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domenica 20 dicembre 2020




GAMES OF THRONES VERSUS HUNGER GAMES

PIU' DONNE AL POTERE = UN MONDO MIGLIORE? FALSO!


La leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, si è azzardata a recitare, nel programma Rai Voice Anatomy, un monologo https://www.youtube.com/watch?v=noglabz5fvs della regina dei draghi Daenerys Targaryen, la protagonista del serial televisivo Games of Thrones che ha affascinato milioni di telespettatori di tutto il mondo. Il monologo recita così: <<Sono Daenerys, nata dalla Tempesta. I vostri padroni vi hanno mentito su di me o forse non vi hanno detto niente. Non importa. Non ho niente da dire a loro. Parlo solo a voi...>>. Per chi non abbia visto il serial, o letto la saga di George Martin da cui è tratto, il voi cui si rivolge Daenerys con queste parole si riferisce agli schiavi della città che si appresta a liberare, oppressi da una casta di crudeli padroni cui la regina dei draghi infliggerà una durissima punizione. 
Una volta steso un velo di pietoso silenzio sulla pretesa della leader di destra di incarnare un'eroina della lotta contro l'oppressione, tocca riconoscerle di avere rivelato, con quel tentativo di sfruttare un'icona dell'industria culturale, una certa astuzia in materia di comunicazione politica. Almeno nelle intenzioni, perché, a detta del critico tv del Corsera, Aldo Grasso, la performance si è trasformata in un boomerang a causa dell'effetto esilarante dell'accento romanesco e dello scarso talento recitativo dell'improvvisata attrice, che Grasso descrive impietosamente: <<la classica emulazione fallita di un modello altop che inevitabilmente si traduce in trash>>. 
Se fo deciso di occuparmi di questo episodio di non eccelso interesse, è a causa del "succo" politico che Grasso tenta di estrarne, ricordando che, nella saga, Daenerys viene descritta come <<una leader rivoluzionaria che lotta per abbattere il sistema di sfruttamento a favore dei diseredati, ma che finisce per assumere i tratti della dittatura totalitaria>>. La Meloni, in quanto leader di una formazione post fascista, non avrebbe la necessità di "gettare la maschera", ove riuscisse a mettere le mani su un trono, ma Grasso non si riferisce a questo: il nostro, esponente di una cultura non meno reazionaria, ancorché appartenente a un'altra parrocchia ideologica, vuol dire che qualunque tentativo di abbattere il sistema approda necessariamente a una dittatura. A meno che non si tratti di provocare (questo non lo dice ma non dubito che lo pensi) un regime change in uno di quei Paesi che l'Occidente considera totalitari, anche se guidati da governi legittimati dal voto popolare, come il venezuela e la Bolivia (la Cina è un osso troppo duro per sperarci). Come a dire: le lotte contro il sistema non sono mai "neutre", sono buone o cattive a seconda del punto di vista da cui le si considera.
C’è però un’altra riflessione interessante che Game of Thrones può stimolare. Proviamo a mettere a confronto la saga in questione con un’altra storia che vede un’eroina femminile impegnata a lottare contro un potere crudele.  Mi riferisco alla serie cinematografica di Hunger Games. Qui non ci sono ambiguità: i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, e i buoni sono ancora più buoni in quanto a guidarli è una giovane donna, la quale, a differenza di Daenerys, non vuole conquistare il potere ma lo vuole distruggere. Insomma, secondo i miei amici “libertari”, quel film incarna un sano spirito anarchico, consapevole del fatto che il potere è di per sé malvagio, ed evoca una santa alleanza trasversale fra tutte le sue vittime, benedetta da una leadership femminile che ne certifica la correttezza politica. 
Nei miei ultimi libri ho dedicato molto spazio alla critica degli effetti devastanti di questa visione politica, figlia delle derive post sessantottine, per cui non ritengo necessario occuparmene qui ulteriormente. Mi preme piuttosto ragionare su una “morale” di tutt’altro segno che emerge dalla saga di George Martin. Il drammatico finale in cui Daenerys si rivela non meno crudele dell’antagonista che ha appena annientato, è iscritto nella logica della narrazione, nella quale: 1) nessuna delle parti in causa può essere definita “buona”, tutti i potenti sono feroci, cinici, spietati e dimostrano una certa dose di umanità solo nei confronti dei membri della propria famiglia e del proprio clan (e a volte nemmeno di quelli); 2) le differenze di genere non implicano alcuna eccezione a questa regola: le donne potenti sono altrettanto malvagie dei maschi e il voltafaccia di Daenerys gela definitivamente ogni illusione in merito. Da tutto ciò possono essere fatti derivare tre corollari: 1) la malvagità è iscritta nella logica stessa del potere, per cui i buoni dovrebbero tenersene accuratamente alla larga (il che ci ricondurrebbe alla morale di Hunger Games che viene qui però radicalizzata in senso pessimista: non c’è eroina che tenga, dal male del potere non esiste riscatto alcuno); oppure (e qui le cose si fanno più interessanti): 2) il potere è costitutivamente ambiguo, non è uno “strumento” neutro (non si ha potere, il potere è una posizione relazionale che sovradetermina le azioni di chi ne occupa il centro); e 3): non se ne può invertire il segno se non attraverso l’agire collettivo, ma non si può definire un soggetto a priori di tale azione. Altrove mi sono occupato di quest’ultimo corollario criticando la pretesa di un certo marxismo dogmatico di dare una definizione "sostanzialista" del Soggetto sociale della rivoluzione, qui intendo avviare una riflessione (riservandomi di approfondirla in seguito) in merito alla pretesa femminista di rivendicare un fondamento di genere a tale soggetto. Per avviare il ragionamento userò gli argomenti di due donne che criticano il femminismo “dall’interno”:  Jessa Crispin e Nancy Fraser. 
La Crispin demolisce il mito della presunta superiorità ontologica del genere femminile. Le sue critiche mirano a decostruire l’ideologia – maggioritaria nelle correnti mainstream del movimento – che attribuisce un valore di per sé positivo al moltiplicarsi delle figure femminili che occupano posizioni di potere in politica, in economia, nella cultura, nella società e nei media, “a prescindere” da ogni considerazione in merito al loro orientamento ideologico, alla loro appartenenza di classe, etnica o razziale, e al ruolo svolto nell’ambito dei processi di riproduzione sistemica, all’idea, cioè, secondo cui più donne di potere = un cambiamento radicale della logica del potere. Cito qui di seguito alcune sue frasi in ordine sparso: <<Non mi riconosco in un femminismo che si concentra sul self empowerment, i cui obiettivi non includono la distruzione della cultura corporate ma una più alta percentuale di donne CEO>>; <<Se il femminismo non è niente più che interesse personale travestito da progresso politico non fa per me>>; oggi il femminismo è diventato <<narcisistico pensiero autoriflessivo; lotta per consentire alle donne di partecipare equamente all’oppressione dei più deboli e più poveri; un sistema autoprotettivo fondato sul linguaggio politicamente corretto e sul linciaggio di chi non vi si adegua>>; <<politica identitaria, focalizzata su storie e successi individuali>>>; <<I più comuni marcatori del successo femminista sono i medesimi di quelli propri del capitalismo patriarcale>>; <<la pratica dell’autocoscienza ha alimentato l’idea che il personale è politico (ma molte) lo hanno inteso come il fatto che i loro successi personali sono successi politici>>; <<L’idea che le donne cambieranno la cultura è una pia illusione>>; <<non c’è nessun fondamento all’idea che le donne siano naturalmente più portate all’empatia>>; <<Combattiamo per il diritto di fare le soldatesse e stare in prima linea e giustifichiamo il diritto di imbracciare fucili per invadere altri paesi e ucciderne gli abitanti>>. Insomma potremmo chiamarlo il paradigma Games of Thrones in opposizione al paradigma Hunger Games: le donne non sono migliori degli uomini e se non si sovvertono le logiche sistemiche fanno e faranno come e peggio di loro (a meno che, aggiungo, non si ritenga che l’ascesa di donne come Clinton, Merkel, Von der Leyen, Kamala Harris e tutte le altre arruolate dal neo presidente Biden, assieme a vari esponenti Lgbt - e a spese della rappresentanza della sinistra di Sanders! -, rappresenti di per sé un passo verso un mondo migliore).  
Tuttavia, e qui vengo a Nancy Fraser, che è a sua volta alquanto dura nei confronti del femminismo mainstream e della sua alleanza con il regime neoliberista, a queste critiche si può contrapporre l’idea – ed è appunto ciò che fa Fraser – che il femminismo, ove riuscisse a recuperare l’originaria vocazione socialista, in quanto lotta per il riconoscimento – politico, economico, culturale - del ruolo delle donne nel processo riproduttivo sociale, rappresenterebbe comunque la punta di lancia per rovesciare il modo di produzione capitalista, nella misura in cui questo non può sopravvivere se non sfruttando la subordinazione femminile. In pratica Fraser, pur portando un importante contributo all’analisi del rapporto fra produzione e riproduzione nelle diverse fasi dello sviluppo capitalistico, resta ancorata all’idea secondo cui capitalismo e patriarcato sarebbero un’unità inscindibile per cui, se cade il secondo, cade anche il primo. Ma questa tesi non è più sostenibile per ragioni che sono state ben spiegate da vari autori, fra cui Michéa, il quale ricorda giustamente che: <<Gary Becker, futuro consigliere di Reagan, già nel 1987 sosteneva che tutte le discriminazioni verso una minoranza – che sia etnica, sessuale, di genere o altro – si rivelerà sempre più improduttiva ed economicamente  costosa nella misura in cui il sistema capitalista arriverà a liberarsi dei suoi limiti storici originari e a fondarsi finalmente sulle sue vere basi ideologiche e culturali>> (personalmente non nutro dubbi in merito al fatto che il capitalismo abbia oggi definitivamente compiuto questa emancipazione da ogni residuo “patriarcale”, e che riconosca nel femminismo, nella cultura Lgbt e nell’ideologia politicamente corretta affidabili alleati per dividere e indebolire le classi subalterne stroncandone le velleità di resistenza). Il capitale non ha – se mai ne ha avute - connotazioni di genere. Per farla breve: delle teorie di Fraser sul rapporto fra produzione riproduzione si può e si deve discutere seriamente, ma accettare l’idea dell’inscindibilità fra capitalismo e patriarcato vuol dire far rientrare dalla finestra quelle ideologie liberal femministe che la stessa Fraser considera deleterie e che, sia detto una volta per tutte, non sono semplicemente sbagliate: sono attivamente reazionarie.      

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