Lettori fissi

lunedì 11 gennaio 2021



QUEL MARXISMO RIDOTTO A "TERRAPIATTISMO" 

 
Hosea Jaffe e Gunder Frank, benché esponenti di rilievo del marxismo (sebbene defilati ed “eretici”), hanno avuto il coraggio di puntare il dito contro l’incapacità della maggior parte dei loro compagni di strada (a partire dagli stessi Marx ed Engels) di emanciparsi da una visione eurocentrica. Basti pensare, in proposito, al disprezzo nei confronti delle culture precapitalistiche (liquidate come arretrate e barbare e destinate ad essere “civilizzate” dal capitalismo) che trasuda da certe pagine del Manifesto, o ai giudizi espressi in molti degli scritti raccolti nell’antologia Cina, India, Russia (con l’eccezione di alcuni testi dell’ultimo Marx, nei quali veniva valorizzato e riconosciuto il potenziale rivoluzionario delle comunità di base dei contadini russi). 
Di questo e altri limiti della tradizione marxista occidentale (vedi in proposito gli scritti di Domenico Losurdo) mi sono occupato, assieme all’amico Onofrio Romano, in un recente volumetto pubblicato da DeriveApprodi (Tagliare i rami secchi, 2019). La lettura di un libro di Paolo Perulli (Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo) mi stimola a riprendere il filo di quei ragionamenti. Chiarisco subito che questa non è una recensione, nel senso che il libro in questione – alquanto ambizioso – tocca un ampio ventaglio di problemi che richiederebbero considerazioni più estese di quelle che intendo svolgere in questo scritto, nel quale mi limiterò a esaminare gli aspetti che più hanno sollecitato la mia attenzione critica. 
Parto da una citazione di Marx che ci fa subito afferrare il punto di vista da cui parla l’autore: <<l’universalità verso la quale {il capitale} tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livello di sviluppo faranno riconoscere nel capitale stesso l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza>>. Il passaggio è densissimo. In sostanza vi si dice: 1) che il capitale tende all’universale e che tale tendenza è irresistibile; 2) che il solo ostacolo alla realizzazione della tendenza (cui più avanti viene associata <<l’enorme influenza civilizzatrice del capitale>>)  è immanente al capitale stesso. 
Qui c’è tutto il repertorio di quelli che altrove (vedi sopra) ho definito i rami secchi da tagliare per salvare il nocciolo rivoluzionario del marxismo da certi orpelli filosofici (con riferimento alle influenze storiciste, evoluzioniste, illuministe e positiviste che condizionavano il pensiero dei fondatori). In particolare mi riferisco: all’idea che esista una necessità storica immanente alla formazione sociale capitalistica che la destina a superare tutte le formazioni sociali precedenti e a unificare il mondo sotto le proprie leggi, e all’idea che questa unificazione è il presupposto necessario di un formidabile balzo in avanti sulla via della civilizzazione umana –balzo che avverrà allorché le contraddizioni interne al capitalismo ne determineranno (l’inevitabile) crollo.
Perulli si attiene rigorosamente a questo schema. Per lui l’economia del debito (frutto della convergenza fra i processi di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia, accelerati da e intrecciati con gli effetti della rivoluzione digitale), con particolare riferimento al debito sovrano, è, come recita il sottotitolo, la <<fase estrema>> del capitalismo. Estrema perché  <<il capitalismo finanziario si riproduce mediante l’indebitamento veicolato in prodotti finanziari che deve continuare a produrre illimitatamente , e che a loro volta riproducono debito in una spirale infinita>>, per cui è inevitabile che questa <<cattiva infinità>> esiti nel crollo del sistema. Premesso che la sua analisi dei meccanismi dell’economia del debito, ancorché corretta, non introduce sostanziali novità rispetto ai molti lavori teorici che sono già stati dedicati al fenomeno (mentre mi è parsa deficitaria nella descrizione delle sue radici storiche, ove confrontata con quelle di autori come Arrighi, Samir Amin, Harvey e altri), resta il fatto che non si vede perché tali meccanismi dovrebbero automaticamente portare al crollo (qualcuno, a proposito degli reiterati annunci della fine imminente del capitalismo a causa delle sue contraddizioni interne, ha coniato la battuta <<il capitale ha i secoli contati>>). 
Le ragioni di questa opzione “determinista” si comprendono a mano a mano che, nel corso della lettura, ci rendiamo conto che Perulli è convinto che non esista più nessuna forza esterna in grado di frenare la deriva del sistema. Questa forza non può essere la politica, dacché <<sovrano è proclamato il consumatore (e non il politico)>> (basta che sia proclamato tale perché lo sia effettivamente? Magia della svolta linguistica…). Non possono essere gli Stati che sarebbero ormai controllati, in quanto debitori del capitale privato, dalle agenzie di rating (controllano anche gli Stati Uniti, che le agenzie di rating le hanno inventate per consolidare il loro dominio sugli altri stati nazione?). Non può essere la lotta di classe, perché le classi sociali non si affacciano mai nell’analisi di Perulli, il quale ritiene che il capitalismo si fondi oggi principalmente <<su tipi umani e stili di vita>> e che le nostre società siano abitate <<da due popoli, un popolo del mercato, i creditori dello Stato, e un popolo dello stato, i cittadini contribuenti>>. Non può essere la ragione critica (incapace di preservare le élite dominanti dai rischi mortali connessi all’economia del debito), perché l’etica capitalista – tanto quella individuale quanto quella collettiva, di classe – nella misura in cui lo Stato non è più in grado di imporne gli interessi collettivi,  sarebbe ormai fondata esclusivamente sulla credenza, cioè su quella religione secolare che alimenta la fiducia nel fatto che anche le scelte più rischiose saranno, in un modo o in un altro, premiate dal mercato. Per dirla in parole povere: viviamo in un sistema globale privo di alternative <<che non siano sacche di resistenza e società arretrate in attesa di essere trasformate in senso capitalistico>>.
Come è agevolmente intuibile, secondo questa visione “terrapiattista” del marxismo, che ci presenta un mondo “levigato” dalla fresa di un capitale che <<è unico, è solo, è universale>>, non esiste spazio alcuno per alternative di sorta. È pur vero che, dopo il fallimento del socialismo sovietico, un’alternativa si è presentata con il socialismo di mercato cinese. Ma Perulli non può ammettere che esista un ircocervo come un capitalismo senza capitalisti. L’enigma cinese, come lo chiama – come quegli economisti liberali che si dannano per capire come un sistema che ha introdotto potenti meccanismi di mercato continui a essere governato da uno Stato/partito di tipo socialista – è un inciampo che lo disturba profondamente, e che il nostro tende quindi a rimuovere, classificandolo come un’anomalia che spiega perlopiù con l’influenza, non tanto del marxismo-leninismo sbandierato dal regime, quanto delle tradizioni religiose del confucianesimo, del taoismo e del buddismo. La sua analisi dell’influenza del fattore religioso – che è effettivamente rilevante – appare tuttavia piuttosto superficiale, anche perché - su questo come su altri argomenti - Perulli trascura quello che i politici e gli intellettuali cinesi scrivono della loro realtà, preferendo affidarsi alle analisi occidentali, a partire da quelle – classiche quanto datate -  di Max Weber. 
A dettare la rimozione è il vincolo dell’universalismo eurocentrico, in nome del quale il capitalismo cinese, a prescindere dalle sue peculiarità, deve essere sostanzialmente simile a quello nostrano, altrimenti verrebbero meno le condizioni del crollo globale vaticinato:  simul stabunt simul cadent, Occidente e Oriente sono destinati a sprofondare assieme nel buco nero dell’economia del debito. A onore del vero, la concezione terrapiattista di Perulli non è affatto un caso isolato: di fatto, è condivisa dalla maggioranza dei teorici marxisti, i quali, con poche eccezioni - penso ad autori come Giovanni Arrighi, Samir Amin, Domenico Losurdo, Alvaro Linera e a Polanyi (che però non era propriamente  marxista) – sono assolutamente incapaci di cogliere il rapporto dialettico fra la forza espansiva del capitalismo di matrice occidentale e le reazioni delle società tradizionali investite dal suo impatto. Non capiscono cioè che la relazione non è a senso unico, che se, da un lato, il capitale ha la capacità di adattarsi ad altre forme di vita subordinandole ai propri fini e interessi, le forme di vita in questione (date certe condizioni) sono a loro volta capaci di adattarsi ai rapporti economici di tipo capitalistico, riproducendosi ai margini del mercato o addirittura imparando ad usarlo ai propri fini di autoconservazione. 
Linera (cfr. Forma valor y forma comunidad, Quito 2015) lo ha dimostrato analizzando le dinamiche sociali e politiche che hanno reso possibile la rivoluzione boliviana (ma la sua analisi è estensibile alle altre rivoluzioni bolivariane). Ma il caso più eclatante di questa inversione dei rapporti di forza fra invasore e invaso è indubbiamente la Cina. Perulli è costretto ad ammettere gli strepitosi successi cinesi nel campo della lotta alla povertà (800 milioni di persone sottratte a tale condizione a tempo di record, cui si aggiungono i trenta milioni di posti di lavoro recuperati in poco più di un anno dopo la crisi del 2008) ma li attribuisce, come gli economisti neoliberali, alla uniformazione del sistema cinese alle leggi del mercato, piuttosto che al saldo controllo che lo Stato/partito ha mantenuto sui settori strategici e sul sistema bancario. Un controllo – a proposito della presunta inevitabilità di una crisi del debito in salsa cinese – che ha ricevuto recente conferma con la “decapitazione” di Alibaba e del suo fondatore Jack Ma per aver tentato di introdurre in Cina le pratiche della “finanza casinò”.
E ancora, è costretto ad ammettere che la crisi radicale della democrazia occidentale fa sì che la selezione di una classe politica adottata dal sistema cinese appaia paradossalmente competitiva. Ma attribuisce tale superiorità (che è apparsa schiacciante nel caso della gestione della pandemia) al fatto che mentre le democrazie devono fare i conti con i comportamenti di exit e di voice (qui il nostro fa esplicito riferimento alle categorie elaborate da Hirschman) la Cina non ha questo problema perché non  ammette simili comportamenti, incompatibili con il suo sistema autoritario: <<nel modello del socialismo di mercato, scrive, non esiste autonomia dei livelli inferiori…esiste un costante mutuo adattamento tra due livelli, uno che orchestra ogni cosa e l’altro che si uniforma>>. 
Questa diagnosi è frutto di palese ignoranza dei reali meccanismi di funzionamento del sistema politico cinese, per i quali rinvio alle analisi, fra gli altri, del sociologo canadese Daniel Bell che vive e insegna in Cina da 12 anni (cfr. Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss 2019).  Altrimenti saprebbe: 1) che l’apparato dello Stato/partito cinese è fortemente delocalizzato e ammette ampi margini di autonomia locale; 2)  che prevede significativi spazi di democrazia rappresentativa (900 milioni di cinesi partecipano ad elezioni locali aperte a candidati indipendenti) e consultiva (la Conferenza consultiva politica del popolo ha 3000 membri garantisce una costante interazione fra istanze sociali e potere politico); 3) che il carattere ferocemente selettivo dei processi che consentono l’accesso alle cariche amministrative e politiche (prevede, fra l’altro, anche meccanismi simili ad alcuni di quelli introdotti dalla Rivoluzione culturale, come l’obbligo di servire per un certo periodo in  comunità povere) è orientato a garantire il benessere delle masse, per cui non è un caso se il regime gode di livelli di consenso incomparabili con quelli di qualsiasi nazione “democratica”. Insomma quel mix di marxismo e confucianesimo che Perulli considera come un “residuo”, destinato a essere riassorbito dallo strapotere delle forme di vita capitalistiche, si è viceversa dimostrato come un potente dispositivo per usare il mercato capitalistico a fini totalmente diversi dalla pura accumulazione di profitti. 
Non ho qui il tempo né la voglia per analizzare la pars costruens del saggio di Perulli. Mi limito a dire che allude a una improbabile prospettiva di globalizzazione decentrata (!?) fondata su un nuovo “contratto sociale” (uscire dalla tradizione della filosofia liberale è difficile…) in cui giocherebbero un ruolo determinante fattori quali: i movimenti di protesta verso le imprese che violano certi valori etici, movimenti che dovrebbero/potrebbero favorire le visioni etiche (!?) del capitalismo rispetto alle visioni utilitaristiche; le pressioni e l’influenza dei cittadini/consumatori su certi temi fondamentali (qui si avverte una eco della “democrazia del controllo” teorizzata da Rosanvallon, in cui alla lotta per il potere subentra appunto la lotta per il suo controllo);  l’avvento, dopo il paradigma dell’azione collettiva e il paradigma dell’individualismo, di un paradigma “connessionista”, per cui Perulli rilancia le utopie anarco capitaliste che le prime esperienze sociali mediate dalla Rete avevano alimentato negli anni Novanta (poi spazzate via dal dominio delle grandi piattaforme monopolistiche), riferendosi, fra l’altro, all’utopia dei blockchain che consentirebbero la nascita di “un capitalismo che permette di regolare transazioni fra pari senza la presenza di un’autorità centrale”. Vi risparmio il resto e concludo dicendo che, in sintesi, mi è parsa una summa delle illusioni benecomuniste e alterglobaliste che alimentano la cultura delle sinistre “alternative” da quando hanno abbandonato ogni velleità di superamento politico del capitalismo (tanto crolla da solo…)  
  
 
      

venerdì 8 gennaio 2021


 La presa di Capitol Hill

L'America non è questo. No, l'America è proprio questo


Ascoltato in un talk show su La 7 dedicato all’assalto a Capitol Hill: l’ineffabile Veltroni rilancia il detto (del cui copyright non ricordo in questo momento il detentore) secondo cui l’assalto al Parlamento di Washington starebbe al populismo come la caduta del Muro di Berlino sta al comunismo, nel senso che entrambi gli eventi segnerebbero il culmine di una parabola, inaugurandone al tempo stesso l’inevitabile curva discendente. Dopo l’articolo di Aldo Cazzullo, che qualche giorno fa si è avventurato a celebrare l’inizio di una fase di “normalizzazione”, questo è un secondo esempio degli sforzi con cui le élite occidentali si impegnano a sostituire le loro speranze alla realtà. 
Che il primo populismo (sia nelle varianti di destra che in quelle di sinistra) stesse esaurendo la sua spinta propulsiva era chiaro a chiunque dotato di un minimo di capacità analitica. A sinistra, movimenti come Podemos, France Insoumise, l’M5S (benché in quest’ultimo caso sinistra suoni come una parola grossa) e le ali di sinistra del Labour inglese e dei Dem americani, si sono lasciati irretire dalle sirene liberali, accogliendone l’invito a fare fronte comune contro il pericolo “fascista” (scambiare i populismi di destra con il fascismo storico è stato possibile perché la cultura delle sinistre è succube del pensiero di autori come Foucault, Deleuze e Guattari, i quali hanno de storicizzato il fascismo, derubricandolo a categoria psico-antropologica), perdendo autonomia e capacità egemonica. A destra, i trumpismi di ogni tipo hanno a loro volta esaurito la propria funzione di falsa alternativa alle politiche neoliberiste dopo essere andate al governo, dove hanno dimostrato la loro incapacità di fare meglio (e facendo se possibile peggio) delle élite tradizionali, e perdendo così l’effimera egemonia che si erano conquistate grazie all’inettitudine delle sinistre.
Questo vuol dire che le contraddizioni che hanno generato il primo populismo sono superate o in via di superamento? Assolutamente no. La crisi pandemica, che si è sovrapposta ai postumi della crisi del 2008, sta generando condizioni ancora più drammatiche per le classi subalterne del mondo intero (escluse quelle della Cina, che ha agevolmente assorbito l’impatto dell’epidemia, e quelle di altri Paesi non occidentali, che ne sono stati meno colpiti): la miseria e i livelli di ineguaglianza aumentano a ritmi vertiginosi, assieme alla rabbia per il disastro dei sistemi sanitari e scolastici e , in generale, di tutti i servizi pubblici, falcidiati da decenni di tagli e privatizzazioni. Le élite tradizionali di centro, destra e sinistra possono (e soprattutto vogliono) offrire soluzioni radicali a queste sfide? La risposta è ancora: assolutamente no. Non possono perché la crisi ha eroso drammaticamente i loro margini di manovra in materia di politica economica. Non vogliono perché, per riuscirci, dovrebbero compiere scelte (nazionalizzazioni, colossali investimenti pubblici in deficit, politiche espansive sul piano salariale e occupazionale, ecc.) tali da mettere in discussione tutti i vantaggi accumulati in decenni di “guerra di classe dall’alto”. Quindi, nella misura in cui ritengono di non correre più il pericolo di perdere il controllo, si limiteranno a tornare a gestire l’esistente: business as usual.   
Purtroppo per loro (e per noi) questa fiducia è illusoria. L’assalto al tempio della “democrazia” Usa è solo l’ultimo di una serie di eventi (basti pensare all’assedio dei gilet gialli alla capitale francese, interrotto solo dalla crisi pandemica, o alle guerre commerciali e diplomatiche che segnalano il ritorno della guerra di tutti contro tutti che caratterizza le nuove relazioni fra grandi e medie potenze) che certificano come la crisi del sistema capitalistico fondato su globalizzazione, finanziarizzazione ed economia del debito stia ormai investendo anche le stesse istituzioni liberal democratiche, palesemente incapaci di ottenere l’indispensabile consenso e legittimazione popolari. Gramsci avrebbe detto che siamo in una situazione in cui le élite dominanti, non più in grado di esercitare egemonia, devono accontentarsi di esercitare il dominio. In passato ciò ha voluto dire ricorrere al fascismo. Oggi è stato il populismo di destra a svolgere la funzione di deterrente e ruota di scorta, ma il suo fallimento riduce ulteriormente i margini di manovra delle élite (costrette a reggersi quasi esclusivamente sui servigi delle “sinistre” convertite al liberalismo). E Lenin avrebbe detto che siamo in una situazione “oggettivamente” rivoluzionaria, aggiungendo tuttavia che mancano soggetti politici capaci di trarne profitto (per questo poco sopra scrivevo purtroppo anche per noi e non solo per loro, perché queste sono situazioni in cui l’assenza di vie di uscita può generare catastrofi). 
Ma torniamo ai fatti di Washington. Parto da due aspetti che l’amico Andrea Zhok ha messo in luce in altrettanti post sul suo profilo Facebook  https://www.facebook.com/andrea.zhok.5 : 1) la violenza quale fattore strutturale della politica americana; 2) il cieco atteggiamento delle élite democratiche benpensanti di fronte al popolo sporco, brutto e cattivo. La “novità” dell’invasione di Capitol Hill è puramente mediatico-spettacolare perché di simili eventi è punteggiata l’intera storia americana. Una storia che si potrebbe descrivere come una lunga, ininterrotta guerra civile che, per motivi antropologico-culturali  e storico-geografici (la giovane età in quanto nazione, le dimensioni subcontinentali, la disponibilità illimitata di terra e risorse strappate ai nativi nella fase iniziale, la popolazione cresciuta per successive ondate migratorie da tutti gli altri continenti e appesantita dall’onta dello schiavismo e del successivo apartheid, ecc.) non ha assunto la forma della lotta di classe come in Europa, bensì quella di una selvaggia guerra per bande (fra mafie etniche, fra boss locali e nazionali, fra lobby industriali e finanziarie, fra categorie professionali, fra corpi di polizia statali e federali, ecc.). Il film Gang of New York di Scorsese è forse il quadro più fedele di come funziona una “democrazia” che, quando il conflitto supera certe soglie, non esita a ricorrere all’assassinio politico (dai fratelli Kennedy a Malcolm X). 
Quanto al secondo punto mi limito a citare quanto scrive Zhok perché non saprei dire meglio: <<Che di volta in volta l'elezione di qualche bruto sgrammaticato non rappresenti una soluzione, e finisca nel fango, non costituisce proprio nessuna consolazione (salvo che per i quaquaraquà dell'informazione di regime). Perché i bruti sgrammaticati e le plebi senza speranza, le famiglie disfunzionali e i patetici terrapiattisti, i seguaci di sette improbabili e di milizie terroristiche tutti questi sono coltivati accuratamente da quel sistema che sorride impomatato a sessantaquattro denti da programmi politicamente corretti, dal sistema che mette in piedi riti elettorali dove si sceglie tra i soliti inutili noti, dal sistema che esiste solo per autoperpetuare il potere del denaro e dei suoi cultori. Se il "popolo fa schifo", cari i miei "democratici", questo non è una ragione per compiacersi della propria benpensante superiorità, ma è il segno di un fallimento epocale, il vostro>>. 
Aggiungo solo che è illusorio pensare che la sconfitta di Trump e il “ritorno all’ordine” dopo questa effervescenza preludano a una svolta radicale nelle politiche del regime. Non concedendo nulla alla sinistra di Sanders e Ocasio-Cortez, Biden ha già fatto capire che non intende mettere in questione le politiche economiche che favoriscono il grande capitale finanziario, né pensa di concedere alcunché in termini di riforma sanitaria, accesso gratuito ai livelli di istruzione superiore, ecc. Continuerà certo a parlare il gergo politically correct per grattare la pancia a femministe e Lgbt, quanto ai neri: tutti hanno giustamente  osservato che, se a manifestare fossero stati i militanti di Black Lives Matter, la polizia avrebbe ucciso decine di persone, mentre tutti abbiamo visto i poliziotti compiacenti che toglievano le transenne per agevolare l’accesso al palazzo agli esagitati trumpiani. Ma credete che le cose cambieranno, che le decine di migliaia di poliziotti razzisti e di estrema destra che formano le “forze dell’ordine” americane saranno licenziati o indotti a smettere di uccidere i neri? 
E allora? Il nodo centrale resta (non solo per gli Stati Uniti ma per l’intero Occidente) quello della rappresentanza. La democrazia liberale fallisce perché non è più in grado di garantire rappresentanza politica agli interessi e ai bisogni della sterminata massa di perdenti, esclusi ed emarginati, proletari, sottoproletari, disoccupati e sotto occupati, indebitati, immiseriti, generati da quarant’anni di regime neoliberista e ai quali la pandemia sta dando il colpo di grazia. Non è quindi improbabile che morto un Trump se ne faccia un altro, che il suo popolo cerchi e trovi rappresentanza in qualche tipo di scissione di un Partito Repubblicano in ginocchio. 
E la sinistra, o quel che ne resta? Se resterà impigliata nell’alleanza con i liberali “progressisti” in posizione subalterna, non ha futuro. Già ha visto fallire lo sforzo di Sanders (come dei vari Iglesias, Corbyn e Mélenchon) di costruire un blocco sociale che rinsaldasse le masse proletarizzate ai ceti medi riflessivi (e hanno fallito perché, con l’alleanza di cui sopra, hanno perso presa sulle masse proletarizzate restando con i soli ceti medi “riflessivi”). 
L’unica via di uscita sarebbe rompere con i Dem e fondare un nuovo partito (sarebbe bello assistere a una competizione elettorale a quattro che sconvolgerebbe il dispositivo bipartitico made in Usa – che non a caso piace anche ai liberali nostrani – studiato su misura per negare rappresentanza politica agli ultimi) con l'obiettivo di contendere  alla destra l’egemonia sulle spinte sociali antisistema. Se non avrà il coraggio di farlo, non solo non riuscirà a cambiare le cose, ma rischia di fare la stessa fine della II Internazionale che fu complice della I Guerra Mondiale. Già perché, se la guerra civile permanente in America dovesse inasprirsi ulteriormente, l’unica via di uscita sarebbe puntare il dito (e il fucile) su un nemico esterno (del resto sta già facendo da tempo, orchestrando una violenta campagna anticinese che Biden pare deciso a condurre ancora più decisamente di Trump). E le “sinistre” occidentali non sembrano lontane dall’aderire a questo richiamo alle armi, come denuncia un preoccupato articolo del Qiao Collective https://www.qiaocollective.com/en/articles/what-does-critique-do?fbclid=IwAR3dQtqs43RW4xUv8qOotfZEtpMxFcT6vlX2jtsaLu9YD7kDfVKR1Ic5qhE . 
Chiudo segnalando, in tema di venti di guerra, un boxino non firmato del Corriere dell’8 gennaio, dedicato alle reazioni internazionali. Già il titolo dice tutto: “La condanna di Merkel e il silenzio del nemico Xi”, ma nel testo troviamo di peggio: <<Il suo (di Xi Jinping) ministro degli esteri osa parlare di doppio standard della comunità internazionale che sostiene i  manifestanti di Hong Kong>>.  Qui a osare è piuttosto l’anonimo redattore che ha partorito questa buffonata, ove si consideri che l’intera informazione occidentale sulla Cina è vergognosamente ispirata al principio del doppio standard: da ex docente di sociologia della comunicazione mi piacerebbe condurre una piccola ricerca confrontando gli spazi che vengono dedicati alle “malefatte” del regime di Pechino (o dei regimi venezuelano, cubano, nordcoreano, ecc.) con quelli riservati alle magagne dei regimi liberal democratici.          
    

 

lunedì 4 gennaio 2021


 QUANDO IL LAVORO E' "MORALMENTE CATTIVO" 

L'alienazione secondo Rahel Jaeggi


Rahel Jaeggi è una filosofa di origine svizzera che insegna a Berlino. Esponente della quarta generazione della Scuola di Francoforte (allieva di Axel Honneth) è conosciuta anche come teorica femminista - non assimilabile alle correnti del femminismo “emancipazionista”, come si evince da un recente libro che contiene una sua lunga conversazione con Nancy Fraser (Capitalismo, Meltemi Editore). Nel saggio breve “Patologie del lavoro” (testo che ho già segnalato sul mio profilo Facebook https://www.sinistrainrete.info/teoria/12285-rahel-jaeggi-patologie-del-lavoro.html?fbclid=IwAR2W9D9GD-8o6E0Xj0HoObMqnhizkgpnMOpXl7ZYsgsM7CfKHXNeizVNmKI ), uscito su Women’s Studies Quarterly  e, in versione italiana, su Consecutio Rerum, la tematica femminista è tuttavia evocata solo marginalmente mentre, come certifica il titolo, il focus è su quelli che l’autrice definisce <<gli sviluppi sociali aberranti del lavoro>>.
Credo che sia utile chiarire preliminarmente che qui il concetto di lavoro non coincide con quello utilizzato da Marx nei suoi scritti fondamentali. La Jaeggi prende piuttosto le mosse da una frase di Hegel, in cui si afferma <<possiamo dire che il lavoro equivale a condividere, partecipare o prender parte alle risorse generali della società>>, dopodiché specifica ulteriormente che, per risorse, intende ciò che una determinata società ha raggiunto in termini sia di ricchezza che di competenze. Il lavoro, aggiunge, consente a ognuno di condividere le risorse della società <<anche perché consente di condividere il sapere nel suo evolversi e il know how di una società>>.
Dicevo prima che siamo se non lontani, decentrati rispetto al concetto marxiano di lavoro. Infatti dalle frasi appena evidenziate, è evidente che qui il lavoro viene concepito a partire dall’alto dell'astrazione, piuttosto che dal basso della materialità del processo produttivo. Si potrebbe dire che si parte dal general intellect, piuttosto che approdarvi come all’esito dell’evoluzione di uno specifico modo di produzione. Del resto la Jaeggi chiarisce che oggetto della sua indagine non è il lavoro retribuito, e non solo perché le preme ribadire la piena appartenenza all’ambito lavorativo sociale del lavoro femminile non retribuito, ma anche perché la sua è una prospettiva filosofico-antropologica che si basa su concetti che si propongono di trascendere i rapporti di produzione specificamente capitalistici. 
Da un lato, tutto ciò è in linea con il pensiero del suo mentore Axel Honneth, nella misura in cui costui si propone di integrare il tema marxiano dello sfruttamento con il tema del riconoscimento, introdotto dalle culture post marxiste (femminismo, post colonialismo, ecc.), dall’altro lato, comporta uno slittamento da un punto di vista “oggettivo” a un punto di vista “soggettivo” nell’analisi delle patologie del lavoro. Non è importante solo un lavoro senza sfruttamento, ma anche un lavoro senza alienazione, scrive Jaeggi, dal che si intuisce che intende suggerire una visione più ampia del concetto di alienazione. 
A questo punto è bene precisare che intendo sospendere qualsiasi considerazione critica nei confronti di questo approccio, limitandomi a considerare che, a mio parere, mettere fra parentesi la dimensione “oggettiva” dell’alienazione come sfruttamento capitalistico (separazione del produttore dai mezzi di produzione, perdita di controllo sulla propria attività, ecc.) impedisce di cogliere, fra le altre cose, alcuni radicali mutamenti del modo di produzione indotti dalla rivoluzione digitale - mutamenti relativi al rapporto fra plusvalore relativo e assoluto, lavoro produttivo e improduttivo, “lavoro del consumatore”, rapporto fra tempo di lavoro e tempo di vita ecc. di cui mi sono occupato in lavori di qualche anno fa, come Felici e sfruttati (Egea Editore). Ciò detto ritengo che il contributo di Jaeggi sia importante nella misura in cui ha il merito di evidenziare la “multidimensionalità” dell’alienazione, mettendola in relazione a fenomeni quali la precarizzazione del rapporto di lavoro, il venire meno delle aspettative legate alla “emancipazione” dal lavoro dipendente (tipiche delle ideologie degli anni Settanta), la disumanizzazione del lavoro in alcuni settori produttivi (in particolare nei servizi) e la disoccupazione. 
Sulla condizione patologica del disoccupato non è necessario spendere troppe parole: la sua condizione è infatti quella dello “scarto” sociale, del superfluo, dal momento che - e qui Jaeggi torna a rivolgersi a Hegel – il valore e la dignità stessa dell’individuo sono mediati dal lavoro che, oltre a definirne la posizione e il ruolo sociali – l’identità - ne garantisce il riconoscimento in quanto persona. Questo presupposto è negato da chi – come i teorici post operaisti – a partire dagli anni Settanta e da un’ideologia “post lavorista”, rifiuta totalmente questa identificazione fra attività lavorativa ruolo sociale. Jaeggi non entra direttamente in polemica con questa visione – che nemmeno cita – ma la smonta di fatto,  ragionando sulla parabola del lavoro autonomo che, a partire dagli anni Settanta, è stato assunto da alcuni strati professionali – i cosiddetti “creativi” (anche se Jaeggi non usa questa definizione) – come sinonimo di “autocoltivazione” (“autovalorizzazione” nel linguaggio negriano), di una visione bohémien dell’attività lavorativa come libertà e creatività.
La torsione in senso liberale (e individualista!) che il capitalismo ha impresso a questa ideologia - vedasi le analisi di Boltanski e Chiapello ne Il nuovo spirito del capitalismo (Mimesis) e di Dardot e Laval ne La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi) – ma soprattutto l’uso che è riuscito a farne per ristrutturare i processi lavorativi ad elevato contenuto professionale, <<non hanno portato all’abolizione dell’alienazione bensì a un suo sviluppo paradossale>>. Una forma di alienazione che si manifesta attraverso la insostenibile pressione ad autopromuoversi, a competere (perversione della ricerca di riconoscimento); il timore di fallire, associato alla celebrazione dell’auto imprenditorialità e delle connesse ideologie che esaltano il rischio e la responsabilità individuali; nonché la perdita di qualsiasi capacità collettiva di agire. 
Credo che una parte ancora più interessante dell’analisi sia quella che si concentra sui lavori più ripetitivi, dequalificati e privi di attrattiva. Caratteristiche che Jaeggi associa in particolare ai lavoratori del settore dei servizi, precari, sottopagati, super sfruttati - che non sono esclusivamente né prevalentemente donne, come sembra ritenere, riferendosi per esempio alle imprese di pulizia; basti infatti pensare alla gig economy – Uber, i runner dei vari servizi di consegna a domicilio – o alla logistica – Amazon, Ikea – dove la percentuale di forza lavoro maschile è elevata. In ogni caso la sua analisi parte dal seguente assunto: gli individui hanno ricche e intense aspettative riguardo alle loro condizioni di lavoro che possono essere (e quasi sempre sono, aggiungerei io) deluse. 
Queste aspettative, che avevano trovato espressione nel ciclo di lotte sindacali degli anni Settanta e nelle sue rivendicazioni, appaiono oggi frustrate dalle nuove condizioni lavorative che vigono nei settori appena evocati. E tuttavia, e trovo che questa sia la considerazione più originale e stimolante, i lavoratori conservano un disperato desiderio di identificazione con il proprio lavoro anche nelle condizioni più difficili. È evidente come questa tesi rovesci le analisi in cui si sostiene che la combattività dell’operaio comune, condannato a un lavoro ripetitivo, massacrante e privo di ogni attrattiva, nasceva principalmente dal suo totale rifiuto di identificarsi con la propria attività (che nella narrazione ideologica si trasformava in rifiuto del lavoro tout court).  Viceversa Jaeggi ci dice che spegnere il desiderio di identificarsi con il proprio lavoro è impossibile, e che la sofferenza – l’alienazione – cresce proprio perché diventa più difficile tale identificazione. Quindi la rabbia e la frustrazione nei confronti di un lavoro percepito come moralmente cattivo, non si traduce in rifiuto del lavoro in generale, bensì in richiesta di un lavoro buono
A conclusione di questa breve recensione – che non fa giustizia alla complessità del testo della Jaeggi, di cui mi sono qui limitato a evidenziare alcuni aspetti – vorrei sollevare un interrogativo che riguarda le prospettive di una società socialista rispetto al tema dell’alienazione. Una volta concesso che l’alienazione è una condizione che non può essere ricondotta esclusivamente allo sfruttamento economico (ciò di cui, sia detto per inciso, era perfettamente consapevole anche Marx), e che essa presenta numerosi volti e sfaccettature che chiamano in causa anche i temi del riconoscimento, e che – aggiungerei – va analizzata tanto sul piano oggettivo (collettivo) quanto sul piano soggettivo (individuale), è lecito attendersi che una futura società socialista possa liberarcene definitivamente? Personalmente condivido l’opinione espressa da Samir Amin che, nei suoi ultimi scritti, invitava ad abbassare le pretese , sostenendo che il socialismo riuscirà forse a emancipare l’umanità dallo sfruttamento, ma assai difficilmente la libererà da altre facce dell’alienazione connaturate alle nostre caratteristiche di specie (a partire dalla dipendenza dalle protesi tecnologiche). Detto altrimenti: è vero che l'identità umana è modificabile in quanto culturalmente determinata, ma non è infinitamente modificabile né è del tutto culturalmente determinata.              


giovedì 31 dicembre 2020


 CRISI E PERICOLO GIALLO
Pensieri in libertà di fine anno



Tanto Lenin che Gramsci ci ricordano che le crisi economiche e sociali, per quanto gravi, non bastano a garantire la possibilità di un cambiamento rivoluzionario. Perché tale cambiamento possa avvenire, spiegano, è necessario che si verifichino almeno altre due condizioni. In  primo luogo, deve esistere una profonda crisi istituzionale, tale da incrinare la capacità delle classi dirigenti di mantenere il controllo sullo Stato e sui suoi apparati (a partire da quelli repressivi). Detto altrimenti: le élite possono perdere l’egemonia, ma se hanno la possibilità e i mezzi di sostituire l’egemonia con il dominio è molto difficile rovesciarle. Inoltre deve esistere una forza politica organizzata, radicata nei territori e nei luoghi di lavoro, dotata di un programma politico che risponda agli interessi e ai bisogni della maggioranza della popolazione, e decisa a conquistare il potere per realizzare un cambio di regime
Da quando la crisi pandemica è venuta a sommarsi ai postumi della crisi del 2008, generando uno sconquasso economico e sociale di proporzioni gigantesche, paragonabile (se non superiore) a quello provocato dalla crisi del 1929, con un crollo verticale di produzione e consumi, con un tragico aumento dei livelli di povertà, disoccupazione e disuguaglianza sociale (problemi già incancreniti da decenni di guerra di classe dall’alto condotta dai regimi neoliberisti contro le classi subalterne), abbiamo sentito ripetere a ogni piè sospinto la frase <<nulla sarà come prima>>. Ovviamente questa profezia si tinge di coloriture opposte: da un lato, la paura di chi teme di veder messo in discussione il proprio potere dopo quarant’anni di dominio incontrastato, dall’altro, la speranza di chi si augura che ciò possa realmente avvenire. 
Oggi la paura dei primi sembra essersi assai ridotta, se non del tutto sopita, mentre la speranza dei secondi si fa di giorno in giorno più debole. A celebrare lo scampato pericolo si è levata, fra le altre, la voce di Aldo Cazzullo che, nella duplice veste di esponente del PD e di opinionista dell’organo ufficiale della borghesia italiana, ha usato – in un recente articolo sul Corriere della Sera – il termine normalizzazione, per descrivere una serie di eventi che consentono alle élite neoliberiste di tirare un sospiro di sollievo: la sconfitta di Donald Trump nelle recenti elezioni presidenziali, accompagnata dalla vittoria di un centrista moderato come Biden (che ha prontamente scaricato la sinistra di Sanders e Ocasio-Cortez, bilanciando il tradimento – ampiamente scontato – delle loro aspettative con la cooptazione di collaboratori “politicamente corretti”: donne, gay, esponenti delle minoranze di colore, tutti rigorosamente moderati di centro come lui); lo spegnersi delle residue velleità antieuropeiste dei populismi europei, sia di quelli impegnati in alleanze di governo con le “sinistre” (come l’M5S e Podemos) sia di quelli di destra (con l’eccezione di Marine Le Pen e di qualche esponente del gruppo di Visegrad); l’happy end della Brexit, conclusasi con un accordo che scongiura il pericolo di guerre commerciali fra Gran Bretagna e il Vecchio Continente; la ritrovata unità della Ue, che concede all’Italia “aiuti” che scongiurano i rischi immediati di tracollo, mentre poggiano il coltello alla gola del Paese, strappandogli implicitamente l’impegno di realizzare “riforme” antipopolari nel medio-lungo periodo. 
D’altro canto, ricorda prudentemente Antonio Polito il giorno dopo sulle stesse pagine, i problemi sono tutt’altro che risolti, per cui permangono rischi elevati: <<Siamo ancora immersi nella seconda ondata, e non sappiamo se ce ne sarà una terza; se basterà il vaccino e quando arriverà la seconda dose; se e quando riapriranno le scuole dei nostri figli>> (per tacere dei tempi necessari per una effettiva ripresa del sistema produttivo, aggiungerei io). Ma se parlare di normalizzazione può suonare eccessivo, perché il fatto <<che l’Italia esca presto e bene da questa emergenza è tutt’altro che scontato>>, Polito si consola constatando che, anche se l’attuale governo un po’ alla volta si indebolisce, <<l’alternativa resta avvolta nella nebbia>>. 
Non sono certo caveat del genere che possono alimentare le speranze di chi insiste a recitare con bellicoso piglio rivoluzionario il mantra <<nulla sarà come prima>>. Dalla nebbia di cui parla Polito, infatti, può sortire solo il topolino di un rimpasto, oppure un qualche governo di unità nazionale con Draghi, o chi per lui, nel ruolo del Monti di turno, chiamato a celebrare l’ennesimo autodafé degli interessi popolari. E nulla cambierebbe anche se le cose andassero, se possibile, ancora peggio, con un ulteriore aggravamento della crisi economica, dei livelli di disoccupazione, di povertà e di disuguaglianza, perché, in barba ai teorici del “crollismo” (quei marxisti volgari che, a ogni crisi capitalistica, profetizzano la fine imminente del sistema, e che qualcuno sfotteva con la battuta “il capitalismo ha i secoli contati”), le possibilità che si arrivi in tempi brevi a una crisi “terminale” sono pressoché nulle, dal momento che le due condizioni dirimenti di cui sopra (indebolimento radicale degli apparati dello Stato, e presenza di una forza politica capace progettare e mettere in atto un cambiamento rivoluzionario) sono palesemente assenti. 
È vero che il potere neo liberale, dopo avere raggiunto il culmine alla fine del secolo scorso, è venuto perdendo autorevolezza e legittimazione a ritmi accelerati, a mano a mano che gli effetti del capitalismo globalizzato e finanziarizzato, dopo avere sbaragliato la capacità di resistenza del proletariato industriale e delle sue organizzazioni politiche e sindacali (le quali non si sono neppure guadagnate l’onore delle armi, avendo abbandonato il campo senza combattere), hanno iniziato a erodere anche le condizioni di vita e di lavoro delle classi medie. Ma quando si perde l’egemonia, resta come si è detto la possibilità di rimpiazzarla con il dominio. Un dominio che oggi non assume le forme “classiche” del fascismo storico, da non confondere con il fenomeno dei populismi di destra (abbaglio di cui sono rimasti vittima i resti delle sinistre radicali, e che li ha convinti a mobilitarsi a fianco dei liberali). 
Il dominio, negli attuali regimi liberal democratici, tende ad assumere forme inedite: quelle che chiamiamo post democrazie, democrazie oligarchiche, democrature, accomunate dal rafforzamento dell’esecutivo a spese del legislativo, dai processi di mediatizzazione e personalizzazione della politica, dal trasformismo, dallo smantellamento dei corpi intermedi, dal depotenziamento dei vincoli legislativi al supersfruttamento delle classi subalterne, dalle “riforme” del sistema educativo che lo trasformano progressivamente in una fabbrica di personalità docili e prive di strumenti e spirito critici, dalla imposizione della neolingua e delle ideologie politicamente corrette che rimpiazzano il conflitto sociale con i conflitti di genere, fra generazioni, fra etnie e fra identità sessuali diverse, il tutto all’insegna dell’individualismo e del consumismo eletti a paradigmi di “libertà”.
Nelle durissime condizioni di vita che la crisi impone, e imporrà ancor più in futuro, alle classi subalterne il dominio non può tuttavia essere perseguito esclusivamente con i mezzi appena descritti: occorre anche indicare un nemico esterno, o meglio, occorre convincere la gente che esiste un sistema dove si vive ancora peggio. Questa è la ragione di fondo che spinge l’Occidente a intraprendere una nuova guerra fredda, dove il ruolo di Impero del Male, un tempo impersonato dall’Unione Sovietica, spetta ora alla Cina. 
Certo, i motivi di conflitto sono molti e gravi: la Cina, a mano a mano che è passata da “fabbrica del mondo” e riserva di forza lavoro a buon mercato a potenza economica di primo livello, non solo in termini quantitativi, misurabili in tassi di crescita annua del Pil, ma anche e soprattutto in termini qualitativi, grazie al rapidissimo sviluppo del settore high tech, si è trasformata in un poderoso concorrente. Di più: a mano a mano che ha reagito alle guerre commerciali americane scommettendo su un modello di sviluppo “autocentrato”, cioè facendo crescere i salari e promuovendo il consumo interno a fattore trainante, assieme agli investimenti infrastrutturali, della crescita del Paese, minaccia di sottrarre enormi fette di mercato alle economie occidentali. Eppure, finché si resta sul piano puramente economico, è sempre possibile trovare un qualche compromesso, come dimostra il recente accordo fra la Ue e l’impero di mezzo. 
La vera sfida è un’altra: è quella che la Cina ha lanciato all’Occidente dimostrando la schiacciante superiorità del suo sistema nell’affrontare la sfida pandemica. Ed è solo l’ultimo affronto che il paradigma liberista ha dovuto affrontare, essendo stato costretto a incassare la clamorosa smentita della tesi secondo cui un’economia pianificata, in cui lo Stato svolge ancora, malgrado le riforme degli ultimi decenni, un ruolo trainante e strategico, non è in grado di competere con la logica del libero mercato. Una sfida pericolosa perché vede crescere, accanto e assieme alla capacità di competizione economica, il soft power del modello cinese, che esercita un’attrazione crescente nei confronti delle nazioni e dei popoli asiatici, africani e latinoamericani. 
Per impedire che questa seduzione approdi anche in Europa e negli Stati Uniti, occorre scatenare una tambureggiante campagna per convincere la gente che in Cina si vive male, anzi malissimo. E visto che non lo si può più sostenere rispetto ai livelli di consumo (in pochi anni 800 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà e molti di loro fanno ormai parte a tutti gli effetti della classe media, mentre le nostre classi medie minacciano al contrario di sprofondare nel proletariato) si gioca la partita prevalentemente sul terreno dell’ideologia: il regime cinese è totalitario, non rispetta i diritti umani né quelli civili, opprime le minoranze. 
Sulla attendibilità di queste accuse, ossessivamente rilanciate da tutti i media e ricorrenti in ogni discorso di politici, accademici e opinionisti senza distinzione fra destra, centro e sinistra, mi sono già espresso nei miei ultimi libri, ai quali rimando. Vorrei qui invece fare alcune considerazioni in merito alla “libertà” di cui avremmo la fortuna di godere noi cittadini occidentali. Mi concentrerò in particolare sul tema della gestione della pandemia. 
Com’è noto, per motivare la fallimentare capacità dei nostri Paesi di affrontare la sfida, a fronte del sorprendente successo cinese, si ripete ossessivamente che per quel regime totalitario è stato facile chiudere tutto per stroncare la circolazione del virus, mentre le nostre democrazie hanno dovuto contemperare le esigenze di tutela della salute con le esigenze di libertà dei cittadini. In realtà ciò che si voleva garantire non era la libera circolazione dei singoli, bensì i flussi di merci, denaro e forza lavoro. Interrompere i flussi economici sapendo che potranno essere ripresi senza eccessivi contraccolpi è cosa che può permettersi solo un’economia pianificata a gestione pubblica, non un’economia privata dove tutto è basato sulla libera concorrenza e nella quale ogni stop rischia di tradursi in un bagno di sangue. 
Ma veniamo alla presunta maggior tutela delle libertà individuali. I disastri cui abbiamo assistito nell’anno che muore sono l’esito del combinato disposto, da un lato, dello smantellamento dei sistemi sanitari, massacrati da anni di tagli di bilancio, riduzione del personale, chiusura di strutture sul territorio, privatizzazioni selvagge, dall’altro lato, degli effetti di decenni di diffusione capillare di una cultura radicalmente individualista e consumista che ha generato soggetti, soprattutto giovani, incapaci di sacrificare le proprie esigenze e desideri immediati per il bene della comunità. È questa cultura “libertaria” che ha alimentato le insofferenze di complottisti e No Vax nei confronti dei pur limitati, tardivi e contraddittori provvedimenti pubblici per contrastare il contagio, attaccando “da sinistra” un potere che avrebbe viceversa dovuto essere attaccato per il suo servile piegarsi agli interessi degli imprenditori (quelli grandi e grossi, non i piccoli imprenditori e artigiani che viceversa vengono sacrificati ai processi di concentrazione monopolistica, esito inevitabile di ogni crisi) a spese di quelli della salute. 
Ma poi è arrivata la salvezza (come da copione da Oltreoceano): Big Pharma, in cambio di favolosi profitti e della messa a disposizione di un immane campione di soggetti su cui testare i propri esperimenti, ci ha inviato una inaspettata pioggia di vaccini, con grande anticipo sui tempi previsti. E qui scatta la contraddizione: se si vuole tamponare il disastro provocato dai pregressi crimini di lesa sanità occorre che a vaccinarsi siano tutti o quasi, altrimenti addio immunità di gregge. Ma come vincere dubbi, perplessità e resistenze che non riguardano solo le infime minoranze dei No Vax, salvando nel contempo il principio della libera scelta individuale che ci distinguerebbe dai cattivi cinesi? 
Semplice: basta contare sul vecchio trucco della non coincidenza fra libertà formale e libertà sostanziale (ricordate cosa scriveva Marx a proposito della libertà del proletario: non vuoi vendere la tua forza lavoro? Nessuno ti obbliga sei libero…di morire di fame). In un post sul suo profilo Facebook Andrea Zhok, intervenendo sul dibattito fra chi vorrebbe rendere obbligatorio vaccinarsi e chi ritiene debba essere lasciato alla libera scelta individuale, ironizza così a proposito dell’intervento del “libertario” Pietro Ichino: <<l’uomo che rinasce dalle bende in cui è mummificato solo quando sente la parola magica “licenziamento”, che ci spiega come sia legalmente sacrosanto licenziare chi rifiuta di vaccinarsi. La chicca è qui che l’ineffabile Ichino ti spiega anche come tu sia assolutamente LIBERO di non vaccinarti, salvo poi venire licenziato. Il che chiarisce bene il concetto di libertà dei liberisti: "O la borsa o la vita" è per loro un classico esempio di libera scelta>>. 
Del resto o la borsa o la vita è un’intimazione che ricorre in molti contesti nelle nostre “libere” società: sei perfettamente libero di trasmettere idee “eretiche” ai tuoi studenti, ma non lamentarti se poi non vinci nessun concorso per accedere a un ruolo superiore; sei perfettamente libero di scioperare, ma non aspettarti alcun avanzamento di carriera o aumento di stipendio. Libertà, libertà, libertà ma sempre formali, mai sostanziali, come si azzardava a rivendicare la nostra Costituzione (anacronistica in una società dove tutti si illudono di avere conquistato il “diritto di avere diritti”). 
Nemmeno in Spagna il vaccino sarà obbligatorio, ma il governo ha annunciato che terrà un registro di chi rifiuterà le dosi e lo condividerà con l’Unione Europea. Vuoi vedere che il primo, vero passo verso l’unificazione politica dell’Europa sarà l’istituzione di uno schedario dei renitenti al vaccino? Ancora: sei libero ma…Il ministro della Sanità spagnolo rassicura dicendo che i nominativi non saranno resi pubblici né accessibili ai datori di lavoro (chi crede ancora a queste rassicurazioni sulla privacy dopo Assange e Snowden?).
Ma il pericolo giallo incombe e l’Occidente, ora che grazie alla caduta di Trump può tornare a immaginarsi come un blocco unito, si compatta attorno a questa battaglia egemonica che si gioca sempre di più sul terreno dei simulacri della libertà, della democrazia e dei diritti umani, anche perché la realtà impone di prendere atto che, sul piano demografico, rappresenta ormai un decimo della popolazione mondiale e che, nel giro di vent’anni, anche sul piano della potenza economica rappresenterà solo una frazione di quella globale, per cui gli restano appunto solo la potenza militare (concentrata nei soli Stati Uniti) e il soft power ideologico. Eppure non cessa di vedere le cose da una prospettiva eurocentrica, a considerarsi portatore del “fardello dell’uomo bianco”, quasi fosse ancora in possesso dei suoi imperi, ad arrogarsi il diritto di interferire negli affari interni altrui in quanto investito del compito di diffondere (leggi di imporre) ovunque le sue idee, i suoi principi e i suoi valori che continua, non si capisce in nome di cosa, a considerare “universali”. 
Forse in nome di un’investitura divina? Peccato che, come lamenta Ernesto Galli della Loggia (vedi il Corriere della Sera del 30 dicembre), la fede cristiana arretri in tutto il mondo, a partire dalle sue roccaforti settentrionali in cui è nato quel compromesso cristiano-borghese <<instauratosi dopo la Rivoluzione francese che fino a qualche tempo fa era tipico di tutte le classi dirigenti occidentali>>. Qui la nostalgia del laico Galli della Loggia fa eco a quella espressa da Giuliano Ferrara qualche anno fa, allorché, da ateo dichiarato, esaltava la funzione egemonica dell’istituzione ecclesiastica a sostegno del regime liberale. Altri tempi, ora c’è un papato, lamenta ancora Galli della Loggia, che, invece di occuparsi dei “guai di casa sua” (in tutto l’articolo la Chiesa è trattata come una sorta di Stato estero più che come una millenaria istituzione religiosa) si occupa di ecologia, disuguaglianza economica e sociale, miseria, ingiustizia, effetti catastrofici del “libero” dispiegarsi degli istinti associati agli animal spirit del capitale. Roba da ideologie pauperiste e cripto socialiste, sembra dirci Galli della Loggia. 
Invece i veri problemi sarebbero: 1) la mancanza di democrazia interna (per eleggere i papi invece del conclave dovrebbero indire le primarie, come il PD?), per cui il nostro, visto che papa Francesco continua a cooptare suoi uomini nella gerarchia, teme che non si possa formare un’opposizione interna in grado di eleggere un successore più ligio al “compromesso cristiano-borghese”; 2) ça va sans dire il mancato rispetto delle quote rosa: basta con questa Chiesa che nega alle donne l’accesso ai ruoli politici che contano. Insomma, cosa aspettiamo ad esportare in Vaticano democrazia e femminismo, come si vorrebbe fare in Cina, a Cuba, in Venezuela, in Bolivia, ecc. ma che purtroppo non si può fare senza pagare prezzi troppo alti. Almeno il papa, come qualcuno diceva in passato, non ha molte divisioni da schierare…  





domenica 27 dicembre 2020

 



FILOSOFIA PRET A PORTER 

Un pensiero che non vuole più essere inattuale   

<<Polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose>> recitava Eraclito, non a caso fra i filosofi più amati da Marx. Ma mentre Marx inquadrava il detto nella cornice del pensiero dialettico, pensando alla guerra di classe, più che alla guerra in generale, il pensiero ermeneutico ricama su questo frammento presocratico (come su molti altri) per estrarne tutt’altro, dal momento che il conflitto antagonistico è stato espulso dall’orizzonte dei temi “politicamente corretti”. E dal catalogo della correttezza politica è stata espulsa anche la vocazione alla inattualità del pensiero, visto che gli autori inattuali tendono a coltivare visioni utopistiche che oggi vengono automaticamente associate ai campi di sterminio. 

In un bell’articolo pubblicato sul sito di Micromega http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/07/30/filosofia-del-ritiro-ritiro-della-filosofia/?fbclid=IwAR2pbt022V8vXY5SxTtSlzWp-zFjTa-qNXfOxvLxhwZAUoPALcNsHxGwN-o Yuri Di Liberto utilizza, per definire questa svolta antipolitica che accomuna larga parte del pensiero contemporaneo, la categoria di "filosofia del ritiro": <<non si tratta di un progetto filosofico univoco, ma di una linea di tendenza della filosofia occidentale che, sulla base dell’equazione potere=totalitarismo, ha forgiato una panoplia di concetti che mirano alla reinterpretazione dello scenario del conflitto in termini di un’opposizione manichea tra il potere costituito (il male assoluto) e la relazionalità immanente;  o, per usare i termini di Deleuze e Guattari, tra il molare (Stato, paranoia) e il molecolare (il desiderio, lo “schizo”>>.

Concordo sul fatto che non si tratta di un progetto filosofico univoco, visto che attraversa un ampio ventaglio di correnti accademiche (postmodernismo, postrutturalismo, postcoloniale, postumano, ecc.) le quali, nondimeno, condividono l’appartenenza a quella (pseudo)rivoluzione epistemologica che viene generalmente identificata con la cosiddetta svolta linguistica delle scienze sociali, con quel fenomeno culturale, cioè, che ha avuto la sua culla in alcuni dipartimenti delle università francesi e, in una fase successiva, nordamericane (con una fitta trama di rimbalzi e contaminazioni reciproche fra le due sponde dell’Atlantico). 

Svolta, aggiungo, che non è il frutto di una “illuminazione” di alcune menti innovatrici ma, come suggerisce Di Liberto, è il riflesso di una temperie politico ideologica che ha coinvolto la maggioranza degli intellettuali marxisti (soprattutto francesi), sconvolti dalle “rivelazioni” sugli orrori del socialismo reale e prontamente pentitisi, per evitare di essere accomunati all’onta di Jean Paul Sartre, imputato di avere impersonato il ruolo di “utile idiota” al servizio del regime stalinista. Una volta stabilito – come sosteneva Hannah Arendt e come i pentiti in questione ritengono inconfutabile - che il progetto emancipatorio della rivoluzione socialista si trasforma inevitabilmente in totalitarismo, <<l’unica prescrizione che vale, scrive Di Liberto, è quella di ritirarsi dall’ordine dato, rifuggire qualsiasi mira di potere, ripulirsi del fascismo che ciascuno di noi ha dentro di sé, non credere più ad alcuna guida partitica. Si tratta di una tendenza post-marxista che, agitando lo spauracchio di Stalin, ha prodotto vari elogi del ritiro, immanentismi pigri, apologie dell’inoperosità ecc.>>. 

Questo ritiratismo filosofico, aggiunge, si basa su due postulati: qualsiasi presa di potere è foriera di totalitarismo, e l’unica azione rivoluzionaria è la resistenza-ritiro. <<La parola d’ordine è ritirarsi, creare concatenamenti desideranti, combattere il fascismo che è dentro di noi, non-fare, diventare inoperosi. Il ritiratista è costantemente impegnato a indicare il fascismo degli altri e a mondare il proprio (…). Il fascismo storico diventa secondario rispetto al fascismo posturale, quello che hanno un po’ tutti, anche senza saperlo>>. 

Noto, per inciso, che questa concezione paradossale del fascismo come categoria della mente individuale, soggettiva, oltre a inflazionare la definizione, privandola di senso (l'etichetta si estende a macchia d’olio fino a comprendere, oltre alla totalità dell’elettorato di centrodestra, l’intera popolazione maschile, bianca, eterosessuale, politicamente scorretta, a meno che non venga riscattata dall’appartenenza a un qualche tipo di “differenza” militante), è il carburante di un dispositivo colpevolizzante che inibisce qualsiasi volontà di lotta per attribuire potere politico ai soggetti che dal sistema vigente ne sono esclusi.

Il ritiratismo è alla radice della fobia nei confronti dello Stato, del partito e del potere politico in generale, mette sul banco degli imputati tutte le ipotesi verticaliste che imbrigliano le relazioni orizzontali del desiderio (sull’ideologia orizzontalista rinvio al libro di Onofrio Romano La libertà verticale, Meltemi editore). I primi a subire la condanna sono, ovviamente, il marxismo (soprattutto nella variante leninista) e il freudismo (ma anche Lacan finisce sotto accusa nell’Anti Edipo di Deleuze e Guattari). <<Il marxismo e il freudismo, scrive Di Liberto, sono accusati di rinchiudere o di escludere il desiderio: in un caso il desiderio delle masse si svilisce nel partito, in Lenin, nella guida, nel programma; nell’altro esso perde le sue potenzialità creatrici, costruttive, venendo riportato forzatamente nel letto di Procuste del triangolo mamma-papà-figlio/a>>. 

Come si vede, l’attenzione si concentra qui soprattutto su Deleuze e Guattari, ma credo la si potrebbe estendere a molti altri, a partire da Antonio Negri e dagli intellettuali post operaisti che contaminano marxismo e ritiratismo. Nel caso di costoro l’orizzontalismo assume una peculiare coloritura ideologica: l’esaltazione delle singolarità, della moltitudine come reticolo che le interconnette e che può fare a meno del comando capitalistico in quanto capace di auto valorizzarsi, di auto gestire la produttività del lavoro sociale, è la chiave di volta di una visione che annuncia l’avvento del “comunismo del capitale”, di un livello tale di sviluppo del general intellect incorporato nel sistema digitalizzato delle macchine da consentire la transizione diretta e pacifica a un più avanzato modo di produzione. 

La metafora del rizoma serve a immaginarizzare questo sogno di una rivoluzione senza conflitto. Purtroppo, nota ancora Di Liberto, l’assimilazione dei modelli di business di imprese come Google, Uber e Facebook a questo modello funzionalista fa sì che, del connessionismo filosofico, rischi di non rimanere altro <<se non una versione romanzata del neoliberismo delle piattaforme>>. 

Questo accenno a una visione romanzata chiama in causa lo stile della filosofia ritiratista (e che io, per ragioni che spiegherò più avanti, preferisco definire filosofia prêt a porter), uno stile fatto di metafore, immagini suggestive, astrusi neologismi, arditi giochi di parole, calembour, facile, brillante, scorrevole, finalizzato a creare l’illusione della profondità mentre sarfa sulla superficie delle parole. Uno stile che evoca un “convitato di pietra” che occhieggia sullo sfondo dell’articolo in questione, e al quale l’autore accenna solo di sfuggita e, se ben ricordo, in un’unica occasione: mi riferisco, ovviamente, a Michel Foucault, re indiscusso del genere letterario che viene qui posto sotto accusa. 

Ecco perché, la seconda parte di questo intervento è dedicata all’ultimo numero della rivista Micromega, interamente centrato sul pensiero di Foucault. Il numero prende avvio da una lettera aperta del direttore della rivista Paolo Flores D’Arcais al filosofo Roberto Esposito, seguita dalla replica del destinatario. Lo spunto polemico è l’uso (o meglio l’abuso) della categoria di biopolitica nel dibattito che la crisi pandemica ha innescato anche nella comunità filosofica. Flores D’Arcais ed Esposito svolgono il ruolo, rispettivamente, di critico radicale e di apologeta del pensiero foucaultiano, mentre una dozzina di altri autori sono convocati a dire la loro. Nelle pagine che seguono, non mi occuperò tuttavia delle letture “biopolitiche” della crisi pandemica (che del resto anche molti autori usano come pretesto per parlar d’altro) e prenderò spunto, oltre che dal dialogo fra Flores D’Arcais ed Esposito, dagli articoli di Carlo Sini, Carlo Galli e Maurizio Ferraris. Non perché gli altri non contengano elementi interessanti, ma perché questi mi sono sembrati quelli più utili per la nostra discussione.        

Il tono  della requisitoria di Flores D’Arcais è a dir poco duro. Come rileva uno scandalizzato Esposito, la definizione teorica che Foucault e i suoi allievi danno della biopolitica viene liquidata come un’invenzione, un’elucubrazione, una fantasia onirica, un vaniloquio, un’allucinazione, un sabba di astrazioni. Questi giudizi si infittiscono nei passaggi in cui D’Arcais esprime tutta la sua irritazione nei confronti dello stile letterario di Foucault (ma è l’intera opera di questo autore che viene ridotta a puro esercizio di scrittura, per cui la condanna dello stile fa tutt’uno con la condanna dei contenuti scientifici, peraltro giudicati inesistenti).

Ma veniamo alle critiche di merito. Non ho qui lo spazio, né l’estro, di seguire Flores D’Arcais nella fitta serie di argomentazioni che corroborano la sua requisitoria, quindi mi limito a sintetizzarne alcuni passaggi. Mi pare di poter dire che il nocciolo fondamentale consista nell’attacco alla tesi foucaultiana secondo cui, a partire da una certa fase della storia moderna (difficile da stabilire, perché Foucault, scrive Flores D’Arcais, si contraddice più volte in merito alla datazione di tale origine, anche se sembra prevalentemente orientato a collocarla nel Seicento), si sarebbe prodotta una transizione dalla sovranità, intesa come il diritto di dare la morte, alla biopolitica, in quanto potere che nutre la propria forza incrementando la salute e la felicità dei sudditi. 

Flores D’Arcais ironizza su quest’ultima definizione, ricordando come solo nella seconda metà dell’Ottocento il potere politico abbia iniziato a preoccuparsi della salute – se non della felicità – dei sudditi appartenenti alle classi subalterne, decidendosi finalmente a interferire sulla “libertà” della classe imprenditoriale e a fissare qualche limite allo sfruttamento bestiale del lavoro in generale e di quello minorile in particolare. Dopodiché contesta l’idea stessa che si possa fissare un inizio relativamente recente delle pratiche politiche che si occupano della salute e del benessere dei cittadini, e sostiene, citando ad esempio il potere imperiale romano, che il potere che gestisce la vita è sempre esistito. Foucault vede discontinuità laddove non esistono, incalza Flores D’Arcais, mentre appare incapace di riconoscerle laddove sono evidenti: vedi la tesi secondo cui la Rivoluzione Francese non avrebbe marcato una vera discontinuità con la logica dell’Ancien Regime, in quanto il filosofo francese considera entrambe come articolazioni del medesimo regime biopolitico.    

Il punto è che il cosiddetto metodo genealogico – o archeologico che dir si voglia – non è una alternativa alla ricerca storica scientifica, è una sequenza di costruzioni immaginarie, di suggestioni letterarie che di scientifico non hanno nulla, né pretendono di averlo, visto che Foucault liquida il razionalismo illuminista e il moderno metodo scientifico come “dispositivi”, pratiche discorsive che non servono a interpretare la realtà ma bensì a costruire “regimi di verità”. 

Ma è soprattutto sulla concezione foucaultiana del potere che si puntano gli strali di Flores D'Arcais: è infatti qui, sostiene, che si annida la contraddizione che sfugge a tutti quei fan di sinistra di Foucault che si illudono di riconoscere nel suo pensiero un'intenzione rivoluzionaria. Da un lato, Foucault sembra nutrire una vera e propria fobia nei confronti di tutte le forme di gerarchia che limitano la libertà dell’individuo.  A partire dal potere dello Stato, di cui contrabbanda addirittura l’estinzione (Flores D’Arcais cita in proposito il seguente passaggio: <<lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a tutt’una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc.>>). Oppure si scaglia contro il potere medico (esponente di quei “poteri tecnici” che sono gli unici a stimolare la sua attenzione critica) che si impone all’individuo che questi sia o meno malato (Flores D’Arcais annota ironicamente che lo si potrebbe considerare il santo patrono dei No Vax - con allusione piuttosto chiara a certe esternazioni “complottiste” di Agamben sull’uso “biopolitico” della pandemia ). 

Dall’altro lato, questa vis polemica non si traduce – al contrario di quanto sostengono i suoi adepti post sessantottini – in un progetto di “assalto al cielo”.  Al contrario: per Foucault la lotta al potere è parte dell’esercizio del potere. Nei suoi “dispositivi” non si intravede alcuna via di uscita dalla auto riproduzione circolare della logica del potere, per cui, scrive Flores D’Arcais, egli attribuisce alla stessa categoria <<lo sfruttamento capitalistico e le lotte delle “forze che resistono” a detto potere>>. E ancora: <<le lotte in tal modo diventano un ingranaggio dialettico del dominio>>. Detto lapidariamente: Foucault è un venditore di fumo che spaccia un’ideologia conservatrice, se non reazionaria.   

Passando alla replica di Esposito, mi pare si possa affermare che la sua arringa difensiva, almeno in certe parti, va quasi più a beneficio della vasta comunità dei suoi seguaci che del maestro. Il testo è altrettanto lungo e articolato di quello dell’accusatore per cui, anche in questo caso mi limiterò a evidenziarne quelli che ritengo i nodi più interessanti. Il primo è quella che definirei una risentita rivendicazione della onorabilità dell’imputato a fronte dei sanguinosi insulti rivoltigli da Flores D’Arcais. Non si tratta così, scrive il nostro, un “classico” del pensiero moderno che, udite udite, è uno dei due più grandi filosofi del 900 assieme ad Hannah Arendt (con un colpo di bacchetta magica i varti Wittgenstein, Lukacs, Heidegger, Bataille, Husserl e altri si vedono declassati a esponenti del pensiero minore del secolo XX). 

Ma perché Foucault sarebbe un classico? Curiosamente Esposito, prima di sostanziare l’affermazione dimostrando la rilevanza del suo contributo al pensiero universale, si avvale dell’argomento della “chiara fama”: Foucault è un classico perché chiamato a insegnare al Collège de France, nonché tradotto e studiato in tutto il mondo con centinaia di monografie e migliaia di saggi a lui dedicati. È possibile che tutti si sbaglino, si chiede Esposito? Forse, risponde, ma è statisticamente (sic!) improbabile: <<mi pare fuori questione che qualcosa di esso si sia accampato nel cuore della contemporaneità, sia entrato in sintonia con la sensibilità contemporanea>>. È vero che ciò può essere liquidato come un fenomeno di moda, riconosce, ma anche la moda, scrive, è una <<modalità del tempo>>. 

Apro una parentesi di approfondimento su quanto appena citato. L’accostamento Foucault-Arendt è cruciale. Esposito è infatti da tempo impegnato a costruire una “filosofia dell’impolitico” di cui il concetto di immunità rappresenta l’approdo finale. Si tratta di un  percorso che ha l’obiettivo di neutralizzare la concezione schmittiana del politico come tracciamento del confine amico/nemico, visione che Esposito considera distruttiva (la traduzione politica della metafora biologica del sistema immunitario serve a evidenziare gli effetti negativi di un eccesso di aggressività nei confronti dei fattori esterni che minacciano i confini del sistema, siano essi nazionali, sociali, etnici, religiosi o altro). 

Neutralizzare il conflitto antagonistico significa però liquidare l’intera eredità della moderna filosofia politica, da Machiavelli ai giorni nostri. Ed è esattamente quanto Esposito ha tentato di fare nelle sue opere, avvalendosi tanto del concetto foucaultiano di biopolitica quanto del concetto arendtiano di totalitarismo. Non va dimenticato che Arendt esaltò la rivoluzione americana rispetto a quella francese, nella quale Marx e Lenin vedevano una sorta di prologo della rivoluzione socialista, laddove la Arendt le addebitava di essere stata piuttosto il prologo del totalitarismo novecentesco. 

Altro inciso. L’arringa esordisce con una esibizione di  orgoglio istituzionale: il maestro insegnava al Collège de France, e molti dei suoi allievi non sono da meno (Esposito si abbandona a un vezzo narcisistico ricordando di essersi meritato <<la fortuna di insegnare alla Scuola Normale Superiore>>). A parte questa nota di colore, vagamente dissonante rispetto allo spirito anti istituzionale e antigerarchico di Foucault, il quale difficilmente avrebbe evocato la propria auctoritas a sostegno delle sue idee, ciò che balza agli occhi è lo “spirito di corpo” che traspare da questa risentita difesa di una comunità accademica. 

In effetti, in questo botta e risposta fra Flores D’Arcais ed Esposito, la posta in palio va al di là delle intenzioni dei due protagonisti: si tratta qui di una questione di egemonia culturale. La “filosofia del ritiro” – di cui il paradigma biopolitico è parte integrante – ha infatti ereditato le postazioni egemoniche che, almeno fino alla fine degli anni Settanta, erano appannaggio degli accademici marxisti e post marxisti che operavano nei dipartimenti delle scienze umane. 

Con una differenza cruciale: quella egemonia era un prolungamento in ambito universitario dell’egemonia che la “vecchia” sinistra esercitava sulle classi subalterne e su consistenti settori della società e delle istituzioni politiche. Viceversa  questa egemonia è sostanzialmente rinserrata nelle mura di alcuni ambiti universitari (dove, dar retta a quanto dicono alcuni giovani ricercatori che non appartengono al clan, viene difesa con un accanimento in cui gli interessi corporativi si sommano all’odio settario nei confronti di chi non appartiene alla grande famiglia postmodernista) e riesce a proiettarsi all’esterno solo su quegli strati di classe media “riflessiva” che si identificano con ciò che resta di una nuova sinistra sempre più emarginata dalla sinistra liberista. 

Questa inversione del rapporto fra accademia e società rispecchia la torsione che le filosofie del ritiro hanno impresso al concetto gramsciano di egemonia. Una torsione che traspare chiaramente laddove Esposito replica alle accuse di Flores D’Arcais in merito al carattere contraddittorio del discorso foucaultiano (vedi sopra) e al suo ridursi a esercizio di stile letterario. 

Da un lato, Esposito non nega le contraddizioni che punteggiano il percorso teorico di Foucault, che peraltro considera un tratto comune a ogni grande pensatore, e che ritiene vitali in quanto contornano delle “brecce” del sistema teorico dalle quali possono fuoruscire fecondi percorsi di arricchimento del paradigma. Dall’altro lato, rivendica l’efficacia (la performatività) della ricchezza e della creatività letteraria di un discorso che procede per metafore, sottigliezze, esercizi di stile. Questo perché, argomenta, siamo di fronte a una teoria che non va valutata come un banale contenitore di significati, bensì in quanto pratica produttiva di determinati eventi. 

In breve: il concetto di egemonia è qui strettamente associato a quello di performatività, l’egemonia non si fonda, gramscianamente, sulla capacità di “dare voce” alla lotta di soggetti di classe sprovvisti di strumenti culturali, né si propone di tradurre in discorso una materia sociale fatta di “verità”, di meri dati di fatto, ma si riduce a chiacchiera capace di produrre “effetti di verità”. La lotta di classe lascia il posto al duello fra retori, al gioco fra avversari che si riconoscono reciprocamente, disinnescando le spiacevoli conseguenze dell’inimicizia politica.  

Vengo a Carlo Sini, il quale esordisce rilanciando l’interrogativo se la biopolitica possa essere considerata come un fenomeno di moda. Nel rispondere prende le distanze sia da Flores D’Arcais che da Esposito. Al primo obietta che, definendolo tale, si finisce per avvalorarne l’interesse, dando così ragione a Esposito, il quale rovescia l’accusa in prova del fatto che il paradigma in questione si è insediato nel cuore della contemporaneità ed è entrato in sintonia con la sua sensibilità. Al secondo replica che <<non c’è affatto da pensare che in una moda oggi straordinariamente diffusa debba necessariamente esserci qualcosa di buono>>. Con ciò, precisa, non intende dire che la biopolitica si riduca a un fenomeno di moda culturale, tuttavia aggiunge che non è possibile ignorare la marea di sciocchezze che vengono fatte circolare con la copertura del “marchio”,  per cui, continuerei io sostituendomi a di Sini (e forzandogli la mano) si potrebbe dire che, mentre i discorsi di Foucault e dei suoi migliori epigoni appartengono a una haute couture della cultura filosofica, quelli della legione di epigoni minori – per tacere delle estemporanee traduzioni dei militanti della nuova sinistra – scadono al livello di un mediocre prêt-à-porter.

Riguardo alla polemica Sini si schiera con Esposito su due punti: 1) condivide l’idea che il discorso filosofico non è un contenitore neutro di messaggi bensì una pratica produttiva di determinati eventi; 2) riconosce a Foucault ha il merito di avere scosso la sovranità del soggetto, dimostrando che <<l’uomo non può darsi nella trasparenza sovrana e immediata di un cogito>> (personalmente, non vedo come gli si possa attribuire il primato esclusivo di tale “scoperta”, visto che i “maestri del sospetto” – Marx, Nietzsche e Freud – lo hanno di gran lunga anticipato). 

Dopodiché rovescia contro Foucault – con una  specie di mossa di judo – gli effetti nichilistici del suo concetto di verità: <<Se il procedimento archeologico non può giustificare la sua “verità” allora ciò di cui parla ripete nell’oggetto ancora se stesso. Questo Foucault lo sa ma si rifiuta di applicarlo davvero anche a se stesso>>. Infine problematizza i concetti  foucaultiani di corpo, vita, nuda vita, dei <<corpi viventi assoggettati al potere>>. Ma questa è una discussione che ci porterebbe lontano dai temi che mi propongo qui affrontare, per cui passo oltre. 

L’articolo di Carlo Galli è forse quello che affronta più di petto le implicazioni politiche del discorso foucaultiano: ammesso che la realtà non è un oggetto pienamente descrivibile da un soggetto, né l’esito pratico di un fare razionale, bensì il prodotto di poteri in lotta, e ammesso che ciò che conta sono gli esiti di verità e potere dei diversi dispositivi storici, la loro interna conflittualità, e appurato infine che la “genealogia” non mette a nudo l’origine del potere, ma il fatto che esso ha sempre direzioni ed effetti, che include ed esclude, quale lezione politica trae Foucault da tutto ciò?

Foucault, argomenta Galli, <<è un pensatore francese in rivolta contro lo Stato sovrano, contro il soggetto sovrano, contro la nazione sovrana, contro la ragione sovrana>>; <<Una ribellione che si manifesta anche attraverso una volontà di épater con paradossi, esagerazioni, improvvisazioni, sofisticherie, provocazioni. Se a ciò si aggiungono una certa arroganza intellettuale, sostenuta da una intelligenza brillantissima, le numerose frettolosità d’interpretazione di fatti e pensieri (…) e soprattutto la trasformazione – che in molti foucaultiani si è acuita – del suo pensiero in una dogmatica scolastica, in una clavis universalis  onniesplicativa, in un gergo oggetto di compiaciuto “consumo vistoso” (a proposito del degrado della haute couture in prêt-à-porter  N.d.A.) allora l’insofferenza di alcuni (…) è ben spiegabile…>>

Al netto dell’insofferenza innescata dalle caratteristiche appena elencate, dove va a parare la “rivolta” foucaultiana? Da nessuna parte, risponde Galli, perché nel Foucault politico <<c’è una fissità dello sguardo che sembra fargli pensare che il controllo della vita sia l’unica preoccupazione del potere,  e che gli fa collocare sullo sfondo altre logiche  di potere (economiche, concettuali e categoriali, politico strategiche: l’autonomia del politico) e altri poteri, quelli sociali, che non sono sempre in sintonia con il potere biopolitico>>. Così nel suo pensiero <<le lotte di classe, i poteri costituenti, le rivoluzioni, le catastrofi degli ordinamenti sembrano ridursi a diagrammi monodimensionali, all’automovimento di funzioni epistemico- potestative di cui i soggetti reali (Stati, classi, popoli, individui) sono solo l’espressione>>

Come spiegare allora la fortuna della vulgata foucaultiana fra i militanti dei movimenti sociali post sessantottini? Semplicemente con il fatto che la narrazione foucaultiana ventila una possibilità di resistenza individuale al potere (vedi slogan come il personale è politico), consentendo a chi imbocca questa via di evitare la durezza della lotta collettiva per conquistare il potere, e non solo per limitarlo. Ed è da qui che nasce il rischio, (in  realtà è ben più di un rischio!) che la filosofia critica di Foucault possa rovesciarsi <<in un’illusione di critica, in a-criticità, in un assecondamento involontario di un trend, quello del neoliberismo individualistico, che nega la rilevanza dell’agire strategico strutturale>>. 

Concludo con una lunga citazione dal contributo di Maurizio Ferraris che mi pare sintetizzi perfettamente il senso di questo excursus sulla filosofia del ritiro, o sulla filosofia prêt-à-porter. Scrive Ferraris: <<La dialettica signoria/servitù, in quanto figura costituiva dei movimenti rivoluzionari (…) si basava sul presupposto che lo schiavo avrebbe avuto la meglio. Oggi succede esattamente il contrario. Si postula che le forme della signoria (…) vincano sempre, più o meno come il banco nei casinò, e che l’unico compito della riflessione di sinistra consista nel versare qualche lacrima sugli sconfitti, o addirittura non piangere affatto, atteggiandosi a esprits forts (…). Dalla figura della signoria e della servitù siamo passati a un’altra, la coscienza infelice. La biopolitica di Foucault è un esempio insigne di questo atteggiamento, e non è forse un caso che abbia tutt’ora un numero così’ ampio di seguaci (…). Va detto a onore di Foucault che lui, personalmente non è mai stato di sinistra, che politicamente era giscardiano, e che questo lo si vede molto chiaramente nell’ammirazione che riserva alla tecnocrazia>>.

mercoledì 23 dicembre 2020

Due comunicazione di servizio per chi mi segue su questa pagina: 1) ho ricevuto un commento firmato Unknown e, pur condividendone i contenuti non l'ho pubblicato. Questo perché ritengo sia giusto che chiunque interviene in un dibattito pubblico è giusto che ci metta la faccia...Quindi chi pensa di intervenire sui miei post dovrà firmarsi; 2) i commenti sono moderati quindi mi riservo di pubblicare solo quelli che ritengo appropriati: scemenze, insulti, off topics saranno inesorabilmente cassati.


martedì 22 dicembre 2020


 LE SUPERDONNE CHE PIACCIONO AL CAPITALISMO
La svolta reazionaria del femminismo mainstream 

Che la svolta "post socialista" delle correnti maggioritarie del femminismo - quelle, per intenderci, che dedicano il proprio impegno esclusivamente al conseguimento della parità di genere in tutti i campi dell'attività economica, sociale e politica e al riconoscimento identitario, avendo abbandonato ogni pretesa di superamento del capitalismo - abbia trasformato un movimento originariamente anti sistemico in un'ideologia reazionaria, in quanto funzionale alla conservazione dello stato di cose esistente, dovrebbe essere ormai scontato per chiunque insista a considerare attuale lo slogan "socialismo o barbarie". Ma, a quanto pare, non è così. Ricevo infatti da Cristiana Fischer una mail in cui riversa il testo di un suo commento alla pagina di un'amica che aveva rilanciato il mio precedente post su questo blog. Non riporto tutto il testo ma solo alcuni passaggi della seconda parte (le frasi evidenziate in corsivo sono sottolineature mie).
Fischer dice che io non ho colto cosa significhi <<sempre di più e più ampiamente>> il femminismo, come dimostrerebbe il fatto che mi interrogo sul perché l'ascesa al potere di figure femminili come Clinton Merkel, Von der Leyen, Kamala Harris dovrebbe rappresentare di per sé un passo verso un mondo migliore. Ecco come la Fischer cerca di farmi vedere la luce: <<Qui la prospettiva politica gli rende impossibile vedere che quelle donne potenti mostrano a tutte noi una cosa semplicissima: che ogni donna può cercare di ottenere quello che vuole, può dirigere la propria vita e migliorare quella di altri. (...)
Il potere che le donne vogliono ottenere, sostenendosi tra loro, imparando a conoscersi in relazione tra loro e confrontandosi tra loro, è la padronanza sulle proprie vite. Quelle "donne potenti" lo hanno fatto, quindi manifestano che è possibile. Poi verranno valutate - soprattutto dalle altre donne! - per quello che hanno fatto, e come. Il femminismo vuole dare forza a tutte: anche alle schiave sessuali sulla Domiziana, alle badanti che abbandonano i loro figli e genitori vecchi per badare a nostri, in sostanza a tutte le donne che temono di credere in loro stesse e nell'aiuto delle loro simili >>.
Tutto questo discorso, ma in particolare i passaggi evidenziati, sono il motivo per cui, sul mio profilo Facebook, le ho replicato dicendo che le sue parole sono la migliore conferma di quanto affermo in apertura, cioè del fatto che un certo femminismo - ahimé maggioritario - è oggi uno dei più formidabili pilastri della conservazione del mondo esistente. Le ho anche promesso che avrei argomentato in modo meno apodittico il mio secco giudizio su questa pagina. Lo farò sia riprendendo le argomentazioni critiche di intellettuali femministe che non fanno parte della corrente mainstream del femminismo (quella che nei miei libri definisco femminismo di regime) sia evidenziando come le frasi incriminate confermino l'adesione di fatto della Fischer a questa corrente. 
Parte delle femministe latino americane avevano preso le distanze dal mito della sorellanza universale ("il femminismo vuole dare forza a tutte"?) già alla fine degli anni Ottanta, in un documento discusso al IV incontro delle donne latino americane (ne parla l'argentina Iris D'Atri in un libro che cito ne La variante populista), in cui si contestavano assunti quali tutte le femministe sono uguali, esiste un'unità "naturale" per il solo fatto di essere donne, ecc. Qualche anno dopo la boliviana Marta Cabeza Fernandez denuncerà la vergognosa opposizione delle parlamentari femministe (bianche della classe media) del suo Paese nei confronti delle richieste delle lavoratrici domestiche (indie di estrazione contadina) che lottavano per un salario minimo garantito ("perché dovremmo pagarle, le trattiamo come fossero nostre figlie, hanno vitto e alloggio e imparano lo spagnolo..."). Immagino siano le stesse femministe che l'anno scorso, dopo il golpe fascista che ha rovesciato il governo socialista di  Evo Morales, hanno detto che lo scontro fra generali e militanti socialisti era un gioco di potere fra maschi che non le riguardava (forse le migliaia di donne indie che sono scese in piazza finendo uccise o stuprate non erano dello stesso avviso). Anche la "donna potente" che è stata messa a capo dello Stato dal golpe (e per fortuna cacciata dalle ultime elezioni che hanno restituito il potere al MAS di Morales) è un esempio del fatto che "si può fare"?
Se fossi coerente dovresti rispondere affermativamente: conta solo che siano donne, dopodiché, dici, verranno valutate per quello che hanno fatto e come, <<ma soprattutto dalle altre donne!>>. Questa è una chicca: il fatto che la Clinton, la più guerrafondaia esponente dell'establishment Usa, abbia giustificato le guerre "per esportare la democrazia" e liberare le donne dall'oppressione islamica, guerre che hanno fatto centinaia di migliaia di vittime (donne, uomini, vecchi e bambini) va giudicato soprattutto dalle donne? Le altre vittime contano meno? Non hanno facoltà e diritto di giudizio sull'operato della "donna potente"? Qui aleggia puzza di eurocentrismo, sessismo alla rovescia e razzismo. Così Jessa Crispin (che ho citato nel precedente post) denuncia il paternalismo (pardon: maternalismo) occidentale nei confronti delle povere donne islamiche da "liberare" (lo vogliano o no) a suon di bombe. Ma anche Judith Butler, polemizzando con il modo in cui alcune femministe tedesche hanno reagito alla famosa "notte di Colonia" (quella in cui migliaia di immigrati islamici hanno importunato le donne che festeggiavano il capodanno), ha sottolineato le connotazioni razziste di certi loro discorsi, guadagnandosi insulti feroci. Già perché, in barba alla "sorellanza", non c'è peggior furia di quella che le critiche delle femministe "eretiche" scatenano nelle vestali del femminismo mainstream (ricordate il linciaggio di cui venne fatta oggetto Luisa Muraro dalla santa alleanza Lgbt, per avere espresso il proprio disgusto nei confronti di Vendola e consorte che erano ricorsi alla pratica dell'utero in affitto?).
Ma veniamo agli aspetti più aberranti: le donne potenti dimostrerebbero "una cosa semplicissima", e cioè <<che ogni donna può cercare di ottenere quello che vuole, può dirigere la propria vita e migliorare quella di altri>>.  Evidentemente Fischer ha rimosso ogni residuo di marxismo - che pure rivendica spesso di avere frequentato - altrimenti non si sognerebbe di affermare che chiunque (donna o uomo) può ottenere quello che vuole solo perché lo desidera. I differenziali di reddito, status, cultura, razza non contano? Non sarà che quelle donne potenti sono divenute tali perché hanno potuto usufruire di robusti vantaggi competitivi? Anche l'immigrata che fa la badante potrà un domani seguire il loro esempio? Basta solo che impari a "credere in sé stessa" e "nutra fiducia nelle proprie simili"? resto letteralmente senza parole. A parte la bubbola del poter contare sulla sorellanza (abbiamo visto quanto valga), questa scemenza equivale ad affermare che viviamo in un mondo che offre a tutti, senza distinzione, la possibilità di diventare quello che vogliano. Ma ci sei o ci fai viene d chiedere.
Mi pare già di sentire la replica.  I maschi possono (?!) le donne non ancora, perché sono oppresse, escluse, discriminate quindi per loro servono esempi che dimostrino che anche loro possono farcela (!?). Ma accantoniamo queste affermazioni deliranti e veniamo al punto. Quello che cercavo di dire nel precedente post era che la svolta post socialista delle correnti femministe euroamericane (con le debite esclusioni) ha determinato una mutazione genetica del movimento tale da renderlo del tutto funzionale alla conservazione/riproduzione del sistema. E' anche la tesi di Nancy Fraser, laddove afferma che il femminismo della seconda ondata, dopo aver reciso i legami con le radici marxiste, si è "culturalizzato", rinunciando alla critica sociale, invertendo le gerarchie fra lotte sociali e lotte per i diritti individuali e fra politica della ridistribuzione e politica del riconoscimento, per cui si è progressivamente allineato con gli obiettivi, i valori e le idee del "neoliberalismo progressista", ponendosi in una relazione antagonista con la cultura, gli interessi e i bisogni della classi subalterne (classi che, come emerge dalla neolingua politicamente corretta che ha adottato, disprezza profondamente). Ed è, anche, la tesi di un'altra storica intellettuale femminista come Silvia Federici, che scrive: <<il femminismo ha sempre più operato in un'ottica per cui il sistema non è stato messo in discussione e la discriminazione sessuale poteva apparire come il malfunzionamento di istituzioni altrimenti perfettibili".
Resta un'ultima questione che non riguarda gli sragionamenti di Cristiana Fischer. Autrici come Fraser e Federici (ma anche molte altre), pur criticando duramente il femminismo della seconda ondata, restano convinte del fatto che il capitalismo non possa sbarazzarsi del patriarcato senza crollare. Ebbene io credo che questo sia sbagliato. L'evoluzione degli ultimi decenni è lì a dimostrare che, non solo il capitalismo può fare a meno del patriarcato (come dell'eterosessismo, dell'omofobia e di ogni altra forma di discriminazione sessuale e di genere), ma ha sempre più individuato (Boltanski e Chiapello lo descrivono molto bene ne Il nuovo spirito del capitalismo) nella proliferazione e valorizzazione delle differenze il carburante ideale per il rafforzamento e l'espansione dei settori più avanzati dell'accumulazione. Questo vuol dire che non esistono corposi residui di esclusione e discriminazione di genere? Ovviamente no, ma la tendenza è visibilmente al loro superamento: basta leggere i giornali, ascoltare radio e tv, leggere libri, fumetti e tutti i prodotti dell'industria culturale, basta ascoltare i discorsi di tutti i politici di destra, centro e sinistra, in cui la retorica femminista è divenuta talmente pervasiva da generare il disgusto, per capire che esistono potenti forze che spingono in quella direzione, forze che non hanno nulla a che fare con il "progresso civile" ma che riguardano piuttosto l'esigenza del capitale di "mettere al lavoro" una forza lavoro femminile che è rimasta troppo a lungo ai margini del sistema produttivo di profitti). Di tutto questo si può e si deve discutere, viceversa confesso che dialogare con chi, all'interno della cultura femminista, condivide posizioni "a la Fischer" non mi interessa, così come non mi interessa dialogare con gli esponenti della cultura liberale. Cara Cristiana, niente di personale, la tenacia con cui difendi le tue convinzioni mi fa simpatia - finché la pioggia di commenti di cui mi inondi non sfiora lo stalking😀 - ma non credo sia utile proseguire questo nostro dialogo fra sordi. 

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