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martedì 20 aprile 2021




BORDIGA. OVVERO IL RITORNO DEL RIMOSSO

Perché parlare di Amedeo Bordiga? Lo spunto mi è venuto dalla lettura di un’antologia di testi del primo leader del Partito Comunista d’Italia, tradotti in inglese e pubblicati da un editore di Boston a cura di Pietro Basso: The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amedeo Bordiga (1912-1965). Anche se, a dire il vero, era da tempo che mi tentava l’idea di ragionare su questa ingombrante figura storica del marxismo italiano, sia perché la mia prima esperienza di militanza politica (parlo del 1962-63, anni in cui ero poco più che adolescente), fu in una formazione bordighista; sia perché ho sempre pensato che la damnatio memoriae alla quale Bordiga è stato condannato dal Partito Comunista Italiano sia stata un grave sbaglio, da un lato perché i suoi errori teorici e politici non furono tali da giustificare questa rimozione totale, dall’altro perché proprio analizzando quegli errori – invece di rimuoverli -, assieme ad alcuni suoi illuminanti contributi sulle tendenze del capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale, si sarebbe potuto arricchire il patrimonio teorico del marxismo contemporaneo. 

Il lavoro di rimozione è stato molto accurato, per cui immagino che moltissimi compagni (soprattutto se al di sotto dei cinquanta - sessant’anni) non sappiano nemmeno chi fosse. Perciò credo sia prima di tutto il caso di tracciarne un sintetico profilo biografico. Nato a Ercolano nel 1889, Bordiga ha compiuto il suo apprendistato politico nella federazione giovanile del Partito Socialista, a partire dal 1910. In quegli anni i socialisti erano in grande crescita: nelle varie leghe erano inquadrati più di un milione e mezzo di lavoratori, e il partito controllava la CGIL, nata nel 1906. La sua linea politica era ispirata a una visione gradualista, secondo cui era possibile avanzare verso il socialismo pacificamente e democraticamente, attraverso una infinita espansione della democrazia accompagnata da una lunga marcia nelle istituzioni. Le cooperative e le altre associazioni mutualiste, le case del popolo, ecc. erano concepite come altrettante “isole rosse” che anticipavano i rapporti sociali e umani della futura società socialista (come si vede, i movimenti sociali post rivoluzionari dell’ultimo mezzo secolo non hanno inventato nulla).  

Bordiga fu da subito ferocemente contrario a questa linea. In particolare, si oppose all’elettoralismo (posizione che si fece ancora più radicale dopo la rivoluzione del 1917) e agli sbandamenti nazional sciovinisti del Partito Socialista in occasione della guerra coloniale in Libia (1911) e della partecipazione italiana alla Grande Guerra 1915-18. Fu, assieme ad altri compagni della sinistra socialista e al gruppo torinese dell’Ordine Nuovo guidato da Gramsci, promotore della costruzione della frazione comunista e della scissione di Livorno nel 1921 che portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia, del quale fu alla guida fino al 1924. La crisi del Partito, legata alla repressione fascista (e al deterioramento della situazione internazionale, con la sconfitta dei processi rivoluzionari in Germania e Ungheria), i contrasti con la direzione della Terza Internazionale (sui quali tornerò più avanti) e con l’ala del partito guidata da Gramsci, portarono alla sua progressiva emarginazione (benché il suo rapporto con Gramsci, che gli successe alla guida del partito, restasse - come nota il curatore dell’antologia Pietro Basso - improntato alla stima reciproca, anche dopo la rottura maturata al Congresso di Lione del 1926). 


Militanti della frazione comunista a Livorno 



Dopo il 1926 fu alternativamente incarcerato e inviato al confino dal regime fascista che lo rilasciò nel 1930 (presumibilmente in concomitanza con la sua espulsione dal partito, decisa da Mosca). A partire da quell’anno e fino alla fine della II Guerra mondiale, rimase in silenzio e sospese qualsiasi attività politica. Anche se Togliatti, che lo considerava un potenziale e pericoloso avversario, una delle prime cose che chiese quando rientrò in Italia fu “cosa fa Bordiga”, non fidandosi di questa apparente inerzia. Gli anni del dopoguerra (fino alla morte nel 1970) furono caratterizzati quasi esclusivamente da un approfondito lavoro di analisi teorica sull’evoluzione della società capitalista e di quella sovietica, attività che ebbe effetti politici marginali (il Partito Comunista Internazionalista e altri micropartiti che si inspiravano al suo pensiero ebbero scarsissimo seguito) il che contribuì non poco, assieme al protrarsi della “scomunica” del PCI, alla mancata diffusione delle sue idee, e del contributo che avrebbero potuto offrire, se sottoposte a un serio dibattito. In particolare un simile dibattito avrebbe potuto influire positivamente sulla comprensione di due questioni fondamentali: la definizione della natura della società sovietica (che assume oggi ulteriore rilievo in relazione all’evoluzione di quella cinese); e le tendenze di fondo del capitalismo contemporaneo. 

Il rapporto di Bordiga con il partito bolscevico e la III Internazionale fu sempre problematico e ricco di contrasti, benché lui considerasse la rivoluzione russa come un modello e venisse a sua volta considerato dai russi un interlocutore di tutto rispetto. I temi di dissenso furono molti. Bordiga tendeva ad essere astensionista di principio (anche se in alcune circostanze si dimostrò più duttile) mentre l’Internazionale riteneva che il tema della partecipazione alle elezioni fosse una questione puramente tattica, da affrontare concretamente in base alle situazioni contingenti. A differenza di Lenin, Bordiga – a causa della sua idiosincrasia nei confronti di qualsiasi tipo di ideologia nazionalista – non comprese la necessità di costruire l’alleanza fra movimento comunista e lotte per la liberazione nazionale dei popoli coloniali (per esempio nel 1911, quando era ancora nel partito socialista,  pur dichiarandosi contrario alla guerra di Libia, non dedicò la dovuta attenzione alla resistenza del popolo libico all’aggressione straniera). Del resto, concentrato com’era sul conflitto fra capitale e lavoro nei Paesi industriali, gli sfuggiva il nesso fra lotta di classe e lotta contro l’oppressione nazionale. Inoltre fu accusato di settarismo nella conduzione della lotta contro il fascismo, in quanto si oppose all’ipotesi di una riunificazione con i socialisti né seppe sfruttare l’opportunità di stringere un’alleanza con gli Arditi del Popolo (che garantivano un livello di efficienza militare superiore a quello delle improvvisate milizie comuniste). 


tessera del PCd'I



A onore del vero, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, va ricordato che a Mosca le idee in merito alla lotta antifascista furono oscillanti e tutt’altro che chiare (anche perché i vertici dell’Internazionale spesso non conoscevano la situazione interna dei vari Paesi: per esempio, i socialisti italiani erano i primi a non voler far fronte con i comunisti).  Ciò detto il problema nasceva anche e soprattutto anche a causa della peculiare concezione del partito di Bordiga. Dal suo punto di vista, il partito non era semplicemente l’avanguardia della classe operaia ma ne era l’organo politico. In un certo senso, per lui il partito era  la classe, nella misura in cui rappresentava la classe per sé, ne incarnava la coscienza politica a fronte della spontanea coscienza tradeunionista della classe in sé (per citare la classica formula marxiana). Non a caso criticava l’Ordine Nuovo accusandolo di operaismo e sindacalismo, in quanto l’organo per la liberazione della classe non erano per lui i consigli ma il partito (più avanti vedremo come questa concezione suoni contraddittoria rispetto a quanto pensava a proposito della futura società socialista). Di conseguenza diffidava di qualsiasi tattica (1) implicasse una limitazione dei margini di autonomia del partito dovuta ad accordi e compromessi con altre forze politiche e altri strati sociali, per cui non accettò mai il concetto gramsciano di blocco sociale, né la necessità di costruire un partito di massa, capace di garantire l’egemonia operaia nei confronti delle altre classi subalterne. 

Anche sulla questione della natura del fascismo la sua fu una posizione eretica, rispetto a quelle di chi, come Gramsci, pensava che esso fosse espressione degli interessi della classe agraria, o di chi, come Radek e altri dirigenti della III Internazionale, ne rintracciavano le radici sociali nella piccola borghesia. Viceversa Bordiga, in un primo tempo sottovalutò il fenomeno, ritenendo che la grande borghesia sarebbe ben presto tornata ad affidarsi a ideologie più adatte ai suoi interessi, come il liberalismo e la socialdemocrazia, ma poi fu più rapido nel rendersi conto che le classi dominanti sarebbero riuscite ad adattarsi a questo nuovo movimento politico e a renderlo funzionale ai loro obiettivi.  In particolare seppe riconoscere, come sottolinea Pietro Basso nell’Introduzione all’antologia citata in apertura, il carattere moderno, sofisticato dell’ideologia nazifascista, la sua capacità di mobilitare ampi strati popolari (anche proletari), e la sua formidabile efficienza militare. 


una riunione del Comintern della III Internazionale



Torniamo all’interpretazione della società sovietica. Molti confondono la sua posizione con quella dei trotskisti, cioè con l’idea che si trattasse di un capitalismo di stato dominato da una nuova classe di burocrati. Tuttavia, pur condividendo la tesi di Trotsky sull’impossibilità di costruire il socialismo in un solo Paese (2), la sua lettura era più sofisticata. Bordiga accolse la svolta della NEP decisa da Lenin come un passo giusto, ma soprattutto inevitabile, come un cedimento alle leggi del mercato imposto dall’accerchiamento della Russia. Ciò detto, era convinto che questo compromesso avrebbe potuto reggere per non più di dieci - vent’anni, dopodiché, se non fossero sopravvenute rivoluzioni in altri Paesi industriali, la Russia sarebbe necessariamente evoluta verso il capitalismo. Questa sua convinzione era così incrollabile che, morto Lenin, osò attaccare la politica della “bolscevizzazione” dei partiti comunisti e a sostenere davanti a Stalin che l’Unione Sovietica - visto che dal suo destino dipendeva quello dell’intero movimento comunista mondiale – avrebbe dovuto seguire le direttive dell’Internazionale e non viceversa (ardire che gli costò la definitiva emarginazione e la successiva espulsione). 

Dopo la II Guerra mondiale, la sua posizione subì una ulteriore evoluzione, per cui finì per definire il regime sovietico non come una pura restaurazione del capitalismo, ancorché in forma di capitalismo di stato, bensì come una formazione sociale sui generis, generata da un processo rivoluzionario che aveva assunto forma socialista sul piano politico e capitalista sul piano economico. Inoltre attribuì lo status di nuova classe dominante, non tanto alla burocrazia dello stato/partito, quanto agli strati tecnico manageriali e alle loro reti sociali (3) (per lui il carattere capitalista non si annidava nelle pieghe dello stato bensì nelle imprese, laddove vigevano concorrenza e legge del valore, e quindi sfruttamento). Questa visione, al contrario delle rozze analisi liquidatorie del “socialismo reale” partorite dalle sinistre radicali nate dopo gli anni Sessanta, offre spunti di discussione di grande interesse ed attualità, che chiamano in causa il dibattito sulla natura della società cinese che appassiona i teorici marxisti dei giorni nostri (4). 

È chiaro che Bordiga avrebbe negato a priori la possibilità di definire socialista una società come quella cinese, nella quale permangono mercato, moneta e legge del valore. Ed è altrettanto chiaro che avrebbe reiterato la dogmatica convinzione sulla impossibilità di costruire il socialismo in un solo Paese. Al tempo stesso il suo discorso sul dualismo fra potere politico, che nel caso della Cina appare saldamente in mano allo Stato-partito (che inoltre controlla i settori strategici di industria, commercio e finanza) e potere economico (con la presenza di grandi imprese private nazionali ed estere), ma soprattutto il suo discorso sull’apparire di forme inedite della lotta di classe in questo contesto ibrido, può essere rovesciato fino ad assumere una prospettiva del tutto diversa. Ciò è possibile: 1) perché la tenuta temporale e lo straordinario successo dell’esperimento cinese smentiscono la diagnosi che Bordiga formulò ai tempi della NEP: dalla convivenza di socialismo e mercato non deriva necessariamente la vittoria di quest’ultimo in tempi relativamente brevi; 2) decisivo appare, inoltre, il fatto che il Partito Comunista Cinese riconosca esplicitamente (al contrario di quanto avvenne in Unione Sovietica) l’esistenza della lotta di classe e subordini agli esiti di quest’ultima la possibilità o meno di progredire verso forme più avanzate di socialismo. 

Quanto a quali debbano essere i criteri per riconoscere un “vero” regime socialista, la visione di Bordiga è classicissima e ritagliata sui dogmi “classici” del marxismo, ben riassunti da un recente articolo (5) di Vladimiro Giacché sull’Antiduhring di Engels: eliminazione degli scambi mercantili e monetari già nella prima fase di transizione, estinzione delle classi sociali e dello stato, rimpiazzato dalla auto amministrazione dei produttori associati nella fase del comunismo realizzato. Ho già espresso in varie occasioni i miei dubbi in merito alla credibilità di questo scenario utopistico (6), ma non è qui il caso di riproporli, mi basta avere messo in luce in che misura la visione di Bordiga fosse più complessa e stimolante di quella di certi critici “libertari” del socialismo reale. Aggiungo solo che, paradossalmente, come anticipavo in precedenza, la sua visione del socialismo – scriveva che mentre il capitalismo è “verticale” il socialismo sarà “orizzontale” (7) perché caratterizzato dalla massima autonomia amministrativa locale – stride con la sua concezione ultra centralista e settaria del partito (vedi sopra) e con le critiche che rivolgeva alla concezione socialista delle “isole rosse” come anticipazioni locali dei futuri rapporti sociali (per cui avrebbe aborrito i discorsi dei movimenti sociali degli ultimi decenni, ancora più orientati in tale direzione). Insomma il massimo del verticismo per approdare al massimo di orizzontalismo.     

Concludo con un sintetico accenno (invitando chi volesse approfondire l’argomento a procurarsi l’edizione italiana dell’antologia di cui stiamo ragionando, in via di pubblicazione presso le edizioni Punto Rosso) ad alcune geniali anticipazioni sulle tendenze del tardo capitalismo che Bordiga elaborò dagli anni Cinquanta alla seconda metà dei Sessanta: 1) già negli anni Cinquanta intuì il crescente ruolo che le problematiche ambientali avrebbero assunto nell’aggravare la crisi sistemica, scrivendo che la critica del capitalismo non doveva limitarsi ad analizzare il rapporto capitale-lavoro, ma affrontare anche il rapporto capitale-natura e quello fra il capitale e le altre specie viventi; 2) criticò la tesi che associava il militarismo ai regimi fascisti e ultranazionalisti, dimostrando come, al contrario, esista una stretta correlazione fra militarismo e democrazia perché (riprendo una citazione dalla Introduzione di Basso) la guerra moderna è fondata sulle caratteristiche tipiche di uno  stato “che dispone delle maggiori risorse industriali , commerciali, amministrative e finanziarie e in cui il potere ha assunto forme democratiche”, e soprattutto solo lo stato liberal democratico è oggi in grado di ottenere quel consenso sociale che è prerequisito di qualsiasi sforzo bellico; 3) seppe anticipare le tendenze alla finanziarizzazione e alla sostituzione della grande borghesia tradizionale con forme più impersonali, “socializzate” della proprietà capitalistica e mise in relazione tali tendenze con il fatto che gli stati capitalisti postbellici si sarebbero rivelati sempre meno liberali e sempre più totalitari; 4) infine, da ingegnere qual era, quando uscirono le prime edizioni dei Grundrisse, si entusiasmò per lo scenario dipinto da Marx, laddove lo sviluppo del sistema automatico delle macchine veniva descritto come un annuncio dell’imminente trionfo del general intellect sulla legge del valore. Un entusiasmo che ha contagiato anche Antonio Negri, alimentandone i deliri post operaistici sul “comunismo del capitale” (8), con la differenza che Negri non è mai più uscito dal delirio, mentre Bordiga, se avesse potuto assistere all’uso capitalistico delle tecnologie digitali (9), avrebbe a mio avviso saputo rettificare il tiro. 


Note

(1) E’ nota la sua convinzione in merito alla necessità di calcolare una serie di tattiche da applicare in ogni possibile situazione – convinzione compatibile con la sua professione di ingegnere più che con la dialettica marxista. 

(2) Trovo francamente incredibile che questo dogma possa sopravvivere in un’epoca come l’attuale, caratterizzata da un elevato livello di complessità economica, politica e sociale e di differenziazione fra contesti regionali. Posto che nessuno è così folle da pensare che la rivoluzione possa scattare contemporaneamente nella maggior parte dei Paesi, tocca pensare che l’ipotesi rispecchi una visione “crollista”, secondo la quale il capitalismo dovrebbe subire in tutto il mondo una crisi catastrofica di proporzioni tali da scatenare una rivolta universale delle classi subalterne. Ma come dimostra la crisi pandemica che stiamo vivendo, e come già aveva dimostrato la crisi del 1929, questa ipotesi è destituita di ogni fondamento. Chi fa affidamento sulla maturazione delle condizioni “oggettive” per sperare in una rivoluzione mondiale, dovrà armarsi di infinita pazienza perché, come ironizzava qualcuno, “il capitalismo ha i secoli contati”. 

(3) Che questa lettura non fosse destituita di fondamento è dimostrato dal fatto che, crollato il potere politico socialista, i grandi manager si sono repentinamente trasformati in imprenditori privati. 

(4) Cfr. la bibliografia su questo tema che ho citato nei miei due ultimi lavori (Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi 2019 e Il capitale vede rosso, Meltemi 2020).

(5) Cfr. V. Giacché, Socialismo e fine della produzione mercantile nell’Anti-Duhring di Friedrich Engels” in MarxVentuno,  n. 1, gennaio-febbraio 2021, pp. 105-125. 

(6) Vedi, in particolare, i due testi citati in nota (4)

(7) Sul conflitto fra immaginario verticale e orizzontale che attraversa l’intero dibattito teorico politico dell’ultimo secolo, vedi O. Romano, La libertà verticale, Meltemi, Milano 2019. 

(8) Dell’uso dei Grundrisse nel discorso post operaista ho discusso in Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013. 

(9) Cfr. C. Formenti, felici e sfruttati, Egea, Milano 2011. 


mercoledì 14 aprile 2021


 LA RIVINCITA DEI SOCIALISTI IN BOLIVIA

Prospettive e dilemmi politici dopo il ritorno al potere del MAS  



Il recente ritorno al potere del MAS dopo il golpe del 2019, orchestrato dalle destre e appoggiato dai militari e dagli Stati Uniti, è un evento che suscita interrogativi politici di vasta portata per due ragioni: in primo luogo, perché la Bolivia è uno dei rari casi in cui una forza politica che non solo si dice socialista, ma dichiara esplicitamente di voler avviare un processo di transizione al socialismo, è riuscita da andare al potere per via legale; ma soprattutto perché è un esempio ancora più raro di un esperimento del genere che, dopo essere stato interrotto con la forza (come capitò con il Cile di Allende), riesce a riprendere il cammino dopo solo un anno, e a farlo anche questa volta  pacificamente, vincendo le elezioni e non attraverso la resistenza armata. 

Va detto che già nel corso del cosiddetto giro a la izquierda, come fu battezzato il processo che, che dagli anni Novanta al primo decennio del Duemila, ha insediato governi socialisti, o comunque post neoliberisti, alla guida della maggioranza dei Paesi latinoamericani, si era riattivato il classicissimo dibattito otto/novecentesco (1) in merito alla possibilità di arrivare al socialismo per via pacifica, attraverso un processo riformista radicale, piuttosto che per via rivoluzionaria. La fase di riflusso che quasi tutte quelle esperienze hanno subito nell’ultimo decennio, con una serie di sconfitte elettorali di cui quella in Ecuador di pochi giorni fa è solo l’ultima, sembrava avere dato ragione a coloro che liquidavano come illusorie le speranze suscitate dalla svolta progressista, addebitandone il fallimento al mancato superamento del quadro istituzionale pre rivoluzionario, all’assenza di una radicale messa in discussione dei rapporti di proprietà, e al persistere del  controllo delle vecchie oligarchie su risorse economiche (banche e imprese), politiche (burocrazia), culturali (università e media), militari (polizie ed eserciti), fattori che hanno permesso alle forze reazionarie di riconquistare alla prima occasione il potere politico, con l’appoggio dell’imperialismo Usa, deciso a mantenere il controllo sul “cortile di casa”. In che misura la rivincita del MAS boliviano rimette in discussione questa diagnosi? 

Ho avuto modo di farmi un’idea della complessità del dibattito appena evocato in occasione dei miei ultimi due viaggi in America Latina, il primo nell’estate del 2013 in Ecuador, il secondo qualche anno dopo a Cuba. In Ecuador, come scrivevo in un libro del 2014 (2), mi era parso, benché Correa avesse appena trionfalmente ottenuto la riconferma a presidente, di poter indicare il punto debole della Revolución Ciudadana nella scarsa incisività del suo impegno nel contrastare gli interessi del grande capitale nazionale e internazionale, nella mancata riforma agraria, ma soprattutto nella scelta di privilegiare l’appoggio delle classi medie urbane rispetto a quello dei movimenti indigenisti. Elementi in base ai quali ritenevo che difficilmente – come hanno confermato gli eventi successivi – il regime avrebbe saputo/potuto fronteggiare una controffensiva delle destre. A Cuba ho invece cercato di capire – sia pure a grandi linee - gli obiettivi delle riforme economiche successive alla morte di Castro, caratterizzate da una moderata apertura alla privatizzazione di alcune attività e dallo sguardo rivolto al “socialismo di mercato” cinese (anche se l’assedio del bloqueo, le limitate dimensioni del mercato interno e il venir meno del sostegno venezuelano, a causa della grave crisi di quel Paese, rendono ardua, per non dire impossibile, l’applicazione del modello asiatico). 

Quella della Bolivia, pur non avendo accesso a conoscenze dirette, mi era sembrata, basandomi soprattutto sugli scritti dell’ex vice presidente Alvaro G. Linera (3), una situazione diversa e ricca di potenzialità. Secondo Linera, le radici socioeconomiche della rivoluzione affondano in un processo di ristrutturazione neoliberista che, accantonate le strategie di modernizzazione che puntavano alla sostituzione delle tradizionali forme produttive urbane e agricole, si è fondato su un nuovo ordine imprenditoriale che agisce da anello di congiunzione fra il flusso finanziario globale e le reti locali dell’economia informale (lavoro a domicilio e comunità familiari). Un modello di accumulazione ibrido, che unifica in forma gerarchizzata strutture produttive tradizionali tramite complessi meccanismi di subordinazione delle reti produttive domestiche, comunitarie, artigiane, contadine e microimprenditoriali. In questo contesto, la classe operaia cresce di numero ma è frammentata e precarizzata, mentre le comunità contadine, pur parzialmente inglobate nelle relazioni di mercato, non subiscono processi di stratificazione sociale radicali ed irreversibili, conservando relazioni fondate sulla reciprocità e sulla solidarietà. Linera identifica in questa forma-comunità che resiste attivamente ai processi di subordinazione, l’equivalente di una vera e propria classe antagonista. In effetti, questi soggetti tradizionali hanno dato vita a organismi di democrazia diretta e partecipativa in grado di unificare e mobilitare altri strati sociali. Sono stati questi cabildos a sfidare il potere delle oligarchie neoliberali, occupando il territorio e sottraendolo al controllo di prefetti, sindaci e polizia. 


Alvaro G. Linera



Queste strutture orizzontali hanno vinto anche grazie all’apporto del MAS (Movimento al Socialismo) guidato da Morales, un partito politico sui generis nato come aggregatore di diverse associazioni, partiti e movimenti. Il MAS è riuscito a saldare due blocchi sociali diversi: da un lato, le associazioni e i movimenti indigeni e urbani, affiancati e sostenuti dai partiti e dai sindacati della sinistra tradizionale; dall’altro, ceti medi, gruppi imprenditoriali, partiti democratici. Lo ha fatto elaborando un programma politico capace di mediare fra interessi diversi: nazionalizzazione di alcune imprese strategiche avendo cura di non intaccare gli interessi della piccola-media imprenditoria; promessa di procedere a un cambio di matrice produttiva ispirato ai principi della cultura indigena del buen vivir (4) senza rinunciare, tuttavia, alle politiche estrattiviste (indispensabili per finanziare la spesa sociale); trasformazione in senso plurinazionale e plurilinguistico dello stato. In ragione di questa visione “pattista” del potere (che i critici accusano di corporativismo), si sono attivate procedure di contrattazione permanente fra i vari gruppi sociali del blocco. Linera parla, a tale proposito, del tentativo di garantire rappresentanza a una moltitudine in cui nessuno parla a titolo individuale, ma in nome di identità collettive locali alle quali deve rendere conto (5).


A chi avrebbe voluto che la rivoluzione imboccasse un cammino più marcatamente anticapitalista, Linera replica, da un lato, che l’obiettivo immediato non poteva essere altro che la costruzione d’una sorta di capitalismo postneoliberale, fondato sulla triangolazione fra piccola e media imprenditoria privata, attività produttive tradizionali e comunitarie e politiche pubbliche orientate al trasferimento di tecnologie e risorse a favore di quest’ultime; dall’altro lato, ribadisce l’intenzione di marciare verso il socialismo. Anche Luis Arce, ministro dell’economia durante la presidenza Morales, e oggi subentrato allo stesso Morales dopo la vittoria alle elezioni del 2020, ribadiva, nel 2012, che non si era mai pensato a una transizione immediata al socialismo bensì a risolvere i problemi sociali più urgenti e a consolidare la base economica con una adeguata ridistribuzione degli eccedenti. A elaborare il modello su cui si è fondata la politica economica del regime era stato lo stesso Arce nel 1999, assieme a un gruppo di ex militanti del Partito Socialista Uno (PS-1). In poco più di un decennio, periodo nel quale lo stato ha agito da primo fattore di crescita e sviluppo, il PIL è aumentato da 9000 a 40.000 milioni di dollari, il PIL pro capite è triplicato, la povertà estrema è calata dal 38% al 15% e i salari reali sono fortemente cresciuti.  


Veniamo ora alla diagnosi sui motivi della crisi dell’ondata progressista in America Latina che Linera aveva formulato tre anni prima del golpe. Dopodiché discuteremo alcuni passaggi di un’intervista che lo stesso Linera ha rilasciato a “Jacobin” (6) dopo la vittoria di Luis Arce alle elezioni presidenziali che hanno riportato il MAS al potere. Nel corso di una conferenza tenuta il 27 maggio 2016 a Buenos Aires, inserito nell’antologia di scritti tradotti in italiano citata in nota (3), Linera analizza le ragioni del riflusso - allora già in atto – del giro a la izquierda, addebitandolo, oltre che alla crisi economica, a una serie di errori soggettivi quali: 1) la sottovalutazione della difficoltà di trasformare dall’interno la struttura dello Stato; 2) la sopravvalutazione delle possibilità di integrazione dei ceti medi nel blocco progressista; 3) l’incapacità di gestire le contraddizioni generate dalla convivenza fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta e partecipativa.   


Sullo stato. In scritti precedenti, Linera era parso ipotizzare che il processo di trasformazione delle strutture del potere avviato dalla rivoluzione fosse in qualche modo irreversibile. Viceversa, nell’intervento appena citato ammette che cambiare la macchina statale dall’interno si è rivelato un obiettivo utopistico: le destre non hanno ripreso l’iniziativa solo grazie al controllo sui media, sull’università, sulle case editrici e su una serie di reti sociali, ma anche e soprattutto perché non si è riusciti a “rieducare” i quadri dell’apparato burocratico (magistrati, militari, accademici, amministrativi ecc.). A ciò si è aggiunto il fallimento della “riforma morale” contro la corruzione, e l’idea che “governare per tutti” significasse fare concessioni alle destre, dimenticando che corteggiare la destra non produce vantaggi perché questa lo interpreta come un segnale di debolezza. 


Sui ceti medi. La ridistribuzione della ricchezza che i regimi postneoliberisti hanno messo in atto attraverso le loro politiche economiche (vedi sopra) ha generato un ampliamento delle classi medie. Per esempio, il 20% dei boliviani è passato in dieci anni a essere classe media. Tuttavia, lamenta Linera, all’aumento della capacità di consumo e della giustizia sociale non si è accompagnata la politicizzazione della società. Il che non vale solo per le classi medie tradizionali, ma anche per quelle create dal nuovo regime (cita in merito gli scioperi indetti dagli insegnanti, pur fra i maggiori beneficiari degli aumenti salariali voluti dal governo). Per evitare la spinta alla frammentazione corporativa del blocco sociale rivoluzionario, mantenendo su di esso l’egemonia indigena, operaia e contadina sul blocco, si sarebbero dovute “rieducare” le altre classi al riconoscimento degli interessi collettivi.


Sulla democrazia. Linera ammette che il problema di dare continuità al processo rivoluzionario in condizioni di democrazia rappresentativa è un compito arduo. Il caso dei socialismi latinoamericani, giunti al potere attraverso elezioni, è una eccezione nella storia delle rivoluzioni sociali, che appena si è verificata, si è trovata di fronte alla sfida di garantire il ricambio delle leadership senza mettere in discussione la democrazia rappresentativa. Il fatto che in alcuni Paesi siano state introdotte costituzioni che promuovono e riconoscono nuove forme di democrazia diretta e partecipativa, complica ulteriormente la questione, nella misura in cui genera una sorta di dualismo istituzionale. Non è un caso se alcuni leader hanno promosso riforme che consentissero loro di ripresentare più volte la propria candidatura al seggio presidenziale: più che da ambizioni “bonapartiste”, ciò è dipeso dal fatto che il ricambio delle leadership richiede tempi lunghi che le scadenze della democrazia rappresentativa non concedono. Ne consegue che la rivoluzione è costantemente esposta al rischio di sconfitte elettorali che possono annullare in pochi mesi anni e anni di sforzi per cambiare l’economia, la società e la politica di un Paese (più avanti vedremo come la maggiore capacità di resilienza del processo rivoluzionario boliviano sia dovuta alla etnicizzazione dello scontro di classe, per cui gli organismi di autogestione delle comunità andine tradizionali hanno potuto svolgere un ruolo strategico nella tenuta del blocco sociale rivoluzionario). 


Facciamo un passo indietro. Si è detto poco sopra delle critiche delle sinistre radicali alla rivoluzione boliviana (e più in generale agli analoghi processi di altri Paesi del subcontinente): quello che si è instaurato non è socialismo ma una variante di “capitalismo di stato”, sul tipo di quelli esistenti nell’ex blocco sovietico, in Cina e a Cuba; inoltre si sono traditi i valori e i principi del buen vivir andino in nome della tradizionale ideologia “industrialista” e “sviluppista” delle sinistre latinoamericane. A queste accuse Linera replica proponendo una visione della transizione al socialismo come processo di lungo periodo. Il mercato e l’economia capitalistica non possono essere aboliti per decreto, e del resto neanche nazionalizzazioni più estese e radicali avrebbero potuto realizzare tale obiettivo, per cui il compito più urgente consisteva nel restituire alla società il controllo politico sui processi di distribuzione del reddito, sui flussi commerciali e finanziari, oltre ad assicurare tutti l’accesso a sanità, educazione superiore, assistenza sociale. Come si è visto sopra, questi obiettivi sono stati in larga misura realizzati. Si è inoltre restituita alla Bolivia la sua dignità di nazione sovrana, emancipandola dal dominio nordamericano, e si è ottenuto il riconoscimento della natura plurinazionale e plurilinguistica della repubblica, facendo giustizia di secoli di oppressione coloniale sulla maggioranza indigena. Dopodiché Linera ammette che per un lungo periodo, di durata imprevedibile, esisteranno ancora conflitti e contraddizioni “in seno al popolo”. 


Ma la replica più significa è, a mio avviso, quella che contesta l’ideologia “antistatalista” delle sinistre radicali. Se non si prende il potere, argomenta Linera, ci si autocondanna all’irrilevanza politica, perché la lotta per l’emancipazione passa necessariamente attraverso la lotta per il potere dello Stato. L’idea che il mondo si possa cambiare facendo secessione dal sistema politico, operando dal basso, negli interstizi della vita quotidiana, “toglie alle classi subalterne i successi ottenuti nelle strutture istituzionali dello stato e rimuove la storia delle lotte che lo hanno attraversato”. Ma soprattutto non coglie la vera essenza dello stato, lo scambia per una “cosa”, per uno “strumento” mistificandone la reale natura di processo, di relazione sociale. In una conferenza dedicata al pensiero di Poulantzas Linera afferma che lo stato “è un processo, un agglomerato di rapporti sociali che si istituzionalizzano, si regolarizzano e si stabilizzano”; è “il processo di formazione di egemonie e blocchi di classe”. Il che significa che non è un Moloch da abbattere perché incorpora tutte le forme di oppressione, autoritarismo, ecc., bensì un campo di forze su cui è fondamentale che le classi subalterne si misurino con i propri avversari per assumerne il controllo” (7). 


Veniamo all’intervista a “Jacobin”. È chiaro che un’intervista non ha lo stesso peso dei testi citati in precedenza, e tuttavia ne emergono diversi significativi slittamenti del punto di vista dell’autore (alcuni dei quali mi lasciano perplesso) che fra poco cercherò di analizzare. Prima però un paio di considerazioni. Quando l’intervistatore gli chiede perché non vi sia stata una resistenza attiva al golpe (visto che ci sono state grandi manifestazioni di massa, è chiaro che qui ci si riferisce a un qualche tipo di resistenza militare), Linera risponde che Morales ha detto che non voleva mandare a morte i suoi compagni (in effetti, il confronto fra una popolazione pressoché disarmata, o male armata, e l’esercito avrebbe provocato un bagno di sangue), per cui ha preferito rassegnare le dimissioni. Dopodiché ammette che il governo era impreparato all’eventualità che le forze armate si schierassero attivamente dalla parte dei golpisti, aggiungendo che, visto che nessuna nazione può fare a meno di un esercito, in futuro occorrerà valorizzarne lo status e la funzione istituzionale, coltivarne lo spirito di corpo e cambiarne la composizione di classe (8). Infine esalta la capacità di mobilitazione di contadini, poveri urbani e classe operaia che si sono organizzati per mantenere il controllo del territorio, così come avevano fatto all’inizio del processo rivoluzionario,  e garantire così che le elezioni del 2020 si potessero effettuare, in barba alle pressioni interne e internazionali che hanno fatto di tutto per impedirne lo svolgimento. 


scontri fra manifestanti e polizia 



Fin qui nessuna particolare osservazione. Le perplessità iniziano laddove Linera traccia l’identikit del nemico. In precedenza abbiamo riportato le sue riflessioni autocritiche in merito: 1) alla mancata integrazione politico-culturale delle classi medie nel blocco sociale rivoluzionario; 2) all’errore di avere, in alcune circostanze, concesso troppo agli interessi dei loro strati superiori. Va inoltre ricordato come nel concetto di classi medie non si riferisse solo a quelle tradizionali, ma anche a quelle create dalla politica redistributiva del governo (citando casi in cui queste ultime hanno adottato comportamenti corporativi in contrasto con il bene comune). Ebbene, nell’intervista sembra invece puntare il dito esclusivamente contro le classi medie tradizionali e la loro ideologia reazionaria e razzista (nel caso della Bolivia, come si è detto, odio di classe e odio razziale sono strettamente associati, per cui la sola idea di vedere degli indios che occupano ruoli di potere appare ad alcuni inconcepibile). Tace invece sul “tradimento” da parte di quegli strati sociali emergenti – e dei loro movimenti politici (9) – di cui in precedenza (vedi sopra) denunciava le tendenze corporative. Di più: auto smentendosi, parla della necessità di mediare fra i loro interessi e quelli delle classi subalterne. 


Ora, non conoscendo abbastanza la situazione socioeconomica boliviana, non mi permetto di criticare una svolta che presumibilmente riflette esigenze tattiche, soprattutto dopo la dura esperienza del colpo di stato. Ma il punto è che Linera sembra estendere la sua analisi oltre i confini boliviani, per cui descrive lo scenario globale come una fase di controffensiva liberista guidata dalle forze più retrive e ultraconservatrici, e quel che è peggio sostiene che le oligarchie non avrebbero soluzioni da offrire alla crisi economica e politica. Posto che, come diceva Lenin, non esiste alcuna crisi che la borghesia non sia in grado di risolvere, in assenza di forze in grado di rovesciarne il dominio, questa diagnosi mi pare pericolosamente cieca di fronte al fatto che il dopo Trump ci regala una controffensiva ben più pericolosa, guidata dai settori più progressivi e liberal del capitalismo globale. Una controffensiva che, impugnando i diritti umani e esibendo un linguaggio “politicamente corretto” è riuscita a integrare i movimenti sociali  “di sinistra” (espressione delle classi medie emergenti di cui sopra) in un fronte “antifascista”. E una controffensiva che, nella misura in cui riuscirà a imporre una svolta neokeynesiana alla politica economica e a fare qualche concessione sul piano del welfare e della riduzione delle disuguaglianze, distoglierà l’attenzione popolare dalla guerra di aggressione che sta preparando contro Cina, Russia e tutti i Paesi che non si piegano agli interessi occidentali. Capisco che Linera ritenga prioritaria l’esigenza di costruire un ampio fronte sociale, politico e ideologico per impedire che si ripetano situazioni come quelle che il suo Paese ha vissuto nel 2019 (e immagino che durante l’esilio sia stato sottoposto alle pressioni di quelle sinistre radicali che aveva criticato mentre era al potere), ma questo non giustifica il fatto di elevare tale esigenza tattica a chiave di lettura della situazione mondiale della lotta di classe (questo è quanto hanno fatto, fra gli altri, i compagni di Podemos, con gli esiti disastrosi che ho analizzato altrove (10)).  


L’altro punto dolente – che non è tattico, ma teorico-strategico – riguarda la concezione dello stato. Abbiamo visto come Linera critichi l’ideologia antistatalista di alcuni movimenti. Questa critica nell’intervista viene ribadita, adducendo la necessità di nazionalizzare certi settori sia per poter disporre delle risorse per costruire scuole, ospedali, ecc. e per aumentare i salari, sia perché se lo stato controlla almeno il 30% del PIL è meno esposto ai ricatti delle grandi imprese private nazionali ed estere. Ribadisce poi che nella fase di transizione i capitali privati possono contribuire a trainare lo sviluppo, e inoltre sottolinea che le nazionalizzazioni non risolvono il problema della socializzazione e democratizzazione dei mezzi di produzione. Del resto, aggiungo io, anche in Cina, dove il PCC è andato al potere con una rivoluzione, la classe capitalistica è stata espropriata del potere politico ma non di quello economico (anche se lo stato/partito mantiene il controllo sull’intero sistema produttivo, commerciale e finanziario). E anche in Cina si ammette che questa situazione è propria della prima fase del socialismo, il quale potrà essere realizzato solo in capo a una lunga fase di transizione. 

Mettendo fra parentesi la questione se a tale proposito sia lecito parlare di capitalismo di stato (11), vengo al punto dolente. Nell'intervista, Linera afferma che il salto alla fase successiva non potrà né dovrà avvenire sotto l’egida dello stato, del governo o del partito bensì “quando la società stessa si metterà in marcia per democratizzarsi”. La sua visione del socialismo coincide con un processo di costruzione comunitaria “dal basso” rispetto alla quale partito governo e stato hanno solo il compito di facilitatori del processo. Purtroppo, come insegna il golpe (ma basta perdere le elezioni, come è avvenuto in Ecuador) senza il monopolio del potere politico da parte dello stato/partito tutte le utopie di costruzione dal basso sono esposte al rischio di venire spazzate via da un giorno all’altro, e tutte quelle finora tentate o anche solo immaginate, da Owen ai giorni nostri, sono rimaste appunto confinate nel regno dell’immaginazione. È vero che il popolo boliviano ha tenuto botta, almeno per ora, ma è altrettanto vero che ciò è stato possibile solo grazie alla peculiare realtà di una nazione in cui sono sopravvissute alla colonizzazione del mercato capitalistico antiche forme comunitarie (12). Non credo si debba cedere alla tentazione di elevare a modello questa realtà a dir poco idiosincrasica.  


Il neo presidente Luis Arce



Chiudo con qualche breve cenno alle prospettive del dopo Morales, per quel poco che si può capire dalle ancora scarne informazioni disponibili. Secondo varie fonti giornalistiche (tutte da verificare) le manifestazioni dei mesi fra il golpe e le elezioni del 2020, più che chiedere il ritorno di Morales (che pure resta una figura simbolica di grande peso, anche se non va dimenticato che, quando ha indetto il referendum per potersi candidare per la terza volta alla presidenza, è stato sconfitto), si opponevano alla visione razzista e reazionaria del governo golpista e di coloro che lo sostenevano. Il neo presidente Luis Arce, dopo la vittoria, ha parlato di costruire un governo di unità nazionale, annunciando provvedimenti a favore delle micro, piccole, medie e grandi imprese, del settore pubblico e di tutte le famiglie che hanno vissuto per 11 mesi in una condizione di incertezza. Ha preso atto di una situazione internazionale che vede una guerra commerciale fra Usa e Cina, che è fonte di rischi ma anche di opportunità (in tal senso ha accennato a negoziati con Cina e Russia). Infine ha affermato di voler riprendere il processo del cambiamento, ponendo riparo agli “errori” commessi dal MAS. Ignoro quali siano gli errori cui si riferisce, ma non bisogna dimenticare che il MAS non è un partito tradizionale, bensì una sorta di federazione in cui confluiscono numerose associazioni, partiti e movimenti, per cui è scontato che al suo interno convivano posizioni diverse, non senza tensioni e conflitti. Quel che certamente resta invariato è il saldo riferimento alla cosmovisione aymara, incarnata dal vicepresidente indigenista Choquehuanca. 


Note


(1) Cfr. R. Regalado, G. Rodas (a cura di), America Latina hoy. Reforma o Revolución, Ocean Sur, 2009. A proposito del dibattito fra riformisti e rivoluzionari nella Socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento - primo Novecento, va ricordato che F. Engels e R. Luxemburg sostennero che il problema non era riforme sì o riforme no, bensì se le riforme erano intese come strumenti per creare le condizioni per una transizione rivoluzionaria oppure concepite come fine a sé stesse. 


(2) Cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera. Ecuador, la guerra fra culture come guerra di classe, Jaka Book, Milano 2014. 


(3) Cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de sueños, Quito 2015; La potencia plebeya. Acción colectiva e identidades indígenas, obreras y populares en Bolivia, Clacso/prometeo libros, Buenos Aires 2013; Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.


(4) Per una definizione del termine buen vivir vedi Magia bianca…op. cit.


(5) Pablo Stefanoni sostiene che il concetto di moltitudine di Linera differisce da quello di Toni Negri in quanto il primo si riferisce a una totalità di soggetti collettivi mentre il secondo connota un insieme di singolarità. Cfr. P. Stefanoni, Posneoliberalismo cuesta arriba,  in “Nueva Sociedad” N. 239, Maggio-giugno 2012. 


(6)  https://jacobinmag.com/2021/04/interview-alvaro-garcia-linera-mas-bolivia-coup  


(7) Le citazioni sono tratte da Democrazia, stato, rivoluzione, op. cit. 


(8) La composizione di classe dell’esercito venezuelano ha svolto un ruolo determinante nella rivoluzione chavista. Cfr. C. Colotti, Talpe a Caracas, Jaka Book, Milano 2012 e, della stessa autrice, Dopo Chavez, Jaka Book, Milano 2018. 


(9) A tale proposito: sono rimasto esterrefatto nell’apprendere che certe femministe boliviane (ovviamente bianche della classe media) dopo il golpe hanno dichiarato di non voler prendere posizione fra Morales e i militari golpisti perché entrambi “machos”. Forse sono le stesse che anni prima (come riferisco in Magia bianca magia nera, cit.) votarono contro la regolarizzazione delle collaboratrici domestiche di origine india, guadagnandosi l’appellativo di femministe señorial da parte di alcune loro compagne. E in ogni caso non credo che nelle sinistre movimentiste boliviane manchino personaggi come quelli che affliggono gli scenari di altri Paesi latinoamericani (per tacere di quelli europei), sempre pronti ad attaccare i governi socialisti perché non sufficientemente radicali sul piano economico e “antidemocratici” su quello politico (in Venezuela alcuni sono arrivati a schierarsi con le opposizioni di destra). 


(10) vedi i due post su Podemos che ho pubblicato sul questo blog. Vedi anche M. Monereo, Oligarquia o Democracia, El Viejo Topo, 2020. 


(11) Linera loda il realismo delle scelte di Lenin al tempo della NEP. Al tempo stesso, sembra ritenere che lo stesso Lenin, ai tempi, fosse convinto che il capitalismo di stato adottato da un Paese socialista fosse un male necessario e comunque non sostanzialmente diverso da quello in vigore nei paesi capitalisti. Ma basta leggere questa citazione ripresa da A. Gabriele (cfr. Enterprises; Industry and Innovation in the People’s Republic of China, Springer, Berlino 2020) per capire che le cose non stanno esattamente così: << il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato.  Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano>>. In altre parole il punto, per Lenin, non è la forma giuridica della proprietà statale bensì quale classe ne detiene il controllo politico. Né Lenin pensava, diversamente da Linera, che per riconoscere la natura di classe di tale controllo fosse necessario il controllo diretto dei proletari sull’industria di stato.  


(12) La discussione sul ruolo politico di queste forme comunitarie tradizionali in ambito marxista non è inedito: vedi il dibattito fra Marx e i Narodniki a proposito del destino della obščina, l’antica comunità di villaggio dei contadini russi. Vedi, in particolare, la celebre lettera a Vera Zasulic contenuta nella antologia di scritti di Marx ed Engels India Cina Russia (il Saggiatore, Milano 1960); vedi infine P. P. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1978.      

venerdì 9 aprile 2021




GLOSSE ALLA “ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE” DI LUKACS (IV)


Con questo post si conclude il mio commentario alla “Ontologia dell’essere sociale” di Gyorgy Lukacs, una delle opere più importanti, se non la più importante, che un filosofo marxista abbia scritto nel Novecento. Come ho chiarito nella prima puntata, non era mia intenzione, non essendo chi scrive un filosofo accademico, produrre un’analisi filologica, né tanto meno una esegesi accurata e completa, dell’ultimo fondamentale lavoro del grande pensatore ungherese. Il mio obiettivo, più modesto, ma forse più utile e interessante sul piano ideologico, era simile a quello del commentario ai “Quaderni dal carcere” di Gramsci che ho inserito in un mio recente libro (1), vale a dire estrarre dai quattro volumi della Ontologia i passaggi che ritengo più stimolanti per interpretare la realtà contemporanea, ma soprattutto più adatti a fornire indicazioni teoriche – da intendere marxianamente come guide per la prassi – per restituire motivazioni alla lotta di classe, in un momento storico in cui l’offensiva del capitale sembra avere ridotto ai minimi termini le nostre capacità di resistenza. Se e in che misura ci sia riuscito lo giudicheranno i lettori. Aggiungo solo che l’insieme dei materiali pubblicati in queste quattro puntate ha le dimensioni di un saggio di media lunghezza, di cui potrebbe rappresentare la prima stesura, da rivedere e correggere nel caso decidessi di pubblicarne una versione cartacea, ma devo ancora capire  se valga la pena di farlo .  



5. Libertà, socialismo, utopia 


Nella quarta sezione abbiamo esaminato la critica lukacsiana delle ideologie associate ad alcune sfere dell’essere sociale, come la religione e il diritto (che tuttavia, come si è visto, Lukacs non liquida come dimensioni ”illusorie”, prive di consistenza ontologica) . Nella stessa sezione abbiamo ripreso il tema – già affrontato nella seconda e nella terza sezione – della critica del concetto di necessità storica elaborato dal materialismo volgare. Nella prima parte di questa quinta e ultima sezione torneremo su quest'ultimo argomento a partire dalla critica all’antitesi fra necessità e libertà posta dal pensiero orientato in senso idealistico. Contro questa impostazione, Lukacs sottolinea che il problema della libertà può essere posto in maniera sensata soltanto in un rapporto di complementarietà con la necessità. Se nella realtà non ci fosse nessuna necessità, non sarebbe possibile neppure la libertà, la quale però non esisterebbe nemmeno in un mondo dominato dal determinismo di Laplace, dal <<ritorno dell’identico>> di Nietzsche, e così via (vol. IV, p. 350). 

L

’opposizione fra necessità e libertà, da cui muove il pensiero orientato in senso logico-gnoseologico identifica semplicemente il determinismo con la necessità, in quanto generalizza ed estremizza in termini razionalistici il concetto di necessità, dimenticando il suo carattere ontologico autentico di <<se…allora>> (vedi seconda e terza sezione). In secondo luogo, la filosofia premarxiana, anzitutto quella idealistica (…) per la massima parte estende in modo ontologicamente illegittimo il concetto di teleologia alla natura e alla storia, per cui ha grandissima difficoltà a impostare il problema della libertà nella sua forma vera, autentica, reale (vol. III, p. 117). Viceversa, chi voglia impostarlo nella sua forma autentica, argomenta Lukacs, deve ricercarne il fondamento reale nella decisione concreta fra diverse possibilità concrete; se la questione viene portata a un più alto livello di astrazione distaccandola del tutto dal concreto, essa perde ogni contatto con la realtà, diviene una vuota speculazione (vol. III, p. 113). Dopodiché, più in  basso nella stessa pagina, avverte che più complicato è rispondere alla domanda fino a che punto il determinismo esterno o interno alla decisione può essere inteso come criterio della sua libertà. Se l’antitesi fra determinismo e libertà viene concepita in termini astratto-logicistici, si viene a dire che soltanto un dio onnipotente potrebbe davvero essere interamente libero, il quale però, data la sua essenza teologica, poi esisterebbe oltre la sfera della libertà. Ma nell’uomo, che ”vive nella società e socialmente agisce”, la libertà non è mai del tutto priva di determinismo (ivi). 


Lukacs ripropone quest’ultimo principio anche laddove critica l’illusoria convinzione che i singoli possano compiere “atti soggettivi puri”. Si può credere che esista qualcosa del genere solo nella misura in cui gli atti in questione vengano considerati “nella loro immediatezza semplificata ed estremizzata”. Ma la verità è che, a metterli in moto, è sempre in ultima analisi l’impulso a produrre una <<risposta>> a domande poste dalla società,  dal momento che l’uomo non può mai agire in situazioni umanamente vuote, anzi ciascuna delle sue azioni, anche la più bizzarra (…) non può non provenire da comunità umane e in qualche maniera sfociare in esse (vol. I, p. 69). Tanto meno l’opposizione fra libertà e necessità si regge laddove venga formulata come opposizione fra sfera dell’agire orientato allo scopo e sfera delle relazioni causali, fra intenzionalità umana e legalità naturale, fra teleologia e causalità: contrapporre queste dimensioni come momenti dell’essere è dal punto di vista ontologico privo di senso, argomenta Lukacs, in quanto la causalità può esistere e operare senza teleologia, mentre questa può avere essere reale nel gioco con la causalità, soltanto come momento di tale complesso, presente solo nell’essere sociale (vol. IV, p. 336). Ancora una volta la libertà può dunque essere concepita solo come esito del fatto che l’agire teleologico produce nel mondo fenomenico campi “liberi”, la cui libertà, tuttavia,  è possibile solo all’interno delle legalità del campo (vol. IV, p. 376). 


Come si vede, il modello concettuale all’opera dietro ogni argomentazione di Lukacs continua ad essere quello del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura (vedi prima sezione). Teleologia e causalità si mettono in relazione nell’essere sociale esattamente come avviene nella prassi lavorativa: i processi le situazioni, ecc. sociali sono bensì in ultima analisi prodotti di decisioni alternative degli uomini, ma non va dimenticato che acquistano rilievo sociale solo quando mettono in funzione serie causali che si muovono più o meno indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha poste, secondo legalità specifiche ad esse immanenti. L’uomo che agisce praticamente nella società si trova perciò di fronte a una seconda natura (ricordiamo che Lukacs precisa che il concetto di seconda natura è da intendersi in senso metaforico), verso la quale egli, se vuole gestirla con successo, deve comportarsi come con la prima, cioè deve cercare di trasformare in un fatto posto da lui il corso delle cose che è indipendente dalla sua coscienza, deve, dopo averne conosciuto l’essenza, stamparci l’impronta di quel che egli vuole (vol. III, p, 125). 


Ciò detto, quello che qui ci appare come un campo “libero”, ancora più esteso e dalle conseguenze ancora più significative di quello generato dalla prassi del lavoro, incontra il proprio limite nella misura in cui l’analisi ci mostra un ulteriore momento significativo del determinismo del soggetto dell’alternativa: la necessaria ignoranza delle sue conseguenze o almeno di una parte di esse. Del resto è facile vedere come sia anzitutto la vita quotidiana che di continuo pone davanti ad alternative inattese e spesso bisogna trovare una risposta immediata, pena la rovina; in tal caso il carattere essenziale dell’alternativa medesima è che bisogna decidere non conoscendo la maggioranza delle componenti della situazione, delle conseguenze, ecc. Quindi dobbiamo arguire che l’ignoranza delle conseguenze dell’agire rimuove ogni elemento di libertà da quest’ultimo? No perché, prosegue Lukacs,  anche così resta un minimo di libertà della decisione; anche in questo caso (cioè l’azione dettata dalla necessità di reagire immediatamente di fronte ad alternative inattese) - come caso limite – si tratta pur sempre di una alternativa e non di un evento naturale determinato da una causalità puramente spontanea (vol. III, p. 114). 


La tensione fra l’apertura del campo delle alternative possibili che si offrono all’agire del  soggetto umano, e i vincoli posti dalla legalità del contesto sociale in cui esso opera, attinge a livelli parossistici di fronte all’enorme sviluppo della potenza tecnico scientifica alimentato dal capitalismo contemporaneo. Quest’ultimo sembra fare dell’individuo “un plasmatore sovrano di tutte le cose”, di fronte alla cui volontà plasmatoria non c’è nessun mondo dell’essere che risulti indipendente, e tuttavia al tempo stesso ogni uomo diventa un nulla impotente di fronte alla onnipotenza della manipolazione (2). L’aspetto più rilevante della nostra epoca, per quanto concerne il rapporto fra teleologia (libertà) e necessità (determinismo), può quindi essere descritto come il coesistere di una onnipotenza astratta e di una concreta impotenza (3).


Questo paradosso, tuttavia, non è il risultato di tendenze puramente “oggettive”, di dispositivi meramente causali, bensì dell’agire egemonico dell’ideologia (intesa nel senso chiarito nella sezione precedente, cioè come necessaria espressione di interessi determinati) dei gruppi dominanti: Basta ricordare con quale forza l’attuale capitalismo manipolato, con i suoi interventi <<regolati>> sul mercato dei consumi e dei servizi, con i suoi mass-media, agisca nel senso di restringere la possibilità di decisioni veramente personali (proprio mediante l’apparenza propagandistica del loro massimo dispiegamento) (vol. I, p. 185). E, accanto a (e in sinergia con) i meccanismi manipolativi della comunicazione pubblicitaria e mediatica operano quelli del sistema educativo: ogni educazione è per l’appunto diretta a sviluppare nell’alunno possibilità molto determinate, che nelle date circostanze appaiono socialmente importanti, e a reprimere o modificare quelle che vengono considerate dannose per tale situazione (vol. I, p. 187). 


Per dirlo con altre parole: le alternative cui veniamo messi di fronte – e che delimitano il campo delle nostre scelte e quindi l’ampiezza della nostra libertà – non sono mai semplicemente “date” (prodotto cioè di vincoli meramente “oggettivi”) ma vengono sviluppate con consapevolezza più o meno giusta oppure si tenta di reprimerle, per formare un essere umano utile e utilizzabile per la società (ivi). Quanto appena detto vale, ovviamente, tanto per la società capitalista quanto per quella socialista, intesa come transizione verso il comunismo, mentre quest’ultimo, nella prospettiva utopistica delineata da Marx, dovrebbe proiettarsi al di là delle modalità di relazione fra libertà e necessità sin qui descritte, verso una nuova dimensione del concetto di libertà umana. Ed è appunto del modo in cui Lukacs affronta il tema dei rapporti fra necessità e libertà nel socialismo e nel comunismo che discuteremo nella seconda parte di questa quinta e ultima sezione.  


A fondare la possibilità (non la necessità!) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che il lavoro teleologicamente, consapevolmente, posto contiene in sé fin dall’inizio la possibilità (dynamis) di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo. Questa capacità del lavoro, prosegue Lukacs, crea la base oggettiva della schiavitù, prima della quale esisteva solo l’alternativa di uccidere o di adottare il nemico fatto prigioniero e, dopo avere aggiunto che, analogamente, è tale capacità che ha consentito il cammino storico delle successive forme economiche fino al capitalismo, nel quale questo valore d’uso della forza-lavoro diviene la base dell’intero sistema, Lukacs conclude il ragionamento ricordando che “quale che sia l’orrore ideologico che prende qualche teorico di fronte all’espressione pluslavoro” anche il regno della libertà nel socialismo, la possibilità di un tempo libero sensato, riposa su questa fondamentale peculiarità del lavoro di produrre più di quanto occorra per la riproduzione del lavoratore (vol. III, p. 136). 


Ho ritenuto opportuno sottolineare come i passaggi dall’una all’altra forma sociale siano qui posti sotto la categoria della possibilità, e non sotto quella della necessità, per ribadire quanto già appurato in tutte precedenti sezioni, vale a dire il fatto che, per Lukacs - come per Marx (4) – non esiste una direzione necessaria, immanente al processo storico e scandita dagli automatismi evolutivi delle forze produttive, bensì appunto il progressivo allargamento del campo di possibilità disponibili sotto forma di alternative poste di fronte alla soggettività umana.  


In primo luogo, occorre ricordare che, se si accetta il punto di vista marxiano sul tema, il regno della libertà si potrà realizzare solo nel comunismo, come Lukacs ricorda citando quanto scrive Marx nel III libro del Capitale: <<il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria>>. Viceversa, nel socialismo come prima fase del comunismo la libertà <<può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca (…) Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa >> (5). 







Da questo passaggio Lukacs deriva, fra le altre cose, la considerazione che l’economia (intesa in senso generale) è e rimane anche nel socialismo il regno della necessità, nella misura in cui la lotta dell’uomo con la natura per soddisfare i suoi bisogni e riprodurre la propria vita, non può, per principio, cambiare dati i suoi fondamenti ontologici (vol. IV, p. 510). Al tempo stesso, ne fa discendere il fatto che, nella misura in cui riconfigura forma e contenuto della relazione fra necessità (l’economia come ricambio organico fra uomo e natura) e libertà (che ora si configura come controllo consapevole dei produttori associati sull’economia), il socialismo prepara le condizioni per la transizione al comunismo. Ma, di nuovo, precisa che il processo in quanto tale, dal punto di vista ontologico, non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità affinché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo (vol. IV, p. 511). 


Se il comunismo dovrà essere, secondo Marx, la forma sociale in cui il lavoro sarà <<non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno di vita>>, al socialismo spetta il compito di preparare le condizioni perché ciò possa avvenire, perché allo sviluppo illimitato delle forze produttive possa essere sottratto il senso economico, anche se oggi possiamo vedere soltanto certe tendenze – che non è possibile interpretare in modo del tutto univoco – in tale direzione (vol. IV, p. 513). Da notare che Lukacs non considera tutto ciò esclusivamente come tendenza verso un futuro possibile, ma mette in luce come la storia abbia già prodotto esempi almeno parziali di un simile orientamento:  dalle semplici economie contadine, in circostanze relativamente favorevoli, fino all’artigianato del tardo medioevo e del Rinascimento, ci sono state ripetutamente situazioni nelle quali il lavoro ha potuto avere questa funzione nella vita degli uomini. Ma sempre in maniera transitoria, perché fino a oggi lo sviluppo economico ha sempre per forza di cose (6) distrutto tali realizzazioni soggettive fondate sull’arretratezza delle forze produttive (vol. IV, p. 512). Il fatto poi che l’impulso emotivo dell’uomo a trovare nel lavoro il senso della propria vita sia inestirpabile, come argomenta Lukacs a conclusione del passaggio appena citato, è probabilmente ciò che altrove lo induce ad affermare che certe rappresentazioni positivo nostalgiche del passato ovviamente con riadattamenti adeguati ai tempi, abbiano in periodi di crisi un grande peso e svolgano una funzione positiva (vol. IV, p. 798), non siano cioè automaticamente liquidabili come rigurgiti ideologici di segno conservatore o francamente reazionario (7). 


A questo punto dobbiamo porci un interrogativo: in che misura Lukacs crede realmente nella possibilità reale, concreta, della realizzazione dell’utopia marxiana, e in quale misura non la valorizza piuttosto come strumento per l’azione politica,  come una “ideologia”, nel senso positivo che abbiamo chiarito nella precedente sezione? Come vedremo è difficile dare una risposta netta, perché nel testo lukacsiano non mancano elementi di ambiguità. Un’ambiguità che emerge, per esempio, laddove Lukacs si occupa della funzione ideologica dell’utopia, scrivendo che l’impossibilità di tradursi in realtà di quest’ultima non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato (…) l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità (vol. IV p. 522). 


A questo punto l’interrogativo formulato poco sopra potrebbe essere liquidato come irrilevante, dal momento che Lukacs ci dice che, dal punto di vista della prassi politica, la concreta realizzabilità dell’utopia è un problema ininfluente. Ma ciò non renderebbe giustizia all’impegno che Lukacs profonde nel misurarsi con la “verità” dell’utopia marxiana. È pur vero che egli dedica poco spazio a un altro tema che gli intellettuali marxisti appartenenti alle correnti libertarie considerano cruciale, qual è la previsione marxiana in merito  all’estinzione dello Stato nella società comunista realizzata, scrivendo che l’estinzione è questione dello sviluppo futuro, che non è prevedibile (vol. III, p. 220), per cui anche qui fa capolino l’ipotesi che l’utopia possa essere per lui un mero strumento di lotta politica, ma è altrettanto vero che in altre circostanze sembra prendere invece molto sul serio la visione marxiana delle mutazioni antropologiche associate all’avvento del comunismo realizzato. Per esempio, dopo avere ricordato come per Marx l’avere rappresenti nella vita degli individui un forte motore per l’estraniazione, Lukacs inserisce (vol. IV, p. 573) questa lunga citazione dai Manoscritti economico-filosofici : << La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e qualità sono divenuti umani sia soggettivamente che oggettivamente (in altre parole i sensi così “umanizzati”) si rapportano sì, alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento ha perciò perduto la sua natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento che l’utile è divenuto utile umano>>. (8) 


È chiaro che questa citazione riflette un punto di vista che attribuisce all’uomo comunista del futuro un forte connotato di “autenticità”, nella misura in cui prevede che egli possa compiutamente emanciparsi da ogni forma di estraniazione. E Lukacs sembra fare propria questa visione, laddove critica quelle correnti filosofiche (qui il bersaglio sono verosimilmente gli esistenzialisti) che non considerano l’estraniazione una caratteristica peculiare della società borghese e capitalistica, ma la trasformano in una “condition humaine” universale e sovrastorica, dove ad esempio l’uomo si contrappone alla società, il soggetto alla oggettività, ecc. (vol. IV, p. 568). Dunque Lukacs è convinto, al pari di Marx, che ogni e qualsiasi tipo di estraniazione sia destinata a sparire nel comunismo realizzato? Non suonerebbe questa come una sorta di profezia di “fine della storia”, in palese contraddizione con la concezione lukacsiana della storia che abbiamo fin qui tentato di esporre? Lasciamo in sospeso questo interrogativo, che proveremo ad affrontare nella seconda parte.


Glosse 


La prima parte dei materiali che ho selezionato e raccolto in questa sezione contiene una serie di argomentazioni critiche contro il concetto astratto di libertà. Molte di esse mi paiono sufficientemente chiare, tanto da non richiedere particolari apporti esplicativi, per cui mi concentrerò solo su quegli aspetti che ritengo propedeutici alla discussione del tema al centro di questa seconda parte, vale a dire la transizione dal capitalismo al socialismo come passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Inizio provando a evidenziare il filo rosso che connette questi due piani del discorso lukacsiano, identificabile, a mio parere, nel tema dell’estensione del campo di possibilità che il lavoro – inteso come dimensione dell’agire teleologico, intenzionale del soggetto umano – viene progressivamente generando a mano a mano che avanza il processo di socializzazione dell’essere sociale. Questo processo non è lineare, né univocamente direzionato da un qualche tipo di teleologia immanente, ma consiste in una serie di scelte che mettono in moto catene causali – il cui esito è in larga misura imprevedibile per il soggetto che opera tali scelte (e questa è la breccia attraverso cui  la necessità torna a imporre pedaggio alla libertà) – le quali, a loro volta, dischiudono un nuovo campo di possibilità e quindi pongono il soggetto di fronte a alternative inedite, concedendogli un nuovo spazio in cui esercitare una libertà che, tuttavia, è possibile solo all’interno delle legalità del campo. 


Ovviamente il soggetto cui qui si riferisce Lukacs non è il soggetto individuale che sta al centro della concezione liberale del mondo e della politica. Un soggetto che, secondo tale concezione, è portatore esclusivamente di libertà “negative”, “libertà da”, nella misura in cui il fardello della necessità viene espulso dall’orizzonte quotidiano di vita e proiettato sul Leviatano, cioè sul corpo artificiale della soggettività collettiva incarnato dallo Stato, secondo la raffigurazione di Hobbes (per inciso, è per questo che l’ideologia liberale non può tollerare la “libertà di”, intesa come limitazione delle libertà individuali – in primis la libertà associata al diritto di proprietà privata – laddove queste entrino in conflitto con esigenze e bisogni collettivi, perché ciò comporta l’intrusione del Leviatano nella sfera privata del singolo) (9). Per Lukacs questo soggetto, è una costruzione artificiale che letteralmente non esiste: nessuno può compiere “atti soggettivi puri” (anche se è possibile crederlo quando ci si limiti a considerarli “nella loro immediatezza semplificata ed estremizzata”), per la semplice ragione che ogni atto soggettivo è sempre e solo una “risposta” a domande poste dalla società. Proiettare lo spettro della necessità sul Leviatano non può impedire che le “leggi” generate dalla totalità delle relazioni intersoggettive – tanto fra singoli che fra gruppi sociali – impongano vincoli stringenti all’azione di chiunque, operando come una sorta di “seconda natura”.


Ma l’ideologia liberale può contare su un’arma particolarmente affilata per alimentare il perpetuarsi dell’illusione, può contare cioè sull’enorme sviluppo della potenza scientifica e tecnologica che, nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, e con un’accelerazione formidabile negli ultimi decenni,  ha sgombrato il campo da gran parte parte degli ostacoli che la “prima” natura pone alla libertà umana. La celebrazione del progresso tecnologico e scientifico alimenta una sfrenata euforia, sistematicamente amplificata dalla narrazione dei mass media e dal sistema educativo, che induce a rappresentare, scrive Lukacs, il moderno soggetto umano come “il plasmatore di tutte le cose”, che concentra l’attenzione sul continuo proliferare di inedite possibilità di comunicazione a distanza, di cure mediche, di viaggi veloci, di consumo di prodotti e servizi di ogni genere, ecc. mentre proietta un cono d’ombra sulle contraddizioni generate dagli effetti imprevisti e imprevedibili di tale accelerazione: dal degrado ambientale, alla progressione geometrica delle disuguaglianze economiche e sociali. Nel contempo, l’immagine del Leviatano – fonte di una necessità incarnata in un insieme di regole, valori, procedure e principi  percepiti come arbitrarie imposizioni - , subisce una ulteriore negativizzazione consentendo al “capitalismo manipolato” (10) di addebitare all‘invadenza dello Stato il perpetuarsi di vincoli all’agire individuale che la scienza e la tecnica sarebbero ormai in grado di rimuovere (11). Nasce così quella coesistenza fra onnipotenza astratta e concreta impotenza che fa sì che ogni uomo diventi un nulla impotente di fronte alla onnipotenza della manipolazione. 


Il filo rosso che connette l’analisi appena esposta al discorso sul socialismo come regno della libertà sta qui, ma qui stanno anche le contraddizioni e le problematicità con cui questo filo è intessuto. Lo scenario appena descritto non mette forse in discussione il dogma in base al quale, quanto più elevato è il livello di sviluppo delle forze produttive raggiunto dal modo di produzione capitalistico, quanto più si avvicina la concreta possibilità della transizione al socialismo, il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà? È pur vero che Lukacs, contrariamente ai marxisti volgari, concepisce tale transizione come una possibilità, non come una necessità dettata da presunte “leggi” del processo storico, il quale dal punto di vista ontologico, non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità affinché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. E tuttavia: basta questo spostamento del punto di vista a riscattare il dogma della transizione al socialismo come prodotto della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione? Basta cioè che la contraddizione non sia più presentata come motore “oggettivo” del processo bensì come condizione di possibilità? 


Per abbozzare una risposta, occorre inquadrare storicamente il discorso di Lukacs sul socialismo. Il filosofo ungherese scrive l’opera di cui stiamo discutendo negli anni Sessanta, in un’epoca in cui il socialismo reale, che di lì a poco sarebbe entrato in crisi, si era già lasciato alle spalle mezzo secolo di storia e aveva dovuto aggiornare più volte i concetti su cui fondava la propria autogiustificazione, quindi la riflessione lukacsiana risente necessariamente di questo lungo e complesso travaglio ideale, di cui non è possibile rendere pienamente conto nello spazio limitato di questo lavoro. Sfruttando un recente contributo di Vladimiro Giacché (12), siamo tuttavia in grado di sintetizzare alcuni passaggi fondamentali del dibattito teorico sul socialismo dagli anni 70 del secolo XIX ai giorni in cui Lukacs scrive la sua Ontologia.  


Giacché  prende le mosse dall’ Anti Duhring di Engels (13) un’opera uscita alla fine degli anni 70 che, come La Critica al Programma di Gotha scritta da Marx qualche anno prima, aveva fra gli altri scopi quello di fare chiarezza sulla questione del socialismo che, in quel periodo, era oggetto di divergenze all’interno del Partito Socialdemocratico tedesco. Nel suo lavoro Engels afferma chiaramente che la società socialista non è caratterizzata solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari. In altre parole, quelle che più tardi verranno descritte come caratteristiche del comunismo realizzato, vengono qui associate al socialismo come prima fase del comunismo. A ulteriore conferma di quanto appena affermato, riprendo qui di seguito alcuni passaggi da due lunghe citazioni dal testo di Engels inserite nell’articolo di Giacché: <<La lotta per l’esistenza individuale cessa, l’uomo si separa definitivamente dal regno degli animali e passa da condizioni di esistenza animali a condizioni di esistenza umane>>; <<Per la prima volta (gli uomini) diventano coscienti ed effettivi padroni della natura in quanto padroni della propria organizzazione sociale>>; <<Solo da questo momento gli uomini stessi faranno con piena coscienza la loro storia>>. Engels scrive inoltre che sparisce il valore lavoro e la contabilità sociale si basa sulla << sola misura naturale, adeguata, assoluta, il tempo>>. 







Mi pare non sussistano dubbi: per Engels il passaggio dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà – o almeno il suo primo, decisivo passo – si compie già nella società socialista. Questa visione, ricorda Giacché, non era condivisa dal solo Marx, ma anche da esponenti di primo piano della Socialdemocrazia tedesca e della Seconda Internazionale, come Kautsky e Hilferding; quest’ultimo negava ad esempio qualsiasi ipotesi di gradualismo nell’attuazione del programma delineato da Engels, come si evince da quest’altra citazione di Giacché: <<Un tale rovesciamento può verificarsi solo in modo subitaneo, sottoponendo l’intera produzione a un consapevole controllo>>. Né questo punto di vista verrà messo in discussione da Bucharin e Lenin negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione del 1917. Fino al 1919/20 Lenin pensava ancora che al monopolio di stato sul commercio sarebbe dovuta subentrare la sostituzione totale del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano. Tuttavia, già negli anni 1921-23 (siamo alla NEP), Lenin critica in un primo tempo la convinzione per cui si sarebbe potuti passare direttamente al socialismo senza un periodo di transizione in cui adattare la vecchia economia alle esigenze della nuova, dopodiché ammette esplicitamente che, per arrivare al socialismo, sarebbe stata necessaria una lunga fase di transizione, caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari.


Nel periodo staliniano le caratteristiche che da Engels al Lenin ante NEP erano associate alla società socialista verranno proiettate nell’indefinito futuro della società comunista realizzata (14), mentre la società socialista verrà riconosciuta come un autonomo e specifico modo di produzione, nel quale, assieme ai rapporti mercantili e monetari, persistono anche la legge del valore e il suo ruolo nella regolazione degli scambi economici (15). Infine, nell’epoca post staliniana in cui scrive Lukacs, i Paesi socialisti sono al centro di una serie di tentativi di riforme economiche, con le quali si tenta di razionalizzare e risolvere i conflitti e le contraddizioni generate dalla coesistenza fra piano e mercato. In che misura questo tormentato processo si rispecchia nelle riflessioni filosofiche di Lukacs? 







Nella prima parte abbiamo evidenziato come il nostro prenda le mosse, anche nel discutere i temi della transizione, dal lavoro: il regno della libertà è possibile solo in quanto il lavoro contiene in sé la dynamis che gli consente di produrre pluslavoro, cioè più del necessario per riprodurre il soggetto che lo compie. Quindi la possibilità della transizione al socialismo si fonda, né più e né meno di quella dalla schiavitù al feudalesimo e di quella dal feudalesimo al capitalismo, su questa proprietà dell’attività lavorativa. Ciò detto, Lukacs ci dice che, visto che l’economia in senso generale, metastorico – cioè l’economia intesa come ricambio organico fra uomo e natura – non  può discostarsi dai suoi fondamenti ontologici, ne discende che essa rimane il regno della necessità anche nel socialismo, per cui siamo già di fatto nell’ordine del “realismo” dell’ultimo Lenin, allorché costui accantona le aspettative engelsiane sulla società socialista come regno della libertà. 


È pur vero che Lukacs non sembra negare che, in linea di principio, possano realizzarsi condizioni che consentano all’essere sociale di proiettarsi “oltre la sfera della produzione materiale vera e propria” (per dirla con Marx), di sottrarre cioè allo sviluppo illimitato delle forze produttive il suo significato economico. Tuttavia è sintomatico il fatto che, per descrivere il comunismo, il regno della libertà in cui <<il lavoro sarà non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno di vita>>, il mondo che realizzerà <<la completa emancipazione di tutti i sensi e di tutte le qualità umane>>, Lukacs eviti di riferirsi ai sopracitati scritti “politici” – di Engels, Lenin, ma anche dello stesso Marx – preferendo citare i Manoscritti e i passaggi più “filosofici” delle opere maggiori come il Capitale o i Grundrisse. Per questo motivo, come anticipato in precedenza, ritengo sia legittimo ipotizzare che, rilanciando l’orizzonte utopistico del comunismo, Lukacs compia un gesto “ideologico” più che compiere una previsione sull’evoluzione dell’essere sociale. In primo luogo, perché altrimenti cadrebbe in contraddizione con l’intero impianto argomentativo dell’Ontologia che, come si è visto, nega l’esistenza di qualsiasi teleologia immanente al processo storico, ma soprattutto perché tutti gli annunci in merito all’avvento di una umanità “autentica”– dal tono a dir poco profetico – che abbiamo sentito citare poco sopra da Giacché, somigliano troppo ad altrettante profezie di “fine della storia” per risultare compatibili con l’impianto filosofico che ho fin qui tentato di descrivere. infine perché, come anticipato nelle pagine precedenti, quel passaggio in cui Lukacs scrive che l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità, mi sembra un indizio risolutivo  della tacita intenzione di assumere l’utopico regno della libertà soprattutto, se non esclusivamente, come strumento di lotta ideologica. 


Si potrebbe concludere dicendo che, mentre nell’Ontologia la critica dell’impostazione idealista del rapporto fra necessità e libertà appare un compito brillantemente risolto, la questione del socialismo come regno della libertà rimane impaniata in una serie di tensioni contraddittorie che, in buona sostanza, riflettono le contraddizioni irrisolte del sistema socialista in cui Lukacs ha trascorso la vita intera. Eppure proprio quelle tensioni possono rivelarsi proficue per affrontare un tema di bruciante attualità: come collochiamo il socialismo cinese nel quadro concettuale appena abbozzato? Sul fatto che la Cina socialista non rappresenti il regno della libertà non possono sussistere dubbi, anche perché sono gli stessi intellettuali comunisti di quel Paese ad escluderlo (16). Ma che dire dell’atteggiamento della grande maggioranza dei marxisti occidentali contemporanei, i quali, di fronte allo straordinario successo dell’esperimento del socialismo di mercato cinese (o con mercato, secondo altre definizioni) (17), che in pochi decenni ha consentito a un Paese ex coloniale di divenire la seconda potenza economica mondiale e di riscattare dalla povertà un miliardo di esseri umani, rifiutano di chiedersi se questo fenomeno sposti radicalmente i termini della definizione stessa di cos’è una società socialista?


Conosciamo gli argomenti con cui costoro giustificano tale atteggiamento: in Cina c’è un capitalismo di stato che sta rapidamente regredendo verso una società capitalista tour court (18); non è possibile costruire il socialismo in un solo Paese (questa litania trotskista ha ormai contaminato la totalità degli intellettuali marxisti occidentali, i quali, stregati dalla globalizzazione capitalistica, vanno blaterando che oggi più di ieri vale il principio secondo cui la rivoluzione socialista può essere solo mondiale - forse si preparano a sincronizzare gli orologi sull’ora X);  la Cina è un Paese totalitario (19), ecc. Per tacere di quelli che risfoderano gli argomenti di Engels, Kautsky e Hilferding (vedi sopra) che immaginavano il socialismo come transizione immediata a una società senza mercato e moneta (e perché no, senza stato). 


Conosciamo anche gli argomenti con cui i comunisti cinesi replicano a queste critiche: la transizione al socialismo è un processo di lunga durata, che implica avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte, in cui non solo permangono relazioni di mercato, ma permane anche la lotta di classe, dal cui esito dipende se il processo andrà avanti o sarà bloccato. Un processo che, malgrado le riforme e le concessioni ai capitalisti nazionali e internazionali, rimane sotto lo stretto controllo dello stato/partito che garantisce che a trarre beneficio dallo sviluppo economico siano in primo luogo le classi subalterne. 


Qual è l’unità di misura che consente di verificare se tale garanzia è reale? Per rispondere torniamo a Lukacs e al suo discorso sul pluslavoro come conseguenza della caratteristica ontologica del lavoro di produrre più del necessario alla riproduzione del lavoratore: è questa caratteristica che permette di concepire la transizione al “regno della libertà”, e in quel passaggio Lukacs definisce tale regno come possibilità di un tempo libero sensato, mentre altrove scrive economia di tempo, in questo si risolve infine ogni economia (vol. III, p. 144).  Analogamente David Harvey (20), dopo avere giustificato le riforme postmaoiste come una scelta inevitabile, imposta dalla necessità di sottrarre centinaia di milioni di cittadini alla povertà, conclude che i propositi dello stato/partito di fondare su quella formidabile accelerazione dello sviluppo la transizione al socialismo verranno messi alla prova dalla capacità del sistema di non produrre solo benessere,  ma anche possibilità di un tempo libero sensato, per usare le parole di Lukacs. 







Ciò detto è interessante notare che il Partito Comunista Cinese, malgrado il suo pragmatismo, descrive il comunismo realizzato esattamente negli stessi termini in cui lo descrivevano Marx, Engels e Lenin. Confesso che mi importa poco stabilire in che misura ci credano realmente, o utilizzino piuttosto questo immaginario utopistico come arma ideologica. Quello che conta veramente, a mio avviso, è il riconoscimento del persistere del conflitto di classe nel socialismo (ciò che nei Paesi del blocco sovietico veniva sistematicamente negato): è questo il vero pilastro su cui si fonda la catena di inedite possibilità che, secondo Lukacs, si presentano a ogni passaggio storico cruciale. È lì che l’essere sociale può fare passi - non verso il “regno della libertà”, al quale,  in quanto rappresentazione irenica di un mondo senza conflitti, credo personalmente assai poco – ma verso un mondo in cui tutti possano disporre “di un tempo libero sensato”.



Note


(1) Cfr. “Appunti sparsi sui Quaderni di Antonio Gramsci” in C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019, pp. 204 e segg. 


(2) Mi pare che questa immagine dell’uomo ridotto a un nulla impotente di fronte alla onnipotenza della manipolazione confermi le assonanze, già evocate in precedenza, fra il pensiero di Lukacs e alcuni temi caratterizzanti degli autori della Scuola di Francoforte.


(3) Poche righe sotto Lukacs mette in relazione questa condizione con certi sviluppi della teologia moderna: <<Poiché alla ontologia tradizionale delle religioni quasi più nessuno ci crede davvero, questo annientamento teorico dell’essere ha offerto la possibilità di formulare il bisogno religioso d’oggi in termini tali da produrre un accordo con la scienza più moderna circa il non- essere dell’essere. (Si pensi a Teilhard de Chardin e Pascual Jordan)>>.


(4) Mi riferisco alla nota replica di Marx all’economista che aveva recensito l’edizione russa del Capitale in cui leggiamo: <<Egli (il recensore) sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto>>. Il lettore trova un mio commento in merito nel post che ho dedicato all’antologia di scritti di Marx ed Engels India, Cina Russia in un post precedente.  


(5) a p. 144 del III volume, troviamo citata quest’altra frase di Marx, tratta dai Grundrisse: <<Economia di tempo, in questo si risolve infine ogni economia>>. Si tratta di un leitmotiv della riflessione lukacsiana, che in tutta l’opera che stiamo discutendo pone al centro la contraddizione fra tempo di lavoro come fonte del valore e tempo di lavoro come misura della relazione fra necessità e libertà. 


(6) Questo “per forza di cose” suona come una concessione eccessiva al determinismo economista che, invece, abbiamo visto che Lukacs contrasta decisamente. Che certe forme economiche precapitaliste siano necessariamente destinate a soccombere alla potenza dissolutrice del mercato capitalistico è messo in dubbio dallo stesso Marx, nel corso del suo confronto con le teorie dei populisti russi in merito al possibile passaggio diretto delle comunità contadine russe al socialismo senza passare dalla fase capitalista (vedi alcuni dei testi raccolti nell’antologia India Cina Russia, citata nella nota 5 e discussi in mio precedente post ). 


(7) Sempre sulla capacità di resilienza di certe forme comunitarie precapitaliste e sul loro possibile ruolo nella lotta anticapitalista (e quindi non solo fonte di nostalgie conservatrici) vedi quanto scrive A. G. Linera a proposito del contributo delle comunità indigene andine alla rivoluzione boliviana (Forma valor y forma comunidad, Traficantes de sueños, Quito 2015. 


(8) MEGA, I. 3, p.120 (trad.it. Manoscritti economico-filosofici, cit. p. 329)


(9) L’evoluzione in senso antistatalista dell’orientamento ideologico delle sinistre radicali ne ha di fatto determinato il progressivo allineamento con l’antistatalismo di matrice liberale, dando origine a una tendenza culturale che ha il suo interprete più coerente nell’area dei Libertarian statunitensi e che, altrove, ho definito anarcocapitalista (cfr. Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013).


10) Anche questo concetto evoca assonanze francofortesi, si pensi alla categoria di “desublimazione repressiva” elaborata da Marcuse (cfr. L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967).


(11) Manifestazioni tipiche di questa illusione di onnipotenza del soggetto individuale, alimentata dalle possibilità di manipolazione tecnologica del mondo, sono, fra le altre, i miti transumanisti su un futuro caratterizzato dall’ibridazione uomo macchina e dalla conseguente possibilità di attingere all’onniscienza e all’immortalità (cfr. C. Formenti, Incantati dalla Rete, Cortina, Milano 2000); la negazione della determinazione biologica del genere sessuale da parte dell’ideologia queer e transgender, alcune forme di manipolazione tecnologica delle funzioni riproduttive (fecondazione assistita, maternità surrogata, ecc.). Tutti fenomeni associati all’idea di un indefinito ampliamento delle libertà (e dei diritti, vedi quando discusso nella sezione precedente), laddove trattasi in larga misura di comportamenti ed esigenze sovradeterminati dall’intreccio sistemico fra tecnologia, mercato e comunicazione.  


(12) Cfr. V. Giacché, Socialismo e fine della produzione mercantile nell’ Anti-Duhring di Friedrich Engels” in MarxVentuno,  n. 1, gennaio-febbraio 2021, pp. 105-125. 


(13) Cfr. F. Engels, Antiduhring, Editori Riuniti, Roma 1971.


(14) E’ difficile non cogliere l’analogia fra questa procrastinazione del passaggio dal socialismo al comunismo e l’allontanamento in un futuro indefinito della parusia. Il che potrebbe inspirare un parallelismo anche fra i conflitti che hanno opposto partiti comunisti ufficiali e eresie rivoluzionarie negli anni Settanta e i quelli fra Chiesa e sette,  descritti nei passaggi dedicati alle ideologie religiose della sezione precedente. 


(15) Cfr. G. Stalin, Problemi economici del socialismo, Edizioni Rinascita, Roma 1953


(16) Cfr. Zhang Boyng, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona, Edizioni Marx Ventuno, 2019.


(17) Sulla distinzione fra i due concetti, cfr. R. Herrera, Z. Long, La Chine est-elle capitaliste? Editions Critiques, Paris 2019. Sul dibattito in merito alla natura del sistema cinese (socialista o capitalista?) vedi A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s  Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, Springer, Berlino 2020. Infine sulla critica del concetto secondo cui la presenza del mercato connoterebbe automaticamente in senso capitalista un sistema economico, cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008.  


(18) A chi attaccava la NEP sostenendo che essa implicava la regressione dal socialismo al capitalismo di stato, Lenin replicava così: <<il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato.  Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano>> (citato in Gabriele, op. cit.).


(19) Per una argomentata critica della definizione della Cina come sistema totalitario, vedi D. A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019. 


(20) Cfr. D. Harvey, The Anti-Capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.   

           

                

  

               

             

 

       

    

     

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