LA BARBARIE E I BARBARI
NOTE SUL PROCESSO SOCIALE BRASILIANO NELLA CRISI
Di Felipe Catalani
Il testo originale di cui pubblico qui di seguito una versione ridotta e da me adattata (con il consenso dell'autore) al lettore italiano si trova in: Felipe Catalani, "A barbárie e os bárbaros: notas sobre o processo social brasileiro na crise" in O pânico como política: O Brasil no imaginário do lulismo em crise (a cura di Marco Antonio Perruso et altri), Rio de Janeiro, Mauad X, 2020. Felipe Catalani abita a São Paulo, scrive su politica e società brasiliana e sta lavorando su una tesi sull'opera di Günther Anders. Il suo scritto mi è stato segnalato da un amico comune e, dopo averlo letto, ho deciso di pubblicarlo perché mi è sembrato un contributo interessante che può aiutare il lettore italiano a capire le complesse dinamiche del conflitto sociale e politico nel Brasile di oggi (oltre ad avere il merito di proporre alcune significative analogie con l'incapacità delle sinistre italiane di interpretare la lotta di classe nel tardo capitalismo).
”Sono un agente della civiltà contro la barbarie”. A parlare non è Quincas Borba, il famoso personaggio di Machado de Assis (1) , ma Fernando Haddad sindaco di San Paolo nel 2015 e candidato della sinistra contro Bolsonaro alle presidenziali del 2018. Forse potremmo definirlo “Il conflitto della civiltà contro i suoi infelici”, per parafrasare l’orribile traduzione americana del titolo di un classico di Freud (Il disagio della civiltà, tradotto con Civilization and its Discontents), ma al prezzo di andare contro l’intuizione fondamentale di Freud, nel senso che, da questo punto di vista, la civiltà sarebbe qualcosa di autosufficiente, anche se dovrebbe sempre fare i conti con qualche “incivile” disadattato (2).
Il modo in cui questa coppia di concetti – civiltà e barbarie – viene usata nel discorso politico contemporaneo è degno di nota, soprattutto in relazione alla dialettica brasiliana dell’illuminismo o, per usare le parole di Antonio Candido (3) , alla dialettica “dell’ordine e del disordine”, ovvero al collasso brasiliano della modernizzazione. Durante le elezioni del 2018, qualcuno aveva realizzato un grafico che rappresentava, nella colonna all’estrema destra, la “barbarie” (Bolsonaro) e, a fianco, la “civiltà, rappresentata dagli altri candidati appartenenti all’intero spettro politico. È interessante notare che qui la civiltà rappresenta i confini – a destra e sinistra – del sistema politico, mentre la barbarie è raffigurata come un eccesso inaccettabile al di fuori di tali confini. Ma la vera barbarie non rientra in questo schemino.
Per spiegare meglio cosa intendo ricorro all’esempio del traffico. Una delle più grandi vittorie della sinistra nella capitale di San Paolo è considerata la creazione di piste ciclabili e l’abbassamento dei limiti di velocità. È possibile che questa idea del rispetto delle “leggi del traffico” rappresenti l’anima della sinistra. E’ comprensibile ove si consideri che – abbandonato l’orizzonte della trasformazione della società – si è ridotta a rivendicare la “gestione del sociale”. Ancor più se si considera che alla genesi storica del sociale a metà Ottocento c’è anche una questione di sicurezza (gli incidenti sul lavoro nei mulini satanici della moderna società industriale) (4). Se è questa sicurezza che oggi chiamiamo civiltà, potremmo dire che, nel nostro presente in cui occorre evitare un futuro catastrofico tramite la gestione del rischio, ci troviamo di fronte a una sorta di progressismo senza progresso, simile al riformismo senza riforme dell’epoca dei governi del PT (Lula e Dilma Roussef). Per inciso, il confronto con il riformismo ottocentesco è inadeguato, perché qui “riforma” non significa altro che rimandare il momento della catastrofe.
La forza civilizzatrice della sinistra è dunque paragonabile a quella di un freno, non il freno di emergenza di Walter Benjamin, che voleva permettere ai passeggeri di scendere dalla macchina del mondo per imboccare altre strade, bensì un freno che ha la sola funzione di ritardare/prevenire un grande incidente. Ma il freno non è separabile dall’acceleratore, quindi non si tratta solo di Sicurezza ma anche di Sviluppo. Come ha riassunto Robert McNamara “Sicurezza è Sviluppo e senza Sviluppo non può esserci Sicurezza” (5). Dunque ordine è progresso (vedi il motto della bandiera brasiliana).
Quando Joao Doria (6) vinse le elezioni comunali del 2016, a sinistra si levarono speculazioni risentite sui “poveri di destra”, il “coxinha (7) povero”, il “povero imprenditore” (colui che, non potendo vendere la propria forza lavoro, si arrangia in qualche modo per integrarsi socialmente). Del resto, Doria non rappresenta più una destra tradizionale e conservatrice, ma una nuova destra acceleratrice. Gli spettacoli di violenza gratuita, come svegliare i mendicanti con getti d’acqua fredda e bombardare la cracolandia (8) già ne mostravano i segni. Il motto della campagna di Doria era proprio “Accelera San Paolo”, e la promessa di aumentare i limiti di velocità ha funzionato come una metafora generale. L’obiettivo non era snellire il traffico. Nessuno crede più sia possibile: del resto quale zona di contenimento della città è più estesa delle sue stesse strade con i suoi ingorghi? Ma ci sarà sempre un ciclista militante che, in nome della pace e dell’amore, dirà che queste anime arrabbiate sono ignoranti egoisti di classe media o miserabili rancorosi che non hanno scoperto il piacere di pedalare 20 chilometri dopo una giornata di lavoro o dopo avere fatto la fila al mercato dei disoccupati.
Del resto la liberazione apocalittico-accelerazionista di Bolsonaro non si è forse unita all’impulso libertario-suicida degli autisti? È fresco il ricordo di quando (giugno 2019) il presidente si è recato personalmente alla camera per presentare un progetto di legge che sospendeva l’uso obbligatorio del seggiolino per i bambini, l’abolizione del test tossicologico per i camionisti e l’aumento da 20 a 40 punti del limite per la sospensione della patente. Da un lato, l’esperienza della sproporzione, della liberazione delle pulsioni e dell’irrazionalità allo stato puro, dall’altro il “principio responsabilità” che si esprime nella gestione razionale del rischio.
Prendiamo un ultimo esempio dal mondo del traffico. Quando il sindaco Haddad difendeva militarmente l’aumento della tariffa degli autobus, si trovava dalla parte della civiltà di fronte a “un’orda di barbari”? In base al criterio fin qui esposto si dovrebbe dire di sì, si è cioè costretti a dire che i barbari nemici della democrazia erano gli incendiari del 2013 – personificazioni di un eccesso che è andato oltre i limiti della sicurezza – mentre gli agenti della civiltà – il contenimento - erano gli agenti della polizia antisommossa che arresta e colpisce i manifestanti. Dopo che si è visto come è andata a finire, si sono criticati gli eccessi del contenimento operato dalla sinistra, ed è in questo contesto che emerge l’ambiguità del discorso sulla “difesa della civiltà contro la barbarie”. Si è detto, scherzosamente o meno, “avremmo dovuto pagare quei 20 centesimi” (9) . In sostanza: la gente avrebbe dovuto soffrire un po’ più in silenzio. E quando si evoca un “fronte antifascista” in altri luoghi del mondo intorno a figure come Macron e Clinton, il messaggio non è diverso: contenete il vostro disagio nel neoliberalismo, che viene definito Civiltà occidentale.
2013: manifestazioni di protesta in Brasile |
La barbarie che Bolsonaro rappresenta non sono le sue pulsioni eccessive né la mancanza di educazione nei suoi discorsi e nei suoi gesti, ma la distruttività stessa del processo di civilizzazione (o di modernizzazione capitalistica) nella sua fase terminale. Quando Adorno e Horkheimer, alla fine della seconda guerra mondiale, scrissero la Dialettica dell’Illuminismo per spiegare perché l’umanità non si fosse umanizzata, si trattava di mostrare come l’orrore non fosse qualcosa di simile a un meteorite proveniente da un’altra galassia, ma qualcosa che veniva prodotto in modo immanente, cioè dalle contraddizioni interne al processo dell’illuminismo. I due autori erano così obbligati a osservare che gli agenti della civiltà erano anche agenti della barbarie e viceversa. Una simile interpretazione non poteva diventare egemonica perché boicottava il progetto restaurativo della Ricostruzione di una società che si era autodistrutta – progetto che avrebbe necessariamente implicato il perpetuarsi dell’orrore. Nella visione liberal-umanistica di un Helmuth Plessner, la ricaduta tedesca nella barbarie hitleriana era il segno di una nazione arretrata, e quindi andava analizzata come sintomo di un deficit: “mancava l’umanismo politico” (10) . Nella sua antropologia filosofica, la mancanza di spirito avrebbe prodotto un eccesso di corpo, che avrebbe generato a sua volta il naturalismo antiumanista nietzschiano immerso nell’eredità romantica del culto del Volk. Umanizzarsi, quindi, è creare freni (11), l’essere umano può essere una “bestia bionda” ma la bestia deve stare nella stalla (12). La civiltà ricostruita è questa stalla.
Una simile trasfigurazione ideologica avviane in Brasile ma in chiave diversa: come idea di un regresso, di un deficit, di un ritardo di un elemento arcaico non modernizzato che riaffiora come effetto di un processo di civilizzazione incompiuto o di una rimozione imperfetta. Ma questo elemento arcaico anti-umanista non appare legato all’idea di “popolo”: se in Germania c’è un abisso fra la sinistra e i poveri, perché tutto ciò che evoca il Volk appare con il volto di un boia delle SS, il Brasile conosce invece una mistificazione positiva del popolo, legata alla tradizione del nazional-popolare e con una vocazione progressista. Cosa che ha prodotto una frustrante incongruenza per una sinistra inorridita dai “poveri di destra”, che spaziano dai poveri “di cattivo gusto” che tradiscono la mitica bellezza culturale brasiliana ai poveri che “tradiscono i loro interessi oggettivi” votando male. In Germania la sinistra disprezza il popolo che ha il volto del Volk , in Brasile disprezza i poveri che non hanno il volto del popolo e non agiscono come popolo. In breve: il populismo è divenuto orfano del suo oggetto.
Che cosa è successo? Alla luce delle trasformazioni sociali avvenute in Brasile in concomitanza con il collasso della società del lavoro in atto a livello mondiale a partire dagli anni Settanta, andrebbe osservato come le categorie di “classe operaia”, “classe media” e “popolo” siano state impiegate negli ultimi decenni, con attenzione all’intreccio fra la loro (im)precisione sociologica e il senso politico-morale da esse evocato. Proverò ad avanzare alcune ipotesi. Le reazioni teoriche al problema iniziano ad apparire dal momento in cui inizia a circolare l’idea di una “nuova classe media”, soprattutto dopo le ricerche di Marcelo Neri, un economista dell’Università Getulio Vargas che ha ricoperto incarichi nei governi Lula e Dilma e ha ideato uno dei programmi di credito sociale. Poiché “classe media” è un termine che evoca un’immagine terribilmente negativa in Brasile, soprattutto a sinistra, si è scartata questa idea che sembrava contenere un veleno politico, preferendo parlare di una nuova classe operaia, come hanno fatto Marcio Pochmann, Jessé Souza e Marilena Chauì (13) (si potrebbe aggiungere il concetto di “precariato” di Ruy Braga (14) ). Il pensiero sociale brasiliano era perseguitato dalla possibilità che dalle trasformazioni sociali in atto emergesse una mostruosità, un fantasma che doveva essere esorcizzato tramite concetti sociologici che cercavano di evocare le virtù progressiste della “classe operaia” intesa in senso classico. La classe operaia non è, in fondo, l’agente della storia e il motore della modernizzazione? Senonché il Lavoro, la Storia e la Modernizzazione avevano perso il loro fondamento oggettivo e il Capitale era entrato nell’era della sua riproduzione fittizia. Il mondo del lavoro in cui questa “nuova classe operaia” si stava formando (niente a che fare con il processo di formazione della classe operaia inglese descritto da Thompson) a malapena poteva essere definito un “mondo”. Purtuttavia, per usare la metafora della sociologa Silvia Viana , è nell’olio bollente di questo mondo del lavoro simulato (che è anche quello della disoccupazione strutturale) che si è fritto il coxinha, e che poi è lo stesso olio bollente che ha strappato la pelle a coloro il cui volto la sinistra non riconosce più (15). Senza capire cosa succede in mezzo a questa centralità negativa del lavoro (16), la sinistra continuerà a strillare istericamente che “la terra è rotonda” quasi fosse Galileo che rischiara il buio medievale all’alba della modernità.
All’interno di questo dibattito (nuova classe media versus nuova classe operaia) non è irrilevante ciò che ha prodotto Jessé Souza, divenuto oggi ideologo mainstream del PT con la sua macchina di produzione di discorsi consolatori e nobilitanti per una sinistra demoralizzata. Il tenore moralizzante delle sue analisi, tendenzialmente più cristiane che materialiste, salta all’occhio in due dei suoi concetti centrali: quello di ralé (marmaglia) e quello di batalhadores (17). I batalhadores brasiliani costituirebbero il gruppo di lavoratori sociali emersi dal ralé. Il concetto sottende una morale del lavoro associata a un elogio della sofferenza che prima o poi verrà ripagata dai frutti della nazione a venire. “La nostra ricerca”, scrive Jessé, “ha dimostrato che questa classe si è guadagnata un posto al sole al costo di uno sforzo straordinario: la sua capacità di sopportare la fatica di vari lavori e turni, la doppia giornata di lavoro e la scuola, la straordinaria capacità di risparmiare e di resistere alla tentazione del consumo immediato e, altrettanto se non più importante di quanto è stato detto, la straordinaria fiducia in sé stessi e nel proprio lavoro” (18). Oppure, con le parole di Roberto Mangabeira Unger che commenta il libro di Jessé nella prefazione: “Lottano attivamente, con energia e ingegno per sfuggire alla ralé ed entrare nell’albo della piccola borghesia imprenditoriale ed emergente. Mostrano qualità che Euclides da Cunha attribuisce ai sertanejos” (19). Al netto della facciata nazional-popolare con il suo immaginario di un popolo forte e coraggioso, questo può facilmente suonare come il più spudorato elogio neoliberale della resilienza. Attraverso le virtù popolari legate allo sforzo, alla lotta (intesa come lotta per l’autoconservazione) e alla perseveranza che, nonostante tutte le avversità, punta in avanti (anche se avanti non c’è nulla), si cerca di emulare il secolare e tremendo sforzo di superare il sottosviluppo e la lotta contro l’arretratezza che animò l’immaginario populista degli anni 1950-60 e, andando a ritroso, l’ethos del lavoro dell’epoca di Getulio Vargas. Spetta al popolo essere il soggetto della modernizzazione ritardata (20) e portare il peso della costruzione della “civiltà brasiliana”.
Nella situazione contemporanea è molto probabile che questa litania progressista abbia perso la sua forza persuasiva e che l’incredibile resilienza sertaneja di questo instancabile batalhador abbia incontrato il suo limite in questa lotta senza un orizzonte di aspettative. Guardando i suoi batalhadores Jessé riconoscerebbe forse oggi ciò che disse dei suoi operai un dirigente della Ford all’inizio degli anni 70, all’alba di quella che Chamayou ha chiamato la “società ingovernabile”: “c’è, da parte degli impiegati, un indebolimento generale della tolleranza verso la frustrazione” (21). È probabile che l’energia sociale di cui parla Jessé non sia, come lui presume, il carburante per un balzo in avanti della modernizzazione, bensì l’ingrediente fondamentale per un’esplosione di odio sociale nel bel mezzo di una de-socializzazione catastrofica. Eppure i teorici sociali credevano di riconoscere, in quel mondo dell’arrangiarsi, per il quale la possibilità di coagularsi in una società del lavoro com’era avvenuto nell’Europa del dopoguerra era negata a priori, una specie di porta sul futuro, paragonabile al “privilegio dell’arretratezza storica” immaginato da Trotsky nella sua teoria dello sviluppo disuguale e combinato. Scrive per esempio Mangabeira Unger: “E’ necessario – e possibile – organizzare un passaggio diretto dal prefordismo al postfordismo, senza che tutto il paese debba passare attraverso il purgatorio del fordismo industriale. I batalhadores e la piccola borghesia intraprendente sarebbero i primi beneficiari di questa costruzione” (22) . Il fatto è che questo balzo diretto dal sottosviluppo al postfordismo dei servizi – come è scontato avvenisse in un paese periferico – è stata una scorciatoia verso il collasso.
Poiché Unger non è ingenuo, ha capito che i batalhadores avevano qualcosa di refrattario, nella misura in cui – essendo appena sopra il livello dei miserabili – non erano oggetto delle politiche sociali governative (23) . Il governo si sarebbe quindi dovuto preoccupare di domarne l’energia, inventandosi qualche programma sociale anche per loro, affinché fossero “i primi potenziali beneficiari dei progetti di formazione ed espansione delle opportunità. Hanno dimostrato di poter essere salvati perché hanno già cominciato a salvarsi da soli” (24) . Eppure non sono stati salvati: erano ingovernabili in quanto rappresentavano il limite stesso della governabilità petista. Così sono diventati “ingrati”, come ha detto il ministro Gilberto Carvahlo dopo le manifestazioni del 2013.
Comunque la si voglia chiamare – nuova classe media o nuova classe operaia – nei confronti di questa classe c’era l’aspettativa che potesse diventare il cemento della nuova società brasiliana, sia pure in quella versione nazional popolare che sarebbe stata il marchio del contributo brasiliano alla democrazia del futuro. Alcuni non hanno voluto dire che il progetto era quello di formare una nuova classe media perché questa si porta dietro l’immagine di una “élite di privilegiati” (25), gente che vuole “distinguersi”, razzisti e stronzi che incarnano rapporti di produzione (in senso morale, qui i rapporti di produzione reali non sono in questione) che frenano lo sviluppo delle forze produttive, il progresso. Non a caso nella narrazione petista il golpe e il bolsonarismo sono interpretati come la reazione di strutture socioeconomiche arretrate che non sono state vinte dalle forze progressiste (in questo caso dallo stesso PT), per cui il bolsonarismo sarebbe un “sintomo” della bontà dei governi del PT.
Parlare di “nuova classe operaia” suona quindi più che altro come un eufemismo, mentre manager e tecnocrati – che non condividono questa idiosincrasia morale degli intellettuali – non esitano a parlare di “nuova classe media”, benché anche questo termine mistifichi la realtà. Questi distinguo sociologici sembrano piuttosto una spia di come certe distinzioni (Bourdieu) operano socialmente in termini morali o culturali. Ciò che si sottintende è che esistono una classe media che rappresenta un’arretratezza atavica (il patrimonialismo, la rendita, ecc.) e un’altra, laboriosa e in ascesa, che dovrebbe diventare la base sociale di un capitalismo “civilizzato e democratico”.
Chiunque abbia letto le ultime interviste di Lula, quando era ancora in prigione, può rendersi conto che il suo spirito utopico (innegabile) si fonda sulla fantasia dell’infinità del processo di valorizzazione capitalistico, una fantasia che rappresenta l’essenza della sinistra così come si è configurata nel dopoguerra, quando il suo orizzonte definitivo è diventato quello di regolare/governare/sviluppare il capitalismo, svolgendo una funzione ridistributiva e placando gli antagonismi sociali.
In Brasile allorché, sulla scia della ri-democratizzazione del paese, è arrivato il tempo della sinistra, la tendenza al collasso e allo smantellamento della società del lavoro era già un dato di fatto. L’automazione e la continua espulsione del lavoro vivo dal processo produttivo (anche nelle campagne) non erano più compensati da un’espansione del mercato esterno, come era avvenuto nei paesi del centro alla fine del boom fordista degli anni 40 e 50. “Lo scenario”, scrive José de Souza Martins, “era quello di una crescita del numero di persone sradicate, che vivevano precariamente ai margini dell’economia organizzata, persone senza orizzonte e senza futuro” (26). Il quadro era quello di un Brasile “anomico” in cui la formazione di una società capitalistica “prospera” con piena occupazione era un’impossibilità logica e storica. Una situazione in cui cresceva un contingente di popolazione superflua dal punto di vista della riproduzione del capitale. In una conversazione del 1982 Martins la commenta così: ”Joao Pedro Stédile mi disse che chiunque fosse riuscito a organizzare questi lumpen avrebbe cambiato il paese” (27). Due anni dopo veniva fondato il MST (Movimento dos Trabalhadores Rurais sem Terra).
Se il MST ha saputo rappresentare – in alcuni momenti – un potenziale di rottura rivoluzionaria, è perché ha saputo organizzare questa gente senza niente, espulsa dalle campagne e ammassata nelle enormi periferie urbane, una popolazione di “soggetti monetarizzati senza denaro” (Kurz) che non aveva più alcuna chance di venire integrata nella società del lavoro. Nel caso del PT non era chiaro quale sarebbe stato il suo rapporto con questa popolazione “emarginata, lumpenizzata o semplicemente esclusa dal mondo del Diritto e della Legge” (28), al tempo stesso la denominazione lumpen esprimeva la dubbia incorporazione politica di questa massa il cui comportamento poteva essere inquadrato ma non controllato. Non si trattava cioè di lavoratori sindacalizzati pronti a costruire un “capitalismo sindacale” (Joao Bernardo) di tipo europeo, non era scontata la possibilità di istituire un patto sociale. Nel tempo si è chiarito che il loro destino era quello di essere governati, alternativamente, dalla mano sinistra e dalla mano destra di uno stato neoliberale che ora assiste, ora punisce, incarcera e uccide. Le origini spirituali dei successi gestionali della sinistra vanno forse rintracciate nel rapporto della sinistra brasiliana con la Dottrina Sociale della Chiesa associato a tecniche governative d’avanguardia (persino esportate come pratiche-modello). Le difficoltà concettuali del PT con la massa lumpen sono finite quando è stato chiaro che questa era divenuta un elemento costitutivo del lulismo e si era rivelata decisiva nella rielezione di Lula.
I movimenti sociali sostenuti dallo stato erano divenuti piattaforme per convertire settori della ralé in nuova classe media attraverso il credito sociale. Nel capitalismo l’anomia si sana con il denaro, non importa se senza valore, l’importante è che la circolazione funzioni. Se questo faccia società è un’altra questione. Ciò che conta è che pioveva denaro e la gente era felice. Oltre ad alleviare i bisogni materiali più elementari, il denaro porta rispetto e riconoscimento. Quando si parla dell’ “onore perduto del lavoro” (Kurz) ciò significa che gli ex lavoratori passano nella categoria dei “deplorevoli” come Hillary Clinton ha definito gli elettori di Trump, che erano maggioranza tra gli ex lavoratori delle regioni de-industrializzate della rust belt. La morale del lavoro non è un ornamento sovrastrutturale ma un dato sociale oggettivo nel capitalismo mentre acquista tutt’altro senso nel momento della crisi del lavoro. Per compensare questa condizione indegna occorre recuperare la dignità attraverso il consumo (finché dura). Il soggetto monetarizzato senza denaro è un “uomo senza mondo” (Gunther Anders). Purtroppo quella che sembrava una crescita senza fine era alimentata da capitale fittizio, per cui era probabile che il denaro sarebbe finito dopo lo scoppio della bolla speculativa. E siccome il denaro non fa società, ciò che appare quando finisce è l’opposto violento della società. Già nei primi mesi del governo Lula c’erano critici che dicevano che la famigerata “inclusione attraverso il consumo” sarebbe sfociata nel fascismo, ma venivano accusati di catastrofismo.
È probabile che umiliazione e sofferenza producano qualcosa di diverso da pace e amore, soprattutto in una situazione in cui la “tolleranza verso la frustrazione” dei batalhadores di tutto il mondo è bassa. È in declino la triade di Comte - amore, ordine e progresso – che era una formula per porre fine ai periodi turbolenti delle crisi e delle rivoluzioni e cementare le basi di una storia lenta. Questo cemento era il sociale fondato sul declino delle passioni politiche. Nel momento in cui, come annunciato dalla lady di ferro, there is no such thing as society, la società diventa ingovernabile e il conflitto, come vede anche Honneth (29), si brutalizza con il declino delle aspettative di riconoscimento. L’odio riappare non come una qualsiasi patologia, bensì come la passione politica per eccellenza, la passione del confronto e dell’antagonismo. Ciò che emerge da questo sgretolamento è oscuro. Forse Walter Benjamin, osservando il mondo contemporaneo, penserebbe che, come antidoto alla barbarie in corso, potrebbe emergere una “barbarie positiva”, come lui aveva immaginato riflettendo sugli uomini e le donne mutilati che uscivano dalla Grande Guerra, con la loro capacità di fare e trasmettere esperienza atrofizzata. Senza i “barbari”, le vittime disumanizzate da questa macchina del mondo e condannate a improvvisare in un tempo senza sviluppo, non c’è nulla che si possa fare contro la vera barbarie.
Note
(1) “Quincas Borba” è il nome di un personaggio (di un romanzo che ha lo stesso nome), inventore della “dottrina dell’umanitismo”. Anche qui, come in altri romanzi di Machado de Assis, è ironizzata l’ideologia liberale e umanista nella società schiavista brasiliana.
(2) Quello che diceva Adorno dei critici della cultura è valido anche oggi per i falsi “critici della barbarie”: “Al critico della cultura non va a genio quella cultura alla quale sola egli deve il disagio che prova di fronte ad essa. Egli discorre come fosse il rappresentante sia della natura incorrotta, sia di una situazione storica superiore, e invece necessariamente partecipa della stessa essenza di ciò di cui s’immagina d’essere al di sopra. [...] Il critico della cultura difficilmente può evitare di insinuare di possedere la cultura che questa non ha. [...] Dove è disperazione e sofferenza smisurata, si vede manifestarsi soltanto alcunché di spirituale, lo stato di coscienza dell’umanità, la decadenza della norma.” Theodor W. Adorno, Prismi, Torino, Einaudi, 1972, p. 3.
(3) Il saggio classico di Antonio Candido si può trovare in: Antonio Candido, “Dialética da malandragem”. Revista do Instituto de Estudos Brasileiros, n. 8, 1970, pp. 67-89;
(4) E vale la pena ricordare che, già nella sua origine, "la sicurezza [assurance] non è l'anticamera del socialismo, ma il suo antidoto". DONZELOT, Jacques. L’invention du social: essai sur le déclin des passions politiques. Paris: Éditions du Seuil, 1994, p. 137.
(5) Tutta la citazione: "In una società che si sta modernizzando, Sicurezza significa Sviluppo... La sicurezza non è materiale militare, anche se questo può essere incluso nel concetto; non è la forza militare, anche se può comprenderla; non è l'attività militare tradizionale, anche se può coinvolgerla. Sicurezza è Sviluppo, e senza Sviluppo non ci può essere Sicurezza". apud BRASIL, Francisco de Souza. Doutrina de Segurança Nacional: muito citada, pouco comentada. Revista de Direito Administrativo, 137. Rio de Janeiro: Forense, jul-set/1979, p. 399.
(6) Esponente del partito conservatore PSDB, già sindaco della città di San Paolo e attuale governatore dello stato di San Paolo.
(7) "Coxinha" era, in portoghese, un riferimento ai "poliziotti"; oggi la parola è usata per indicare un conservatore. “Coxinha" è anche un cibo popolare in Brasile che consiste in carne di pollo macinata ricoperta di pasta impanata e fritta.
(8) La "cracolândia" è un'area nel centro di San Paolo dove vivono migliaia di senzatetto e consumatori di crack.
(9) Le grandi proteste del 2013 in Brasile sono iniziate dopo l'intensificazione delle manifestazioni a San Paolo contro l'aumento dei prezzi dei trasporti di 20 centesimi. Dopo queste proteste, una nuova destra è emersa nelle strade, che ha portato all'impeachment di Dilma Roussef nel 2016.
(10) PLESSNER, Helmuth. Die verspätete Nation. Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1982, p. 19.
(11) PLESSNER, Helmuth. Philosophische Anthropologie. Frankfurt am Main: Suhrkamp, 2019, p. 122.
(12) Idem, p. 126.
(13) Sono tre intellettuali molto noti in Brasile e fortemente legati al PT.
(14) BRAGA, Ruy. A política do precariado. São Paulo: Boitempo, 2015.
(15) "La nuova destra non è nata nel 2013, tanto meno nell'epoca della colonizzazione. È la creazione di una dissoluzione socialmente strutturata, quindi non di una qualche anomia ad essa imputata e da essa restituita in un'accusa speculare. Il coxinha è stato fritto nella disgrazia generalizzata del lavoro la cui forma flessibile ci ha deformati tutti, all'ombra della quale, tuttavia, ha trovato una particolare espressione politica". VIANA, Silvia. “Acabou!” In: Argumentum, Vitória, 11(2), P. 17-30, 2019, p. 26.
(16) Il termine, che indica anche l'intensificazione della sofferenza sul lavoro nel momento della sua crisi, è di Paulo Arantes (2014, P. 106). La teoria di fondo sulla crisi del lavoro è di Robert Kurz e le osservazioni sulla sofferenza sociale sono di Christophe Dejours. Con questo termine cerchiamo di sottolineare che, più la crisi del lavoro si approfondisce e più il lavoro diventa oggettivamente obsoleto, più diventa, nella vita delle persone, un problema, e più si acuisce la sua centralità sociale nel capitalismo. Ciò significa, quindi, che la crisi del lavoro non implica la perdita della sua centralità, come immaginato, per esempio, da Habermas sulla base delle osservazioni di Claus Offe sulla crisi della società salariale europea e del Welfare State, per cui, al centro della sua teoria, un nuovo paradigma centrato sul linguaggio dovrebbe occupare il vecchio paradigma marxista del lavoro.
(17) Batalhadores significa qualcosa come i guerrieri della vita quotidiana, che combattono per la sopravvivenza materiale
(18) SOUZA, Jessé. Os batalhadores brasileiros: nova classe média ou nova classe trabalhadora? Belo Horizonte: Editora UFMG, 2010, p. 50.
(19) UNGER, Roberto Mangabeira. Prefácio. In: SOUZA, Jessé. Os batalhadores brasileiros: nova classe média ou nova classe trabalhadora? Belo Horizonte: Editora UFMG, 2010, p. 10. Il "sertanejo" è una figura sociale e storica del mondo rurale brasiliano, ritratta nel classico libro “Os sertões” di Euclides da Cunha.
(20) Sul concetto di "modernizzazione di recupero" [nachholende Modernisierung] si veda il capitolo 9 di Der Kollaps der Modernisierung di Robert Kurz.
(21) CHAMAYOU, Grégoire. La société ingouvernable: une généalogie du libéralisme autoritaire. Paris: La fabrique, 2018, p. 25.
(22) UNGER, Mangabeira, op. cit., p. 12.
(23) Di questa "seconda classe media" dice: "Bruna, dal basso, refrattaria, che si sente come un pezzo dell'Atlantico del Nord perso nell'Atlantico del Sud, questa nuova classe media è composta da milioni di persone che lottano per aprire o mantenere piccole imprese o per fare carriera in aziende consolidate, persone che studiano di notte, si uniscono a nuove chiese e associazioni, ed esercitano una cultura di auto-aiuto e iniziativa". Idem, p. 9.
(24) Idem, p. 10.
(25) SOUZA, Jessé. A tolice da inteligência brasileira. São Paulo: LeYa, 2015, p. 240.
(26) MARTINS, José de Souza. A política do Brasil lúmpen e místico. São Paulo: Editora Contexto, 2011, p. 11.
(27) Idem
(28) Apud Martins, op. cit., p. 12.
(29) HONNETH, Axel. Brutalization of the social conflict: struggles for
recognition in the early 21st century. Distinktion: Scandinavian Journal of Social Theory, 2012.