QUEL MARXISMO RIDOTTO A "TERRAPIATTISMO"
Hosea Jaffe e Gunder Frank, benché esponenti di rilievo del marxismo (sebbene defilati ed “eretici”), hanno avuto il coraggio di puntare il dito contro l’incapacità della maggior parte dei loro compagni di strada (a partire dagli stessi Marx ed Engels) di emanciparsi da una visione eurocentrica. Basti pensare, in proposito, al disprezzo nei confronti delle culture precapitalistiche (liquidate come arretrate e barbare e destinate ad essere “civilizzate” dal capitalismo) che trasuda da certe pagine del Manifesto, o ai giudizi espressi in molti degli scritti raccolti nell’antologia Cina, India, Russia (con l’eccezione di alcuni testi dell’ultimo Marx, nei quali veniva valorizzato e riconosciuto il potenziale rivoluzionario delle comunità di base dei contadini russi).
Di questo e altri limiti della tradizione marxista occidentale (vedi in proposito gli scritti di Domenico Losurdo) mi sono occupato, assieme all’amico Onofrio Romano, in un recente volumetto pubblicato da DeriveApprodi (Tagliare i rami secchi, 2019). La lettura di un libro di Paolo Perulli (Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo) mi stimola a riprendere il filo di quei ragionamenti. Chiarisco subito che questa non è una recensione, nel senso che il libro in questione – alquanto ambizioso – tocca un ampio ventaglio di problemi che richiederebbero considerazioni più estese di quelle che intendo svolgere in questo scritto, nel quale mi limiterò a esaminare gli aspetti che più hanno sollecitato la mia attenzione critica.
Parto da una citazione di Marx che ci fa subito afferrare il punto di vista da cui parla l’autore: <<l’universalità verso la quale {il capitale} tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livello di sviluppo faranno riconoscere nel capitale stesso l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza>>. Il passaggio è densissimo. In sostanza vi si dice: 1) che il capitale tende all’universale e che tale tendenza è irresistibile; 2) che il solo ostacolo alla realizzazione della tendenza (cui più avanti viene associata <<l’enorme influenza civilizzatrice del capitale>>) è immanente al capitale stesso.
Qui c’è tutto il repertorio di quelli che altrove (vedi sopra) ho definito i rami secchi da tagliare per salvare il nocciolo rivoluzionario del marxismo da certi orpelli filosofici (con riferimento alle influenze storiciste, evoluzioniste, illuministe e positiviste che condizionavano il pensiero dei fondatori). In particolare mi riferisco: all’idea che esista una necessità storica immanente alla formazione sociale capitalistica che la destina a superare tutte le formazioni sociali precedenti e a unificare il mondo sotto le proprie leggi, e all’idea che questa unificazione è il presupposto necessario di un formidabile balzo in avanti sulla via della civilizzazione umana –balzo che avverrà allorché le contraddizioni interne al capitalismo ne determineranno (l’inevitabile) crollo.
Perulli si attiene rigorosamente a questo schema. Per lui l’economia del debito (frutto della convergenza fra i processi di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia, accelerati da e intrecciati con gli effetti della rivoluzione digitale), con particolare riferimento al debito sovrano, è, come recita il sottotitolo, la <<fase estrema>> del capitalismo. Estrema perché <<il capitalismo finanziario si riproduce mediante l’indebitamento veicolato in prodotti finanziari che deve continuare a produrre illimitatamente , e che a loro volta riproducono debito in una spirale infinita>>, per cui è inevitabile che questa <<cattiva infinità>> esiti nel crollo del sistema. Premesso che la sua analisi dei meccanismi dell’economia del debito, ancorché corretta, non introduce sostanziali novità rispetto ai molti lavori teorici che sono già stati dedicati al fenomeno (mentre mi è parsa deficitaria nella descrizione delle sue radici storiche, ove confrontata con quelle di autori come Arrighi, Samir Amin, Harvey e altri), resta il fatto che non si vede perché tali meccanismi dovrebbero automaticamente portare al crollo (qualcuno, a proposito degli reiterati annunci della fine imminente del capitalismo a causa delle sue contraddizioni interne, ha coniato la battuta <<il capitale ha i secoli contati>>).
Le ragioni di questa opzione “determinista” si comprendono a mano a mano che, nel corso della lettura, ci rendiamo conto che Perulli è convinto che non esista più nessuna forza esterna in grado di frenare la deriva del sistema. Questa forza non può essere la politica, dacché <<sovrano è proclamato il consumatore (e non il politico)>> (basta che sia proclamato tale perché lo sia effettivamente? Magia della svolta linguistica…). Non possono essere gli Stati che sarebbero ormai controllati, in quanto debitori del capitale privato, dalle agenzie di rating (controllano anche gli Stati Uniti, che le agenzie di rating le hanno inventate per consolidare il loro dominio sugli altri stati nazione?). Non può essere la lotta di classe, perché le classi sociali non si affacciano mai nell’analisi di Perulli, il quale ritiene che il capitalismo si fondi oggi principalmente <<su tipi umani e stili di vita>> e che le nostre società siano abitate <<da due popoli, un popolo del mercato, i creditori dello Stato, e un popolo dello stato, i cittadini contribuenti>>. Non può essere la ragione critica (incapace di preservare le élite dominanti dai rischi mortali connessi all’economia del debito), perché l’etica capitalista – tanto quella individuale quanto quella collettiva, di classe – nella misura in cui lo Stato non è più in grado di imporne gli interessi collettivi, sarebbe ormai fondata esclusivamente sulla credenza, cioè su quella religione secolare che alimenta la fiducia nel fatto che anche le scelte più rischiose saranno, in un modo o in un altro, premiate dal mercato. Per dirla in parole povere: viviamo in un sistema globale privo di alternative <<che non siano sacche di resistenza e società arretrate in attesa di essere trasformate in senso capitalistico>>.
Come è agevolmente intuibile, secondo questa visione “terrapiattista” del marxismo, che ci presenta un mondo “levigato” dalla fresa di un capitale che <<è unico, è solo, è universale>>, non esiste spazio alcuno per alternative di sorta. È pur vero che, dopo il fallimento del socialismo sovietico, un’alternativa si è presentata con il socialismo di mercato cinese. Ma Perulli non può ammettere che esista un ircocervo come un capitalismo senza capitalisti. L’enigma cinese, come lo chiama – come quegli economisti liberali che si dannano per capire come un sistema che ha introdotto potenti meccanismi di mercato continui a essere governato da uno Stato/partito di tipo socialista – è un inciampo che lo disturba profondamente, e che il nostro tende quindi a rimuovere, classificandolo come un’anomalia che spiega perlopiù con l’influenza, non tanto del marxismo-leninismo sbandierato dal regime, quanto delle tradizioni religiose del confucianesimo, del taoismo e del buddismo. La sua analisi dell’influenza del fattore religioso – che è effettivamente rilevante – appare tuttavia piuttosto superficiale, anche perché - su questo come su altri argomenti - Perulli trascura quello che i politici e gli intellettuali cinesi scrivono della loro realtà, preferendo affidarsi alle analisi occidentali, a partire da quelle – classiche quanto datate - di Max Weber.
A dettare la rimozione è il vincolo dell’universalismo eurocentrico, in nome del quale il capitalismo cinese, a prescindere dalle sue peculiarità, deve essere sostanzialmente simile a quello nostrano, altrimenti verrebbero meno le condizioni del crollo globale vaticinato: simul stabunt simul cadent, Occidente e Oriente sono destinati a sprofondare assieme nel buco nero dell’economia del debito. A onore del vero, la concezione terrapiattista di Perulli non è affatto un caso isolato: di fatto, è condivisa dalla maggioranza dei teorici marxisti, i quali, con poche eccezioni - penso ad autori come Giovanni Arrighi, Samir Amin, Domenico Losurdo, Alvaro Linera e a Polanyi (che però non era propriamente marxista) – sono assolutamente incapaci di cogliere il rapporto dialettico fra la forza espansiva del capitalismo di matrice occidentale e le reazioni delle società tradizionali investite dal suo impatto. Non capiscono cioè che la relazione non è a senso unico, che se, da un lato, il capitale ha la capacità di adattarsi ad altre forme di vita subordinandole ai propri fini e interessi, le forme di vita in questione (date certe condizioni) sono a loro volta capaci di adattarsi ai rapporti economici di tipo capitalistico, riproducendosi ai margini del mercato o addirittura imparando ad usarlo ai propri fini di autoconservazione.
Linera (cfr. Forma valor y forma comunidad, Quito 2015) lo ha dimostrato analizzando le dinamiche sociali e politiche che hanno reso possibile la rivoluzione boliviana (ma la sua analisi è estensibile alle altre rivoluzioni bolivariane). Ma il caso più eclatante di questa inversione dei rapporti di forza fra invasore e invaso è indubbiamente la Cina. Perulli è costretto ad ammettere gli strepitosi successi cinesi nel campo della lotta alla povertà (800 milioni di persone sottratte a tale condizione a tempo di record, cui si aggiungono i trenta milioni di posti di lavoro recuperati in poco più di un anno dopo la crisi del 2008) ma li attribuisce, come gli economisti neoliberali, alla uniformazione del sistema cinese alle leggi del mercato, piuttosto che al saldo controllo che lo Stato/partito ha mantenuto sui settori strategici e sul sistema bancario. Un controllo – a proposito della presunta inevitabilità di una crisi del debito in salsa cinese – che ha ricevuto recente conferma con la “decapitazione” di Alibaba e del suo fondatore Jack Ma per aver tentato di introdurre in Cina le pratiche della “finanza casinò”.
E ancora, è costretto ad ammettere che la crisi radicale della democrazia occidentale fa sì che la selezione di una classe politica adottata dal sistema cinese appaia paradossalmente competitiva. Ma attribuisce tale superiorità (che è apparsa schiacciante nel caso della gestione della pandemia) al fatto che mentre le democrazie devono fare i conti con i comportamenti di exit e di voice (qui il nostro fa esplicito riferimento alle categorie elaborate da Hirschman) la Cina non ha questo problema perché non ammette simili comportamenti, incompatibili con il suo sistema autoritario: <<nel modello del socialismo di mercato, scrive, non esiste autonomia dei livelli inferiori…esiste un costante mutuo adattamento tra due livelli, uno che orchestra ogni cosa e l’altro che si uniforma>>.
Questa diagnosi è frutto di palese ignoranza dei reali meccanismi di funzionamento del sistema politico cinese, per i quali rinvio alle analisi, fra gli altri, del sociologo canadese Daniel Bell che vive e insegna in Cina da 12 anni (cfr. Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss 2019). Altrimenti saprebbe: 1) che l’apparato dello Stato/partito cinese è fortemente delocalizzato e ammette ampi margini di autonomia locale; 2) che prevede significativi spazi di democrazia rappresentativa (900 milioni di cinesi partecipano ad elezioni locali aperte a candidati indipendenti) e consultiva (la Conferenza consultiva politica del popolo ha 3000 membri garantisce una costante interazione fra istanze sociali e potere politico); 3) che il carattere ferocemente selettivo dei processi che consentono l’accesso alle cariche amministrative e politiche (prevede, fra l’altro, anche meccanismi simili ad alcuni di quelli introdotti dalla Rivoluzione culturale, come l’obbligo di servire per un certo periodo in comunità povere) è orientato a garantire il benessere delle masse, per cui non è un caso se il regime gode di livelli di consenso incomparabili con quelli di qualsiasi nazione “democratica”. Insomma quel mix di marxismo e confucianesimo che Perulli considera come un “residuo”, destinato a essere riassorbito dallo strapotere delle forme di vita capitalistiche, si è viceversa dimostrato come un potente dispositivo per usare il mercato capitalistico a fini totalmente diversi dalla pura accumulazione di profitti.
Non ho qui il tempo né la voglia per analizzare la pars costruens del saggio di Perulli. Mi limito a dire che allude a una improbabile prospettiva di globalizzazione decentrata (!?) fondata su un nuovo “contratto sociale” (uscire dalla tradizione della filosofia liberale è difficile…) in cui giocherebbero un ruolo determinante fattori quali: i movimenti di protesta verso le imprese che violano certi valori etici, movimenti che dovrebbero/potrebbero favorire le visioni etiche (!?) del capitalismo rispetto alle visioni utilitaristiche; le pressioni e l’influenza dei cittadini/consumatori su certi temi fondamentali (qui si avverte una eco della “democrazia del controllo” teorizzata da Rosanvallon, in cui alla lotta per il potere subentra appunto la lotta per il suo controllo); l’avvento, dopo il paradigma dell’azione collettiva e il paradigma dell’individualismo, di un paradigma “connessionista”, per cui Perulli rilancia le utopie anarco capitaliste che le prime esperienze sociali mediate dalla Rete avevano alimentato negli anni Novanta (poi spazzate via dal dominio delle grandi piattaforme monopolistiche), riferendosi, fra l’altro, all’utopia dei blockchain che consentirebbero la nascita di “un capitalismo che permette di regolare transazioni fra pari senza la presenza di un’autorità centrale”. Vi risparmio il resto e concludo dicendo che, in sintesi, mi è parsa una summa delle illusioni benecomuniste e alterglobaliste che alimentano la cultura delle sinistre “alternative” da quando hanno abbandonato ogni velleità di superamento politico del capitalismo (tanto crolla da solo…)
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