon di bombe. Ma anche Judith Butler, polemizzando con il modo in cui alcune femministe tedesche hanno reagito alla famosa "notte di Colonia" (quella in cui migliaia di immigrati islamici hanno importunato le donne che festeggiavano il capodanno), ha sottolineato le connotazioni razziste di certi loro discorsi, guadagnandosi insulti feroci. Già perché, in barba alla "sorellanza", non c'è peggior furia di quella che le critiche delle femministe "eretiche" scatenano nelle vestali del femminismo mainstream (ricordate il linciaggio di cui venne fatta oggetto Luisa Muraro dalla santa alleanza Lgbt, per avere espresso il proprio disgusto nei confronti di Vendola e consorte che erano ricorsi alla pratica dell'utero in affitto?).
Ma veniamo agli aspetti più aberranti: le donne potenti dimostrerebbero "una cosa semplicissima", e cioè <<che ogni donna può cercare di ottenere quello che vuole, può dirigere la propria vita e migliorare quella di altri>>.  Evidentemente Fischer ha rimosso ogni residuo di marxismo - che pure rivendica spesso di avere frequentato - altrimenti non si sognerebbe di affermare che chiunque (donna o uomo) può ottenere quello che vuole solo perché lo desidera. I differenziali di reddito, status, cultura, razza non contano? Non sarà che quelle donne potenti sono divenute tali perché hanno potuto usufruire di robusti vantaggi competitivi? Anche l'immigrata che fa la badante potrà un domani seguire il loro esempio? Basta solo che impari a "credere in sé stessa" e "nutra fiducia nelle proprie simili"? resto letteralmente senza parole. A parte la bubbola del poter contare sulla sorellanza (abbiamo visto quanto valga), questa scemenza equivale ad affermare che viviamo in un mondo che offre a tutti, senza distinzione, la possibilità di diventare quello che vogliano. Ma ci sei o ci fai viene d chiedere.
Mi pare già di sentire la replica.  I maschi possono (?!) le donne non ancora, perché sono oppresse, escluse, discriminate quindi per loro servono esempi che dimostrino che anche loro possono farcela (!?). Ma accantoniamo queste affermazioni deliranti e veniamo al punto. Quello che cercavo di dire nel precedente post era che la svolta post socialista delle correnti femministe euroamericane (con le debite esclusioni) ha determinato una mutazione genetica del movimento tale da renderlo del tutto funzionale alla conservazione/riproduzione del sistema. E' anche la tesi di Nancy Fraser, laddove afferma che il femminismo della seconda ondata, dopo aver reciso i legami con le radici marxiste, si è "culturalizzato", rinunciando alla critica sociale, invertendo le gerarchie fra lotte sociali e lotte per i diritti individuali e fra politica della ridistribuzione e politica del riconoscimento, per cui si è progressivamente allineato con gli obiettivi, i valori e le idee del "neoliberalismo progressista", ponendosi in una relazione antagonista con la cultura, gli interessi e i bisogni della classi subalterne (classi che, come emerge dalla neolingua politicamente corretta che ha adottato, disprezza profondamente). Ed è, anche, la tesi di un'altra storica intellettuale femminista come Silvia Federici, che scrive: <<il femminismo ha sempre più operato in un'ottica per cui il sistema non è stato messo in discussione e la discriminazione sessuale poteva apparire come il malfunzionamento di istituzioni altrimenti perfettibili".
Resta un'ultima questione che non riguarda gli sragionamenti di Cristiana Fischer. Autrici come Fraser e Federici (ma anche molte altre), pur criticando duramente il femminismo della seconda ondata, restano convinte del fatto che il capitalismo non possa sbarazzarsi del patriarcato senza crollare. Ebbene io credo che questo sia sbagliato. L'evoluzione degli ultimi decenni è lì a dimostrare che, non solo il capitalismo può fare a meno del patriarcato (come dell'eterosessismo, dell'omofobia e di ogni altra forma di discriminazione sessuale e di genere), ma ha sempre più individuato (Boltanski e Chiapello lo descrivono molto bene ne Il nuovo spirito del capitalismo) nella proliferazione e valorizzazione delle differenze il carburante ideale per il rafforzamento e l'espansione dei settori più avanzati dell'accumulazione. Questo vuol dire che non esistono corposi residui di esclusione e discriminazione di genere? Ovviamente no, ma la tendenza è visibilmente al loro superamento: basta leggere i giornali, ascoltare radio e tv, leggere libri, fumetti e tutti i prodotti dell'industria culturale, basta ascoltare i discorsi di tutti i politici di destra, centro e sinistra, in cui la retorica femminista è divenuta talmente pervasiva da generare il disgusto, per capire che esistono potenti forze che spingono in quella direzione, forze che non hanno nulla a che fare con il "progresso civile" ma che riguardano piuttosto l'esigenza del capitale di "mettere al lavoro" una forza lavoro femminile che è rimasta troppo a lungo ai margini del sistema produttivo di profitti). Di tutto questo si può e si deve discutere, viceversa confesso che dialogare con chi, all'interno della cultura femminista, condivide posizioni "a la Fischer" non mi interessa, così come non mi interessa dialogare con gli esponenti della cultura liberale. Cara Cristiana, niente di personale, la tenacia con cui difendi le tue convinzioni mi fa simpatia - finché la pioggia di commenti di cui mi inondi non sfiora lo stalking😀 - ma non credo sia utile proseguire questo nostro dialogo fra sordi. 

domenica 20 dicembre 2020




GAMES OF THRONES VERSUS HUNGER GAMES

PIU' DONNE AL POTERE = UN MONDO MIGLIORE? FALSO!


La leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, si è azzardata a recitare, nel programma Rai Voice Anatomy, un monologo https://www.youtube.com/watch?v=noglabz5fvs della regina dei draghi Daenerys Targaryen, la protagonista del serial televisivo Games of Thrones che ha affascinato milioni di telespettatori di tutto il mondo. Il monologo recita così: <<Sono Daenerys, nata dalla Tempesta. I vostri padroni vi hanno mentito su di me o forse non vi hanno detto niente. Non importa. Non ho niente da dire a loro. Parlo solo a voi...>>. Per chi non abbia visto il serial, o letto la saga di George Martin da cui è tratto, il voi cui si rivolge Daenerys con queste parole si riferisce agli schiavi della città che si appresta a liberare, oppressi da una casta di crudeli padroni cui la regina dei draghi infliggerà una durissima punizione. 
Una volta steso un velo di pietoso silenzio sulla pretesa della leader di destra di incarnare un'eroina della lotta contro l'oppressione, tocca riconoscerle di avere rivelato, con quel tentativo di sfruttare un'icona dell'industria culturale, una certa astuzia in materia di comunicazione politica. Almeno nelle intenzioni, perché, a detta del critico tv del Corsera, Aldo Grasso, la performance si è trasformata in un boomerang a causa dell'effetto esilarante dell'accento romanesco e dello scarso talento recitativo dell'improvvisata attrice, che Grasso descrive impietosamente: <<la classica emulazione fallita di un modello altop che inevitabilmente si traduce in trash>>. 
Se fo deciso di occuparmi di questo episodio di non eccelso interesse, è a causa del "succo" politico che Grasso tenta di estrarne, ricordando che, nella saga, Daenerys viene descritta come <<una leader rivoluzionaria che lotta per abbattere il sistema di sfruttamento a favore dei diseredati, ma che finisce per assumere i tratti della dittatura totalitaria>>. La Meloni, in quanto leader di una formazione post fascista, non avrebbe la necessità di "gettare la maschera", ove riuscisse a mettere le mani su un trono, ma Grasso non si riferisce a questo: il nostro, esponente di una cultura non meno reazionaria, ancorché appartenente a un'altra parrocchia ideologica, vuol dire che qualunque tentativo di abbattere il sistema approda necessariamente a una dittatura. A meno che non si tratti di provocare (questo non lo dice ma non dubito che lo pensi) un regime change in uno di quei Paesi che l'Occidente considera totalitari, anche se guidati da governi legittimati dal voto popolare, come il venezuela e la Bolivia (la Cina è un osso troppo duro per sperarci). Come a dire: le lotte contro il sistema non sono mai "neutre", sono buone o cattive a seconda del punto di vista da cui le si considera.
C’è però un’altra riflessione interessante che Game of Thrones può stimolare. Proviamo a mettere a confronto la saga in questione con un’altra storia che vede un’eroina femminile impegnata a lottare contro un potere crudele.  Mi riferisco alla serie cinematografica di Hunger Games. Qui non ci sono ambiguità: i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, e i buoni sono ancora più buoni in quanto a guidarli è una giovane donna, la quale, a differenza di Daenerys, non vuole conquistare il potere ma lo vuole distruggere. Insomma, secondo i miei amici “libertari”, quel film incarna un sano spirito anarchico, consapevole del fatto che il potere è di per sé malvagio, ed evoca una santa alleanza trasversale fra tutte le sue vittime, benedetta da una leadership femminile che ne certifica la correttezza politica. 
Nei miei ultimi libri ho dedicato molto spazio alla critica degli effetti devastanti di questa visione politica, figlia delle derive post sessantottine, per cui non ritengo necessario occuparmene qui ulteriormente. Mi preme piuttosto ragionare su una “morale” di tutt’altro segno che emerge dalla saga di George Martin. Il drammatico finale in cui Daenerys si rivela non meno crudele dell’antagonista che ha appena annientato, è iscritto nella logica della narrazione, nella quale: 1) nessuna delle parti in causa può essere definita “buona”, tutti i potenti sono feroci, cinici, spietati e dimostrano una certa dose di umanità solo nei confronti dei membri della propria famiglia e del proprio clan (e a volte nemmeno di quelli); 2) le differenze di genere non implicano alcuna eccezione a questa regola: le donne potenti sono altrettanto malvagie dei maschi e il voltafaccia di Daenerys gela definitivamente ogni illusione in merito. Da tutto ciò possono essere fatti derivare tre corollari: 1) la malvagità è iscritta nella logica stessa del potere, per cui i buoni dovrebbero tenersene accuratamente alla larga (il che ci ricondurrebbe alla morale di Hunger Games che viene qui però radicalizzata in senso pessimista: non c’è eroina che tenga, dal male del potere non esiste riscatto alcuno); oppure (e qui le cose si fanno più interessanti): 2) il potere è costitutivamente ambiguo, non è uno “strumento” neutro (non si ha potere, il potere è una posizione relazionale che sovradetermina le azioni di chi ne occupa il centro); e 3): non se ne può invertire il segno se non attraverso l’agire collettivo, ma non si può definire un soggetto a priori di tale azione. Altrove mi sono occupato di quest’ultimo corollario criticando la pretesa di un certo marxismo dogmatico di dare una definizione "sostanzialista" del Soggetto sociale della rivoluzione, qui intendo avviare una riflessione (riservandomi di approfondirla in seguito) in merito alla pretesa femminista di rivendicare un fondamento di genere a tale soggetto. Per avviare il ragionamento userò gli argomenti di due donne che criticano il femminismo “dall’interno”:  Jessa Crispin e Nancy Fraser. 
La Crispin demolisce il mito della presunta superiorità ontologica del genere femminile. Le sue critiche mirano a decostruire l’ideologia – maggioritaria nelle correnti mainstream del movimento – che attribuisce un valore di per sé positivo al moltiplicarsi delle figure femminili che occupano posizioni di potere in politica, in economia, nella cultura, nella società e nei media, “a prescindere” da ogni considerazione in merito al loro orientamento ideologico, alla loro appartenenza di classe, etnica o razziale, e al ruolo svolto nell’ambito dei processi di riproduzione sistemica, all’idea, cioè, secondo cui più donne di potere = un cambiamento radicale della logica del potere. Cito qui di seguito alcune sue frasi in ordine sparso: <<Non mi riconosco in un femminismo che si concentra sul self empowerment, i cui obiettivi non includono la distruzione della cultura corporate ma una più alta percentuale di donne CEO>>; <<Se il femminismo non è niente più che interesse personale travestito da progresso politico non fa per me>>; oggi il femminismo è diventato <<narcisistico pensiero autoriflessivo; lotta per consentire alle donne di partecipare equamente all’oppressione dei più deboli e più poveri; un sistema autoprotettivo fondato sul linguaggio politicamente corretto e sul linciaggio di chi non vi si adegua>>; <<politica identitaria, focalizzata su storie e successi individuali>>>; <<I più comuni marcatori del successo femminista sono i medesimi di quelli propri del capitalismo patriarcale>>; <<la pratica dell’autocoscienza ha alimentato l’idea che il personale è politico (ma molte) lo hanno inteso come il fatto che i loro successi personali sono successi politici>>; <<L’idea che le donne cambieranno la cultura è una pia illusione>>; <<non c’è nessun fondamento all’idea che le donne siano naturalmente più portate all’empatia>>; <<Combattiamo per il diritto di fare le soldatesse e stare in prima linea e giustifichiamo il diritto di imbracciare fucili per invadere altri paesi e ucciderne gli abitanti>>. Insomma potremmo chiamarlo il paradigma Games of Thrones in opposizione al paradigma Hunger Games: le donne non sono migliori degli uomini e se non si sovvertono le logiche sistemiche fanno e faranno come e peggio di loro (a meno che, aggiungo, non si ritenga che l’ascesa di donne come Clinton, Merkel, Von der Leyen, Kamala Harris e tutte le altre arruolate dal neo presidente Biden, assieme a vari esponenti Lgbt - e a spese della rappresentanza della sinistra di Sanders! -, rappresenti di per sé un passo verso un mondo migliore).  
Tuttavia, e qui vengo a Nancy Fraser, che è a sua volta alquanto dura nei confronti del femminismo mainstream e della sua alleanza con il regime neoliberista, a queste critiche si può contrapporre l’idea – ed è appunto ciò che fa Fraser – che il femminismo, ove riuscisse a recuperare l’originaria vocazione socialista, in quanto lotta per il riconoscimento – politico, economico, culturale - del ruolo delle donne nel processo riproduttivo sociale, rappresenterebbe comunque la punta di lancia per rovesciare il modo di produzione capitalista, nella misura in cui questo non può sopravvivere se non sfruttando la subordinazione femminile. In pratica Fraser, pur portando un importante contributo all’analisi del rapporto fra produzione e riproduzione nelle diverse fasi dello sviluppo capitalistico, resta ancorata all’idea secondo cui capitalismo e patriarcato sarebbero un’unità inscindibile per cui, se cade il secondo, cade anche il primo. Ma questa tesi non è più sostenibile per ragioni che sono state ben spiegate da vari autori, fra cui Michéa, il quale ricorda giustamente che: <<Gary Becker, futuro consigliere di Reagan, già nel 1987 sosteneva che tutte le discriminazioni verso una minoranza – che sia etnica, sessuale, di genere o altro – si rivelerà sempre più improduttiva ed economicamente  costosa nella misura in cui il sistema capitalista arriverà a liberarsi dei suoi limiti storici originari e a fondarsi finalmente sulle sue vere basi ideologiche e culturali>> (personalmente non nutro dubbi in merito al fatto che il capitalismo abbia oggi definitivamente compiuto questa emancipazione da ogni residuo “patriarcale”, e che riconosca nel femminismo, nella cultura Lgbt e nell’ideologia politicamente corretta affidabili alleati per dividere e indebolire le classi subalterne stroncandone le velleità di resistenza). Il capitale non ha – se mai ne ha avute - connotazioni di genere. Per farla breve: delle teorie di Fraser sul rapporto fra produzione riproduzione si può e si deve discutere seriamente, ma accettare l’idea dell’inscindibilità fra capitalismo e patriarcato vuol dire far rientrare dalla finestra quelle ideologie liberal femministe che la stessa Fraser considera deleterie e che, sia detto una volta per tutte, non sono semplicemente sbagliate: sono attivamente reazionarie.      

sabato 19 dicembre 2020

 LA SCHIZOFRENIA DI DALEMA, OVVERO: NOSTALGIA DEL PARTITO DI CUI E' STATO UNO DEI GRANDI LIQUIDATORI

Di Massimo Dalema si può dire tutto il male possibile (la lista dei suoi peccati sarebbe chilometrica) ma certo non si può dire che sia uno stupido. Lo conferma la lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera, firmata da Antonio Polito e uscita oggi (sabato 19 dicembre 2020), in cui il nostro sparge lacrime di coccodrillo sul vuoto politico lasciato dalla scomparsa del Pci (il titolo dell'intervista recita "Ora a sinistra serve un partito nuovo. E con un po' del Pci" - ma solo un po', sia ben chiaro...😃 ).

Vediamo alcuni passaggi che confermano quanto sopra affermato in merito al fatto che "Baffino" non è uno stupido. Partiamo dalla seguente riflessione di argomento geopolitico: <<Il mondo non si è affatto tutto occidentalizzato, come pensavamo. Anzi, l'Ovest non è sempre sulla frontiera avanzata dell'innovazione. La democrazia liberale perde fascino perché i nostri sistemi non riescono più né a mitigare le disuguaglianze né a far funzionare l'ascensore sociale. Ciò nonostante l'Occidente sembra in conflitto con tutti, con la Cina sul commercio, con la Russia sulle sanzioni, con l'Iran sul nucleare, con la Turchia sul Medio Oriente>>. Quindi conclude dicendo che sarebbe invece necessario adottare strategie di convivenza in un mondo irriducibilmente plurale. Quasi tutto giusto. Quasi, perché i primi a pensare che il mondo si sarebbe tutto occidentalizzato erano stati proprio quei dirigenti del Pci - compreso lui - che in nome di una "realistica" presa d'atto che il capitalismo aveva vinto e nessuna alternativa sarebbe più stata possibile, avevano prontamente provveduto a smantellare il più grande partito comunista occidentale per trasformarlo in un partito liberale. E quasi perché l'idea che l'Occidente possa accettare che il mondo evolva verso un contesto irriducibilmente plurale è pateticamente ingenua, per non dire irresponsabile (che sia ingenua è lui stesso a spiegare perché, laddove elenca le cause della perdita di fascino della democrazia liberale: perde fascino perché genera paurose ineguaglianze e le genera perché questo capitalismo finanziarizzato non può fare altro, per cui non  può accettare che sullo scenario mondiale appaiano nuove pericolose alternative al suo dominio assoluto).

Dagli scenari geopolitici passiamo alla politica interna. Quando Polito gli chiede perché pensa che per andare avanti alla sinistra occorra costruire un partito nuovo, risponde così: <<Il Pd era nato con la vocazione maggioritaria...ma è anche lontano da quel 30% di italiani che si riconoscono nella sinistra>> e le formazioni che se ne sono staccate, aggiunge, hanno a loro volta fallito l'obiettivo. Quindi, conclude, ci vorrebbe una forza fatta da almeno cento - duecentomila persone portate alla militanza e <<che abbiano il potere di decidere e non deleghino ai meccanismi casuali delle primarie la selezione della classe dirigente. In più dovrebbero avere un'ideologia <<una visione del mondo, un insieme di valori e un'idea di futuro>>. Mi viene da ridere pensando alla faccia che faranno i vecchi militanti del Pci cui capiterà di leggere questo passaggio. Brutto str..., penseranno, non era quello che avevamo, una poderosa struttura organizzativa (ed eravamo milioni, non centomila),  una visione del mondo e un'idea di futuro!? Non sei forse tu uno di quelli che si sono dati da fare per liquidare tutto questo, e ora versi lacrime di coccodrillo e ci vieni a dire che ci vorrebbe qualcosa di "nuovo" (anzi d'antico). 

Salto alcuni passaggi meno interessanti (questo governo non è entusiasmante ma non ci sono alternative) per arrivare al dunque, dove si capisce che il nostro non è stupido ma certamente non è abbastanza intelligente (ma soprattutto non è abbastanza onesto) per capire che i dati di fatto che lui stesso ha sciorinato dovrebbero indurlo a una feroce autocritica. Infatti, quando Polito gli chiede che cosa metterebbe del "vecchio" Pci in questo nuovo partito, casca l'asino: <<La serietà, il metodo, la responsabilità dei dirigenti, la qualità della loro formazione>>. Fu questo, udite udite, <<a trasformare un partito che era nato per fare la rivoluzione in un pilastro del sistema democratico>>. No caro Dalema, non fu questo, fu l'opportunismo, il cinico "realismo" di cui sopra ad operare questa trasmutazione dell'oro in merda, che viceversa le virtù cui guardi con schizofrenica nostalgia, nel momento in cui avrebbero dovuto alimentare un eroico progetto di resistenza all'apparente irreversibile trionfo del nemico di classe, erano rimaste appannaggio di una esigua minoranza che non ha potuto impedire il disastro. Quindi rassegnati: la tua intuizione per cui nessun futuro è pronosticabile per una forza che voglia costruire un'alternativa a questo mondo orribile se non nascerà un partito nuovo è giustissima, ma a costruirla non saranno uomini come te.  

venerdì 18 dicembre 2020

 Cari amici

Negli ultimi anni ho veicolato le mie idee soprattutto attraverso il mio profilo Facebook https://www.facebook.com/carlo.formenti/ e gli spazi che mi sono stati concessi dal sito di Micromega. Tuttavia, dal momento che i testi che scrivo sono spesso troppo lunghi per un medium progettato per comunicazioni più agili e snelle qual è Facebook, e dal momento che sono troppi per trovare collocazione su un'unica testata, mi sono deciso ad avviare questo blog personale. Penso di utilizzarlo soprattutto per pubblicare articoli su temi politici di attualità e brevi saggi di analisi teorica. Ai lettori offrirò anche stralci e anticipazioni dai miei libri oltre a commenti recensioni di libri altrui. Mi appello alla vostra clemenza se questa pagina vi sembrerà scarna in questa prima fase, poi, a mano a mano che prenderò confidenza con le possibilità dello strumento, conto di migliorare (anche se non dovrete aspettarvi effetti speciali perché è nel mio stile restare nei limiti di una comunicazione quanto più sobria e lineare). Per il momento vi saluto, ma avrete presto mie notizie.

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