Lettori fissi

giovedì 8 luglio 2021

LA BARBARIE E I BARBARI 

NOTE SUL PROCESSO SOCIALE BRASILIANO NELLA CRISI 

Di Felipe Catalani

Il testo originale di cui pubblico qui di seguito una versione ridotta e da me adattata (con il consenso dell'autore) al lettore italiano si trova in: Felipe Catalani, "A barbárie e os bárbaros: notas sobre o processo social brasileiro na crise" in O pânico como política: O Brasil no imaginário do lulismo em crise (a cura di Marco Antonio Perruso et altri), Rio de Janeiro, Mauad X, 2020. Felipe Catalani abita a São Paulo, scrive su politica e società brasiliana e sta lavorando su una tesi sull'opera di Günther Anders. Il suo scritto mi è stato segnalato da un amico comune e, dopo averlo letto, ho deciso di pubblicarlo perché mi è sembrato un contributo interessante che può aiutare il lettore italiano a capire le complesse dinamiche del conflitto sociale e politico nel Brasile di oggi (oltre ad avere il merito di proporre alcune significative analogie con l'incapacità delle sinistre italiane di interpretare la lotta di classe nel tardo capitalismo).  


”Sono un agente della civiltà contro la barbarie”. A parlare non è Quincas Borba, il famoso personaggio di Machado de Assis (1) , ma Fernando Haddad sindaco di San Paolo nel 2015 e candidato della sinistra contro Bolsonaro alle presidenziali del 2018. Forse potremmo definirlo “Il conflitto della civiltà contro i suoi infelici”, per parafrasare l’orribile traduzione americana  del titolo di un classico di Freud (Il disagio della civiltà, tradotto con Civilization and its Discontents), ma al prezzo di andare contro l’intuizione fondamentale di Freud, nel senso che, da questo punto di vista, la civiltà sarebbe qualcosa di autosufficiente, anche se dovrebbe sempre fare i conti con qualche “incivile” disadattato (2).    

Il modo in cui questa coppia di concetti – civiltà e barbarie – viene usata nel discorso politico contemporaneo è degno di nota, soprattutto in relazione alla dialettica brasiliana dell’illuminismo o, per usare le parole di Antonio Candido (3) , alla dialettica “dell’ordine e del disordine”, ovvero al collasso brasiliano della modernizzazione. Durante le elezioni del 2018, qualcuno aveva realizzato un grafico che rappresentava, nella colonna all’estrema destra, la “barbarie” (Bolsonaro) e, a fianco, la “civiltà, rappresentata dagli altri candidati appartenenti all’intero spettro politico. È interessante notare che qui la civiltà rappresenta i confini – a destra e sinistra – del sistema politico, mentre la barbarie è raffigurata come un eccesso inaccettabile al di fuori di tali confini. Ma la vera barbarie non rientra in  questo schemino.

Per spiegare meglio cosa intendo ricorro all’esempio del traffico. Una delle più grandi vittorie della sinistra nella capitale di San Paolo è considerata la creazione di piste ciclabili e l’abbassamento dei limiti di velocità. È possibile che questa idea del rispetto delle “leggi del traffico” rappresenti  l’anima della sinistra. E’ comprensibile ove si consideri che – abbandonato l’orizzonte della trasformazione della società – si è ridotta a rivendicare la “gestione del sociale”. Ancor più se si considera che alla genesi storica del sociale a metà Ottocento c’è anche una questione di sicurezza (gli incidenti sul lavoro nei mulini satanici della moderna società industriale) (4). Se è questa sicurezza che oggi chiamiamo civiltà, potremmo dire che, nel nostro presente in cui occorre evitare un futuro catastrofico tramite la gestione del rischio, ci troviamo di fronte a una sorta di progressismo senza progresso, simile al riformismo senza riforme dell’epoca dei governi del PT (Lula e Dilma Roussef). Per inciso, il confronto con il riformismo ottocentesco è inadeguato, perché qui “riforma” non significa altro che rimandare il momento della catastrofe. 

La forza civilizzatrice della sinistra è dunque paragonabile a quella di un freno, non il freno di emergenza di Walter Benjamin, che voleva permettere ai passeggeri di scendere dalla macchina del mondo per imboccare altre strade, bensì un  freno che ha la sola funzione di ritardare/prevenire un grande incidente. Ma il freno non è separabile dall’acceleratore, quindi non si tratta solo di Sicurezza ma anche di Sviluppo. Come ha riassunto Robert McNamara “Sicurezza è Sviluppo e senza Sviluppo non può esserci Sicurezza” (5). Dunque ordine è progresso (vedi il motto della bandiera brasiliana). 

Quando Joao Doria (6) vinse le elezioni comunali del 2016, a sinistra si levarono speculazioni risentite sui “poveri di destra”, il “coxinha (7) povero”, il “povero imprenditore” (colui che, non potendo vendere la propria forza lavoro, si arrangia in qualche modo per integrarsi socialmente). Del resto, Doria non rappresenta più una destra tradizionale e conservatrice, ma una nuova destra acceleratrice. Gli spettacoli di violenza gratuita, come svegliare i mendicanti con getti d’acqua fredda e bombardare la cracolandia (8) già ne mostravano i segni. Il motto della campagna di Doria era proprio “Accelera San Paolo”, e la promessa di aumentare i limiti di velocità ha funzionato come una metafora generale. L’obiettivo non era snellire il traffico. Nessuno crede più sia possibile: del resto quale zona di contenimento della città è più estesa delle sue stesse strade con i suoi ingorghi? Ma ci sarà sempre un ciclista militante che, in nome della pace e dell’amore, dirà che queste anime arrabbiate sono ignoranti egoisti di classe media o miserabili rancorosi che non hanno scoperto il piacere di pedalare 20 chilometri dopo una giornata di lavoro o dopo avere fatto la fila al mercato dei disoccupati. 

Del resto la liberazione apocalittico-accelerazionista di Bolsonaro non si è forse unita all’impulso libertario-suicida degli autisti? È fresco il ricordo di quando (giugno 2019) il presidente si è recato personalmente alla camera per presentare un progetto di legge che sospendeva l’uso obbligatorio del seggiolino per i bambini, l’abolizione del test tossicologico per i camionisti e l’aumento da 20 a 40 punti del limite per la sospensione della patente. Da un lato, l’esperienza della sproporzione, della liberazione delle pulsioni e dell’irrazionalità allo stato puro,  dall’altro il “principio responsabilità”  che si esprime nella gestione razionale del rischio. 

Prendiamo un ultimo esempio dal mondo del traffico. Quando il sindaco Haddad difendeva militarmente l’aumento della tariffa degli autobus, si trovava dalla parte della civiltà di fronte a “un’orda di barbari”? In base al criterio fin qui esposto si dovrebbe dire di sì, si è cioè costretti a dire che i barbari nemici della democrazia erano gli incendiari del 2013 – personificazioni di un eccesso che è andato oltre i limiti della sicurezza – mentre gli agenti della civiltà – il contenimento - erano gli agenti della polizia antisommossa che arresta e colpisce i manifestanti. Dopo che si è visto come è andata a finire, si sono criticati gli eccessi del contenimento operato dalla sinistra, ed è in questo contesto che emerge l’ambiguità del discorso sulla “difesa della civiltà contro la barbarie”. Si è detto, scherzosamente o meno, “avremmo dovuto pagare quei 20 centesimi” (9) . In sostanza: la gente avrebbe dovuto soffrire un po’ più in silenzio. E quando si evoca un “fronte antifascista” in altri luoghi del mondo intorno a figure come Macron e Clinton, il messaggio non è diverso: contenete il vostro disagio nel neoliberalismo, che viene definito Civiltà occidentale. 


2013: manifestazioni di protesta in Brasile



La barbarie che Bolsonaro rappresenta non sono le sue pulsioni eccessive né la mancanza di educazione nei suoi discorsi e nei suoi gesti, ma la distruttività stessa del processo di civilizzazione (o di modernizzazione capitalistica) nella sua fase terminale. Quando Adorno e Horkheimer, alla fine della seconda guerra mondiale, scrissero la Dialettica dell’Illuminismo per spiegare perché l’umanità non si fosse umanizzata, si trattava di mostrare come l’orrore non fosse qualcosa di simile a un meteorite proveniente da un’altra galassia, ma qualcosa che veniva prodotto in modo immanente, cioè dalle contraddizioni interne al processo dell’illuminismo. I due autori erano così obbligati a osservare che gli agenti della civiltà erano anche agenti della barbarie e viceversa. Una simile interpretazione non poteva diventare egemonica perché boicottava il progetto restaurativo della Ricostruzione di una società che si era autodistrutta – progetto che avrebbe necessariamente implicato il perpetuarsi dell’orrore. Nella visione liberal-umanistica di un Helmuth Plessner, la ricaduta tedesca nella barbarie hitleriana era il segno di una nazione arretrata, e quindi andava analizzata come sintomo di un deficit: “mancava l’umanismo politico” (10) . Nella sua antropologia filosofica, la mancanza di spirito avrebbe prodotto un eccesso di corpo, che avrebbe generato a sua volta il naturalismo antiumanista nietzschiano immerso nell’eredità romantica del culto del Volk. Umanizzarsi, quindi, è creare freni (11), l’essere umano può essere una “bestia bionda” ma la bestia deve stare nella stalla (12). La civiltà ricostruita è questa stalla. 

Una simile trasfigurazione ideologica avviane in Brasile ma in chiave diversa: come idea di un regresso, di un deficit, di un ritardo di un elemento arcaico non modernizzato che riaffiora come effetto di un processo di civilizzazione incompiuto o di una rimozione imperfetta. Ma questo elemento arcaico anti-umanista non appare legato all’idea di “popolo”: se in Germania c’è un abisso fra la sinistra e i poveri, perché tutto ciò che evoca il Volk  appare con il volto di un boia delle SS, il Brasile conosce invece una mistificazione positiva del popolo, legata alla tradizione del nazional-popolare e con una vocazione progressista. Cosa che ha prodotto una frustrante incongruenza per una sinistra inorridita dai “poveri di destra”, che spaziano dai poveri “di cattivo gusto” che tradiscono la mitica bellezza culturale brasiliana ai poveri che “tradiscono i loro interessi oggettivi” votando male.  In Germania la sinistra disprezza il popolo che ha il volto del Volk , in Brasile disprezza i poveri che non hanno il volto del popolo e non agiscono come popolo. In breve: il populismo è divenuto orfano del suo oggetto. 

Che cosa è successo? Alla luce delle trasformazioni sociali avvenute in Brasile in concomitanza con il collasso della società del lavoro in atto a livello mondiale a partire dagli anni Settanta, andrebbe osservato come le categorie di “classe operaia”, “classe media” e “popolo” siano state impiegate negli ultimi decenni, con attenzione all’intreccio fra la loro (im)precisione sociologica e il senso politico-morale da esse evocato. Proverò ad avanzare alcune ipotesi. Le reazioni teoriche al problema iniziano ad apparire dal momento in cui inizia a circolare l’idea di una “nuova classe media”, soprattutto dopo le ricerche di Marcelo Neri, un economista dell’Università Getulio Vargas che ha ricoperto incarichi nei governi Lula e Dilma e ha ideato uno dei programmi di credito sociale. Poiché “classe media” è un termine che evoca un’immagine terribilmente negativa in Brasile, soprattutto a sinistra, si è scartata questa idea che sembrava contenere un veleno politico, preferendo parlare di una nuova classe operaia, come hanno fatto Marcio Pochmann, Jessé Souza e Marilena Chauì (13) (si potrebbe aggiungere il concetto di “precariato” di Ruy Braga (14) ). Il pensiero sociale brasiliano era perseguitato dalla possibilità che dalle trasformazioni sociali in atto emergesse una mostruosità, un fantasma che doveva essere esorcizzato tramite concetti sociologici che cercavano di evocare le virtù progressiste della “classe operaia” intesa in senso classico. La classe operaia non è, in fondo, l’agente della storia e il motore della modernizzazione? Senonché il Lavoro, la Storia e la Modernizzazione avevano perso il loro fondamento oggettivo e il Capitale era entrato nell’era della sua riproduzione fittizia. Il mondo del lavoro in cui questa “nuova classe operaia” si stava formando (niente a che fare con il processo di formazione della classe operaia inglese descritto da Thompson) a malapena poteva essere definito un “mondo”. Purtuttavia, per usare la metafora della sociologa Silvia Viana , è nell’olio bollente di questo mondo del lavoro simulato (che è anche quello della disoccupazione strutturale) che si è fritto il coxinha, e che poi è lo stesso olio bollente che ha strappato la pelle a coloro il cui volto la sinistra non riconosce più (15). Senza capire cosa succede in mezzo a questa centralità negativa del lavoro (16), la sinistra continuerà a strillare istericamente che “la terra è rotonda” quasi fosse Galileo che rischiara il buio medievale all’alba della modernità. 

All’interno di questo dibattito (nuova classe media versus nuova classe operaia) non è irrilevante ciò che ha prodotto Jessé Souza, divenuto oggi ideologo mainstream del PT con la sua macchina di produzione di discorsi consolatori e nobilitanti  per una sinistra demoralizzata. Il tenore moralizzante delle sue analisi, tendenzialmente più cristiane che materialiste, salta all’occhio in due dei suoi concetti centrali: quello di ralé (marmaglia) e quello di batalhadores (17). I batalhadores brasiliani costituirebbero il gruppo di lavoratori sociali emersi dal ralé. Il concetto sottende una morale del lavoro associata a un elogio della sofferenza che prima o poi verrà ripagata dai frutti della nazione a venire. “La nostra ricerca”, scrive Jessé, “ha dimostrato che questa classe si è guadagnata un posto al sole al costo di uno sforzo straordinario: la sua capacità di sopportare la fatica di vari lavori e turni, la doppia giornata di lavoro e la scuola, la straordinaria capacità di risparmiare e di resistere alla tentazione del consumo immediato e, altrettanto se non  più importante di quanto è stato detto, la straordinaria fiducia in sé stessi e nel proprio lavoro” (18). Oppure, con le parole di Roberto Mangabeira Unger che commenta il libro di Jessé nella prefazione: “Lottano attivamente, con energia e ingegno per sfuggire alla ralé ed entrare nell’albo della piccola borghesia imprenditoriale ed emergente. Mostrano qualità che Euclides da Cunha attribuisce ai sertanejos” (19). Al netto della facciata nazional-popolare con il suo immaginario di un popolo forte e coraggioso, questo può facilmente suonare come il più spudorato elogio neoliberale della resilienza. Attraverso le virtù popolari legate allo sforzo, alla lotta (intesa come lotta per l’autoconservazione) e alla perseveranza che, nonostante tutte le avversità, punta in avanti (anche se avanti non c’è nulla), si cerca di emulare il secolare e tremendo sforzo di superare il sottosviluppo e la lotta contro l’arretratezza che animò l’immaginario populista degli anni 1950-60 e, andando a ritroso, l’ethos del lavoro dell’epoca di Getulio Vargas. Spetta al popolo essere il soggetto della modernizzazione ritardata (20) e portare il peso della costruzione della “civiltà brasiliana”. 

Nella situazione contemporanea è molto probabile che questa litania progressista abbia perso la sua forza persuasiva e che l’incredibile resilienza sertaneja di questo instancabile batalhador abbia incontrato il suo limite in questa lotta senza un orizzonte di aspettative. Guardando i suoi batalhadores  Jessé riconoscerebbe forse oggi ciò che disse dei suoi operai un dirigente della Ford all’inizio degli anni 70, all’alba di quella che Chamayou ha chiamato la “società ingovernabile”: “c’è, da parte degli impiegati, un indebolimento generale della tolleranza verso la frustrazione” (21). È probabile che l’energia sociale di cui parla Jessé non sia, come lui presume, il carburante per un balzo in avanti della modernizzazione, bensì l’ingrediente fondamentale per un’esplosione di odio sociale nel bel mezzo di una de-socializzazione catastrofica. Eppure i teorici sociali credevano di riconoscere, in quel mondo dell’arrangiarsi,  per il quale la possibilità di coagularsi in una società del lavoro com’era avvenuto nell’Europa del dopoguerra era negata a priori, una specie di porta sul futuro, paragonabile al “privilegio dell’arretratezza storica” immaginato da Trotsky nella sua teoria dello sviluppo disuguale e combinato. Scrive per esempio Mangabeira Unger: “E’ necessario – e possibile – organizzare un passaggio diretto dal prefordismo al postfordismo,  senza che tutto il paese debba passare attraverso il purgatorio del fordismo industriale.  I batalhadores  e la piccola borghesia intraprendente sarebbero i primi beneficiari di questa costruzione” (22) . Il fatto è che questo balzo diretto dal sottosviluppo al postfordismo dei servizi – come è scontato avvenisse in un paese periferico – è stata una scorciatoia verso il collasso. 

Poiché Unger non è ingenuo, ha capito che i batalhadores avevano qualcosa di refrattario, nella misura in cui – essendo appena sopra il livello dei miserabili – non erano oggetto delle politiche sociali governative (23) . Il governo si sarebbe quindi dovuto preoccupare di domarne l’energia, inventandosi qualche programma sociale anche per loro, affinché fossero “i primi potenziali beneficiari dei progetti di formazione ed espansione delle opportunità. Hanno dimostrato di poter essere salvati perché hanno già cominciato a salvarsi da soli” (24) . Eppure non sono stati salvati: erano ingovernabili in quanto rappresentavano il limite stesso della governabilità petista. Così sono diventati “ingrati”, come ha detto il ministro Gilberto Carvahlo dopo le manifestazioni del 2013.  

Comunque la si voglia chiamare – nuova classe media o nuova classe operaia – nei confronti di questa classe c’era l’aspettativa che potesse diventare il cemento della nuova società brasiliana, sia pure in quella versione nazional popolare che sarebbe stata  il marchio del contributo brasiliano alla democrazia del futuro. Alcuni non hanno voluto dire che il progetto era quello di formare una nuova classe media perché questa si porta dietro l’immagine di una “élite di privilegiati” (25), gente che vuole “distinguersi”, razzisti e stronzi che incarnano rapporti di produzione (in senso morale, qui i rapporti di produzione reali non sono in questione) che frenano lo sviluppo delle forze produttive, il progresso. Non a caso nella narrazione petista il golpe e il bolsonarismo sono interpretati come la reazione di strutture socioeconomiche arretrate che non sono state vinte dalle forze progressiste (in questo caso dallo stesso PT), per cui il bolsonarismo sarebbe un “sintomo” della bontà dei governi del PT.

Parlare di “nuova classe operaia” suona quindi più che altro come un eufemismo, mentre manager e tecnocrati – che non condividono questa idiosincrasia morale degli intellettuali – non esitano a parlare di “nuova classe media”, benché anche questo termine mistifichi la realtà. Questi distinguo sociologici sembrano piuttosto una spia di come certe distinzioni (Bourdieu) operano socialmente in termini morali o culturali. Ciò che si sottintende è che esistono una classe media che rappresenta un’arretratezza atavica (il patrimonialismo, la rendita, ecc.) e un’altra, laboriosa e in ascesa, che dovrebbe diventare la base sociale di un capitalismo “civilizzato e democratico”. 

Chiunque abbia letto le ultime interviste di Lula, quando era ancora in prigione, può rendersi conto che il suo spirito utopico (innegabile) si fonda sulla fantasia dell’infinità del processo di valorizzazione capitalistico, una fantasia che rappresenta l’essenza della sinistra così come si è configurata nel dopoguerra, quando il suo orizzonte definitivo è diventato quello di regolare/governare/sviluppare il capitalismo, svolgendo una funzione ridistributiva e placando gli antagonismi sociali.

In Brasile allorché, sulla scia della ri-democratizzazione del paese, è arrivato il tempo della sinistra, la tendenza al collasso e allo smantellamento della società del lavoro era già un dato di fatto. L’automazione e la continua espulsione del lavoro vivo dal processo produttivo (anche nelle campagne) non erano più compensati da un’espansione del mercato esterno, come era avvenuto nei paesi del centro alla fine del boom fordista degli anni 40 e 50. “Lo scenario”, scrive José de Souza Martins, “era quello di una crescita del numero di persone sradicate, che vivevano precariamente ai margini dell’economia organizzata, persone senza orizzonte e senza futuro” (26). Il quadro era quello di un Brasile “anomico” in cui la formazione di una società capitalistica “prospera” con piena occupazione era un’impossibilità logica e storica. Una situazione in cui cresceva un contingente di popolazione superflua dal punto di vista della riproduzione del capitale. In una conversazione del 1982 Martins la commenta così: ”Joao Pedro Stédile mi disse che chiunque fosse riuscito a organizzare questi lumpen avrebbe cambiato il paese” (27). Due anni dopo veniva fondato il MST (Movimento dos Trabalhadores Rurais sem Terra). 







Se il MST ha saputo rappresentare – in alcuni momenti – un potenziale di rottura rivoluzionaria, è perché ha saputo organizzare questa gente senza niente, espulsa dalle campagne e ammassata nelle enormi periferie urbane, una popolazione di “soggetti monetarizzati senza denaro” (Kurz) che non aveva più alcuna chance di venire integrata nella società del lavoro. Nel caso del PT non era chiaro quale sarebbe stato il suo rapporto con questa popolazione “emarginata, lumpenizzata o semplicemente esclusa dal mondo del Diritto e della Legge” (28), al tempo stesso la denominazione lumpen esprimeva la dubbia incorporazione politica di questa massa il cui comportamento poteva essere inquadrato ma non controllato. Non si trattava cioè di lavoratori sindacalizzati pronti a costruire un “capitalismo sindacale” (Joao Bernardo) di tipo europeo, non era scontata la possibilità di istituire un patto sociale. Nel tempo si è chiarito che il loro destino era quello di essere governati, alternativamente, dalla mano sinistra e dalla mano destra di uno stato neoliberale che ora assiste, ora punisce, incarcera e uccide. Le origini spirituali dei successi gestionali della sinistra vanno forse rintracciate nel rapporto della sinistra brasiliana con la Dottrina Sociale della Chiesa associato a tecniche governative d’avanguardia (persino esportate come pratiche-modello). Le difficoltà concettuali del PT con la massa lumpen sono finite quando è stato chiaro che questa era divenuta un elemento costitutivo del lulismo e si era rivelata decisiva nella rielezione di Lula.  

I movimenti sociali sostenuti dallo stato erano divenuti piattaforme per convertire settori della ralé in nuova classe media attraverso il credito sociale. Nel capitalismo l’anomia si sana con il denaro, non importa se senza valore, l’importante è che la circolazione funzioni. Se questo faccia società è un’altra questione. Ciò che conta è che pioveva denaro e la gente era felice. Oltre ad alleviare i bisogni materiali più elementari, il denaro porta rispetto e riconoscimento. Quando si parla dell’ “onore perduto del lavoro” (Kurz) ciò significa che gli ex lavoratori passano nella categoria dei “deplorevoli” come Hillary Clinton ha definito gli elettori di Trump, che erano maggioranza tra gli ex lavoratori delle regioni de-industrializzate della rust belt. La morale del lavoro non è un ornamento sovrastrutturale ma un dato sociale oggettivo nel capitalismo mentre acquista tutt’altro senso nel momento della crisi del lavoro. Per compensare questa condizione indegna occorre recuperare la dignità attraverso il consumo (finché dura). Il soggetto monetarizzato senza denaro è un “uomo senza mondo” (Gunther Anders). Purtroppo quella che sembrava una crescita senza fine era alimentata da capitale fittizio, per cui era probabile che il denaro sarebbe finito dopo lo scoppio della bolla speculativa. E siccome il denaro non fa società, ciò che appare quando finisce è l’opposto violento della società. Già nei primi mesi del governo Lula c’erano critici che dicevano che la famigerata “inclusione attraverso il consumo” sarebbe sfociata nel fascismo, ma venivano accusati di catastrofismo.

È probabile che umiliazione e sofferenza producano qualcosa di diverso da pace e amore, soprattutto in una situazione in cui la “tolleranza verso la frustrazione” dei batalhadores di tutto il mondo è bassa. È in declino la triade di Comte - amore, ordine e progresso – che era una formula per porre fine ai periodi turbolenti delle crisi e delle rivoluzioni e cementare le basi di una storia lenta. Questo cemento era il sociale fondato sul declino delle passioni politiche. Nel momento in cui, come annunciato dalla lady di ferro, there is no such thing as society, la società diventa ingovernabile e il conflitto, come vede anche Honneth (29), si brutalizza con il declino delle aspettative di riconoscimento. L’odio riappare non come una qualsiasi patologia, bensì come la passione politica per eccellenza, la passione del confronto e dell’antagonismo. Ciò che emerge da questo sgretolamento è oscuro. Forse Walter Benjamin, osservando il mondo contemporaneo, penserebbe che, come antidoto alla barbarie in corso, potrebbe emergere una “barbarie positiva”, come lui aveva immaginato riflettendo sugli uomini e le donne mutilati che uscivano dalla Grande Guerra, con la loro capacità di fare e trasmettere esperienza atrofizzata. Senza i “barbari”, le vittime disumanizzate da questa macchina del mondo e condannate a improvvisare in un tempo senza sviluppo, non c’è nulla che si possa fare contro la vera barbarie.      


Note

(1) “Quincas Borba” è il nome di un personaggio (di un romanzo che ha lo stesso nome), inventore della “dottrina dell’umanitismo”. Anche qui, come in altri romanzi di Machado de Assis, è ironizzata l’ideologia liberale e umanista nella società schiavista brasiliana.

 (2) Quello che diceva Adorno dei critici della cultura è valido anche oggi per i falsi “critici della barbarie”: “Al critico della  cultura non va a genio quella cultura alla quale sola egli deve il disagio che prova di fronte ad essa. Egli discorre come fosse il rappresentante sia della natura incorrotta, sia di una situazione storica superiore, e invece necessariamente partecipa della stessa essenza di ciò di cui s’immagina d’essere al di sopra. [...] Il critico della cultura difficilmente può evitare di insinuare di possedere la cultura che questa non ha. [...] Dove è disperazione e sofferenza smisurata, si vede manifestarsi soltanto alcunché di spirituale, lo stato di coscienza dell’umanità, la decadenza della norma.” Theodor W. Adorno, Prismi, Torino, Einaudi, 1972, p. 3.

 

(3) Il saggio classico di Antonio Candido si può trovare in: Antonio Candido, “Dialética da malandragem”. Revista do Instituto de Estudos Brasileiros, n. 8, 1970, pp. 67-89;

 

(4) E vale la pena ricordare che, già nella sua origine, "la sicurezza [assurance] non è l'anticamera del socialismo, ma il suo antidoto". DONZELOT, Jacques. L’invention du social: essai sur le déclin des passions politiques. Paris: Éditions du Seuil, 1994, p. 137.

 

(5) Tutta la citazione: "In una società che si sta modernizzando, Sicurezza significa Sviluppo... La sicurezza non è materiale militare, anche se questo può essere incluso nel concetto; non è la forza militare, anche se può comprenderla; non è l'attività militare tradizionale, anche se può coinvolgerla. Sicurezza è Sviluppo, e senza Sviluppo non ci può essere Sicurezza". apud BRASIL, Francisco de Souza. Doutrina de Segurança Nacional: muito citada, pouco comentada. Revista de Direito Administrativo, 137. Rio de Janeiro: Forense, jul-set/1979, p. 399.

 

(6) Esponente del partito conservatore PSDB, già sindaco della città di San Paolo e attuale governatore dello stato di San Paolo.


(7) "Coxinha" era, in portoghese, un riferimento ai "poliziotti"; oggi la parola è usata per indicare un conservatore. “Coxinha" è anche un cibo popolare in Brasile che consiste in carne di pollo macinata ricoperta di pasta impanata e fritta.

 

(8) La "cracolândia" è un'area nel centro di San Paolo dove vivono migliaia di senzatetto e consumatori di crack.


(9) Le grandi proteste del 2013 in Brasile sono iniziate dopo l'intensificazione delle manifestazioni a San Paolo contro l'aumento dei prezzi dei trasporti di 20 centesimi. Dopo queste proteste, una nuova destra è emersa nelle strade, che ha portato all'impeachment di Dilma Roussef nel 2016.

 

(10) PLESSNER, Helmuth. Die verspätete Nation. Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1982, p. 19.

 

(11) PLESSNER, Helmuth. Philosophische Anthropologie. Frankfurt am Main: Suhrkamp, 2019, p. 122.

 

(12) Idem, p. 126.

 

(13) Sono tre intellettuali molto noti in Brasile e fortemente legati al PT.

 

(14) BRAGA, Ruy. A política do precariado. São Paulo: Boitempo, 2015.


(15)  "La nuova destra non è nata nel 2013, tanto meno nell'epoca della colonizzazione. È la creazione di una dissoluzione socialmente strutturata, quindi non di una qualche anomia ad essa imputata e da essa restituita in un'accusa speculare. Il coxinha è stato fritto nella disgrazia generalizzata del lavoro la cui forma flessibile ci ha deformati tutti, all'ombra della quale, tuttavia, ha trovato una particolare espressione politica". VIANA, Silvia. “Acabou!” In: Argumentum, Vitória, 11(2), P. 17-30, 2019, p. 26.

 

(16) Il termine, che indica anche l'intensificazione della sofferenza sul lavoro nel momento della sua crisi, è di Paulo Arantes (2014, P. 106). La teoria di fondo sulla crisi del lavoro è di Robert Kurz e le osservazioni sulla sofferenza sociale sono di Christophe Dejours. Con questo termine cerchiamo di sottolineare che, più la crisi del lavoro si approfondisce e più il lavoro diventa oggettivamente obsoleto, più diventa, nella vita delle persone, un problema, e più si acuisce la sua centralità sociale nel capitalismo. Ciò significa, quindi, che la crisi del lavoro non implica la perdita della sua centralità, come immaginato, per esempio, da Habermas sulla base delle osservazioni di Claus Offe sulla crisi della società salariale europea e del Welfare State, per cui, al centro della sua teoria, un nuovo paradigma centrato sul linguaggio dovrebbe occupare il vecchio paradigma marxista del lavoro.

 

(17) Batalhadores significa qualcosa come i guerrieri della vita quotidiana, che combattono per la sopravvivenza materiale

 

(18) SOUZA, Jessé. Os batalhadores brasileiros: nova classe média ou nova classe trabalhadora? Belo Horizonte: Editora UFMG, 2010, p. 50.

 

(19) UNGER, Roberto Mangabeira. Prefácio. In: SOUZA, Jessé. Os batalhadores brasileiros: nova classe média ou nova classe trabalhadora? Belo Horizonte: Editora UFMG, 2010, p. 10. Il "sertanejo" è una figura sociale e storica del mondo rurale brasiliano, ritratta nel classico libro “Os sertões” di Euclides da Cunha.

 

(20) Sul concetto di "modernizzazione di recupero" [nachholende Modernisierung] si veda il capitolo 9 di Der Kollaps der Modernisierung di Robert Kurz.

 

(21) CHAMAYOU, Grégoire. La société ingouvernable: une généalogie du libéralisme autoritaire. Paris: La fabrique, 2018, p. 25.

 

(22) UNGER, Mangabeira, op. cit., p. 12.

 

(23) Di questa "seconda classe media" dice: "Bruna, dal basso, refrattaria, che si sente come un pezzo dell'Atlantico del Nord perso nell'Atlantico del Sud, questa nuova classe media è composta da milioni di persone che lottano per aprire o mantenere piccole imprese o per fare carriera in aziende consolidate, persone che studiano di notte, si uniscono a nuove chiese e associazioni, ed esercitano una cultura di auto-aiuto e iniziativa". Idem, p. 9.


(24)  Idem, p. 10.

 

(25) SOUZA, Jessé. A tolice da inteligência brasileira. São Paulo: LeYa, 2015, p. 240.

 

(26) MARTINS, José de Souza. A política do Brasil lúmpen e místico. São Paulo: Editora Contexto, 2011, p. 11.

 

(27) Idem

 

(28) Apud Martins, op. cit., p. 12.

 

(29) HONNETH, Axel. Brutalization of the social conflict: struggles for

recognition in the early 21st century. Distinktion: Scandinavian Journal of Social Theory, 2012.

domenica 20 giugno 2021

 DALL'EGITTO ALLE LOTTE DELLA LOGISTICA IN NORD ITALIA 

LA STORIA DI MOHAMED ARAFAT

(in onore di Alik Belakhdim)



Negli stessi giorni in cui la cronaca ci consegna la notizia dell’assassinio del sindacalista di origine marocchina Adil Belakhdim, travolto da un camionista che cercava di forzare il picchetto organizzato dai militanti dello SiCobas davanti ai cancelli di un centro logistico della Lidl a Biandrate (Novara), esce il libro Arafat va alla lotta di Maria Elena Scandaliato, una giornalista Rai che ha raccolto la storia (vera) di Mohammed Arafat, un giovane immigrato egiziano che, in capo a un’odissea durata anni, durante i quali ha vissuto tutte le vicissitudini cui è destinato un lavoratore clandestino sbarcato sulle nostre coste, ha ritrovato la propria dignità quando – maturata una coscienza politica e sindacale – è diventato il leader della lotta di trecento lavoratori di un’impresa che opera nel settore della logistica in provincia di Piacenza.   


Manifestazione per Alik Belakhdim



Prima di raccontare la sua storia (che l'autrice ha scelto di esporre in prima persona, come se fosse lo stesso Arafat a parlare, evitando così di sovrapporre la propria voce a quella del protagonista) Maria Scandaliato spiega che il caso di Arafat è particolarmente interessante perché cozza con lo stereotipo del “migrante povero e negletto”. Mentre a destra i migranti vengono presentati come una minaccia da sventolare in campagna elettorale, a sinistra, scrive l’autrice,   “il migrante è una specie da salvare, come il panda o l’orso bianco. Anzitutto, va protetto mentre cerca di raggiungere la “Fortezza Europa”, con buone probabilità di annegare in mare o di congelare nell’inverno balcanico; se sopravvive, va difeso dalla retorica destrorsa, che semina razzismo (…) In entrambi i casi, il nostro immigrato è un soggetto indefinito, impalpabile, senza voce né storia: può essere una maschera nera che fa paura o una spilletta colorata da appuntarsi al petto. Non sappiano cosa voglia, a cosa aspiri, e ignoriamo le ragioni che l’hanno spinto a trasferirsi qui”. Tutto ciò nella più assoluta mancanza di analisi sul suo ruolo nel nostro sistema produttivo, e su quali siano le connessioni fra i nostri rispettivi Paesi. Il racconto di Arafat non si presta al pietismo da Ong perché non siamo di fronte a un povero disgraziato, ma al rampollo di una famiglia della piccola borghesia egiziana, dotato di strumenti culturali che gli hanno consentito di non vivere passivamente le sue traversie, ma di comprendere sempre più lucidamente i meccanismi del sistema in cui era finito, fino ad assumere una coscienza politica che ne ha fatto un leader della lotta per i diritti suoi e degli altri lavoratori (italiani compresi).    


Maria Elena Scandaliato



Ma passiamo al racconto del suo viaggio allucinante dall’Egitto all’Italia, passando per la Libia e i barconi nel Mediterraneo, e alle successive avventure, che assumono spesso il tono di un vero e proprio “romanzo di formazione”. Figlio di un ingegnere agricolo e di una insegnante di matematica, il ventenne Arafat, nel momento in cui decide di partire per l’Italia, sta per laurearsi alla facoltà di Servizi Sociali. Il lavoro che lo attende non gli dispiace affatto, ma lui desidera di più. Ci ricorda che in quegli anni (siamo nel periodo in cui stanno maturando le condizioni per l’esplosione delle Primavere Arabe) “la gioventù egiziana fremeva”, non solo perché la svolta liberista degli anni Novanta aveva drasticamente peggiorato le condizioni di vita e di lavoro, ma anche perché il regime di Mubarak era vissuto come una cappa opprimente. 

La descrizione della sua lotta per vincere la resistenza della famiglia (la rabbia del padre e il dolore della madre) è interessante, perché evoca ricordi della ribellione dei giovani occidentali contro il doppio giogo dell’autoritarismo familiare e sociale nel 68. Alla fine Arafat la spunta, strappando alla famiglia un duro sacrificio (di cui si renderà conto più tardi, portandone il rimorso) per finanziare il suo viaggio, con 4000 euro che andranno ai trafficanti più altri 700 che porterà con sé per le spese del viaggio. 

Sarà probabilmente questo investimento a risparmiargli le condizioni bestiali (delle quali, per sua fortuna, farà appena in tempo a rendersi conto) in cui la maggioranza degli altri emigranti, poverissimi e provenienti dall’Africa nera, vengono detenuti nei campi in attesa di venire imbarcati. Di fatto lui riesce a partire quasi subito e, tormentato dal mal di mare e dalla paura di affogare (come la maggior parte dei migranti non sa nuotare), si pentirà più volte di essere partito, arrivando a implorare i trafficanti di farlo tornare indietro (e ottenendo di farsi puntare contro un fucile per zittirlo). Sul barcone, Arafat incontra il primo degli “angeli custodi” che negli anni seguenti lo aiuteranno a superare i momenti peggiori: un compagno di avventura più anziano ed esperto che lo aiuta a vincere l’angoscia (non avrà mai più occasione di incontrarlo, né saprà mai il suo nome).

Una volta sbarcato e internato in un campo di raccolta, la paura di essere rispedito in Egitto prenderà il posto della paura di affogare, per cui, alla prima occasione, scappa insieme ad altri e, dopo avere girovagato per le campagne siciliane (che gli ricordano il paesaggio natio, al punto di chiedersi se è davvero arrivato in un altro Paese) riesce fortunosamente a salire su un treno per Milano – dove lo attende uno zio, avvertito dal padre del suo arrivo - munito di regolare biglietto (i soldi che si è portato dietro si rivelano ancora una volta preziosi). 

Ma nemmeno queste prime disavventure hanno smorzato lo spirito inquieto e insofferente che Arafat si è portato dietro dall’Egitto. Non va d’accordo con lo zio, il cui atteggiamento autoritario gli ricorda quello del padre, né gli piace il lavoro che costui gli ha procurato (in un’impresa di pulizie), che considera privo di qualsiasi attrattiva ma soprattutto troppo al di sotto delle sue aspettative (non si è ancora reso conto che l’Italia non è il Paese di Bengodi che aveva sognato come tanti suoi coetanei egiziani, al punto che non è nemmeno in grado di soddisfare le analoghe aspirazioni dei suoi coetanei autoctoni). Lui voleva (e si illudeva ancora di trovare), per usare le sue parole “qualcosa che mi facesse emergere dalla massa dei miei connazionali senza speranze”.

Decide quindi di tornare in Sicilia (della quale gli è rimasto il ricordo di paesaggi simili a quelli del suo Paese, tanto diversi dal grigio e dal freddo milanesi). Ma qui le cose gli vanno decisamente male: assaggia la durezza del lavoro semischiavistico della raccolta nei campi, con i caporali a imporre la loro legge e le disumane condizioni di alloggio. Anche quando trova una situazione meno aspra – si tratta di raccogliere arance - che spartisce con un gruppo di braccianti siciliani, capisce di non potercela fare (guarda basito i carichi impressionati che quei vecchi contadini sono in grado di sollevare, mentre per le sue forze di giovane studente sono proibitivi). Ancora una volta la fortuna lo aiuta facendogli incontrare una coppia di italiani che lo ospitano e lo trattano come un figlio, ma poi,  sentendosi umiliato da una condizione di dipendenza, riprova a trovare lavoro finché si rende conto di vivere una realtà in cui le mafie dettano legge (assiste anche a un omicidio che avviene sotto i suoi occhi).  


raccolta delle arance in Sicilia



Decide quindi di ripartire per il Nord, raggiungendo Piacenza, dove vivono alcuni suoi amici e connazionali. Qui entra nel giro delle finte cooperative che operano nel settore della logistica per conto delle multinazionali dell’e.commerce e della grandi imprese della distribuzione, così ha modo di rendersi conto che le cose, dietro un’apparenza di falsa normalità, non sono poi così diverse rispetto a quelle che ha vissuto al Sud. Le “cooperative” di cui parliamo non hanno più nulla a che fare con il vecchio, glorioso strumento del mutualismo e della solidarietà operaia: sono il “sottoscala” da cui le grandi imprese monopolistiche estraggono una quota consistente dei loro profitti attraverso la più sfrontata e impunita violazione di tutte le regole che dovrebbero governare i rapporti di lavoro: niente assunzioni (si viene arruolati come finti “soci”), niente contributi, salari in nero (e al di sotto di qualsiasi minimo contrattuale), ritmi e carichi di lavoro massacranti, contando sull’impossibilità di ribellarsi perché chi è senza documenti “non esiste”, quindi può essere licenziato senza problemi. Per inciso, Arafat inizia a rendersi conto che questa condizione di sottomissione totale della forza lavoro non riguarda solo gli immigrati ma anche molti lavoratori italiani, indeboliti da decenni di politiche liberiste che ne hanno falcidiato i diritti e la capacità organizzativa, e quindi anche la dignità.    

Finalmente trova un lavoro decente in una ditta dove resta per quattro anni. Dunque alla fin fine l’Italia ha mantenuto le sue promesse, è bastato avere pazienza? Nuova cocente delusione: salta fuori l’infame legge che stabilisce che gli immigrati irregolari che hanno ricevuto più di due decreti si espulsione devono andare in carcere.  Arafat, che i due decreti li ha già ricevuti,  viene arrestato e condannato a otto mesi. Sprofonda nella depressione riuscendo a pensare solo che, una volta scontata la pena, verrà rispedito in Egitto, vanificando tutti i sacrifici che gli avevano finalmente consentito, se non di avverare i suoi ingenui sogni di studente, di ottenere almeno una condizione lavorativa dignitosa. Ma anche in carcere trova – come gli era successo sul barcone – un angelo custode. Un anziano detenuto, anche lui egiziano (Arafat non saprà mai perché si trova in carcere, ma ha capito che dovrà restarvi a lungo), si prende a cuore il destino di quel ragazzo, gli fa capire che in guardina non bisogna lasciarsi andare, bisogna occuparsi, fare attività fisica, leggere, lavorare e gli insegna che anche lui ha diritto a un avvocato, sia pure d’ufficio. 

L’avvocatessa che ne assume la difesa conosce una coppia mista italo-egiziana disposta ad aiutarlo, facendogli ottenere un permesso in attesa di regolarizzazione. Così, una volta uscito (in anticipo, per buona condotta) può riprendere a lavorare. Purtroppo non nel buon posto che aveva trovato, ma rientrando nell’inferno dei subappalti della logistica. Questa volta però Arafat ha maturato abbastanza esperienza e consapevolezza dei propri diritti per non accettare passivamente lo sfruttamento a cui lui e i suoi compagni di lavoro sono sottoposti. Così prova a rivolgersi ai sindacati confederali, ma si scontra con un muro di indifferenza (la sensazione, racconta, era che considerassero situazioni come la sua pure seccature, di cui non valeva la pena occuparsi perché tanto nulla si sarebbe potuto fare per cambiare le cose). Finché sente parlare dei sindacati di base e si rivolge ai Si Cobas.

È la svolta. Da quel momento inizia l’ultima e conclusiva tappa della sua maturazione politica. Ha imparato che finché si cerca di cavarsela da soli non c’è salvezza, che solo con l’unità e con l’organizzazione i lavoratori possono sperare di ottenere salari e condizioni di lavoro dignitosi; ha imparato che non esistono solo sindacalisti opportunisti e privi di ogni reale volontà di lottare, ma anche organizzazioni che, per quanto dotate di scarsi mezzi e prive di riconoscimento istituzionale, sono pronte a spendersi davvero per rappresentare gli interessi dei lavoratori. Questa nuova consapevolezza fa sì  che egli divenga il leader della lotta dei suoi trecento compagni di lavoro. Non arretrerà più, nemmeno di fronte a tutte le manovre con cui padroni e capetti cercheranno di dividerli, nemmeno di fronte a una polizia più preoccupata di garantire che i camion possano comunque entrare nei magazzini dell’impresa (e qui il pensiero corre immediatamente alla morte di Adil) che di indagare sulle illegalità che in essa vengono sistematicamente commesse, nemmeno di fronte alle “mediazioni” di questori, prefetti (e perfino un sottosegretario governativo) convocati per spegnere l’incendio senza indurre i padroni a cedere alle rivendicazioni dei lavoratori. Imparerà, anche, a gestire assieme ai sindacalisti del SiCobas, il rapporto con i media, per sfruttare la visibilità della vertenza come arma per indurre le istituzioni a svolgere il proprio ruolo di terze parti nel conflitto sociale. Alla fine vince, anche se deve ingoiare il ricatto dei sindacati confederali, i quali, chiamati a siglare un accordo per il quale non si sono minimamente spesi, gli imporranno di far iscrivere i suoi colleghi alle loro organizzazioni. Con la cronaca della lotta finisce il racconto di Arafat. Non finiscono qui, invece, le considerazioni politiche che la sua storia ci inspira. Ne riassumo qui di seguito alcune che considero cruciali. 

La prima riguarda il significato emblematico della figura di Arafat. Le sue inquietudini, come l’intolleranza nei confronti dell’autorità paterna, che replicherà nei confronti dello zio una volta giunto a Milano; le aspettative sovradimensionate rispetto all’attività lavorativa che, secondo lui, il “capitale culturale” accumulato avrebbe dovuto garantirgli; l’ambizione individuale, che lo spinge a cambiare continuamente lavoro e luoghi in cerca di “qualcosa che mi facesse emergere dalla massa dei miei connazionali senza speranze”; tutto ciò ci fa capire cosa muoveva le ribellioni delle masse giovanili nordafricane nella stagione delle “primavere arabe”. Si è trattato di una sorta di replica della rivolta degli studenti occidentali che, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, insorsero contro le gerarchie familiari, politiche e accademiche, trainate dalla volontà di subentrare alle élite conservatrici e gerontocratiche che occupavano i posti di comando. Con alcune differenze decisive, fra le quali: 1) il fatto che questa nuova rivolta si trova di fronte a regimi ben più duri delle democrazie (ancorché in fase di progressiva sclerosi) occidentali, per cui l’incentivo a lasciare i propri Paesi è elevato; 2) il fatto che la rivolta in Europa si è spenta da tempo, mentre i suoi protagonisti sono entrati a far parte, sia pure in ritardo, delle élite dominanti, diventando sostenitrici del sistema liberal democratico, ancorché declinato in versione “progressista” e “di sinistra”; per cui i giovani nordafricani guardano alla sponda Nord del Mediterraneo come al migliore dei mondi possibili, illudendosi che possa offrire loro non solo spazi democratici, ma anche opportunità di carriera e benessere.  Come abbiamo visto, ad Arafat saranno necessari anni di durissime esperienze per scrollarsi di dosso queste illusioni.


Un  barcone alla deriva nel Mediterraneo



Un altro tema importante che emerge da questa storia è la sostanziale omogeneità delle pratiche di supersfruttamento della forza lavoro immigrata – ma anche di quella italiana - fra Sud e Nord Italia. Alla violenza mafiosa del Sud fa riscontro la violenza “legalizzata” delle finte cooperative del Nord, oscene caricature delle cooperative d’antan. In entrambi i casi l’obiettivo è estendere i margini di profitto, riportando le condizioni della forza lavoro indietro nel tempo, non solo a prima della controrivoluzione liberista, ma addirittura al secolo XIX. 

Particolarmente significativo il caso della logistica che, con l’esplosione dell’e.commerce, la finanziarizzazione dell’economia e lo spostamento del ruolo di traino dall’industria tradizionale al settore dei servizi, è divenuto un nodo strategico dell’accumulazione capitalistica; ma anche un nodo vulnerabile a forme di lotta dure (come il blocco delle merci, che somiglia al blocco della catena di montaggio fordista), per cui il capitale è costretto a fare di tutto per mantenere il controllo sulla forza lavoro. Da qui la necessità di puntare sui lavoratori più ricattabili – immigrati senza documenti, autoctoni impoveriti dalle politiche di deindustrializzazione e decentramento produttivo, ecc.  E da qui la repressione violenta – dalle cariche della polizia contro i picchetti a episodi come quello che è costato la vita ad Alik –, da qui i tentativi di dividere con ogni mezzo i lavoratori, anche con la sostanziale complicità – ben descritta da Arafat - dei sindacati confederali, i quali si prestano a isolare e delegittimare i sindacati di base. Per tacere delle istituzioni e dei media, che si accorgono delle illegalità quando ci scappa il morto e “si scopre” che in questi settori l’illegalità regna sovrana. 

Meritano qualche considerazione anche gli episodi di solidarietà su cui Arafat ha potuto contare nelle circostanze più terribili che si è trovato a dover affrontare. Come si è visto, non sono stati solo i  suoi connazionali ad aiutarlo, ma anche cittadini italiani come le due coppie, una in Sicilia, l’altra a Piacenza, che l’hanno ospitato o aiutato a ottenere un permesso provvisorio. Episodi che confermano come, per fortuna, nel popolo italiano il razzismo non sia tanto diffuso come spesso si è portati a credere. Episodi di solidarietà umana che travalicano l’ideologia, a partire dall’ideologia “pietista” di quelle sinistre che, come denuncia Maria Scandaliato nella Introduzione, si appuntano al petto i nastrini colorati della lotta la razzismo, e invitano gran voce a lasciar entrare nel nostro Paese gli immigrati, ma ignorano le condizioni reali di lavoro e di vita che costoro si troveranno a dover affrontare. 

Un’ultima riflessione: la storia di Arafat ci ricorda la necessità di un’approfondita riflessione sull’urgente compito di ricostruire l’unità politica e sindacale delle classi subalterne, sia a livello nazionale che a livello internazionale. Arafat ha imparato sulla sua pelle che cosa la democrazia liberale e il sistema capitalistico occidentali possono “regalare”, a chi come lui viene qui con l’illusione di trovare occasioni di promozione sociale. Ha tratto le giuste conclusioni dalla sua esperienza, nel senso che ha capito che occorre rinsaldare nella lotta gli interessi comuni fra immigrati e italiani.  Ma occorre anche capire che, qui da noi, occorre lottare anche e soprattutto perché gli Arafat che ancora vivono in Africa, e in altri Paesi neo coloniali, vengano messi in condizione di migliorare le proprie condizioni senza essere costretti a emigrare. Ciò vuol dire lottare contro l’imperialismo occidentale che sfrutta le risorse dei Paesi del Terzo Mondo, li strangola con la trappola del debito e li devasta con le sue guerre. Il vero internazionalismo proletario è questo, non il pietismo da dame di San Vincenzo per i “poveri” immigrati.  




   

lunedì 14 giugno 2021

SUL FEMMINISMO OGGI

UN DIALOGO A DISTANZA FRA CHIARA ZOCCARATO E ALESSANDRO VISALLI 


Quasi tutti gli articoli apparsi su questo blog sono di mio pugno. Solo in pochi casi ho accolto interventi di altri autori (sollecitati da me), questo è uno di quelli. Dopo essere intervenuto in più occasioni sul tema della degenerazione teorica e ideologica di un femminismo mainstream sempre più allineato con gli interessi del sistema capitalistico e con i valori e i principi neoliberali, ho deciso di pubblicare una riflessione inviatami dall'amica Chiara Zoccarato, la quale, pur duramente critica nei confronti delle correnti maggioritarie del femminismo, rivendica i motivi di fondo di un conflitto di genere che ritiene parte integrante della battaglia socialista e anticapitalista. Assieme al suo contributo, ho deciso di pubblicare anche le riflessioni critiche che quel testo ha sollecitato da parte di Alessandro Visalli (che me le aveva inviate dopo averlo a sua volta ricevuto da Chiara). Ovviamente entrambi gli autori sono stati avvertiti della mia intenzione e si sono dichiarati d'accordo. Penso che far circolare il loro dibattito sia importante, non solo per i temi che affronta, ma anche e soprattutto perché il modo in cui li affronta ha il merito di disincagliare la discussione dalle secche della sterile contrapposizione fra accuse incrociate di misoginia e misandria, in cui ultimamente sembra essersi impantanata. Ringrazio quindi queste due persone, della cui fraterna stima e affetto mi onoro, per avermi offerto questa occasione. 



ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA QUESTIONE FEMMINILE

 di Chiara Zoccarato 


Qualcuno dice che la lotta di classe disturba il sistema, la lotta tra i sessi no. 

E’ un’affermazione ad effetto, da verificare con più attenzione.

 

Sono d'accordo che il femminismo di seconda generazione sia andato fuori strada rispetto all’obiettivo, e presenti una forma di emancipazione femminile distorta e competitiva, felicemente all’interno del sistema capitalistico e per il raggiungimento di un successo sociale ed economico secondo valori di mercato. Tuttavia mi lasciano perplessa le posizioni che definiscono discriminatorio evidenziare le differenze tra donne e uomini, quando sono biologiche, importanti e soprattutto necessarie per compensarci. Ugualmente quei pareri secondo i quali questa sarebbe una società ostile agli uomini e tutta a vantaggio della donne e a corredo di simili affermazioni si citano quote rosa in politica o nel mondo del lavoro, il vantaggio di mansioni comode e non pericolose, gli esiti favorevoli nelle cause di divorzio, le leggi “speciali” contro la violenza sulle donne. 


Se si entrasse davvero nel merito delle questioni imputate, la realtà, purtroppo, è drammaticamente diversa, e certa legislazione mascherata di femminismo non sposta poi molto lo sbilanciamento di genere, che sussiste per motivi che sono strutturali e qualche provvedimento cosmetico non altera, ma certo, sistema le coscienze e dimostra la volontà di spianare la strada alle donne che accettano l’attuale società di mercato, che non è affatto neutra, ma ancora fortemente maschile, anche se non nei termini e nei modi usati da certe passionarie del femminismo neoliberale. 


L’accusa, poi, letta recentemente, di essere sfaticate perché scegliamo sempre lavori poco impegnativi (tutto da vedere) e preferiamo il part-time, deriva dall’ottusa incapacità, o dalla volontà oltremodo perfida, di non vedere che quella è una scelta spesso obbligata, perché le sfaticate hanno ore e ore di lavoro di cura extra-lavorativo, non retribuito e non considerato, ma faticoso e sfinente dal punto di vista fisico e mentale. I figli, la casa, le scadenze, i genitori da accudire, spesso anche quelli del partner. Ore e ore di lavoro. Stare coi figli non significa “giocare e guardare cartoni animati”, significa tenere pulita la casa, i loro vestiti, fare la spesa, preparare i pasti e controllare alimentazione e salute, passare quarti d’ora a cercare di prendere la linea col pediatra per fare esami e visite, portarceli, far fare loro attività, andare a parlare con gli insegnanti. Accudire gli anziani di famiglia, significa far loro la spesa, portarli a fare compere, portarli a fare gli esami clinici, occuparsi delle loro pratiche burocratiche, arrivare a prenderseli in casa e fare loro da badanti finché si riesce, perché le strutture pubbliche sono insufficienti e inadeguate, e quelle private sono inavvicinabili per i costi.


La vita di una donna è dunque costellata di impegni ed attività, che le impongono limiti pressanti e insormontabili alla sua attività lavorativa e carriera professionale, che sono tutte ritagliate su tempi e modalità trasferite dal mondo maschile a quello femminile senza alcun adeguamento. 


A proporne, salterebbe immediatamente fuori chi li taccerebbe di discriminazione nei confronti del genere maschile, senza che nessuno si sia mai veramente scomposto per il fatto che il genere maschile gode del lavoro di cura gratuito delle donne prestato oltre quello salariato, per cui l’accordo di reciprocità “io lavoro, tu stai a casa” è saltato da un pezzo. E tengo a precisare che pur avendone la disponibilità finanziaria, non tutto il lavoro domestico e di cura può essere trasferito alle colf, e resta sempre e comunque  in carico alla famiglia, tipicamente alla donna. 


Se è l’uomo a farsene carico (molto raro), questi si accorge subito che la sua performance professionale diventa decisamente meno brillante. Anche il tempo per studiare, informarsi, fare politica – ma guarda! – diventa improvvisamente pochissimo e insufficiente. 

Restano irrisolvibili, se non forzando la natura con conseguenze inimmaginabili e imprevedibili, la questione della maternità e del periodo di cura neonatale, in cui il legame psicofisico è fortissimo, che sono in carico alla donna in modo esclusivo. La separazione è dannosa, oltre ad essere dolorosa, e va evitata il più possibile (disgrazie a parte, che non sono per fortuna la normalità).


Certo, una donna può scegliere di non essere madre, può scegliere di non avere una famiglia da accudire. E in quel caso in moltissime professioni può eguagliare l’uomo. 

Ma è davvero una scelta che una donna può o vorrebbe mai fare? Si può decidere a 20 anni per i successivi 40? E poi, siamo sicuri che sia a costo zero? Perché se non fosse a costo zero, ma anzi, il costo fosse molto elevato, cosa di cui sono assolutamente convinta, sarebbe un’imposizione, una costrizione che la società attuale impone alla donna che voglia perseguire una professione e di cui stiamo volutamente ignorando la violenza e l’ingiustizia.


In questo quadro sociale così frustrante per il genere femminile, turba in modo particolare la presenza in ambienti comunisti di misogini mascherati da compagni. E’ disperante vedere nei pochi capisaldi rimasti, anche in ambienti di grande spessore intellettuale, emergere una reazione maschile alla questione femminile, condita ora di vittimismo esasperante e francamente fuori luogo, ora di frasi ad effetto come quella nell’incipit, che tenta sempre e comunque di rimettere la donna al “suo” posto, in questo caso in un sistema perfettamente anticapitalista, ma pur sempre di impronta maschile, dove alla donna sono garantiti diritti e te li fai bastare.


Ma non può bastare un sistema che assicura alle donne che possono abortire quando vogliono, come se non fosse un trauma fisico e psicologico! che possono divorziare facilmente o che possono partorire e tornarsene subito a lavorare in fabbrica perché tanto c’è l'asilo nido di Stato! Un sistema che dice che possono fare carriera ma, nei fatti, non è previsto un percorso diversificato che salvaguardi il loro diritto ad essere madre, con il tempo necessario alla cura neonatale (che va ben oltre i nove mesi concessi a stipendio ridotto, il cucciolo d’uomo è molto lento nella crescita), e donna, con i suoi numerosi disturbi dovuti alla complessità straordinaria del suo organismo, che ancora vengono etichettati come scuse, o peggio, come problemi mentali. 


Le donne devono trasformarsi in uomini per avere successo nella loro professione, accreditamento nella società, rispetto. 

Tutto ci impone di combattere la nostra natura, come se fosse un difetto di fabbrica!  

E a conti fatti, in questa fabbrica sociale, è effettivamente un difetto, un ostacolo al compimento di una certa idea di mondo, figlio della logica produttivistica ed economicista (di cui anche certo comunismo è pregno), della visione parziale, cioè di parte e di genere, del sistema sociale ed economico. 


Questo causa frustrazione, conflitti, recriminazioni reciproche, rancori, violenza e vendetta da entrambe le parti, una catena da cui è necessario uscire, ma per farlo è necessario cambiare il sistema in cui viviamo, crearne uno dove sia possibile ristabilire relazioni tra uomo e donna che siano collaborative, sussidiarie, fondate su valori fuori dalla cultura di mercato e liberate dai vincoli economici, che sempre più spesso imprigionano le coppie in relazioni tossiche per non trovarsi su una strada. Vanno create istituzioni e strutture dedicate all’assistenza, alla cura delle persone più fragili, un sistema che garantisca l’accudimento come bisogno imprescindibile della natura umana, in tutte le sue forme, private e pubbliche.

L’analisi da cui partire per costruire un paradigma nuovo, deve tenere in considerazione questo aspetto e operare una completa riclassificazione. 


Le attività e le relazioni umane sono riconducibili a due macrosettori, quello della PRODUZIONE e quello della RIPRODUZIONE. Quest’ultima va intesa nella sua accezione più larga possibile, che inizia con la generazione di nuovi esseri umani – funzione fondamentale per la sopravvivenza della specie – ma include anche il prendersi cura della vita in genere, fisica e psicologica, la guarigione e la riabilitazione, l'educazione, la nutrizione, nonché la cura del pianeta e dell’ecosistema. 

E’ un approccio femminile, ma non necessariamente riservato al genere femminile, o almeno, non interamente.


Oggi il focus economico e sociale è rivolto principalmente alla produzione, che è tipico del capitalismo ed è un approccio essenzialmente maschile. 

Il settore della riproduzione è visto addirittura come antieconomico, quando invece è il fine ultimo dell'economia, intesa più correttamente come la gestione delle risorse e il coordinamento delle attività umane, comprese le forze produttive, per la sopravvivenza e il benessere della società. Pensiamo ai tagli  alla sanità, alla scuola, all’assistenza socio-sanitaria territoriale e al danno che hanno prodotto.


La concentrazione massiva delle risorse umane e materiali verso la sola produzione, tra l’altro orientata al profitto, ci ha riempito di attività il cui unico scopo è il proprio ritorno finanziario e che quindi producono senza sosta una quantità impressionante di cose da immettere nel mercato globale - non importa se poco sane, poco utili o addirittura dannose, non importa se sono l’ennesima versione di un prodotto di cui ce ne sono almeno altre 100 nel mercato del tutto simili in funzionalità, aspetto e perfino prezzo. Queste vanno ad aumentare la massa dei rifiuti e l'inquinamento, sfruttano forza lavoro in modo insensato, impiegano materie prime e risorse alimentari che sono limitate, causando uno spreco intollerabile. 

E’ evidente che il capitalismo non soddisfa i bisogni, non è quello il suo fine, e infatti restano inevasi, compresi quelli puramente materiali, di base perfino, figuriamoci quelli sociali e spirituali..


Un sistema fondato sul consumo è chiaramente antagonista di uno fondato sulla conservazione, sulla riproduzione, sulla cura.  Oggi si butta via tutto quello che si guasta o invecchia, cose e persone. Molti finiti al margine sono scarti di cui la società non si occupa più.


Non che la produzione non sia importante, ma il Socialismo indica la necessità di un diverso modo di produzione, che risponde a precise indicazioni sul come, sul cosa e sul perché si produce. 

Nel Socialismo la produzione va posta in relazione diretta con la riproduzione, che è il motivo per cui esiste.


Come va ad impattare nella questione femminile questo tipo di approccio? 

 

Ridare dignità alla riproduzione, significa evitare di riferirsi al lavoro di cura e domestico come qualcosa che "toglie risorse alla produzione", ma diventa parte delle attività essenziali, che aggiungono valore, non lo sottraggono. E' nell'interesse della collettività che sia fatto bene e con responsabilità. Una volta si stigmatizzavano le donne che andavano a lavorare, adesso si fa con quelle che restano a casa. Come dare una possibilità di scelta vera?  Il lavoro domestico come attività principale e la maternità devono essere retribuite con un salario di dignità direttamente dallo Stato, deve essere possibile stare a casa per dedicarsi alla cura familiare senza ridursi alla povertà o alla dipendenza dal partner. Le donne, o gli uomini, che decidono di stare a casa per seguire i figli, devono poter essere economicamente indipendenti. Fanno cose importanti, lavorano, ma fuori mercato. Ovviamente ci devono essere dei controlli, stare a casa non deve essere una scusa per non fare nulla, questo vale per le donne, come per gli uomini. Non è una via di fuga. Lavorare è un dovere etico, è il principio su cui si fonda una comunità. Si può lavorare meno, fare cose che hanno un senso, ma non si può non contribuire. C’è troppo lavoro da fare, bisogna dividerselo equamente. E in quell’equamente c’è l’abisso in cui è scivolata la condizione femminile negli ultimi anni, che ci vede costrette a lavorare per avere un reddito familiare sufficiente, per cui il carico di lavoro sulle spalle delle donne è molto più pesante.


Il lavoro non è una merce, il lavoro è un bene, una risorsa collettiva. 

Va utilizzato per il benessere sociale e gli obiettivi d’interesse pubblico. 

Il lavoro può essere nella produzione o nella riproduzione, perché devono esserci entrambi per sostenere la società e il livello minimo di dignità umana a cui dobbiamo aspirare, ed entrambi devono avere il giusto riconoscimento.


La questione femminile ha molto da portare alla discussione per l’abbattimento della logica capitalistica: una prospettiva sociale ed economica focalizzata sulla riproduzione anziché sulla sola produzione, scardina il sistema in modo più efficace e duraturo. E propone una evoluzione quanto mai necessaria ai partiti che volessero farsi portavoce di un Comunismo per il XXI, con obiettivi e valori pienamente condivisibili dall’altra metà della popolazione umana.    



NOTE SULLE "CONSIDERAZIONI SULLA QUESTIONE FEMMINILE" DI CHIARA ZOCCARATO

di Alessandro Visalli


Il testo della mia ottima e vecchia amica Chiara Zoccarato sostiene che il sistema nel quale viviamo, la forma di capitalismo estremamente radicale e trionfante ormai da decenni, è ‘disturbato’ sia dalla ‘lotta di classe’ come dalla ‘lotta tra i sessi’. O, almeno, valuta l’affermazione come da verificare. Questo è l’avvio del testo, questa la conclusione. Quindi, per lei la ‘questione femminile’ contribuisce in modo decisivo all’abbattimento della ‘logica capitalista’ nel punto specifico nel quale sposta la prospettiva dalla produzione alla riproduzione. 

Si tratta, come altri, di un luogo classico del vasto e multiforme pensiero ‘femminista’. 

Chiara si dichiara consapevole, e in accordo, con la diagnosi dell’andare fuori strada del ‘femminismo di seconda generazione’(1), ma nel modo di descriverlo (2) sembra in sostanza riferirsi al cosiddetto “femminismo dell’eguaglianza”, o del “soffitto di cristallo”. In altre parole, alla corrente liberale dello stesso. Quel che, evidentemente, non va ‘fuori strada’ è il ‘femminismo della differenza? (3), almeno in una versione moderata che si limita a “evidenziare le differenze” e quindi la complementarità (Chiara usa in posizione chiave il condivisibile termine “compensarci”). D’altra parte, nel suo pezzo stigmatizza l’atteggiamento reattivo di coloro i quali, davanti all’avanzamento della ‘questione femminile’ (ovvero, della presenza sociale delle donne), reagirebbero per ‘rimettere la donna al ‘suo’ posto”. E, per farlo, rovescerebbero la posizione vittimaria avanzata dal femminismo (dichiarando che non è la donna in quanto tale ad essere vittima, ma lo è il ‘proletario’ tutto e spesso anche l’uomo in posizione di debolezza), in una specie di gara a chi può rivendicare la posizione più svantaggiata. 

Chi avesse questo atteggiamento reattivo, antitetico-polare, di fronte alla percezione di un avanzamento della presenza della donna, in quanto tale, nella società, nel mondo del lavoro, e nella cultura, sarebbe, ovviamente, da condannare. Ovvero sarebbe da combattere chi nutrisse il progetto di un sistema nel quale le gerarchie prodotte dal capitale (che non è, in quanto tale, maschio o femmina) vengano abbattute, ma permangano quelle socialmente determinate a partire dalle differenze di genere. Liberarsi dal vincolo dell’ordinatore economico non può significare, infatti, ritornare al “caro vecchio mondo” (peraltro mal compreso) nel quale religione, onore, forza ordinavano gerarchie pervasive e largamente implicite. Non c’è bisogno di essere subalterni al mito del progresso, o alle assiologie moderniste, per respingere questa prospettiva. 

Così come, nessun equivoco su questo punto, tutte le attività di cura necessarie che elenca (tenere pulita la casa, cucinare e fare la spesa, seguire la salute e istruzione dei figli, aiutare gli anziani) devono essere svolte da entrambi i membri della eventuale coppia. Non c’è alcuna ragione perché siano considerate “attività femminili”. Non lo sono, e non lo devono essere. Sono, semplicemente, cose necessarie da fare. Personalmente le faccio tutte. 

Se pure ci sono ritardi, e casi di arretratezza culturale, il fatto che tutto il lavoro, cosiddetto produttivo e cosiddetto riproduttivo possa e debba essere svolto dagli uomini come dalle donne, e non sia maschile come femminile, è una specifica conquista del femminismo della prima ondata. Si è consolidato durante la metà del secolo scorso, e non si può retrocedere da esso. Paradossalmente è quando si dice che alcuni lavori sono “femminili”, perché lo sono le relative sensibilità, che si sta retrocedendo. 

La sostanza del testo ripercorre infatti un altro dei topos classici del pensiero femminista della differenza nel momento in cui, come ad esempio insiste spesso Silvia Federici, arriva a stigmatizzare la via al successo in versione femminea come necessariamente mimetica del ‘maschile’. Ovvero segue quella linea che denuncia la spinta alla carriera e l’inserimento in posizione produttiva nel sistema economico come cedimento all’immersione nel patriarcato (o, con formula da scioglilingua, alla subalternità alla “fallologocrazia” (4)). Una logica patriarcale, o un’organizzazione del mondo economico che svantaggerebbe sistematicamente le donne nel momento in cui le costringerebbe, per non perdere valore, a tornare in fretta al lavoro dopo aver fatto un figlio, ad ignorare i disturbi mensili tipici del genere, ecc. Chiara, non senza ragione, critica, insomma, la “logica produttivista ed economicista” che prevede un salario a fronte di una prestazione (con ovvia estrazione di plusvalore e tutto quel che ne consegue), ma lo fa da una prospettiva ben specifica. In uno dei passaggi chiave del testo, decisamente dirimente per comprendere il punto di vista dell’autrice, è affermato che i diritti (di abortire, divorziare, avere sostegno alla gravidanza) sono “conquiste a metà” perché figlie della citata “logica produttivista” e di una “visione parziale, cioè di parte e di genere, del sistema sociale ed economico attuale”. Un sistema sbilanciato (per la semplice ragione che le donne aggiungono lavoro di cura, svolto in esclusiva, a quello produttivo remunerato) per ragioni “strutturali”. 

E’ questo il punto essenziale sul piano dell’analisi: è lo squilibrio ‘strutturale’ o ‘residuale’ e congiunturale? 


Insomma, l’intero sistema capitalista, creato a partire dalla prima rivoluzione industriale alla metà del settecento sarebbe sessista, in quanto creerebbe la figura del lavoratore dipendente la cui ‘forza-lavoro’ è notoriamente acquistata e remunerata in rapporto alla produzione media sociale che determina. O, in altre parole, è strutturalmente sessista semplicemente perché nella forma capitalista non si riceve perché si esiste (come in parte avveniva nel mondo precapitalista, nel quale la relazione tra sostegno e produzione era meno diretta e razionalizzata), ma si riceve se si produce un valore che si realizza nella circolazione della merce. In altre parole, se si produce qualcosa che può diventare merce ed essere venduto. L’argomento, al livello portato, sarebbe che la forma citata è ‘maschile’ anche in quanto alcuni mesi nella vita e alcuni giorni nel mese la biologia femminile (ovvero la nostra natura di mammiferi) inibisce, o ostacola, la produzione (in favore, vedremo, della ‘riproduzione’). Ovvero, è maschile in quanto pone l’uomo in condizione strutturale di vantaggio, disponendo di un numero maggiore di giorni lavorativi potenziali. Riposerebbe in questa differenza biologica la natura sessista della caratteristica “strutturale” dell’economia data dal suo orientamento a remunerare solo la produzione di merci (e non l’esistenza in sé). 

Ci sono alcuni problemi: il primo è che sul piano quantitativo ben più della specializzazione biologica conta la cultura che vi è stata tradizionalmente costruita sopra (per cui non è certo per il breve periodo di allattamento che la donna viene a specializzarsi nella ‘cura’, ma per questa); il secondo è che in questa prospettiva in pratica tutto è capitalismo e ogni società concepibile è sessista. Se la differenza biologica determinata dalla fisiologia riproduttiva, che nel mondo premoderno era solo una delle tante differenze rilevanti (5),  fosse così dirimente non si tratterebbe di uscire dal capitalismo, ma dalla società di mercato stessa (la tendenza a remunerare la produzione di merci, in rapporto ad esse, e non l’esistenza in sé è, in effetti, larghissimamente rappresentata e non solo da società “capitaliste”, come la stessa Chiara ricorda di passaggio).


O no? Chiara propone un’alternativa. Si tratta di un ‘programma maggiore’ di uscita dalla società di mercato, quello di “cambiare il sistema in cui viviamo, crearne uno dove sia possibile ristabilire relazioni tra uomo e donna che siano collaborative, sussidiarie, fondate su valori fuori dalla cultura di mercato e libere dai vincoli economici”. Sono d’accordo, ma servirebbe anche un programma di transizione. Di seguito, nella frase immediatamente successiva, lo riporta ad una prospettiva meno drastica, di aggiunta o complementarietà (welfarista, se vogliamo): “Vanno create istituzioni e strutture dedicate all’assistenza, alla cura delle persone più fragili, un sistema che garantisca l’accudimento come bisogno imprescindibile della natura umana, in tutte le sue forme, private e pubbliche”. Questa potrebbe assomigliare alla prospettiva indicata da Angela Davis nel 1981 nel suo classico “Donne, razza e classe” (6) : l’industrializzazione e collettivizzazione del lavoro di cura (anche se lì ha un gusto decisamente più collettivista).

Ma nel seguito il piano di giustificazione di questa richiesta pragmatica (essere messe in pari dalla società, con riferimento a quello che nelle condizioni attuali appare come uno svantaggio situato chiaramente ingiustificabile) si approfondisce, secondo una classicissima rivendicazione, facendo leva su un’affermazione che non posso condividere. Quella secondo la quale è femminile prendersi cura della vita (7). E di tutta la vita, nella sua dimensione fisica come in quella psicologica, nella guarigione come nella riabilitazione, nell’educazione, nella nutrizione, nella cura del pianeta. Insomma, quando io lo faccio sarei una donna. Per dirlo diversamente, se una donna sta lavorando imiterebbe l’uomo e se l’uomo fa lavori di cura imiterebbe la donna. Paradossalmente in queste posizioni, proprie di tanta letteratura femminista, si nasconde esattamente la mentalità che si denuncia.

In altri termini, la donna è fondamentale per la sopravvivenza della specie, l’uomo ha il posto in commedia del distruttore. La generazione degli esseri umani (ma, di più, la loro crescita ed educazione) è “un approccio femminile”. Chiara scrive esattamente così.

Mi spiace, ma sono in disaccordo. Quando ho cura dei miei figli non sono in un ruolo materno, ma paterno, quando pulisco la casa faccio semplicemente il necessario per vivere in un ambiente decoroso, se stiro le magliette di Marco sto facendo un gesto di amore paterno, quando faccio la spesa e poi cucino sostengo la mia famiglia, se aiuto mia madre sono un bravo figlio (non una figlia travestita). Se la madre si prende cura della famiglia e di coloro che ad essa sono affidati lo stesso, da sempre, fa il padre. Secondo le diverse culture e nei diversi modi di produzione, come nei diversi ruoli sociali e condizioni esistenziali è possibile lo faccia diversamente. Ma entrambi, da sempre, si prendono cura. Si tratta di una caratteristica della nostra specie.  


Nessuno può fare da sé, entrambi servono. 

Forse ci arriveremo. Perché se si generalizza la fecondazione artificiale, in effetti, le donne potranno fare da sole. Ma andremo oltre, perché con l’utero artificiale anche loro non serviranno più e non ci sarà più bisogno che di donatori. Ed oltre, con la clonazione non avremo più bisogno che della matrice da clonare. Al termine è possibile si arrivi al ‘postumano’. Una sorta di ibrido, non uomo né donna, geneticamente progettato, polimorfo, pronto alla infinita malleabilità. Al dominio della moda.

Io non vedrò questo mondo, e ne sono lieto. Mi auguro non lo veda neppure mio figlio (e nessuno in genere).


Ma intanto non ci siamo. E oggi, mi spiace, ma l’uomo non è il male, la donna non è il bene. Siamo tutti fatti di fango e tutti possiamo elevarci. Abbiamo tutti cura della vita, alla quale apparteniamo. Non è femminile far crescere e non è maschile uccidere. Come sappiamo da innumerevoli esempi le donne, se utile e necessario, sanno uccidere benissimo (magari diversamente). Se giustamente tanta letteratura femminista attacca ed accusa il suprematismo maschile, se teme atteggiamenti antitetico-polari di maschi che si immaginano dominanti e si scoprono pari, tuttavia questi passaggi (e la fuorviante e sfocata concettualmente ed operativamente distinzione tra “produzione” e “riproduzione”) sembrano fare la medesima mossa. Sostituire un suprematismo con l’altro. 

Io sono un uomo. Non ho alcuna vergogna ad esserlo e non ritengo di avere nulla da scusare nell’esserlo. Non ho mai pensato, un solo minuto della mia vita, di essere superiore per questo. Come non ho pensato di essere superiore perché ho studiato più di altri (e meno di altri), non ho ritenuto di esserlo per la mia razza, per il luogo della mia nascita (Milano), per il luogo della mia crescita dopo l’infanzia (Napoli), per i soldi che ho (o non ho). Condivido la visione per la quale uomini e donne sono diversi, in alcune cose, e simili, in altre. Ma non quella che ci sia una supremazia morale intrinseca dell’uno sull’altra (o dell’altra sull’uno). 

Il problema, andando più in profondità, è che a partire, dalla distinzione fallace tra “produzione” e “riproduzione” (derivante nella cultura marxiana dall’ordine del discorso, espositivo, tenuto nel “Il Capitale” e dal carattere incompiuto dell’opera, e non da una effettiva distinzione essenziale (8)), e dall’attribuzione della centralità di questa “al capitalismo” (casomai, come scritto prima, è una centralità del “realizzo” della merce come capitale, esasperato nella fase finanziaria di questo), deriva un movimento di pensiero, il vero e proprio teorema fondativo, per il quale se il capitalismo si concentra sulla produzione, e il settore della riproduzione è altra cosa (e femminile), allora il capitalismo è maschilista. Non è vera la premessa maggiore (casomai il capitalismo è riproduzione ed accumulo del valore attraverso la produzione di merci e il loro realizzo) e non è vera la premessa minore (la riproduzione non è femminile, nel senso dato ed allargato, unico pertinente), dunque non è dimostrata la conclusione.


Bisogna chiarirsi. Tra amici è necessario. Io credo che la frase di Chiara “oggi il focus economico e sociale è rivolto principalmente alla produzione, che è tipico del capitalismo ed è un approccio essenzialmente maschile”, sia imprecisa e a rigore falsa. Il focus economico nella nostra società è rivolto piuttosto alla valorizzazione del capitale (non necessariamente tramite la produzione di merci) e la produzione non è tipica del capitalismo. Infine, tutto ciò non è essenzialmente maschile, ma ha a che fare con la centralità del denaro. Al contempo, però, è vero che “il settore della riproduzione” (es. istruzione, cure ospedaliere, assistenza agli anziani ed ai bambini, ai disabili) è “visto come antieconomico”, e tollerato al minimo necessario per la tenuta sociale. Come è fondata la critica allo spreco implicato nella creazione di merci per la valorizzazione del capitale e non per la propria funzione di uso ed utilità sociale. Questa è una classica critica marxiana e la condivido (9). Ed è corretto che quando nominiamo “socialismo” essenzialmente intendiamo un modo di produzione ed una creazione di valore che pone in questione socialmente, e discute democraticamente, di cosa, perché e come produrre. Di cosa, come e perché qualcosa si possa scambiare nei mercati. Di cosa, come e perché esiste l’uomo e la società che questo forma. Di cosa sia il valore.

Tuttavia la produzione, come la circolazione, è sempre necessariamente in relazione diretta con la riproduzione alla scala sociale. È questa relazione che va posta in questione e con essa i ruoli sociali che crea e determina. 


La soluzione che al termine Chiara propone (come alcune parti del femminismo radicale, talvolta in chiave espressamente anticapitalista) è semplice: che lo Stato dia a tutti e tutte coloro che si occupano della maternità (e paternità) e del lavoro domestico un salario incondizionato. Ciò si traduce, evidentemente, nella liberazione dal lavoro come necessità (infatti nelle posizioni più coerenti questa idea si lega con il rifiuto del lavoro ed una “società dei commons” (10)), e va in frizione con la proposta della stessa Chiara, in molte sedi rilanciata, del “lavoro di prima istanza”. Infatti, nelle ultime frasi le due prospettive si affastellano un poco.

È chiaro che si tratta di un nodo complesso. Era il punto nel quale la Davis nei primi anni ottanta prendeva la strada non del salario per il lavoro domestico (che criticava in quanto a bassa produttività), bensì della fornitura pubblica ed a maggior livello di produttività dello stesso (cosa che implicherebbe la fornitura pubblica di servizi per la prima infanzia, di sostegno fiscale, di forme di cooperazione assistita dallo stato per i lavori domestici, lavanderie pubbliche, e via dicendo). La stessa Chiara ne fa cenno quando, dopo il programma massimo, individua intanto una strada di potenziamento dei servizi collettivi che possono alleviare (e di molto) il lavoro di cura, da chiunque svolto.


Dunque io piuttosto direi, per concludere e lavorare sul programma maggiore: immaginiamo un ‘lavoro di prima istanza’ per tutti e tutte, al contempo, perché questo non introduca forme di sovrasfruttamento, fornitura di beni pubblici e sostegno multisettoriale per alleviare il lavoro di cura per tutti e tutte. Insomma, piena eguaglianza e reciproco rispetto. 

Poi ognuno faccia ciò che ritiene per sé più adeguato e aiuti la società secondo le proprie capacità.


Note


(1) Oggetto di un capitolo molto specifico e molto chiaro nel libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020. Nella sezione “Regimi della ragione liberale”, che analizza i ‘regimi di ragione’ ovvero il sistema di motivazioni e giustificazioni che definisce il tipo di opposizioni che si prendono in considerazione per fare forma alle pratiche, dopo aver analizzato il naturalismo obiettivista e il postmodernismo filosofico che indica una operazione di richiusura nel privato, inquadra il diritto naturale soggettivo come snodo essenziale della ragione liberale. È a partire da questa logica che l’individualismo metodologico liberale si trasferisce nella prevalenza della logica rivendicazionista e in una forma sui generis di lotta di mercato (per far affermare il proprio ‘diritto’). Questa predominanza del ‘rivendicazionismo’ inaugura una strutturale manipolabilità ed una tendenza alla “liquefazione sociale” di cui è espressione anche il femminismo della ‘seconda ondata’. Nella ricostruzione di Zhok il dimorfismo sessuale di specie per la gran parte della storia dell’umanità conosciuta non ha determinato una qualche forma rivendicabile di oppressione di genere, piuttosto una complementarietà funzionale. L’insorgenza di società stanziali e organizzate avrebbe mutato questa predisposizione inaugurale da una specializzazione sull’asse interno/esterno ad una privato/pubblico, nel quale, però, non è legittimo leggere ‘oppressione’ in quanto questa etichetta è generata dalla proiezione delle nostre categorie e sistema di valori. Specificamente dalla costruzione illuminista delle idee di ‘parità’ ed ‘eguaglianza’ (un concetto simile anche in Honneth, “Capitalismo e riconoscimento”, Firenze University Press, 2010, p.80). La nozione di giustizia antica è fondata sul dare il giusto ad ognuno secondo la sua natura. Come ricorda anche Silvia Federici (cfr. “Origini e sviluppo del lavoro sessuale negli Stati Uniti e in Gran Bretagna”, in “Genere e capitale”, Derive ed Approdi, 2020) è la rivoluzione industriale, con l’espulsione del lavoro produttivo e la sua concentrazione nella fabbrica, a creare la divisione del lavoro che conosciamo, o meglio che si afferma nell’età vittoriana. Rimesso nei suoi termini il ‘torto storico’, e facendo uso della ‘logocentrica’ analisi strutturale, le ‘politiche dell’identità’ ed i movimenti di ‘separatismo femminile’ sono visti come parte della tendenza liberale alla frammentazione sociale, via sacralizzazione della ‘vittima’. 


(2) Un femminismo che “presenta una forma di emancipazione femminile distorta e competitiva, felicemente all’interno del sistema capitalistico e per il raggiungimento del successo sociale ed economico secondo i valori di mercato”.


(3) Sul quale ho scritto un lungo post, “Pochi appunti sul femminismo della differenza”. In esso sostengo che sul piano storico e della provenienza delle idee il ‘femminismo della differenza’ (che, certo, è altamente differenziato al suo interno e si può solo qui riportare idealtipicamente), muovendo dal contesto della ‘controcultura’ degli anni sessanta e dalle università americane, sia fondato sulla pretesa di individuare un dimorfismo ontologico su base naturalistica per evidenza più fondamentale, o radicale, delle divisioni di classe all’epoca oggetto della critica radicale. Il contesto culturale degli studi linguistici e strutturalisti (e, poco dopo, della penetrazione del post-strutturalismo), favorisce quindi una critica con toni estetici radicali che identifica l’esteriorità del conflitto “tra i sessi” come prioritario sul conflitto “di classe”. È uno spostamento decisivo di bersaglio: invece del capitalismo viene scelto, nel contesto giova ricordarlo del welfare compiuto e di una società affluente, come bersaglio il livello più ‘profondo’ della differenza sessuale. In alcune versioni si scivola verso la costruzione di una femminilità idealizzata, materna, e quindi per definizione non violenta, armonica, naturale. In questa teologia e cristologia trasposta il maschile prende il posto del diavolo. E quindi si veste del simmetrico male, anche esso naturale e quindi ineliminabile: violento sin nelle sue manifestazioni più essenziali, gerarchico, entropico. La costruzione concettuale del “patriarcato”, e la denuncia del “fallologocentrismo” come elemento essenziale ed ineliminabile di ogni cultura umana conosciuta (in particolare scritta) e di ogni forma di organizzazione sociale, induce la duplice mossa del ‘separatismo’ (seguendo il mito della ‘sorellanza’) e della ritirata dal pubblico-politico (in favore di un privato-politico che inconsapevolmente copiaincolla la classica divisione storica premoderna dei ruoli). Tutto questo avviene, giova ricordarlo, in un clima di scoraggiamento e riflusso seguito alla perdita di spinta egemonica, e poi al crollo, del ‘mondo nuovo’ socialista. Emerge quindi la lotta sull’ordine simbolico (Muraro) che rinuncia alla critica diretta dei rapporti sociali, immaginando che la liberazione di tutti emerga come effetto spontaneo dall’azione individuale per l’affermazione femminile (un’idea straordinariamente simile a quella della ‘mano invisibile’). 


(4) Si veda, ad esempio, Adriana Cavarero, Franco Restaino, “Le filosofie femministe”, Bruno Mondadori, 2002. Ed, ovviamente, i testi di Luce Irigaray a partire da “Speculum”, 1974 (trad.it. Feltrinelli, 1975), e “L’etica della differenza sessuale”, Feltrinelli 1985. 


(5) Si tratta di considerazioni a volo d’uccello (o proprio dal satellite), tuttavia nelle società nelle quali predomina il modo di produzione schiavista la distinzione essenziale è questa, nel campo dei liberi la società si divide in dominus e clientes (che non è solo, né principalmente, una divisione identificabile con il senno di poi come ‘economica’), e nei due sottocampi il posto dei maschi e delle femmine si articola sull’asse privato/pubblico, con eccezioni. Per cui gli schiavi lavorano tutti senza distinzioni, anche nei servizi sessuali, i liberi poveri -o clientes- sono variamente coinvolti in attività produttive, i domines coordinano gli uni e gli altri. E lo fanno sia i maschi, sia le femmine. Leggere i rapporti di dominazione con gli occhi post-illuministi contemporanei potrebbe essere fuorviante. Ed usare categorie come ‘falsa coscienza’ altamente problematico. Nelle società in cui predomina il modo di produzione feudale il campo degli schiavi si allarga ed assottiglia al contempo (subentrando altre figure giuridiche dominanti) e la divisione dominus/clientes organizza in profondità, su linee molto più articolate l’intera società. In esse ognuno ha il suo posto che corrisponde alla forma del cosmo. Tutto è organizzato da una ‘grande catena dell’essere’ la quale dai contemporanei non è vissuta come oppressiva, bensì naturale. Uno dei problemi più seri della letteratura critica in oggetto è che proietta imperialisticamente la forma di vita occidentale e contemporanea nello spazio e nel tempo. Giudicando il mondo esclusivamente a partire dal proprio metro.


(6) Angela Davis, “Donne, razza e classe”, Alegre, 2018.


(7) Per come scrive si tratta di un “approccio femminile”, anche se talvolta può essere praticato anche dai maschi.


(8) Questa è una questione di esegesi del testo davvero complessa, sulla quale tornerà nella lettura del testo di Silvia Federici, “Genere e capitale”, op.cit., ma per ora si può dire sinteticamente che non si può produrre senza riprodurre i fattori che in essa vengono consumati. Almeno non si può senza provocare una progressiva distruzione di questi, e, a medio termine, la stessa impossibilità di continuare la produzione. Certo, una ricorrente logica malthusiana ricorda sempre a questo punto che il mondo è ‘finito’ e che quindi, per definizione, la crescita costante e lineare della capacità umana di estrarre dalla “madre terra” i suoi frutti andrà incontro all’esaurimento. Non intendo controbattere questo argomento (se pure da articolare meglio, data la capacità dell’ingegno umano di aggirare quando necessario i suoi vincoli), ma se pure si può individuare una certa tendenza alla “crisi della cura” (titolo di un libricino di Nancy Fraser) il punto limitato che qui si pone è solo che produzione e riproduzione sono internamente connessi ed inseparabili. Questa non è una critica del marxismo, ma una sua applicazione. Non possono dunque essere concepiti come settori contrapposti e, tanto meno, armati gli uni contro gli altri.


(9) Nel mio “Dipendenza” (Meltemi 2020), nel primo capitolo è riportato in proposito il pensiero dell’economista marxista Paul Baran.


(10) Ad es. Silvia Federici, op. cit. In particolare “Femminismo, riproduzione e funzione della tecnica”, p. 88, e “Dal comunismo ai commons, una proposta comunista”, p.97.



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