Lettori fissi

mercoledì 1 marzo 2023

FINALMENTE TORNA L'ONTOLOGIA
GRANDEZZA E ATTUALITÀ' DELL'ULTIMO LUKACS



Le pagine che seguono contengono ampi stralci della mia Prefazione alla nuova edizione della Ontologia dell'essere sociale di Gyorgy Lukács, che l'editore Meltemi manda in libreria fra pochi giorni. Per rendere più scorrevole la lettura ho eliminato una buona metà delle note contenute nel testo originale, lasciando solo quelle indispensabili. Inoltre le citazioni del testo di Lukács che trovate in queste note si riferiscono all'edizione precedente (PIGRECO) dell'Ontologia in quanto non ho avuto tempo né modo di aggiornare i riferimenti alla nuova edizione.







Se la Ontologia dell'essere sociale fosse stata pubblicata nel 1971 (l'anno di morte dell'autore) avrebbe certamente influito sulla valutazione della grandezza di Lukács, elevandolo  al ruolo di più importante filosofo marxista - e fra i maggiori filosofi in generale – del Novecento. Invece quest'opera monumentale, la cui stesura richiese un decennio di lavoro, tardò a vedere la luce  perché l'autore continuava a rimaneggiare il testo dei Prolegomeni che, malgrado la loro funzione di sintesi introduttiva ai temi della Ontologia, furono scritti per ultimi;  inoltre perché gli allievi che ebbero a disposizione il manoscritto dopo la sua morte ne ritardarono la diffusione (la traduzione italiana della seconda parte uscì nel 1981, mentre la versione originale apparve in tedesco dal 1984 al 1986), ma soprattutto alimentarono un pregiudizio negativo nei confronti dell'opera prima che fosse resa disponibile ai lettori.  Questi motivi, unitamente al clima storico, ideologico e culturale antisocialista e antimarxista degli anni Ottanta generato dalla rivoluzione neoliberale, dalla svolta eurocomunista di quei partiti europei che interpretarono la crisi del socialismo come “crollo del marxismo”, nonché dalla svolta libertaria e individualista dei “nuovi movimenti” post sessantottini, ha fatto della Ontologia una delle opere più sottovalutate del Novecento. Al punto che il pensiero di Lukács, mentre è rimasto oggetto di culto per minoranze intellettuali non convertitesi al mainstream neoliberale, ha continuato ad essere identificato con opere precedenti come la Distruzione della ragione, e ancor più con Storia e coscienza di classe (1), un  libro che lo stesso autore considerava “giovanile” e superato (...)


Ad alimentare la diffidenza con cui l'ultimo lavoro di Lukács venne accolto è probabile che abbia contribuito anche il titolo: evocare i concetti di ontologia ed essere non poteva non suonare sospetto alle orecchie della “moda” allora prevalente in campo marxista, cioè al progetto di “depurare” il pensiero del maestro dall'eredità hegeliana e dalle sue implicazioni “idealiste” e “metafisiche”. Il che è tanto più paradossale, in quanto l'intento dell'ultimo Lukács era precisamente quello di superare il proprio punto di vista giovanile, rinnegato in quanto più hegeliano di Hegel: “Il proletariato come soggetto-oggetto identico della storia dell'umanità, scrive Lukács nel 67, non è quindi una realizzazione materialistica che sia in grado di superare le costruzione intellettuali idealistiche: si tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di Hegel, di una costruzione che intende oggettivamente oltrepassare il maestro nell'audacia con cui si eleva con il pensiero al di sopra di qualsiasi realtà”. Il bersaglio è qui il modo in cui Storia e coscienza di classe tratta il tema dell'emergenza di una coscienza di classe che non sarebbe altro “che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale”, per cui il proletariato viene assimilato a una entità ideale investita del compito di attuare “la cosciente realizzazione dei fini dello sviluppo oggettivo della società” (1). Si tratta di una rappresentazione che rispecchia i canoni della logica hegeliana, per cui il proletariato ridotto a oggetto dal processo di valorizzazione del capitale si fa soggetto di sé stesso ascendendo allo stato di soggetto-oggetto identico. Ma, si chiede Lukács, “il soggetto-oggetto identico è  qualcosa di più che una costruzione puramente metafisica?”; dopodiché si risponde: “E' sufficiente porre questo interrogativo con precisione per constatare che ad esso occorre dare una risposta negativa. Infatti, il contenuto della conoscenza può anche essere retro-riferito al soggetto conoscitivo, ma non per questo l'atto della conoscenza perde il suo carattere alienato". 


L'ultimo Lukács prende le distanze anche dal modo in cui, in Storia e coscienza di classe, venivano  presentati i concetti di estraneazione e di totalità. L'estraneazione viene posta sullo stesso piano dell'oggettivazione, ma così, argomenta Lukács, si rischia di giustificare il pensiero borghese che fa dell'estraneazione una eterna “condizione umana”, infatti, dal momento che il lavoro stesso è una oggettivazione e che tutti i modi di espressione umana, come la lingua, i pensieri e i sentimenti, sono tali, “è evidente che qui abbiamo a che fare con una forma universalmente umana dei rapporti degli uomini fra loro” (2); per cui occorre ammettere che “l'oggettivazione è un modo naturale – positivo o negativo – di dominio umano del mondo, mentre l'estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali”. Passiamo alla totalità. In Storia e coscienza di classe leggiamo: “l'isolamento astrattivo degli elementi, sia di un intero campo di ricerca sia dei particolari complessi problematici o dei concetti all'interno di un campo di ricerca è certamente inevitabile. Ma il fatto decisivo è se si intende questo isolamento soltanto come mezzo per la conoscenza dell'intero...oppure se si pensa che la conoscenza astratta del campo parziale mantenga la propria “autonomia”, resti fine a se stessa...per il marxismo non vi è in ultima analisi una scienza autonoma del diritto, dell'economia, della storia, ecc. ma soltanto una scienza unica e unitaria – storico-dialettica – dello sviluppo della società come totalità”(3). E ancora: “l'aspetto che fa epoca nel materialismo storico consiste nel riconoscimento del fatto che questi sistemi (economia, diritto e stato) apparentemente del tutto indipendenti, definiti ed autonomi, sono meri momenti di un intero ed è perciò possibile sopprimere la loro apparente autonomia". Viceversa, nella Ontologia, come sottolinea Tertulian nella sua “Introduzione”, la totalità sociale è concepita come un “complesso di complessi”, nel quale ogni complesso appare eterogeneo rispetto agli altri e risponde ad una propria logica, irriducibile a quelle altrui (4). (...) 


Una foto del giovane Lukács



La svolta ontologica, tuttavia, è caratterizzata soprattutto dal rovesciamento di prospettiva che pone la categoria del lavoro a fondamento di una corretta interpretazione del contributo di Marx alla comprensione della storia umana. Storia e coscienza di classe, scrive  Lukács nella Prefazione del 67, “tendeva ad interpretare il marxismo esclusivamente come teoria della società, come filosofia del sociale, e ad ignorare o a respingere la posizione in esso contenuta rispetto alla natura”. Pur sforzandosi di rendere intelligibili i fenomeni ideologici a partire dalla loro base economica, quel testo sottrae all'ambito dell'economia la sua categoria fondamentale, vale a dire “il lavoro come ricambio organico della società con la natura”. Invece di partire dal lavoro, Storia e coscienza di classe prendeva le mosse dalle strutture complesse dell'economia merceologica evoluta, ma così l'esaltazione del concetto di praxis, privato del lavoro come sua forma originaria e modello,  si converte in contemplazione idealistica (5). Solo prendendo le mosse dal lavoro come fondamento e modello si può assumere un corretto approccio genetico all'analisi del processo storico: “Dobbiamo tentare di cercare le relazioni nelle loro forme fenomeniche iniziali e vedere a quali condizioni queste forme fenomeniche possano divenire sempre più complesse e sempre più mediate”. (6) (...)


Per  Lukács, il contributo di Marx alla comprensione della storia umana può essere compreso solo se si parte dal fatto che il lavoro è la categoria centrale del suo pensiero, nella quale tutte le altre determinazioni sono contenute in nuce. Parliamo qui del lavoro utile, del lavoro come formatore di valori d’uso che “è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini” (7). Il lavoro così inteso non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico in generale, ma è “l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale”.  Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire finalistico entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno trascendente, ideale. Per Marx, argomenta Lukács, il lavoro risulta dunque il modello di ogni prassi sociale e solo tenendo conto di ciò la definizione del pensiero marxiano come “filosofia della prassi” può essere colta nel suo significato più rigoroso. 


Nella misura in cui l'economia, intesa come  processo di produzione e riproduzione della vita umana, entra a fare parte del pensiero filosofico, diviene possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica, ma ciò non significa che l'immagine marxiana del mondo sia fondata sull'economismo. Se infatti il pensiero considerasse il lavoro isolandolo dalla totalità del fenomeno sociale, rimuoverebbe il fatto che “ la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente”(8) Da un lato, nessuno dei fenomeni sociali appena evocati può essere compreso ove lo si consideri isolato dagli altri; dall'altro lato non vanno dimenticati, sia la loro scaturigine originaria dal lavoro, sia il fatto che, benché il lavoro continui a essere il momento soverchiante, non solo non sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensifica (9) Quest’ultimo passaggio aiuta a comprendere come l'ontologia materialistica di Lukács sia lontana da tentazioni meccaniciste, come conferma la seguente citazione: “Solamente nel lavoro, quando pone il fine e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, - dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura – ma invece un compiere trasformazioni nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”. A partire da tale momento, la coscienza non può più essere considerata un epifenomeno ed è prendendone atto che il materialismo dialettico si separa da quello meccanicistico.


Va inoltre sottolineato il fatto che ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza, mentre influisce  sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura: per quanto radicali possano essere gli effetti trasformatori generati dalla progettazione cosciente, scrive Lukács, “la barriera naturale può solo arretrare, mai scomparire completamente”. A conclusione di questa sintetica descrizione del ruolo che la categoria del lavoro svolge nell'ontologia lukacsiana, segnalo l'attenzione che il filosofo dedica al fenomeno della inversione gerarchica fra il fine e il mezzo del processo lavorativo: “In ogni singolo processo lavorativo concreto il fine domina e regola i mezzi. Se però guardiamo ai processi lavorativi nella loro continuità ed evoluzione storica entro i complessi reali dell’essere sociale, abbiamo una certa inversione di questo rapporto gerarchico, che se non è certamente assoluta e totale, è purtuttavia di estrema importanza per lo sviluppo della società e dell’umanità” (10). Si tratta di un tema che svolge un ruolo importante nell'analisi lukacsiana sull’alienazione e sull’ambiente tecnologico come “seconda natura”. 


Per Lukács il principio della determinazione in ultima istanza della coscienza da parte del fattore economico non esclude il riconoscimento della relativa libertà del fattore soggettivo: il metodo dialettico, scrive, “riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva (…) né uno sviluppo storico privo di leggi (…) né un dominio meccanico 'per legge' dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo la funzione di momento soverchiante” (11). Il modo in cui l'economia svolge tale ruolo di momento soverchiante va ulteriormente approfondito: Marx non sostiene che l'economia determina la coscienza, bensì che non è la coscienza degli uomini a determinarne l'essere sociale ma è piuttosto l'essere sociale a determinarne la coscienza; tuttavia, precisa Lukács, per Marx il mondo delle forme e dei contenuti di coscienza non è prodotto direttamente dalla struttura economica, bensì dalla totalità dell'essere sociale. La funzione soverchiante dell'economia si esercita dunque in modo indiretto, attraverso la mediazione della totalità dell'essere sociale, totalità di cui fanno parte sia l'economico che l'extraeconomico. 


La versione meccanicista del marxismo, nella misura in cui assume in modo unilaterale il principio del ruolo soverchiante dell'economia nel processo storico, attribuisce allo sviluppo delle forze produttive un peso determinante, se non esclusivo, nel processo di emancipazione dell'umanità dal regno della necessità; viceversa Lukács ribatte che il processo di sviluppo economico non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità perché ciò avvenga: “Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente libero, giacché il suo sì o no è legato ad esso soltanto sul piano delle possibilità” (12). In altre parole, la libertà che la filosofia della prassi concede al soggetto consiste nella facoltà di decidere in un campo di alternative date: “La determinazione (della coscienza) da parte dell’essere sociale è dunque sempre 'soltanto' la determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che nella natura non compare mai”(13). Non sfugga l'ironia di quel “soltanto”, che sta a significare come sia più che giustificato definire soverchiante il potere di condizionamento dell'economia, senza dimenticare,al tempo stesso, che la libertà del soggetto umano, ancorché vincolata, è smisurata rispetto alla rigida legalità dei processi naturali. (...)


La critica di  Lukács alla concezione meccanicista del marxismo implica, fra le altre cose, la negazione dell'esistenza di finalità immanenti al processo storico, contesta cioè la visione di quei teorici marxisti che cedono alla tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un obiettivo finale predefinito. Secondo costoro, “il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo,  porta al socialismo, sarebbe nella sua necessità in qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico)” (14).Contro questa tendenza Lukács ribadisce, da un lato, che non esistono processi teleologici immanenti alla storia, dall'altro lato che l'agire umano finalizzato (che ha nel lavoro la propria radice e il proprio modello) mentre è certamente in grado di mettere in atto processi causali, e anche di trasformare il carattere causale del loro movimento, non è tuttavia in grado di prevedere i propri risultati in misura tale da indirizzarli in modo univoco, dal momento che “le conseguenze causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto” (15).


Questa imprevedibilità degli esiti dell'agire umano, condizionato tanto dai vincoli dell'economia quanto dall'ineliminabile peso dei fattori casuali, significa che non è possibile associare al processo storico alcun tipo di legalità? Marx non avrebbe quindi scoperto e descritto le “leggi” di sviluppo della storia umana? La verità è, scrive Lukács, che per Marx le leggi economiche oggettive “hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di 'se…allora'. La loro forma generalizzata, la loro elevazione al concetto non è – in contrasto con Hegel – la forma più pura della necessità, e nemmeno, come pensano i kantiani o i positivisti, una mera generalizzazione intellettuale, ma invece, nel senso meramente storico, una possibilità generale, un campo reale di possibilità per le realizzazioni legali concrete 'se…allora'” (16) In altre parole, le “leggi” storiche si distinguono da quelle della natura in quanto sono conoscibili solo post festum, il che non esclude la possibilità di riconoscere l’esistenza di nessi generali, ma impone di ammettere che questi ultimi “si esplicitano nell’essere processuale, non 'come grandi bronzee leggi eterne', che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, 'atemporale', ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce” (17) (...)


Nel IV° volume della Ontologia citando un'opera di Gramsci sul pensiero di Croce (18), Lukács esprime un giudizio positivo sulla concezione gramsciana dell'ideologia,  tuttavia precisa che, mentre è vero che i marxisti intendono con ideologia la sovrastruttura ideale che necessariamente sorge da una base economica, dall'altro lato “è fuorviante interpretare il concetto peggiorativo di ideologia, che rappresenta una realtà sociale indubbiamente esistente, come un'arbitraria elucubrazione di singole persone”. Quindi prosegue affermando che, affinché un pensiero possa meritarsi la definizione di ideologia, non può essere  espressione ideale di un singolo ma deve svolgere una funzione sociale ben determinata, (...) quindi scrive: “L’ideologia è anzitutto quella forma di elaborazione ideale della realtà che serve a rendere consapevole e capace di agire la prassi sociale degli uomini. Deriva da qui la necessità e l’universalità di taluni modi di vedere per dominare i conflitti dell’essere sociale”(19). Ogni reazione umana all'ambiente sociale può diventare ideologia, ma Lukács associa la genesi del fenomeno alla nascita di gruppi sociali differenti che condividono interessi comuni contrapporti a quelli di altri gruppi: “In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle ideologie, giacché questi conflitti si possono dirimere con efficacia nella società solo quando i membri dell’un gruppo riescono a persuadere se stessi che i loro interessi vitali coincidono con gli interessi importanti della società nel suo intero” (20); in altre parole, la nascita delle ideologie è il connotato generale della società di classe. 


Una cosa è che un gruppo sociale persuada sé stesso del fatto che i propri interessi coincidano con gli interessi generali della società, altra è cosa che riesca a persuaderne anche gli altri gruppi: è nel caso che ciò riesca, argomenta Lukács, che si può ricorrere appropriatamente al termine di ideologia, dopodiché aggiunge che tale pretesa ha successo se e quando l'ideologia in questione è quella dominante, e cita il noto passaggio della Ideologia tedesca che recita: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante”. Estendendo il discorso al conflitto di classe come conflitto fra ideologie, Lukács scrive poi che:  “una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per quello strato sociale anche un’ideologia efficace” (21). In altre parole, per essere una forza materiale in grado di trasformare la realtà, una teoria deve assumere la forma di una ideologia. Ecco perché, al pari di Gramsci, Lukács respinge il punto di vista che attribuisce all'ideologia un carattere necessariamente negativo: a determinare la natura negativa o positiva di una ideologia è in ultima istanza il fine verso il quale essa indirizza l'azione, il fatto se esso coincide con gli interessi delle classi che lottano per emanciparsi dal dominio, o con quelli che intendono conservarlo. 


Antonio Gramsci



Una volta assunto tale punto di vista non è più possibile accettare le tesi di coloro che condanno  l'ideologia in quanto tale. Tesi sospette, argomenta Lukács, ricordando il fatto che le classi dominanti dell'Occidente post fascista, con la complicità delle socialdemocrazie, hanno trasformato  il rifiuto dell'ideologia fascista in rifiuto dell'ideologia tout court, dopodiché “ogni ideologia, ogni tentativo di dirimere conflitti sociali con l’ausilio di ideologie risulta a priori sotto accusa (…) non ci sono più veri conflitti, non c’è più campo di manovra per le ideologie: le differenze sono soltanto 'pratiche' e quindi regolabili 'praticamente' con accordi razionali, compromessi ecc. La deideologizzazione significa perciò illimitata manipolabilità e manipolazione dell’intera vita umana” (22). Il discorso deideologizzante, ironizza Lukács, si fonda su quella “ideologia dell'anti-ideologia” che coincide con l'esaltazione della categoria astratta di “libertà” quale valore salvifico per tutte le questioni della vita. Dopodiché spende parole durissime nei confronti di quegli intellettuali che, per non essere accusati di “fare dell'ideologia”, assumono nei confronti dei poteri dominanti un atteggiamento “critico” in forme “che non vogliono né possono in alcun modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo. Questi conformisti non-conformistici, perciò, nonostante le manifestazioni pubbliche verbalmente di forte critica e addirittura di opposizione, rimangono di fatto apprezzati collaboratori della manipolazione universale”. (23) (...)


Lukács nel suo studio



(...) è possibile immaginare una società in cui la relazione fra necessità e libertà assuma  forme più avanzate? La risposta di Lukács prende ancora le mosse dalla categoria del lavoro: a fondare la possibilità (non la necessità!) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che “il lavoro teleologicamente, consapevolmente, posto contiene in sé fin dall’inizio la possibilità (dynamis) di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo”. Questa possibilità, prosegue Lukács, ha creato la base oggettiva della schiavitù, prima della quale esisteva solo l’alternativa di uccidere o di adottare il nemico fatto prigioniero; così come ha consentito la nascita delle successive forme economiche fino al capitalismo, nel quale il valore d’uso della forza-lavoro è la base dell’intero sistema, dal che si deduce che “anche il regno della libertà nel socialismo, la possibilità di un tempo libero sensato, riposa su questa fondamentale peculiarità del lavoro di produrre più di quanto occorra per la riproduzione del lavoratore” (24). Tuttavia il regno della libertà potrà essere effettivamente realizzato solo nel comunismo, come scrive Marx nel III libro del Capitale: “il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria”, mentre (sempre secondo Marx) nel socialismo in quanto prima fase del comunismo la libertà “può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca (…) Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” (25). In sintonia con queste parole di Marx, Lukács ritiene che l'economia sia destinata a rimanere anche nel socialismo il regno della necessità, nella misura in cui la lotta dell'uomo con la natura per soddisfare i suoi bisogni non può finire, dato il suo fondamento ontologico. (...)


(...) Lukács crede davvero in questo avvento dell'uomo autentico, che un autore come Ernst Bloch ha tradotto nella visione mistica del comunismo come paradiso in terra? (26) Mi sia consentito esprimere più di un dubbio (...).Se così fosse, saremmo di fronte a una profezia di “fine della storia” che appare in stridente contraddizione con la visione lukacsiana del processo storico. Personalmente, ritengo che Lukács considerasse l'utopia marxiana, più che come una possibilità reale, concretamente attuabile, come una “ideologia” nel senso positivo chiarito poco fa, vale a dire come una potenza materiale in grado di trasformare la realtà. Il fatto che una utopia abbia scarse o nulle probabilità di concretizzarsi, scrive per esempio,  “non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato (…) l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità(27). (...)


Note 

(1) Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1970. 

(2) Ivi, p. XXVI.

(3) Storia e coscienza di classe, cit., pp. 36, 37.

(4) Tertulian (vedi la sua Introduzione a questo volume) mette in relazione questa definizione con l'esigenza di superare sia il determinismo che assolutizza il ruolo del fattore economico a scapito degli altri complessi della vita sociale, sia un concetto di necessità che riconosce in ogni formazione sociale e ogni azione storica una tappa del cammino verso la realizzazione di un fine immanente o trascendente. Secondo Tertulian, Lukács farebbe risalire questa versione distorta della necessità (comune ai teorici della  II Internazionale e a Stalin) allo stesso Engels, il quale avrebbe sottovalutato il peso della casualità e accordato credito eccessivo alla forza coercitiva della necessità.

(5) Storia e coscienza di classe, cit., p. XVIII. Poco oltre (p. XIX)  Lukács aggiunge che così “mi fu possibile arrivare solo alla formulazione di una coscienza di classe attribuita di diritto”. 

(6) Cfr. W. Abendroth, H. H. Holz, L. Kofler, Conversazioni con Lukács, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.

(7) Ontologia dell'essere sociale, Pgreco, Milano 2012, vol II, p. 265.

(8) Ivi vol. III, p. 14.

(9) Ivi, p. III, p. 58.

(10) Ivi, vol. III, p. 29. Il rischio associato al fenomeno dell'inversione gerarchico fra il fine e il mezzo del processo lavorativo è la feticizzazione della tecnica, un errore teorico che Lukács attribuisce, fra gli altri, a Bucharin, a proposito del quale scrive che si tratta di una visione in cui “i rapporti economici non vengono intesi come relazioni fera uomini, ma sono invece feticizzati, 'reificati', ad esempio identificando le forze produttive con la tecnica presa a sé, pensata come autonoma” (Vo. III, p. 341).

(11) Ivi, vol. II, pp. 290/91.

(12) Ivi, vol IV, p. 511.

(13) Ivi, vol. I, p. 325. Nelle Conversazioni del 66 (cfr. op. cit.) chiarisce assai bene la sua visione del rapporto fra determinismo socio economico e libertà soggettiva. A pag. 133 scrive: “una libertà in senso assoluto non può esistere. La libertà esiste semmai nel senso che la vita degli uomini pone delle alternative concrete, consiste nel fatto che deve e può operare una scelta fra le possibilità offerte entro un certo margine”. E poche pagine dopo: “Lo sviluppo sociale può creare le condizioni obiettive del comunismo, se poi da tali condizioni venga fuori un coronamento dell'umanità o il massino dell'anti-umanità ciò dipende da noi e non dallo sviluppo economico di per se stesso”.   

(14) Ivi, vol. III, p. 300.

(15) Ivi, vol. IV, p. 347.

(16) Ivi, vol. IV, p. 344.

(17) Ivi, vol. I, p. 308.

(18) A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1949. 

(19) Ivi, vol. IV, p. 446. 

(20) Ivi, vol. IV, pp. 452-453.

(21) Ivi, vol. I, p.245. 

(22) Ivi, vol. IV, p. 770. La tragica attualità di questa tesi è confermata dalla recente, ignobile, risoluzione del parlamento europeo che equipara comunismo e nazismo, i cui effetti devastanti si sono potuti misurare grazie al modo in cui le oligarchie neoliberali e i media occidentali hanno manipolato l'opinione pubblica in merito alla guerra russo-ucraina.

(23) Ivi, p. 782.

(24) Ivi, vol. III, p. 136. 

(25) Queste citazioni di Marx si trovano nel III° volume della Ontologia 

(26) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, 3 voll., Milano 2019. Ricordo che Lukács si è più volte espresso criticamente contro l'afflato “messianico” di Bloch (cfr. in merito C. Formenti,  Ombre rosse, op. cit.).

(27) Ontologia, cit., vol. IV, p. 522.


venerdì 24 febbraio 2023

DIDATTICA RUSSA

di Piero Pagliani


Ricevo dall'amico Piero Pagliani questo bell'articolo che, prendendo le mosse dalle traiettorie divergenti che hanno imboccato i sistemi formativi russo e americano (il primo che si prepara a tornare al modello sovietico, il secondo allegramente in marcia verso il degrado), approfondisce le riflessioni geopolitiche che Piero ci aveva ha già regalato in precedenti occasioni sulle ragioni profonde del conflitto, vale a dire sull'incapacità/impossibilità della superpotenza statunitense di adattarsi a un mondo multipolare. PS. Ho lasciato il titolo dell'autore anche se io avrei preferito qualcosa come "Usa: il declino inizia sui banchi di scuola".



Vorrei porre l'accento su un passaggio del recente discorso di Putin alla Duma che è stato trascurato dai nostri media e dai nostri “esperti” cavernicoli (cioè che pensano solo la clava, di cui parlerò solo dopo). Il passaggio riguarda la necessità di una riforma del sistema formativo russo:


«Il primo punto è tornare alla formazione di base di specialisti con istruzione superiore tradizionale per il nostro paese. Il periodo di studio può essere da quattro a sei anni. Allo stesso tempo, anche all'interno della stessa specialità e di un'università, possono essere offerti programmi che differiscono in termini di formazione, a seconda della specifica professione, e della richiesta dell'industria e del mercato del lavoro. In secondo luogo, se la professione richiede una formazione aggiuntiva, una specializzazione focalizzata, allora in questo caso il giovane potrà continuare la sua formazione in un corso magistrale  o residenziale. In terzo luogo, gli studi post-laurea saranno assegnati come livello separato di istruzione professionale, il cui compito è formare il personale per le attività scientifiche e didattiche». 


L'emblema del Ministero dell'Istruzione russo



Questo è sostanzialmente un ritorno al sistema d'istruzione sovietico, come ha fatto notare qualcuno che ha vissuto in Russia durante quel periodo. Ma se si fa attenzione si nota che era molto simile al nostro sistema formativo prima della riforma Berlinguer, prima del “Processo di Bologna” con cui la UE sta cercando di condannare i nostri giovani all'ignoranza all'americana. 

Una revisione del sistema formativo europeo per adeguarsi, per dirla in termini generali, alla crescente concentrazione di expertise in poche persone e in pochi punti (per le multinazionali, ad esempio, in una singola località per intere aree geografiche transnazionali), dovuta al progresso tecnologico (ad esempio nel campo informatico installazioni che una volta venivano fatte da un team in diverse settimane, adesso possono essere fatte da una persona mentre si beve un caffè e, soprattutto, non sa assolutamente nulla di quel che sta succedendo nel suo computer), alla delocalizzazione e alla finanziarizzazione. 

E giù per li rami, intrecciandosi con altri problemi “ambientali” e alle idee strampalate (diciamo così),  ideologiche, avversarie della speculazione e della concettualizzazione della “pedagogia progressista”, ne ha risentito tutto il sistema scolastico.

Ecco, se volete, alcune testimonianze personali, da prendere per quel che valgono. 

Io non sono un accademico, ma nella mia disordinata vita sono stato membro di una commissione di laurea di Filosofia e di una di Matematica. Ero là per “chiara fama” come spiritosamente si dice, ma la cosa importante è che avevo seguito delle tesi per il quadriennio (perché allora c'era il quadriennio) dell'una e dell'altra facoltà, in cui i candidati, assieme a me, avevano studiato problemi di Logica e di Algebra che io gli avevo sottoposto e che mi interessavano.

Ignorando gli effetti della suddetta “riforma”, dato che il mondo accademico non mi interessava direttamente poiché non vi lavoravo se non saltuariamente, qualche anno dopo chiesi a una amica ordinaria in un'università romana, se aveva degli allievi che volessero fare una tesi su alcuni problemi su   cui in quel momento ero impegnato (relativi a certe tecniche di ciò che pomposamente si chiama “Intelligenza Artificiale”). Mi rispose, per dirla con Omero, con un misto di pianti almo sorriso in questo modo: “Tu non sai che livello disastroso hanno le tesi triennali!”.

Un amico britannico che insegnava Storia alla Cabot University di Roma, frequentata da rampolli statunitensi di alto lignaggio, un giorno si disperò con me dei suoi allievi: “Non sanno nemmeno se è venuta prima la Guerra d'Indipendenza o quella di Secessione. E non ci arrivano nemmeno con la logica” (non poteva esserci una guerra di secessione prima dell'indipendenza, ovviamente).

Ma se queste sono due testimonianze che possono lasciare il tempo che trovano, ecco cosa ci dice una recentissima survey statunitense sulle scuole dell'Illinois: nessuno studente conosce la matematica richiesta dal grado e nessuno sa leggere al livello richiesto dal grado scolastico (Not a single student can read at grade level in 30 Illinois schools. Not a single student can do math at grade level in 53 Illinois schools).

Una trentina di anni fa, sempre per il mio lavoro sull'Intelligenza Artificiale, in quel caso applicata all'apprendimento, ebbi un incontro con un alto funzionario del Dipartimento dell'Istruzione degli Stati Uniti. Si metteva le mani nei capelli: “Siamo in una situazione tragica. E non sappiamo come uscirne. Abbiamo tentato inondando le scuole di computer, ma è stato ancora peggio”. 

Lui sapeva le cose e ci ragionava sopra, ma se si leggono i CV dei consulenti governativi odierni e dei collaboratori delle pubblicazioni collegate al Dipartimento di Stato e alla Difesa, si rimane sbalorditi: delle nullità “esperte” in cose che sarebbero utili per intrattenere conversazioni in qualche salotto, ma non per governare una potenza, nemmeno di piccolo cabotaggio. E si tenga poi conto che gli USA si dibattono da tempo nel problema (anche nel senso che c'è chi lo solleva) dei piani di studio da supermarket dei college e delle università: un po' di questo, un po' di quello, un pizzico di quest'altro; di questa materia q. b., come in una ricetta di cucina.

I test d'ingresso all'MIT sono più facili dei test richiesti in classe a uno studente russo a metà del liceo e si sta anche pensando all'esenzione dai test in base alla “positive discrimination”, quindi per i neri e per altre minoranze.


Insomma, quando si è in declino si è in declino, su tutti i fronti, in un triplice avvitamento materiale, ideale e morale senza fine. Quei trent'anni di finanziarizzazione selvaggia hanno arricchito a dismisura pochissimi, hanno impoverito a volte fino alla disperazione moltissimi e in più hanno fatto piazza pulita di ogni contatto della classe dirigente e dei suoi funzionari con la realtà. Ad onta di tutta la retorica bellica, siamo noi che stiamo distruggendo la civiltà occidentale, non i nostri presunti nemici.


Per quanto riguarda la clava, ricollegandoci direttamente a quanto detto prima, cosa possiamo pensare di un titolo della CNN come questo: “The West’s hardest task in Ukraine: Convincing Putin he’s losing”. 

E' scritto da Stephen Collison. Lui in realtà è nato negli UK, ma ha lo stesso problema: essere esperto dell'aria fritta (in questo caso delle campagne elettorali statunitensi). E infatti questo evanescente geopolitico si è inventato una mirabolante strategia: convincere il nemico che lui sta perdendo. 

Insomma, uno strabiliante “cavallo di troia” psicologico, che la dice lunga sul modo di ragionare corrente negli States.

Il nemico sta così tanto perdendo, senza accorgersene, che il Washington Post (leggi CIA), pone  speranze, alternate a paure e a volte isterismi, sulla prossima visita di Xi a Putin (preparata dalla visita di questi giorni a Mosca del Consigliere di Stato Wang Yi) e sul ripetuto desiderio cinese che la guerra finisca al più presto. 

Anch'io spero che questa guerra termini al più presto. E' da un anno che lo spero. Ma devo pormi delle domande e fare ragionamenti. Domande e ragionamenti che seppur influenzati dai miei timori (e come si fa a non essere spaventati dal confronto militare tra due superpotenze atomiche?) non sono però dettati dalla disperazione di cui oggi è preda una banda di politici arroganti e incoscienti che si sono infilati in un pericolosissimo cul-de-sac, ma da considerazioni realistiche. Considerazioni che non si possono ignorare a prescindere da ogni altra valutazione.


Xi cercherà di persuadere Putin a ritirarsi dal Donbass (e magari anche dalla Crimea), cioè ad accettare i vaneggiamenti di Zelensky e dei crazy freaks in Washington, per arrivare alla pace? 

Io credo di no. E per diversi motivi:

1) Intanto non credo che Xi farà nessuna opera di persuasione. La Cina militarmente è “al carro” della Russia e sa che finché gli USA e la Nato saranno impegnati in Ucraina non faranno la guerra a lei. Nel frattempo Pechino si potrà preparare ad affrontare, militarmente ed economicamente, le minacce occidentali (già esplicitate da alti livelli politici e militari statunitensi e Nato).

Il problema è che la Russia deve convincere la UE che il problema è tra Mosca e Washington mentre gli USA cercheranno invece di liberare forze mettendo sempre di più in mezzo la UE e trasformandola (sostanzialmente l'hanno già fatto) in appendice civile del Patto Atlantico.

2) La Russia sta pian piano demilitarizzando la Nato, le sta prosciugando gli arsenali e annientandone  l'esercito proxy più potente (Kiev a inizio guerra aveva probabilmente il quinto esercito più potente del mondo, dopo USA, Russia, Cina e Turchia). La Russia non ha fretta, lo schiacciasassi funziona a pieno ritmo.

3) Mosca non accetterà mai un'Ucraina nazificata e nella Nato (e nemmeno la Georgia se per questo) e meno che meno una base USA/Nato a Sebastopoli. 

Per la Russia infatti questa guerra è (anche) una guerra esistenziale. Mentre non lo è né per la UE né per gli USA ma solo per le loro élite cosmopolite finanziarizzate, cioè antisociali. Da un lato abbiamo dunque il peso della terra, della società, della cultura, della Storia, dall'altro l'insostenibile virtualità dei numeri che non enumerano un bel nulla, della cancel culture, della mercificazione del tutto e quindi della leggerezza del niente. Questa asimmetria la dice lunghissima su come non può andare a finire (come andrà a finire io non lo so, ma come non andrà a finire sì).


Puntin con Xi Jinping



Putin ha detto che sospende i trattati START e che quindi la Russia reinizierà i test nucleari “se lo faranno prima gli Usa”. C'è da scandalizzarsi dopo che Washington ha unilateralmente stracciato gli accordi INF sui missili a medio raggio, cioè proprio quegli accordi che preservavano il nostro continente?

Gli Usa battono i piedi: ma come, proprio ora che noi volevamo rilanciare gli START?! Già, ma rilanciare con quali credenziali diplomatiche? Con quelle degli accordi di Minsk traditi in modo premeditato (Merkel e Hollande)? Con quelle delle promesse non mantenute della Nato di non espandersi a Est? Col programma sbandierato ai quattro venti di scagliare l'Ucraina contro la Russia per indebolirla? Col blocco dei negoziati di pace di Istanbul, come ha rivelato l'ex premier israeliano Naftali Bennett? Con le 10.000 sanzioni e passa? Coi piani per fare un golpe a Mosca? Con quelli per smembrare la Russia? Con la riserva di first strike nucleare della New Nuclear Posture?

Per negoziare ci vogliono le condizioni e ci vogliono i diplomatici. Gli Usa hanno fatto piazza pulita delle une e degli altri. A meno che si pensi veramente che come diplomatico Blinken sia allo stesso livello di Lavrov e che la Psaki sia allo stesso livello della Zakharova. E allora non saprei proprio più cosa dire.


Nel frattempo ci sono avvisaglie che potrebbe avverarsi quello che io segnalavo alcuni mesi fa come una possibilità da incubo: allargare la guerra alla Transnistria (regione ex moldava, abitata totalmente da russi e oggi in precario stato di autoproclamata indipendenza). Il presidente della Moldavia, Maia Sandu, è andata a Varsavia, cioè la capitale del Paese in coda per sostituirsi all'Ucraina nella lotta per cercare di far collassare la Russia, una lotta, possiamo dire oggi, “fino all'ultimo slavo”. 


Una mappa della regione contesa della Transnitria



La Sandu ha strillato ai quattro punti cardinali che Putin vuole invadere la Moldavia (glielo avrebbe “rivelato” Zelensky ed è ovviamente un nonsense politico). Mosca dal canto suo ha denunciato che la sua Intelligence è venuta a conoscenza di un piano per un false flag: reparti ucraini travestiti da russi creerebbero un incidente per poter poi “come difesa” far assalire la Transnistria da forze congiunte ucraine e moldave (e probabilmente polacche). Nota: la Costituzione moldava vieta alleanze militari, ma sgretolare de jure le migliori Costituzioni (si veda ad esempio da noi l'inaudito obbligo, introdotto da Monti, di pareggio di bilancio, che potrebbe far arrestare un redivivo Lord Keynes per “attentato alla Costituzione”) o de facto, sembra che sia un mandato (statunitense) dei governanti europei tutti.

Per buona misura, il segretario dell'Organizzazione Atlantica, Stoltenberg, farà firmare ai Paesi aderenti un accordo per impegnarli in “out-of-area, non-Article 5 events”, cioè eventi bellici non difensivi in aree remote.

E' l'ufficializzazione dello scopo aggressivo della Nato (forse non tutti sanno che c'è già da tempo una medaglia “Non Article 5 Nato”. Ne hanno elargite un bel po' per premiare gli artefici dello smembramento della ex Jugoslavia). 

Essendo per la Russia una guerra esistenziale, la combatterà fino in fondo, costi quel che costi, anche contro tutta la Nato (cosa che già mette in conto). Che sia giusto o sbagliato, augurabile o deprecabile, questo è un dato di fatto. Questo dato di fatto se da una parte è atroce, dall'altra potrebbe avere una conseguenza positiva: le forze che negli USA si oppongono alla politica suicida/omicida dei neo-liberal-cons, potrebbero essere costrette ad agire. Io mi aspetterei in questo caso un qualche Watergate all'incontrario, cioè per scalzare Biden e la sua corte dei miracoli di crazy freaks e arrivare a un negoziato in cui gli Stati Uniti useranno la loro (grande) forza residua e il proprio (grande) peso residuo per adattarsi (termine darwiniano), alle migliori condizioni possibili, al nuovo mondo multipolare, cioè all'ambiente circostante. L'alternativa è una darwiniana estinzione.

Non è certo il modo migliore per arrivare alla pace, è un détour lungo e insidioso, ma forse, e lo dico con angoscia, è l'unico modo quando a governare sono degli psicopatici sempre più avvitati nei loro deliri.

Il grande ostacolo è l'ormai ipertrofica ideologizzazione anti-russa, anti-cinese, anti tutto ciò che non è listato come “occidentale” da Washington e Londra (qui ci sono i maestri del razzismo geopolitico). Cioè il grande ostacolo sono le nostre teste finanziarizzate e decerebrate, che vedono i sorci verdi dopo la sbronza della lunga Belle Époque della “Milano da bere”. 

giovedì 16 febbraio 2023

IL MARX "TEOLOGO" DI ENRIQUE DUSSEL





Argentino di Mendoza, filosofo ed esponente di punta della Teologia della Liberazione, il quasi novantenne Enrique Dussel insegna Etica alla UNAM di Città del Messico dopo avere vagabondato fra diverse università europee (Madrid, Parigi, Friburgo) e lavorato per due anni in un kibbutz israeliano. Una parte cospicua della sua monumentale produzione intellettuale è dedicata ad una meticolosa esegesi del testo marxiano che Dussel concepisce come una sorta di teologia occulta, intrecciata con, e nascosta dietro, le argomentazioni della critica dell'economia politica, in un impasto inestricabile di analisi scientifica e giudizio etico sui mali della civiltà capitalista. Fra i testi tradotti in italiano segnalo, fra gli altri, L'ultimo Marx (Manifestolibri, Roma 2009) e Le metafore teologiche di Marx (Shibboleth, Roma 2018). L'influenza della Teologia della Liberazione in generale (1) e di Dussel in particolare sui processi rivoluzionari latinoamericani degli ultimi decenni è innegabile, al punto che, senza conoscerne alcune  idee fondamentali, è difficile afferrare il senso del processo politico che in America Latina va comunemente sotto il nome di socialismo del secolo XXI, così come è difficile capire le ragioni per cui i partiti marxisti tradizionali (siano essi stalinisti, trozkisti o maoisti) non sono stati alla guida dei processi in questione. Ecco perché ritengo utile integrare l'analisi che il mio ultimo libro (2) dedica alle rivoluzioni bolivariane con questo articolo sul pensiero di Dussel.  Mi occuperò qui in particolare del libro Le metafore teologiche di Marx. 


1. La formazione teologica di Marx

La tesi di fondo di Dussel è che le innumerevoli citazioni dell'Antico e del Nuovo Testamento che si possono trovare in tutte le opere di Marx, tanto nelle giovanili quanto nelle mature (quelle che Dussel chiama metafore teologiche), non sono semplici espedienti retorici che servono solo a chiarire concetti filosofici di non agevole lettura, ma compongono la trama di una vera e propria "teologia negativa", un impianto etico e non solo euristico dunque, che ha come obiettivo la demistificazione del culto feticistico del dio-capitale. Laddove Marx, sulle tracce di Feuerbach,  definisce la religione come "oppio dei popoli", argomenta Dussel, il vero bersaglio non è la religione ebraico cristiana, ma la sua versione secolarizzata, ibridata e imbastardita dai principi e dai valori dell'economia politica borghese e depurata dalla carica sovversiva del profetismo ebraico e del cristianesimo delle origini. Ma se quello di Marx è un ateismo sui generis, scrive Dussel, ciò non significa che il filosofo di Treviri sia l'autore di una teologia alternativa, il suo pensiero "religioso" non oltrepassa infatti l'orizzonte di quell'utopia antropologica che è il comunismo realizzato. Prima di approfondire questi concetti, dobbiamo però seguire Dussel nel suo tentativo di definire le fonti da cui Marx avrebbe attinto il materiale della sua teologia negativa, fonti che Dussel rintraccia nelle esperienze formative del giovane Marx.


Dopo avere ricordato che Marx si era preparato per divenire professore associato del teologo Bruno Bauer, esponente di spicco della sinistra hegeliana, e che nella storia della sua famiglia vi erano stati molti rabbini (benché il padre, diversamente dalla madre, si fosse convertito al cristianesimo), Dussel aggiunge che da ragazzo Marx frequentò un seminario luterano di Tubingen, noto per la sua vicinanza alla corrente pietista. Dussel insiste molto su questa impronta pietista che, a suo avviso, ha influito non poco sulle idee che il filosofo avrebbe sviluppato nel corso della vita successiva. In particolare, sostiene Dussel, Marx avrebbe ereditato dal pietismo la priorità della prassi (Spener, il fondatore del pietismo tedesco, diceva che "la realtà della religione consiste non in parole, bensì nei fatti"); la valorizzazione e il riconoscimento della dignità del corpo, della carne (il sacrificio non è sintomo di santità bensì della falsità degli dei che si venerano); la ricerca della giustizia qui sulla terra, perché è dall'ingiustizia che origina il male, per cui le esigenze di chi soffre vanno soddisfatte qui e adesso); infine la profezia dell'avvento di una società perfetta, di una nuova età dell'oro (3). 


Il giovane Marx in una litografia



Prima di diventare socialista, scrive Dussel, Marx era un piccolo borghese democratico radicale che lottava per la libertà contro l'autoritarismo dello stato prussiano, e criticava quelle chiese che avevano favorito la confusione fra stato poliziesco e religione cristiana (4), fondando la propria critica tanto sulla tradizione del profetismo ebraico quanto su quella dei Padri della Chiesa e dei teologi medievali. La rottura di tale tradizione, secondo Dussel, va fatta risalire alla svolta in ragione della quale la Chiesa iniziò a distinguere fra usura e interesse, la prima in quanto vizio di avidità sfrenata il secondo in quanto lecita ricerca di profitto. E' in quel momento che si apre il varco alla colonizzazione della religione da parte del capitale, mentre spetterà successivamente ai padri fondatori del liberalismo moderno consacrare la santità della proprietà nel contesto di un utilitarismo "cristiano" (Locke) e sacralizzare la concorrenza nel mercato, riconoscendovi un campo teologico provvidenziale (la mano invisibile di Adam Smith). La "teologia negativa" del Marx socialista smaschera questi falsi profeti, svelando il volto osceno del dio che costoro venerano. 



2. Ateismo come critica del feticismo      


Dussel non ha dubbi: il concetto di feticismo - feticismo della merce, feticismo del denaro, feticismo del capitale - è il filo rosso che salda in un unico monumentale blocco l'intera opera di Marx, dai Manoscritti economico filosofici all'ultima stesura del Capitale (5), e questo filo rosso è intessuto sia di fibre analitico-filosofiche che di fibre etico-religiose, in un inestricabile intreccio. Il feticcio (in portoghese fetiço, fatto da mano umana (6)) è opera e prodotto dell'uomo che oggettiva in esso il proprio potere creativo, è oggettivazione della vita umana che, con l'affermarsi dei rapporti capitalistici di produzione, si erge come un potere autonomo, alieno, davanti al produttore.   La natura "sensibilmente sovrasensibile" della merce inscena la commedia del valore di scambio, relegando dietro le quinte le relazioni sociali fra persone (7) per affidare il ruolo dei protagonisti alle relazioni fra cose; ciò che nelle società precapitalistiche appariva il dominio di una persona su un'altra, nella società capitalistica appare come il dominio delle cose sulle persone; se prima il mio lavoro era espressione vitale, sotto le condizioni del dominio della proprietà privata è sacrificio della vita, produzione dell'oggetto in favore di un potere estraneo. 


Per Marx il feticismo non resta confinato nel mondo delle merci: è una bolla che si gonfia a dismisura, fino inglobare la totalità delle relazioni sociali: è feticismo del denaro che, da mero strumento, mezzo di circolazione, si erge progressivamente a dio del mondo delle merci, ne incarna l'esistenza celeste; è feticismo del capitale che appare in tutta la sua potenza nell'interesse, che si presenta come creazione di valore dal nulla, come "emanazione" del capitale che in questa forma cancella ogni mediazione e diviene appunto capitale-feticcio; è infine (e questo è l'aspetto meno percepito del feticismo, annota Dussel) feticizzazione dello stesso lavoro vivo, nella misura in cui esso appare, agli occhi del capitalista ma anche a quelli dello stesso operaio, una merce come tutte le altre. Il processo di feticizzazione è progressivo: ce n'è di meno ai livelli più profondi della produzione, tocca il culmine ai livelli più superficiali della circolazione. 


Enrique Dussel



Ma perché, secondo Dussel, la critica filosofica dell'economia politica non può essere disgiunta dalla critica religiosa, dalla condanna etica del capitalismo come struttura "satanica"? Basta accostare la denuncia marxiana del feticismo del capitale con la maledizione di Mosè contro il vitello d'oro, la condanna profetica del cedimento del popolo ebraico alla tentazione idolatrica? Certamente no, ma Dussel va più a fondo nello scavo nelle metafore teologiche del testo marxiano: lavoro, terra e denaro feticizzati, trasformati in false merci (8), nella triade profitto, rendita, salario, rappresentano una trinità satanica, i tre volti di Moloch, la parodia di un cristianesimo rovesciato. Il valore che partorisce valore, che assume progressivamente gli attributi di un dio auto-creatore a partire dal nulla, che si auto erige a potere civilizzatore, fonte di libertà, divinità provvedente; il denaro che si trasforma in dio è il rovesciamento di Cristo (9), è l'Anticristo, è la Bestia dell'Apocalisse, Moloch, Mammona, Baal. Al contrario di Nietzsche, scrive Dussel, Marx non dice che Dio è morto, perché il capitale è un dio vivo e vegeto che esige sacrifici umani; il sangue-vita del lavoratore si sacrifica al feticcio e viene transustanziato nella vita-sangue del capitale (in lavoro morto). Il cristiano può accettare il dominio del capitale solo perché ha rimosso l'impegno del cristianesimo originario per la liberazione di poveri e oppressi e/o perché la scienza economica borghese occulta la realtà di ingiustizia e sfruttamento che si cela dietro le leggi "naturali" del mercato; ma non appena il credente prende coscienza della contraddizione antagonista tra cristianesimo e capitalismo non ha altra scelta se non imboccare la via tracciata dalla Teologia della Liberazione, che altro non è se non quella della critica marxiana del capitale feticcio. 


La "simpatia" (in senso filosofico-metafisico, non psicologico) fra la marxiana critica dell'economia politica e la tradizione ebraico cristiana affonda le radici, secondo Dussel, nella comune visione materialista. Si è detto della valorizzazione della dignità del corpo nel cristianesimo primitivo (Cristo è il dio che si è fatto carne e sangue), così per Marx il lavoratore non è mai riducibile, se non nella mistificazione feticista, a merce forza-lavoro: è pura e semplice possibilità di lavorare presente e racchiusa nella vivente corporeità del lavoratore; l'altro del capitale, ciò che è effettivamente non capitale, è il lavoro stesso. L'accumulazione primitiva, il processo che, separando il produttore dal mezzo di produzione, consente di trasformare il lavoro vivente in merce forza lavoro, occupa, nella teologia materialista di Marx, il posto del peccato originale. 


Ciò detto, a Dussel non sfugge il fatto che il discorso di Marx non è  riducibile a una sorta di religione "travestita" da critica scientifico-filosofica (10). E' vero che invita a "comprendere ermeneuticamente" il senso della fitta trama di metafore teologiche presenti nel testo marxiano come "sistema", cioè non come meri esempi isolati bensì come frutto di una logica che lascia intravvedere una teologia speculativa in potentia. Ed è vero che sostiene che il Dio negato da Feuerbach e Marx è il dio-feticcio di Hegel e del capitalismo industriale e colonialista europeo, aggiungendo che essere "atei" nei confronti di questo dio "è condizione per potere adorare il Dio dei profeti di Israele". E' però altrettanto vero che non può non riconoscere che, mentre enuncia il momento negativo della dialettica profetica, la negazione della divinità del feticcio, Marx non arriva  a formulare un momento affermativo, se non come visione antropologica di un mondo (il comunismo realizzato) in cui l'uomo sarà liberato dall'oppressione dei sacerdoti del dio feticcio. 


Tornerò più avanti sull'ultimo punto. Prima vorrei anticipare alcune delle conclusioni politiche che Dussel trae dai ragionamenti fin qui esposti, conclusioni di assoluto rilievo in merito all'influenza che la Teologia della Liberazione ha svolto e tuttora svolge nei processi rivoluzionari latinoamericani. Nel libro che stiamo discutendo Dussel rilancia un tema già trattato ne L'ultimo Marx: si chiede cioè cosa avrebbe pensato Marx delle lotte di liberazione dei popoli di Asia, Africa e America Latina, lotte in cui la resistenza all'imperialismo e al colonialismo attingono ai valori di profonde e radicate religioni ancestrali. Probabilmente, risponde, non avrebbe disprezzato la creatività simbolica di quei popoli, al contrario dei marxisti ortodossi latinoamericani, che hanno allontanato le masse dal marxismo per restare fedeli a un ateismo giacobino e borghese, ma avrebbe ragionato su come sfruttare quelle energie creative nella lotta anticapitalista (11). La questione, come ho sostenuto in precedenti occasioni (12), è fondamentale per capire perché il socialismo bolivariano non è nato da lotte guidate dai partiti marxisti tradizionali, bensì da rivoluzioni "spurie", delle quali i populismi di sinistra e i movimenti indigenisti sono stati i veri protagonisti, assumendo  carattere socialista solo in un secondo tempo. Ma anche su ciò tornerò più avanti. 



3. Due osservazioni aggiuntive


Valorizzando le metafore teologiche e l'atteggiamento antidogmatico dell'ultimo Marx, Dussel cerca di piegarne il discorso in modo da renderlo funzionale al proprio progetto filosofico, che non può fare a meno di una fondazione teologica in senso stretto, e non in senso puramente metaforico. Quest'ultima affermazione trova conferma laddove scrive che "la negazione della divinizzazione feticistica deve essere propedeutica all'affermazione di un Assoluto alterativo che permetta di avere un punto di appoggio di esteriorità sufficiente per poter effettuare nuove critiche in ogni ordine futuro possibile (sottolineatura mia)". Dal che deriva: 1) l'ateismo sui generis di Marx non basta, nel senso che, per soddisfare le aspettative di Dussel, la teologia negativa del filosofo di Treviri deve essere necessariamente fatta evolvere in teologia positiva; 2) se il fine di una auspicata religione materialista è instaurare il regno di Dio qui sulla terra, il regno in questione non può coincidere con il comunismo, il quale, come domanda di salvezza evocata da una situazione feticizzata, "è un limite, un orizzonte contro fattuale, un'idea regolativa, un concetto utopico o anche il contenuto di un'economia trascendentale, non un momento o figura della storia"; 3) infine questa relativizzazione del valore storico dell'utopia comunista rispecchia l'esigenza di integrare quest'ultima in un orizzonte profetico che non si limiti a negare il dominio del capitale, ma si proponga di liquidare ogni forma di dominio, a partire da quella statuale ("all'origine della monarchia di Israele si vede chiaramente il confronto tra il profetismo e il potere politico", scrive, per poi aggiungere che "il profeta è un resto escatologico di esteriorità che permette sempre di poter criticare il sistema"). 


Come si vede non si tratta tanto e solo di criticare il miope dogmatismo dei partiti marxisti latinoamericani, bensì l'intera esperienza del socialismo reale che, a causa della mancanza di un dio alterativo, si è posto come "realizzazione sacrale insuperabile di un'ordine che non poteva più trovare in nessuna esteriorità il punto di appoggio della sua propria critica". In poche parole, la visione politica di Dussel può essere definita come un'utopia religiosa, anarco-comunista e comunitaria (con chiaro riferimento al modello delle comunità ancestrali amerindie). Tale definizione trova riscontro nel curioso tentativo di Dussel di mettere in opposizione le categorie marxiane di sociale e comunitario. Così scrive: "il carattere feticista del valore si comprende a partire dal carattere sociale del lavoro opposto al carattere comunitario (presuntamente originario NdA) dello stesso"; e ancora: "il carattere sociale - termine negativo che indica la perversione della relazione - del prodotto-merce gli viene dato dalla non comunità dello scambio e del mercato e la socialità della merce socializza i produttori isolati"; per finire: "il lavoro sociale è perversione del lavoro comunitario e il prodotto merce è la perversione del prodotto immediatamente sociale". 


Chiunque abbia letto con attenzione le opere di Marx sa tuttavia che in esse non esiste alcuna connotazione negativa né dell'aggettivo né tantomeno del sostantivo sociale. Al contrario: il processo di socializzazione imposto dal modo di produzione capitalistico, pur con il  prezzo di miseria e sofferenza che impone al lavoratore ridotto a "produttore isolato", viene considerato come il presupposto della transizione un livello più elevato, autoconsapevole e solidale di socializzazione; né l'idea marxiana di comunismo può essere assimilata a quella del ritorno a un comunitarismo delle origini sul cui carattere idilliaco Marx non ha mai nutrito illusioni. Il che non toglie che le provocazioni di Dussel possano contribuire al rinnovamento di un marxismo che, soprattutto qui in occidente (13), sta sempre più sprofondando in uno sterile dogmatismo eurocentrico.   


4. Qualche considerazione conclusiva


Non dubito che attribuire valenza positiva alle provocazioni teologiche di Dussel possa far storcere il naso ai puristi, in quanto cedimento nei confronti d'una indebita commistione fra il diavolo (la religione ebraico cristiana) e l'acqua santa (il materialismo storico e dialettico), commistione che spesso è stata usata dai pensatori di destra per negare la scientificità dell'opera marxiana (14). Resto tuttavia del parere, contro i fan della scuola althusseriana, che non sia possibile estrarre dai testi di Marx un'analisi scientifica "pura", separandola dal giudizio morale sul capitalismo in quanto "male". A ciò si aggiunga che in Marx convivono diversi "regimi narrativi", per dirla con Costanzo Preve (15), uno dei quali presenta una innegabile aura provvidenzialistica. 


Ma il vero punto è un altro: sempre Preve sostiene giustamente l'impossibilità di ricostruire il significato "autentico" del pensiero marxiano, nella misura in cui l'incorporazione del discorso originario in qualche tipo di neoformazione ideologica (in questo caso nel discorso della Teologia della Liberazione) "è una forma necessaria di esistenza del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione economico sociale"; simili ideologie non sono liquidabili come "falsa coscienza" ma sono strumenti di lotta forgiati su misura di precisi contesti storici, culturali e socioeconomici. Poco sopra parlavo dell'influenza della Teologia della Liberazione sui processi rivoluzionari latinoamericani, ma la relazione è dialetticamente rovesciabile, nel senso che l'interpretazione del pensiero marxiano da parte della Teologia della Liberazione è il frutto di cinque secoli di sfruttamento e oppressione coloniale da parte dei colonizzatori spagnoli e portoghesi, di una storia in cui a difendere le popolazioni autoctone sono state a lungo solo certe comunità cristiane (soprattutto gesuiti e francescani), le quali, per potere integrare e proteggere le culture indigene, hanno accettato o addirittura favorito il sincretismo fra la propria fede e le culture tradizionali, il che ha fatto sì che un certo "marxismo teologizzato" si sia rivelato uno strumento di lotta più efficace del marxismo "ingessato" dei partiti di sinistra tradizionali (che perlopiù reclutano i propri militanti nelle fila della piccola borghesia urbana europeizzata).


Ciò non significa che le tesi di Dussel siano esenti da critiche. Penso soprattutto alla curiosa attribuzione di valore negativo che, secondo lui, il termine "sociale" avrebbe nel testo di Marx (vedi sopra). Quello che è oggi probabilmente il più raffinato teorico marxista latinoamericano, l'ex vicepresidente boliviano Linera, ha il merito di avere allargato il concetto di antagonismo di classe, inglobandovi le comunità ancestrali andine che, pur non essendo direttamente e pienamente integrate nel processo di accumulazione capitalistico (e quindi compromesse nelle forme di socialità astratta che ciò implica), sviluppano un rapporto di opposizione antagonista con il capitalismo nella misura in cui questo aggredisce le condizioni su cui si fonda la loro possibilità di riprodursi (16). Questo è in sintonia con il punto di vista di Dussel, tuttavia lo stesso Linera, polemizzando con l'estremismo "comunitarista" dell'ambientalismo indigenista e delle sinistre radicali urbane (17), non esita a sostenere le ragioni della socializzazione, intesa come conoscenza dei rapporti fra tutte le classi e come coscienza della necessità di fondere gli interessi delle classi subalterne in un blocco sociale, ma anche come potere statuale, in quanto lo stato, scrive, non è il Moloch, il male assoluto, bensì il terreno di cui le classi subalterne possono e devono assumere il controllo per migliorare le proprie condizioni di vita. 


Restando in tema: è chiaro che il punto di vista di Dussel non può essere simpatetico con la via cinese al socialismo che attribuisce allo stato/partito il controllo assoluto sul sistema politico, economico e sociale. Tuttavia ciò significa ignorare che il "socialismo in stile cinese" è, al pari del socialismo del secolo XXI latinoamericano, il prodotto di una rivoluzione antimperialista e anticoloniale basata sulla commistione fra il marxismo-leninismo e le millenarie tradizioni culturali cinesi, come il confucianesimo e il taoismo. Criticarlo dal punto di vista di un marxismo teologizzato e comunitarista significa assumere, di fatto, la stessa postura eurocentrica che Dussel rimprovera ai marxisti ortodossi dell'America Latina, nella misura in cui la tradizione ebraico cristiana viene considerata superiore a quella confuciano-taoista.


Ma il nodo problematico su cui mi preme richiamare soprattutto l'attenzione è quello dell'utopia comunista. Si è detto che Dussel parla di "un'idea regolativa, un concetto utopico o anche il contenuto di un'economia trascendentale, non un momento o figura della storia". Mi pare chiaro che questa de storicizzazione dell'orizzonte utopico non è dovuta al fatto che Dussel non vuole sacralizzare un'aspettativa "terrena", in quanto ciò sarebbe in contraddizione con la sua teologia materialista, con l'affermazione che il regno di Dio inteso come liberazione degli ultimi dalla sofferenza deve essere realizzato qui e ora, sulla terra e non in cielo. Credo che il vero motivo sia la diffidenza di Dussel nei confronti del potere politico che aspira a realizzare l'utopia. Il suo punto di vista, come si è visto, accomuna il dominio del capitale al dominio dello stato come due figure del male, per cui la "parusia" del comunismo va allontanata in un futuro indefinito perché il suo annuncio possa agire come motore di un processo di auto emancipazione delle masse. 


Ernst Bloch



Per spiegare perché ritengo che questa visione sia sbagliata, ma contenga al tempo stesso elementi di verità, riprendo qui sinteticamente le riflessioni che, in lavori precedenti (18), ho sviluppato a partire dal confronto fra il pensiero di Ernst Bloch (19) e quello dell'ultimo Lukács (20). Bloch affronta il tema dell’utopia armato della sua vasta erudizione: parte dall’antica Grecia per approdare a Owen, Fourier e Proudhon passando per Gioacchino da Fiore, Thomas More, Campanella, il tutto seguendo il filo rosso dell'idea secondo cui la fede nell’avvento di un mondo nuovo e migliore è il primus movens di ogni progetto rivoluzionario. Dopodiché, pur non ignorando la reticenza di Marx a descrivere – se non a grandi linee – le caratteristiche di una società comunista, non si trattiene dallo snocciolarne con toni enfatici le meraviglie (21): scrive che si tratterà d’un mondo caratterizzato da una comunità “assolutamente non antagonistica”, di “un unico movimento in avanti nel mondo trasformabile e implicante felicità”. In fondo al tunnel del presente dal quale usciremo grazie alla lotta di classe, aggiunge, brilla “la pace lontana, la lontana occasione di essere solidali con tutti gli uomini, amici di tutti”; “da tutte le dissonanze del tempo s’innalza la quiete cristallina, come quiete della fine della storia”; un futuro di abbondanza, pace, amore universale e felicità del tutto simile alla terra promessa delle grandi religioni “dove fluiscono realmente e simbolicamente latte e miele”. La sua narrazione assume quindi una palese intonazione religiosa, per cui l’utopia socialista appare come il momento culminante di un processo di secolarizzazione/umanizzazione del messianesimo, mentre certe sue frasi appaiono in piena sintonia con il pensiero di Dussel, come quando scrive che “l’ateismo è tanto poco il nemico dell’utopia religiosa da formarne il presupposto: senza ateismo il messianesimo non ha luogo". La differenza è che, al contrario di Dussel, Bloch non allontana la parusia, non riduce il comunismo a un'idea regolativa, ma è convinto di vivere alle soglie della sua realizzazione terrena. Invece finirà amaramente deluso dall'esperienza del socialismo reale fino ad allontanarsene, quasi a dare ragione ai caveat di Dussel. 


Di tutt'altro tenore le riflessioni sull'utopia dell'ultimo Lukács, il grande filosofo marxista che, pur non avendo mai smesso di criticare lo stalinismo, non si è neanche allineato al coro degli intellettuali dissidenti, coltivando fino alla morte la speranza che fosse possibile riformare dall'interno il sistema socialista (il che implica che non ha mai condiviso il punto di vista di coloro che demonizzano il potere politico e statuale in quanto tali). Partiamo con il dire che il suo approccio al tema si fonda sulla assoluta centralità che il lavoro assume nel suo sistema filosofico: a fondare la possibilità (non la necessità! Lukács respinge la visione deterministica secondo cui il comunismo sarebbe l'esito necessario di presunte "leggi" storiche) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che lavoro contiene in sé fin dall'inizio la possibilità di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo. La possibilità di un tempo "liberato" (che è in ultima istanza ciò che Lukács identifica, sulle tracce di Marx, con il comunismo) si fonda su questa peculiarità del lavoro. 


Gyorgy Lukács



Il regno della libertà, scrive Lukács citando il Marx del III Libro del Capitale,"comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna". Ciò non può avvenire nel socialismo, dove la libertà può consistere solo nel controllo (necessariamente mediato politicamente!, NdA) dei produttori associati sul processo produttivo, cioè nel superamento di una condizione in cui esso li domina come una forza cieca. Ma il salto al regno della libertà (che in Lukács non evoca significati religiosi) è una prospettiva concreta o solo un'idea regolativa, per dirla con Dussel?  


La risposta di Lukács a tale quesito è indiretta e va a mio avviso cercata laddove il filosofo ungherese scrive che l'impossibilità dell'utopia di tradursi in realtà "non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato […] l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità." Per concludere: per  Lukács l'utopia comunista è sì un'idea regolativa, ma non nel significato teologico che gli attribuisce Dussel, bensì nel senso di un'ideologia politica (per Lukács, come per Gramsci, l'ideologia è potenza materiale) che può guidare la lotta delle classi subalterne per migliorare le proprie condizioni di vita, ma che mai approderà alla "fine della storia" sognata da Bloch, a un mondo ideale, un paradiso in terra libero da tutti i conflitti. 



Note


(1) Vedi anche H. Assmann, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia, Castelvecchi, Roma 2020.

(2) C. Formenti, Guerra e rivoluzione, Meltemi, Milano 2023. Vedi, in particolare, il terzo capitolo della Prima Parte del Secondo Volume.

(3) Marx avrebbe ereditato dal  pietista Oetinger la visione di una società senza conflitti, in cui verrà superata la funzione dello stato. 

(4) Confusione di cui troviamo tracce nella Filosofia della religione di Hegel.

(5) In questo senso la visione di Dussel è radicalmente diversa da quella degli autori che giustappongono il Marx "idealista" degli scritti giovanili al Marx "scientifico" del Capitale. 

(6) I navigatori portoghesi chiamarono così gli idoli adorati dalle tribù africane con cui vennero in contatto.

(7) Dussel parla del "relazionismo" di Marx: ogni qualvolta qualcosa si costituisce come un assoluto, scatta il problema ontologico del feticismo: un ente può porsi come assoluto solo nella misura in cui è stata tolta la sua "relazione con". 

(8) A proposito del concetto di false merci cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione,Einaudi, Torino 1974.

(9) nel senso che mentre Cristo si fa servo, il denaro da servo si muta in dio.

(10) Anche se, in alcuni passaggi, Dussel è molto vicino a cedere a questa tentazione, per esempio laddove afferma che in Marx sarebbe all'opera una sorta di "inconscio religioso".

(11) "L'ultimo Marx" che Dussel evoca nei suoi libri, e al quale attribuisce una flessibilità mentale ben maggiore di quella dei suoi cattivi allievi, è il Marx dialogante con i populisti russi, disposto a prendere in considerazione le potenzialità rivoluzionarie della cultura cultura comunitaria ancestrale dei contadini russi (cfr. K. Marx. F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 1960;  vedi anche P. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976)  

(12) Vedi, in particolare,  Guerra e rivoluzione, op. cit., vol. II, Parte Prima, cap. 3.

(13) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

(14) Vedi, fra gli altri E. Voegelin (Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1976) autore che accosta l'immaginario marxiano a quello delle mitologie gnostiche, il che varrebbe in particolare per l'eresia valentiniana, che affidava all'uomo la missione di riscattare una divinità caduta e immemore della propria identità originaria (cfr. in merito il mio Immagini del vuoto, Liguori, Napoli 1989). Una relazione indiretta fra marxismo e religione si può estrarre anche dall'accostamento fra profetismo e carisma religiosi e profetismo e carisma politici operato da Max Weber (cfr. Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982). 

(15) Cfr. La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.

(16) Cfr. Forma valor y forma comunidad, Traficantes de suenos, Quito 2015.  

(17) Cfr. Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

(18) Cfr. Ombre rosse. Saggi sull'ultimo Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2020; vedi anche Guerra e rivoluzione, cit., Volume I, capitolo 1.

(19) Cfr. E. Bloch, Il Principio Speranza, 3 voll. Mimesis, Milano-Udine 2019.

(20) Cfr. G.  Lukács, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), PGRECO, Milano 2012; vedi anche la mia Prefazione alla nuova edizione dell'opera, di prossima pubblicazione per i tipi di Meltemi. 

(21) Da notare che, quando scriveva queste cose, Bloch viveva ancora un’esperienza diretta del socialismo reale e ne tesseva le lodi, anche se poi ha poi finito per allontanarsene. 

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