QUANDO IL LAVORO E' "MORALMENTE CATTIVO"
L'alienazione secondo Rahel Jaeggi
Rahel Jaeggi è una filosofa di origine svizzera che insegna a Berlino. Esponente della quarta generazione della Scuola di Francoforte (allieva di Axel Honneth) è conosciuta anche come teorica femminista - non assimilabile alle correnti del femminismo “emancipazionista”, come si evince da un recente libro che contiene una sua lunga conversazione con Nancy Fraser (Capitalismo, Meltemi Editore). Nel saggio breve “Patologie del lavoro” (testo che ho già segnalato sul mio profilo Facebook https://www.sinistrainrete.info/teoria/12285-rahel-jaeggi-patologie-del-lavoro.html?fbclid=IwAR2W9D9GD-8o6E0Xj0HoObMqnhizkgpnMOpXl7ZYsgsM7CfKHXNeizVNmKI ), uscito su Women’s Studies Quarterly e, in versione italiana, su Consecutio Rerum, la tematica femminista è tuttavia evocata solo marginalmente mentre, come certifica il titolo, il focus è su quelli che l’autrice definisce <<gli sviluppi sociali aberranti del lavoro>>.
Credo che sia utile chiarire preliminarmente che qui il concetto di lavoro non coincide con quello utilizzato da Marx nei suoi scritti fondamentali. La Jaeggi prende piuttosto le mosse da una frase di Hegel, in cui si afferma <<possiamo dire che il lavoro equivale a condividere, partecipare o prender parte alle risorse generali della società>>, dopodiché specifica ulteriormente che, per risorse, intende ciò che una determinata società ha raggiunto in termini sia di ricchezza che di competenze. Il lavoro, aggiunge, consente a ognuno di condividere le risorse della società <<anche perché consente di condividere il sapere nel suo evolversi e il know how di una società>>.
Dicevo prima che siamo se non lontani, decentrati rispetto al concetto marxiano di lavoro. Infatti dalle frasi appena evidenziate, è evidente che qui il lavoro viene concepito a partire dall’alto dell'astrazione, piuttosto che dal basso della materialità del processo produttivo. Si potrebbe dire che si parte dal general intellect, piuttosto che approdarvi come all’esito dell’evoluzione di uno specifico modo di produzione. Del resto la Jaeggi chiarisce che oggetto della sua indagine non è il lavoro retribuito, e non solo perché le preme ribadire la piena appartenenza all’ambito lavorativo sociale del lavoro femminile non retribuito, ma anche perché la sua è una prospettiva filosofico-antropologica che si basa su concetti che si propongono di trascendere i rapporti di produzione specificamente capitalistici.
Da un lato, tutto ciò è in linea con il pensiero del suo mentore Axel Honneth, nella misura in cui costui si propone di integrare il tema marxiano dello sfruttamento con il tema del riconoscimento, introdotto dalle culture post marxiste (femminismo, post colonialismo, ecc.), dall’altro lato, comporta uno slittamento da un punto di vista “oggettivo” a un punto di vista “soggettivo” nell’analisi delle patologie del lavoro. Non è importante solo un lavoro senza sfruttamento, ma anche un lavoro senza alienazione, scrive Jaeggi, dal che si intuisce che intende suggerire una visione più ampia del concetto di alienazione.
A questo punto è bene precisare che intendo sospendere qualsiasi considerazione critica nei confronti di questo approccio, limitandomi a considerare che, a mio parere, mettere fra parentesi la dimensione “oggettiva” dell’alienazione come sfruttamento capitalistico (separazione del produttore dai mezzi di produzione, perdita di controllo sulla propria attività, ecc.) impedisce di cogliere, fra le altre cose, alcuni radicali mutamenti del modo di produzione indotti dalla rivoluzione digitale - mutamenti relativi al rapporto fra plusvalore relativo e assoluto, lavoro produttivo e improduttivo, “lavoro del consumatore”, rapporto fra tempo di lavoro e tempo di vita ecc. di cui mi sono occupato in lavori di qualche anno fa, come Felici e sfruttati (Egea Editore). Ciò detto ritengo che il contributo di Jaeggi sia importante nella misura in cui ha il merito di evidenziare la “multidimensionalità” dell’alienazione, mettendola in relazione a fenomeni quali la precarizzazione del rapporto di lavoro, il venire meno delle aspettative legate alla “emancipazione” dal lavoro dipendente (tipiche delle ideologie degli anni Settanta), la disumanizzazione del lavoro in alcuni settori produttivi (in particolare nei servizi) e la disoccupazione.
Sulla condizione patologica del disoccupato non è necessario spendere troppe parole: la sua condizione è infatti quella dello “scarto” sociale, del superfluo, dal momento che - e qui Jaeggi torna a rivolgersi a Hegel – il valore e la dignità stessa dell’individuo sono mediati dal lavoro che, oltre a definirne la posizione e il ruolo sociali – l’identità - ne garantisce il riconoscimento in quanto persona. Questo presupposto è negato da chi – come i teorici post operaisti – a partire dagli anni Settanta e da un’ideologia “post lavorista”, rifiuta totalmente questa identificazione fra attività lavorativa ruolo sociale. Jaeggi non entra direttamente in polemica con questa visione – che nemmeno cita – ma la smonta di fatto, ragionando sulla parabola del lavoro autonomo che, a partire dagli anni Settanta, è stato assunto da alcuni strati professionali – i cosiddetti “creativi” (anche se Jaeggi non usa questa definizione) – come sinonimo di “autocoltivazione” (“autovalorizzazione” nel linguaggio negriano), di una visione bohémien dell’attività lavorativa come libertà e creatività.
La torsione in senso liberale (e individualista!) che il capitalismo ha impresso a questa ideologia - vedasi le analisi di Boltanski e Chiapello ne Il nuovo spirito del capitalismo (Mimesis) e di Dardot e Laval ne La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi) – ma soprattutto l’uso che è riuscito a farne per ristrutturare i processi lavorativi ad elevato contenuto professionale, <<non hanno portato all’abolizione dell’alienazione bensì a un suo sviluppo paradossale>>. Una forma di alienazione che si manifesta attraverso la insostenibile pressione ad autopromuoversi, a competere (perversione della ricerca di riconoscimento); il timore di fallire, associato alla celebrazione dell’auto imprenditorialità e delle connesse ideologie che esaltano il rischio e la responsabilità individuali; nonché la perdita di qualsiasi capacità collettiva di agire.
Credo che una parte ancora più interessante dell’analisi sia quella che si concentra sui lavori più ripetitivi, dequalificati e privi di attrattiva. Caratteristiche che Jaeggi associa in particolare ai lavoratori del settore dei servizi, precari, sottopagati, super sfruttati - che non sono esclusivamente né prevalentemente donne, come sembra ritenere, riferendosi per esempio alle imprese di pulizia; basti infatti pensare alla gig economy – Uber, i runner dei vari servizi di consegna a domicilio – o alla logistica – Amazon, Ikea – dove la percentuale di forza lavoro maschile è elevata. In ogni caso la sua analisi parte dal seguente assunto: gli individui hanno ricche e intense aspettative riguardo alle loro condizioni di lavoro che possono essere (e quasi sempre sono, aggiungerei io) deluse.
Queste aspettative, che avevano trovato espressione nel ciclo di lotte sindacali degli anni Settanta e nelle sue rivendicazioni, appaiono oggi frustrate dalle nuove condizioni lavorative che vigono nei settori appena evocati. E tuttavia, e trovo che questa sia la considerazione più originale e stimolante, i lavoratori conservano un disperato desiderio di identificazione con il proprio lavoro anche nelle condizioni più difficili. È evidente come questa tesi rovesci le analisi in cui si sostiene che la combattività dell’operaio comune, condannato a un lavoro ripetitivo, massacrante e privo di ogni attrattiva, nasceva principalmente dal suo totale rifiuto di identificarsi con la propria attività (che nella narrazione ideologica si trasformava in rifiuto del lavoro tout court). Viceversa Jaeggi ci dice che spegnere il desiderio di identificarsi con il proprio lavoro è impossibile, e che la sofferenza – l’alienazione – cresce proprio perché diventa più difficile tale identificazione. Quindi la rabbia e la frustrazione nei confronti di un lavoro percepito come moralmente cattivo, non si traduce in rifiuto del lavoro in generale, bensì in richiesta di un lavoro buono.
A conclusione di questa breve recensione – che non fa giustizia alla complessità del testo della Jaeggi, di cui mi sono qui limitato a evidenziare alcuni aspetti – vorrei sollevare un interrogativo che riguarda le prospettive di una società socialista rispetto al tema dell’alienazione. Una volta concesso che l’alienazione è una condizione che non può essere ricondotta esclusivamente allo sfruttamento economico (ciò di cui, sia detto per inciso, era perfettamente consapevole anche Marx), e che essa presenta numerosi volti e sfaccettature che chiamano in causa anche i temi del riconoscimento, e che – aggiungerei – va analizzata tanto sul piano oggettivo (collettivo) quanto sul piano soggettivo (individuale), è lecito attendersi che una futura società socialista possa liberarcene definitivamente? Personalmente condivido l’opinione espressa da Samir Amin che, nei suoi ultimi scritti, invitava ad abbassare le pretese , sostenendo che il socialismo riuscirà forse a emancipare l’umanità dallo sfruttamento, ma assai difficilmente la libererà da altre facce dell’alienazione connaturate alle nostre caratteristiche di specie (a partire dalla dipendenza dalle protesi tecnologiche). Detto altrimenti: è vero che l'identità umana è modificabile in quanto culturalmente determinata, ma non è infinitamente modificabile né è del tutto culturalmente determinata.
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