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venerdì 16 giugno 2023

SAMIR AMIN: UNA SPALLATA CONTRO L'EUROCENTRISMO
 (MA OCCORRE ESSERE ANCORA PIÙ' RADICALI)







Premessa


Samir Amin è, con Giovanni Arrighi e Gyorgy Lukács, uno dei tre autori che più hanno indirizzato  i miei sforzi  di rileggere il marxismo alla luce dell'attuale realtà storica (1). I testi raccolti sotto il titolo Eurocentrismo e pubblicati da La Città del Sole  (tradotti da Nunzia Augeri e introdotti da Giorgio Riolo) sono di estrema importanza, sia perché consentono di approfondire alcuni temi di fondo che Samir Amin aveva affrontato in lavori precedenti, sia perché permettono di valutare, assieme al suo decisivo contributo alla critica del marxismo occidentale, anche alcuni limiti intrinseci a tale critica. Limiti che gli hanno impedito, come cercherò di dimostrare qui di seguito, di sbarazzarsi del tutto del più tenace dei pregiudizi della tradizione teorica con cui pure ha polemizzato per tutta la vita: mi riferisco all'idea secondo cui spetterebbe al socialismo realizzare le "promesse mancate" della modernità borghese. Ma procediamo con ordine. Prima di entrare nel merito degli argomenti trattati nel volume,  è il caso di premettere le definizioni che Samir Amin dà di alcuni concetti fondamentali che ricorrono nel testo.


Culturalismo. Qualsiasi teoria, in  apparenza coerente, che si vorrebbe olistica, fondata sull'ipotesi di invarianti "culturali" che avrebbero il potere di persistere oltre le trasformazioni apportate dai sistemi economici, sociali e politici (pag. 31)


Modernità. E' l'affermazione che l'essere umano, individualmente e collettivamente, può e deve fare la propria storia (pag. 37)


Sotto determinazione. Questo concetto  distingue il metodo di Samir Amin da quello del marxismo meccanicistico e dogmatico, secondo il quale la logica di ogni istanza sociale è rigidamente sovra determinata dalle "leggi" dell'economia. Per Amin, ogni istanza segue al contrario una logica propria, indipendentemente dal fatto che il suo stato sia quello di determinata in ultima istanza (l'economico nei sistemi capitalisti) o di dominante (il politico nei sistemi tributari, il culturale nel futuro comunista). Tali logiche non sono necessariamente complementari: entrano in conflitto e non si può predeterminare quale di esse prevarrà (cfr. pag. 104). Questa visione richiama quella di Lukács, laddove costui parla della totalità sociale come "complesso di complessi" (2) ognuno dei quali non è riducibile a "sovrastruttura" rispetto ai rapporti economici. Tanto per  Lukács quanto per  Amin la libertà si definisce partire da questo conflitto fra logiche che permette di scegliere fra alternative possibili. 


Società tributarie. La "rivoluzione tributaria" consiste, secondo Amin, nella transizione dalle antiche forme di organizzazione sociale fondate sulla parentela all'interno di piccole comunità a una serie di organizzazioni sociali basate sul predominio del potere politico dello stato (cfr. pag. 78). Samir Amin rigetta la visione dei cinque stadi evolutivi teorizzata da Stalin ma, come vedremo, finisce per proporre a sua volta un'articolazione dell'evoluzione storica in stadi (il che, a mio avviso, confligge con il suo approccio critico nei confronti delle astrazioni pseudo universaliste del culturalismo).


Quanto ai concetti di eurocentrismo e di capitalismo realmente esistente non è il caso di sintetizzarli qui in poche righe, nella misura in cui sono il prodotto di un'ampia e complessa argomentazione che  discuterò nelle prossime pagine. Un'ultima avvertenza: l'articolo non segue l'ordine espositivo del libro ma ne raggruppa i temi senza tenere conto del fatto che nel testo di Samir Amin essi vengono affrontati in parti distinte, spesso non contigue. 



La critica dell'economicismo e il concetto di capitalismo realmente esistente


Samir Amin prende le distanze dagli autori che riducono il marxismo a economia politica del capitalismo: chi si propone di analizzare le leggi dell'economia "pura", argomenta, non si occupa del capitalismo realmente esistente in quanto sistema totale (3) economico, sociale e politico, ma descrive un capitalismo immaginario, si allontana, cioè, dalla via tracciata da Marx, dalla sua scelta di porre il feticcio della merce al centro della specificità del capitalismo, onde descriverne la differenza dai sistemi precedenti, nei quali l'istanza dominante non era l'economia, mentre nel capitalismo la legge del valore domina tutto e l'economia di mercato diventa società di mercato (4). Ma soprattutto il merito storico di Marx consiste nell'aver descritto il capitalismo come un sistema che si muove da squilibrio a squilibrio, e nell'aver spiegato tale dinamica come il riflesso dei mutamenti nei rapporti di forza sociali: sono questi ultimi che determinano la storia del capitalismo realmente esistente. Per farla breve: economia e politica sono inseparabili, e l'economia pura è un mito. 


Ciò detto, Samir Amin sottolinea come il marxismo non abbia sviluppato la questione del potere e della politica (i modi di dominio) così come ha fatto con l'economia (i modi di produzione). L'approccio economicista tende a ignorare questo limite e a ridurre il tutto alla logica dell'economia ritenendo di poterne prevedere gli effetti futuri, laddove, se è vero che il futuro si costituisce con le lotte sociali, occorre ammettere che esso è per definizione imprevedibile (5). Se a ciò si aggiunge l'affermazione secondo cui "non esistono leggi generali della transizione", per cui quest'ultima può essere analizzata solo a posteriori (6), è evidente che siamo in presenza di una visione che si discosta radicalmente da qualsiasi interpretazione determinista/meccanicista del marxismo; una visione che ruota appunto attorno al concetto di  sotto-determinazione (vedi sopra).


A permetterci di capire la realtà del capitalismo realmente esistente non sono le astrazioni elaborate dai teorici (marxisti e non) dell'economia politica, bensì l'analisi concreta della storia della conquista del mondo da parte del capitalismo; una storia che dimostra come tale conquista non abbia reso omogenee tutte le società del pianeta, allineandole al modello europeo, ma abbia al contrario generato un sistema mondo (7) sempre più polarizzato, cristallizzato in centri sviluppati e periferie arretrate; polarizzazione che, sostiene Amin,  rappresenta la contraddizione più esplosiva del nostro tempo. 


Pur di fronte al dato indiscutibile di tale polarizzazione, la visione economicista ne mistifica il senso, descrivendo il sistema mondiale come un insieme di formazioni capitalistiche più o meno progredite ma tutte in marcia verso lo stesso esito finale. Viceversa Amin, al pari degli altri teorici dello scambio ineguale e della dipendenza (8), considera il sistema capitalista come un insieme mondializzato, complesso e polarizzato nel quale è il tutto a determinare le parti e non l'inverso. Se si adotta tale approccio è inevitabile giungere alla conclusione che la polarizzazione è una caratteristica costitutiva del capitalismo mondiale, per cui i paesi detti "sottosviluppati" non sono ritardatari in cammino sulla via che li condurrà, prima o poi, a raggiungere quelli più avanzati. 


A partire dagli anni Settanta, in concomitanza con il completamento del processo di decolonizzazione delle nazioni africane, asiatiche e latinoamericane, le sinistre occidentali hanno considerato esaurita la fase dell'alleanza fra lotte di liberazione nazionale e lotte di classe nei paesi del centro, liquidando come "terzomondiste" le posizioni di chi insisteva a considerare il conflitto fra Nord e Sud del mondo come parte integrante della lotta di classe a livello mondiale. A partire da allora i marxismi occidentali, accantonate le tesi di Lenin sulla lotta antimperialista, sono regrediti alla visione meccanicista/economicista pre-leninista che, da un lato riduce la lotta di classe alla polarità operai/padroni, dall'altro mette sullo stesso piano i conflitti sociali all'interno dei paesi sviluppati con quelli all'interno dei paesi periferici. In questo modo le enormi differenze di reddito fra le classi lavoratrici dei primi e dei secondi non sono più attribuiti allo sfruttamento dei centri nei confronti delle periferie, ma vengono ricondotte, accettando le tesi degli economisti borghesi, a fattori endogeni, come i bassi livelli di produttività all'interno dei paesi periferici. 


Samir Amin rovescia il punto di vista, dimostrando come la vera causa vada ricercata nei trasferimenti di valore dalla periferia al centro, resi possibili dal fatto che, mentre le economie del capitalismo centrale sono autocentrate, l'accumulazione nella periferia è determinata fin dall'origine dalle esigenze del centro. L'unica condizione che consentirebbe ai paesi periferici di avviare un processo di sviluppo autonomo, fondato su fattori endogeni, sostiene Amin, è il loro sganciamento (delinking)  dal processo di accumulazione mondializzato. 


Non ho qui lo spazio di approfondire il concetto di delinking, al centro di molti altri lavori di Samir Amin ai quali rinvio (9), per cui passo direttamente ad affrontare il tema centrale del libro, vale a dire l'eurocentrismo. Mi accosterò a questa categoria per gradi, discutendo prima il concetto di società tributaria e il ruolo che Samir Amin attribuisce alle rivoluzioni religiose associate alla transizione fra società comunitarie e società tributarie.



La funzione della religione nella divergenza fra percorsi evolutivi delle società tributarie  


La religione è l'oppio dei popoli? Ridurre il giudizio di Marx sul fenomeno religioso a questa battuta, argomenta Samir Amin, non è solo sbagliato: è uno dei peggiori abbagli del marxismo dogmatico e "materialista volgare", nella misura in cui rimuove il fatto che gli esseri umani non possono evitare di porsi l'interrogativo relativo al senso della vita. L'uomo è un "animale metafisico",  per cui le religioni rappresentano una parte importante della realtà sociale. Ciò posto, Samir Amin rifiuta anche le visioni che rovesciano il rapporto fra struttura e sovrastruttura, identificando nel fenomeno religioso la causa fondamentale delle grandi mutazioni in campo economico, politico sociale. Rifiuta, fra le altre, la tesi di Max Weber che attribuisce il genio creatore della modernità capitalistica alla riforma protestante. 


La modernizzazione capitalistica, argomenta Amin, non è il prodotto dell'evoluzione di determinate interpretazioni religiose ma, al contrario, sono quest'ultime che si sono adattate  alle esigenze delle mutazioni socioeconomiche. La modernizzazione è piuttosto il prodotto di una riforma delle classi dominanti conclusasi, fra le altre cose, con la creazione di chiese nazionali (vedi i fenomeni del gallicanesimo e dell'anglicanesimo) controllate da tali classi. Si è trattato di un processo complesso fondato sul compromesso fra borghesia emergente, monarchia e grandi proprietari terrieri che ha emarginato classi popolari e contadini. Secondo tale punto di vista, le religioni finiscono insomma per auto riformarsi onde adattarsi ai mutamenti della realtà sociale ma, al tempo stesso, e dialetticamente, le logiche religiose sono a loro volta in grado di accelerare, rallentare o addirittura bloccare il cambiamento sociale (10). 


A questo punto è il caso di analizzare il modo in cui Samir Amin tratta la questione del rapporto fra religione ed evoluzione delle società tributarie, argomento che occupa buona parte del libro di cui stiamo qui discutendo. Poco fa ricordavo che Samir Amin rifiuta l'articolazione in cinque stadi evolutivi della storia umana elaborata dal diamat staliniano. Al tempo stesso suggerisce a sua volta una diversa successione in stadi, uno dei quali è appunto quello delle società tributarie (che, per inciso, Amin rifiuta di far ricadere sotto categorie quali il modo di produzione schiavistico e il modo di produzione asiatico). Secondo Amin, sono definibili come società tributarie civiltà assai lontane nello spazio e nel tempo:  dall'antico Egitto all'impero cinese, dalla classicità greco romana al medioevo europeo e al mondo islamico. Che cosa unifica realtà storiche tanto lontane nello spazio e nel tempo? In primo luogo un blocco egemonico fondato, sia pure con varianti, sulla triade proprietari terrieri che controllano il surplus prodotto dai contadini, esponenti del potere politico (re, signori e caste militari) e gerarchie religiose. Ma soprattutto Amin sostiene che tutte le culture tributarie sono caratterizzate dal prevalere dell'aspirazione metafisica, dalla ricerca della verità assoluta. Di qui la centralità dell'impronta religiosa sull'ideologia dominante. A imporre tale sacralizzazione dell'ideologia sarebbe la trasparenza dei rapporti di sfruttamento: il compito della religione è in primo luogo quello di giustificare/legittimare la disuguaglianza (non a caso le rivolte popolari si fondano su interpretazioni alternative dei testi sacri).


Nel modo tributario compiuto (che ha cioè completato la transizione rispetto alle precedenti forme comunitarie) l'ideologia diventa ideologia di stato, il che fa sì che la sovrastruttura risulti perfettamente adeguata ai rapporti di produzione. Il raggiungimento di questo equilibrio fa sì che le società tributarie possano raggiungere elevati livelli di ricchezza (11) ma, nel contempo, fa sì anche che esse, pur non essendo immobili, non favoriscano i cambiamenti qualitativi dei rapporti di produzione (Amin cita l'esempio dell'espansione islamica: le società conquistate non vengono trasformate, non vengono modificate le forme della proprietà e dell'organizzazione del lavoro, mentre la religione si dimostra capace di adattarsi a società diverse da quella in cui era nata). 


Ad alcune società tributarie, come l'impero ellenistico e l'islam che ne raccoglie l'eredità, si deve lo sviluppo di una visione universalistica associata al sincretismo religioso. La transizione dall'alienazione metafisica delle società tributarie all'alienazione mercantile delle società capitalistiche richiederà tuttavia che tale universalismo sia cambiato di segno, richiederà cioè una rivoluzione nelle interpretazioni della religione (che per Amin non è causa, come per Max Weber, bensì concausa ed effetto al tempo stesso della grande trasformazione). Paradossalmente, la storia ha dimostrato che le società tributarie periferiche (non compiutamente sviluppate secondo i criteri sopra esposti) hanno trovato minori difficoltà ad avanzare verso il capitalismo di quelle più centrali e sofisticate, come l'islam. 


Il rovesciamento di prospettiva fra il millennio caratterizzato dall'opposizione fra oriente civilizzato e occidente semibarbaro, e il millennio successivo, che contrappone il Nord cristiano al Sud arabo-islamico, piombato in una sorta di stasi, è stato possibile proprio perché il feudalesimo europeo era un modo tributario primitivo, a causa del carattere debole e decentralizzato del potere politico. Ed è stato possibile anche perché la relativa povertà della scolastica europea lasciava, rispetto all'assai più raffinata scolastica islamica, molti più "buchi" da cui è potuta penetrare la cultura dell'empirismo, favorendo le tendenze alla laicizzazione. Così, nel momento in cui le condizioni oggettive impongono il passaggio a forme più evolute del modo tributario, con l'affermarsi delle monarchie assolute, l'esito non è quello di un allineamento dell'Europa medievale alle altre società tributarie evolute: in questo caso, infatti, la costituzione di stati centralizzati non blocca bensì accelera l'evoluzione verso il capitalismo, e ciò avviene perché, quando le monarchie assolute si consolidano, le contraddizioni sociali associate all'emergere di nuove classi (capitale agrario, mercantile e manifatturiero) sono troppo avanzate per poter essere eliminate. Per potersi imporre sulle autonomie feudali, la monarchia assoluta dovrà allearsi con queste nuove forze sociali che , qualche secolo dopo, le si rivolteranno contro. 



Critica della narrazione eurocentrica 


La cultura europea, anche nelle sue forme più sofisticate, è ben lontana dal riconoscere che il vantaggio competitivo che ha consentito alle nazioni del Vecchio Continente di dominare il mondo sia stato il prodotto dello sviluppo ineguale fra le diverse forme di società tributarie, un fenomeno che ha paradossalmente favorito le più arretrate di esse. Accademici, intellettuali, professori di ogni ordine e grado, per tacere di giornalisti e politici, raccontano tutta un'altra storia. Una storia che attribuisce alla cultura europea una pretesa continuità temporale e geografica che avrebbe tracciato, fin dai tempi dell'antica Grecia, un netto confine fra civiltà e barbarie, un confine che oggi si declina come opposizione fra Nord e Sud del mondo, fra centro e periferie. 


Una storia che si fonda su una serie di mistificazione ideologiche, a partire da quella che ispira il concetto di Rinascimento, concetto che si afferma proprio nel momento in cui l'Europa si avvia a rompere con la propria storia, passando dal feudalesimo al proto capitalismo. Viceversa, secondo tale concetto, l'antichità greco-romana avrebbe conosciuto una sorta di prima modernità, poi rimossa nei secoli bui dell'oscurantismo religioso. Questa idea si fonda sul radicato pregiudizio che arruola la Grecia antica nel campo della razionalità occidentale, contrapponendola alla barbarie orientale (12). Una visione del tutto improponibile, argomenta Samir Amin, nella misura in cui i debiti della cultura greca nei confronti di quella egiziana, e di tutte le culture orientali che ne hanno anticipato la fioritura, sono tali e tanti da collocarla, semmai (anche considerati i fattori geopolitici che governavano il Mediterraneo orientale in quell'epoca), nel campo orientale; un'appartenenza che  la nascita dell'impero alessandrino ha ulteriormente consolidato, incrementandone le contaminazioni con la tradizione indoiranica. 


Assieme al peso del mito delle radici greche va valutato quello, non meno rilevante, del mito delle radici giudaico-cristiane. Posto che il binomio in questione è una costruzione recente, nel senso che, argomenta Amin, la parentela con la tradizione giudaica è un costrutto che serve a ripulire la coscienza europea da millenni di pratiche antisemite e a legittimare il ruolo Israele come avamposto dell'imperialismo occidentale in Medio Oriente. Un costrutto palesemente artificiale, considerato che la discontinuità teologica fra Antico e Nuovo Testamento è radicale e che la religione ebraica non ha alcuna aspirazione universalistica, al contrario di quelle cristiana e islamica che, ad onta dei reciproci conflitti, appaiono decisamente più vicine. In ogni caso, anche a prescindere da questa mistificazione, non regge la tesi secondo cui il cristianesimo (in particolare nella sua versione protestante, secondo Weber) sarebbe stato più favorevole di altre religioni alla fioritura dell'individuo e delle sue capacità di dominio della natura, al contrario di islam, induismo e confucianesimo che viceversa ostacolano il cambiamento sociale (13). 


I due parti mostruosi della mitologia eurocentrica sono l'orientalismo e il razzismo. Il primo è la costruzione ideologica di un oriente mitico che presenterebbe caratteristiche invarianti (immodificabili) rispetto a quelle (progressive per definizione) attribuite all'occidente. Il razzismo ne è il risvolto inevitabile, nella misura in cui le caratteristiche in questione sono, rispettivamente, negative nel primo caso positive nel secondo. In questo senso l'eurocentrismo è un caso paradigmatico di culturalismo provinciale (vedi la definizione di culturalismo riportata nella "Premessa"). 


Purtroppo, accusa Samir Amin, il marxismo occidentale non è esente da questa peste. Lo stesso Marx ha in più occasioni giustificato la conquista del pianeta da parte dell'imperialismo occidentale, nella misura in cui questo avrebbe il merito, ad onta dei suoi crimini, di accelerare la storia "risvegliando" gli altri popoli dal loro millenario letargo (14). Ma se Marx ha in parte emendato questo peccato nei suoi scritti più tardi, ciò non si può dire per il marxismo occidentale, il quale  è sempre apparso condizionato da una eredità evoluzionistica che gli ha impedito di squarciare il velo dell'evoluzionismo borghese. Non a caso esso, al contrario di Lenin e Mao, non ha mai capito la realtà dell'imperialismo, come tristemente certificato dalla solidarietà della Seconda Internazionale nei confronti delle imprese coloniali dei rispettivi paesi. Una cecità proseguita fino ai giorni nostri che impedisce di comprendere quella polarizzazione del sistema mondo che, mentre da un lato pone all'ordine del giorno la rivolta dei popoli periferici, ritarda dall'altro la radicalizzazione del proletariato dei centri. 


Rilanciando tale visione, già ampiamente argomentata in testi precedenti, Eurocentrismo propone un nuovo approccio al tema della "lunga transizione" dal capitalismo mondiale al socialismo mondiale. Tuttavia nell'affrontare l'impresa si trascina dietro alcuni residui della concezione contro cui Amin si è battuto per tutta la vita, come cercherò di di dimostrare nel prossimo paragrafo. 



Samir Amin




Partire da Samir Amin per andare oltre 


I due nodi teorici in cui emergono i limiti della critica di Amin al marxismo occidentale ruotano attorno alle categorie di universalismo e modernità. Amin riconosce, con Marx, che la natura del discorso illuminista sulla modernità è inequivocabilmente borghese, che capitalismo e modernità emergono assieme e rappresentano due facce di una sola e medesima realtà. Riconosce che la ragione "emancipatrice" (nel senso della liberazione dell'individuo dai vincoli della società tributaria) delle rivoluzioni borghesi si incarna nella triade libertà, uguaglianza, proprietà e che la pietra angolare dell'ideologia borghese è sempre stata e resta tuttora l'identità fra democrazia e mercato. Perché, allora, parlare, in rifermento alle teorie di von Hayek e altri intellettuali neoliberisti, di una ragione borghese "degenerata", ridotta a libertà e proprietà, per cui non è nemmeno più quella dell'illuminismo (cfr.pag. 42)? Quel degenerata vuol dire che esisterebbe una ragione borghese che non è del tutto riducibile alla triade libertà (formale), uguaglianza (formale), proprietà (reale)? 


Dopo Marx, scrive Amin, la ragione emancipatrice deve sostituire il terzo elemento del trittico con fraternità, il che implica abolire la proprietà capitalistica, sostituirla con la proprietà sociale. Giusto, ma ciò non implica anche attribuire un significato del tutto diverso anche ai concetti di libertà e uguaglianza? Altrimenti la triade "corretta" con l'inserimento della fraternità al posto della proprietà  campeggiava già sulla bandiera della Rivoluzione francese, per cui ripiombiamo nell'equivoco secondo cui la rivoluzione socialista sarebbe l'attuazione delle "promesse mancate" della più radicale delle rivoluzioni borghesi, quella francese appunto. Personalmente ritengo tale equivoco estremamente pericoloso, nella misura in cui rimuove il fatto che, mentre la rivoluzione borghese ha come protagonista una classe che già deteneva gran parte del potere reale, per cui per vincere le è bastato dare una spallata alle istituzioni politiche che rispecchiavano la putrescente realtà dell'Ancien Regime, il proletariato è al contrario una classe espropriata di qualsiasi forma di potere, tanto economico quanto politico e culturale, per cui la sua rivoluzione non potrà che segnare una rottura, una discontinuità assolutamente radicali nel corso della storia. 


Viceversa ogni illusione di "continuismo" è deleteria. Cedendo a tale tentazione, si lascia infatti rientrare dalla finestra la visione di una necessità, di una "legge" storica immanente al movimento stesso della modernità (cui si attribuisce la capacità/possibilità di trascendere la sua originaria determinazione di classe) il quale esigerebbe di per sé la transizione dal capitalismo al socialismo; visione che pure Amin sembra negare laddove afferma (vedi sopra) l'inesistenza di presunte leggi della transizione e l'imprevedibilità di un futuro (sotto)determinato dal conflitto fra differenti forze sociali.


Ma il demone del continuismo si insinua anche in alcuni passaggi della sua requisitoria contro l'eurocentrismo, in particolare laddove ne denuncia il falso universalismo. Abbiamo visto come demolisca la narrazione della presunta continuità di un destino europeo segnato fin dalla classicità greca, smascherandone il carattere di un culturalismo (vedi la definizione riportata nella Premessa) localistico, provinciale. Una deformazione, scrive, che annulla l'ambizione universalistica sulla quale pretende di fondarsi (cfr. pag. 186). Al tempo stesso, Amin paventa il rischio che al mito orientalista, con cui l'eurocentrismo vorrebbe inchiodare le altre culture a un destino di arretratezza, si opponga il mito rovesciato di un'identità africana, asiatica o latinoamericana, fondato a sua volta sulla rivendicazione di specificità immutabili (considerate migliori di quelle europee). Accennando a tale rischio, allude a una doppia involuzione culturalistica, eurocentrica in occidente ed eurocentrica rovesciata nel terzo mondo, che impediscono di rispondere alle esigenze di "un universalismo all'altezza della sfida" (cfr. pag. 166). E altrove si chiede quali sono gli elementi sulla cui base si potrebbe pensare "un progetto culturale realmente universalistico". 


Siamo insomma nel pieno della rivendicazione di un universalismo "buono", originario in cui non si può non riconoscere il marchio dell'illuminismo borghese. E infatti leggiamo che "l'ambizione universalista alimenta fin dalle origini le ideologie di sinistra, anzitutto di quella borghese che ha elaborato le idee di progresso, ragione, diritto e giustizia" (pag. 214). Insomma, anche qui scatta la trappola del continuismo (il socialismo che raccoglie le bandiere che la borghesia ha lasciato cadere nel fango), l'assunzione di categorie  (progresso, ragione, diritto, giustizia) avulse dalle loro concrete determinazioni storiche (cioè di classe) e, dulcis in fundo, ricompare la logica determinista meccanicista contro cui Amin ha lanciato tanti strali. Così Amin scrive che se la generalizzazione staliniana dei cinque stadi è falsa ciò non significa che si debba rinunciare ad ogni modello teorico generale. Così ci dice che l'inserimento di tutte le società del pianeta nel sistema capitalistico "ha creato le condizioni di una universalizzazione divenuta necessaria" (pag. 207). Così ci prospetta uno schema di transizione articolato in tre tempi: universalismo monco dell'eurocentrismo capitalistico/affermazione della specificità nazionale-popolare/ricomposizione di un universalismo socialista superiore (pag 212).


Va sottolineato l'uso delle parole "affermazione della specificità nazionale popolare", che rispecchia il fatto che Amin si rifiuta di definire socialiste rivoluzioni come quella cinese, o come quelle latino americane, in quanto preferisce appunto chiamarle nazionali-popolari. Del resto, se le avesse definite socialiste, sarebbe stato indotto a ragionare sulla necessità di mettere in discussione l'intera tradizione teorica (da Marx-Engels a oggi) relativa ai temi della transizione (tradizione che fa a pugni sia con il socialismo con caratteri cinesi che con alcune esperienze socialiste dell'America Latina). Ma evidentemente non era pronto a compiere questo passo, che lo avrebbe aiutato a capire che certe contaminazioni fra tradizioni culturali del terzo mondo e teoria marxista non meritano il suo giudizio liquidatorio sulla presunta simmetria fra eurocentrismo e "culturalismi" terzomondisti, così come lo avrebbero aiutato a capire che oggi è più che giustificato lo scetticismo nei confronti delle costruzioni generali, di tutte le costruzioni generali, non solo di quelle staliniane, ma anche di quelle contenute in alcune parti dei suoi lavori, che gli hanno impedito di portare fino in fondo il lavoro di demolizione nei confronti dei dogmi che impediscono al marxismo di uscire dalla crisi in cui si dibatte da decenni. 


Note


(1) Cfr. C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll., Meltemi, Milano 2023; vedi anche Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.


(2) Cfr. G.  Lukács, Ontologia dell'essere sociale (4 voll.), Meltemi, Milano 2023. Il concetto della società come complesso di complessi è approfondito sia nella Introduzione di N. Tertulian che nella mia Prefazione a quest'opera.


(3) Anche questa insistenza sull'esigenza di analizzare il capitalismo come sistema totale è un tratto comune fra il pensiero di Samir Amin e quello di Lukács.


(4) Sulle differenze radicali fra il modo di produzione capitalista e le precedenti formazioni sociali, vedi anche C. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.


(5) E' questa imprevedibilità che ha fatto sì che Marx si sia sempre attenuto, nel descrivere il futuro socialista, al principio di tracciarne solo alcuni caratteri generali.


(6) Il rifiuto di definire "leggi" dell'evoluzione storica in grado di prefissarne la direzione è anche al centro del pensiero di Lukács (vedi Ontologia, op. cit.) il quale arrivava ad affermare che le cause dei mutamenti storici possono essere comprese solo ex post. 


(7) la categoria di sistema-mondo accomuna Samir Amin ad altri esponenti del pensiero della dipendenza, come Giovanni Arrighi, Immanuel Wallerstein e Gunder Frank (vedi, in proposito, A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(8) Vedi A. Visalli, op. cit.


(9) Vedi, fra gli altri, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986; vedi anche Classe et nation, Nouvelles Editions Numériques Africaines. Dakar 2015.


(10) Particolarmente interessante, da questo punto di vista, è l'analisi che Amir Amin dedica al rapporto dialettico fra spirito del capitalismo americano e religiosità delle sette protestanti emigrate nel Nuovo Continente dalla madre patria inglese. Le sette protestanti emigrate dall'Inghilterra, scrive, avevano una interpretazione particolare del cristianesimo, non condivisa da cattolici e ortodossi né dagli anglicani. Tale interpretazione darà una impronta forte all'ideologia Usa, fungendo da strumento della conquista del continente, che viene legittimata a suon di citazioni bibliche (la conquista della Terra Promessa). In seguito gli Usa  estenderanno al pianeta il progetto di realizzare l'opera di Dio (gli americani si considerano popolo eletto dal Signore). E' anche questo fattore a rendere l'imperialismo americano più feroce dei precedenti. Tuttavia Amin aggiunge che sarebbe sbagliato affermare che è stato il fondamentalismo religioso a imporre la propria logica al potere: è stato piuttosto il capitale a sfruttare questo carattere dell'ideologia americana al proprio servizio.


(11) E' noto che la Cina, nel secolo XVIII, era di gran lunga più ricca di tutte le nazione europee, Inghilterra compresa, come sottolineato da Adam Smith che considerava il modello di sviluppo cinese, fondato su un equilibrio stabile garantito dalla produzione agricola e dal commercio interno al suo immenso territorio, più "naturale" del modello europeo, fondato sull'accumulazione allargata di capitali. Vedi, in proposito, G. Arrighi, Adam Smith a Pechino,  Feltrinelli, Milano 2007 (recentemente rieditato da Meltemi).


(12) Una versione paradossale, e intrisa di razzismo, del mito in questione ci è offerta nel film Trecento, in cui gli eroi spartani si battono contro i persiani, rappresentati come orde di mostri. Ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo, op. cit. ho messo in luce come i luoghi comuni spacciati da accreditati filosofi accademici occidentali non siano poi così lontani da questa rappresentazione grottesca. 


(13) Il prodigioso decollo dell'economia di grandi nazioni orientali come la Cina e l'India è la più evidente smentita di tale pregiudizio. Tanto più che il contatto con il capitalismo occidentale, per queste nazioni, ha avuto esiti catastrofici, distruggendone le ricchezze e precipitandole a lungo nello stato di province coloniali, per cui il loro sviluppo è potuto avvenire solo dopo l'emancipazione dal gioco occidentale e non grazie alla loro occidentalizzazione.  


(14) Uno dei critici più severi dell'eurocentrismo di Marx ed Engels è Hosea Jaffe (cfr. Davanti al colonialismo. Engels, Marx e il marxismo, Jaka Book, Milano 2007. Mi sono occupato a mia volta del tema in un articolo apparso su questa pagina: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/02/leurocentrismo-funzionale-di-marx-ed.html  


 



      




    

     



 


venerdì 9 giugno 2023

L'Ucraina non può vincere

(ma non si può dire)







Tre le novità di oggi su fronte virtuale della guerra russo-ucraina (virtuale in quanto trattasi di conflitto di opinioni, dato che le notizie sul conflitto reale, quello che si svolge sul terreno, sono ormai rimpiazzate dalla propaganda bellica orchestrata da USA e NATO). La prima riguarda una intervista del fondatore della comunità di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, il quale, dopo avere recitato la solita litania sulla "aggressione" russa che per tutti i pacifisti non dotati di lenti antimperialiste è  ormai premessa obbligata, onde evitare di venire etichettati come "putiniani" ( anche se serve a poco, visto che l'etichetta scatta in automatico), è indotto a riconoscere: 1) che gli unici sforzi reali di trovare una soluzione concreta al conflitto sono stati finora quelli della Cina e di altri membri dei Brics, come il Brasile, mentre le élite europee appaiono obnubilate dal delirio bellicista; 2) che l'Europa non può esimersi dal riallacciare rapporti con la Russia (ma sorvola sul fatto che ciò le è impedito dal dominus d'oltreoceano). Più "tecnico" il punto di vista del direttore di Limes, Lucio Caracciolo, il quale, in un'altra intervista (trovate entrambe sul Fatto di oggi), ribadisce l'impossibilità di una vittoria ucraina data la sproporzione di forze fra i contendenti, ma aggiunge che le "punture di spillo" ucraine potrebbero danneggiare la Russia fino a indurla alla mobilitazione generale e a un precipitare della guerra, dopodiché  ribadisce che solo un cessate il fuoco con il congelamento delle posizioni sul campo può evitare rischi di degenerazione fino all'uso del nucleare. Ma la notizia più interessante (in quanto non si tratta di una mera opinione) riguarda l'irritazione di Washington per il fatto che paesi come Turchia, Kazakistan, Georgia, Emirati e Armenia fanno da sponda per consentire alla Russia di acquistare armi e componenti elettronici in barba alle sanzioni, mentre le multinazionali del settore militare industriale continuano a loro volta a fare affari sottobanco con Mosca. Niente di nuovo sotto il sole: anche durante la Seconda Guerra mondiale i trafficanti di armi vendevano tutto a tutti (pecunia non olet), ma in questo caso c'è un elemento più significativo rispetto ad allora, cioè la prova dell'impossibilità dell'unica potenza che si presume egemone di blindare un fronte unito politico, economico e militare, dovuta al proliferare delle aspirazioni di autonomia delle potenze locali e al prevalere degli interessi economici privati su qualsiasi velleità di controllo politico del mercato.

mercoledì 7 giugno 2023

Sinistra guerrafondaia?

Quando si dice la scoperta dell'acqua calda



Profumo e D'Alema indagati per l'affare delle armi alla Colombia



Sui media furoreggia la notizia secondo cui Massimo D'Alema avrebbe intascato tangenti per avere agevolato la vendita di armi italiane alla Colombia. Dedicando ampio spazio all'argomento, il Fatto Quotidiano di oggi (7 giugno) accompagna il servizio sul tema a un articolo in cui sottolinea come diversi esponenti di spicco dell'ex PCI (Pds, Ds, Pd), fra i quali Marco Minniti, Luciano Violante, Nicola Latorre e altri, negli ultimi anni avrebbero fatto carriera nella galassia di imprese ed enti che, fra il pubblico e il privato, ruotano in orbita Leonardo, il colosso del nostro apparato militare-industriale. Ex comunisti affratellati all'estrema destra nella cultura guerrafondaia? A stupire non sono queste notizie bensì l'ingenuo stupore che le accompagna. Abbiamo dimenticato le scelte scellerate dell'allora governo di sinistra nell'appoggiare l'aggressione NATO alla Serbia? Per tacere del sistematico appoggio a tutte le "missioni speciali" dei nostri militari spediti in Iraq, Afghanistan, Kosovo e Libano a fare da ascari alle "missioni di pace" dell'imperialismo occidentale? Nessuna novità, bensì la riconferma della legge storica che, a partire dal voto delle socialdemocrazie europee che approvò i crediti di guerra dei rispettivi governi impegnati nella Prima Guerra mondiale, ha costantemente visto le sinistre "moderate" schierarsi con gli interessi del grande capitale e con le operazioni militari funzionali a tali interessi. Del resto qui da noi non è stato nemmeno necessario aspettare la liquidazione del PCI e della sua eredità storica per assistere allo scempio. Anche se ai nostalgici degli anni Settanta spiace ricordarlo, fu infatti lo stesso Berlinguer a dichiarare, dopo avere sancito l'esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre, che si sentiva  protetto dall'ombrello della NATO. La nuova strada era già tracciata, ed è seguendo quella svolta che gli spregevoli eredi di una grande storia sono divenuti quelli che oggi vediamo pronti a sostenere la Terza guerra mondiale al carro degli Stati Uniti.

martedì 6 giugno 2023






Si è costituito il Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”: presentazione e prime adesioni

                                            

A cura del Consiglio Direttivo Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”







Si è costituito, dopo mesi di contatti, costruzione di relazioni, discussioni e intenso lavoro collettivo, il Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”. Ringraziamo innanzitutto la famiglia Losurdo per averci concesso la possibilità di dedicare il Centro Studi a colui che giudichiamo essere stato ed essere, nella vitalità del suo pensiero, uno dei più grandi filosofi marxisti del ‘900, sia in Italia che a livello internazionale. La liberazione dal positivismo, dalla moderazione subordinata e l’antidogmatismo sono alcuni dei tratti peculiari del profondo pensiero filosofico e politico di Losurdo e il Centro Studi lavorerà per farli propri e divulgarli.

Il Centro Studi “Domenico Losurdo”, partendo dalla constatazione oggettiva della crisi profonda – ideologica, teorica, politica, organizzativa – dell’attuale movimento comunista in Italia, che produce inevitabilmente, dialetticamente, la stessa crisi dell’odierno pensiero marxista italiano, intende fornire il proprio contributo per il riaffermarsi, nel nostro Paese, di un pensiero marxista e comunista degno della propria grande storia, degno di quella grande teoria e di quella grandi prassi rivoluzionarie che hanno per sempre cambiato il mondo e che tuttora annunciano un nuovo mondo. Degno della Rivoluzione d’Ottobre e della storia del movimento comunista e marxista mondiale.

Nello Statuto già approvato dall’Assemblea generale del Centro Studi si afferma all’Articolo 2: “Il Centro Studi ‘Domenico Losurdo’, che si caratterizza per la sua natura democratica e antifascista, ha come scopo l’analisi e l’approfondimento della società contemporanea e la promozione di molteplici attività culturali, politiche, di documentazione e di informazione storica e sociale, su scala nazionale, con particolare riferimento al pensiero, all’esperienza storica e alla prassi internazionale del marxismo e al pensiero e alla prassi, in Italia, di Antonio Gramsci”.

Il pensiero e la prassi marxista mondiali e il pensiero e la prassi di Antonio Gramsci: la lotta, cioè, contro il dogmatismo, il neo positivismo, il determinismo, il meccanicismo, per il rilancio di un pensiero marxista rivoluzionario, un pensiero e una prassi capaci di ricollocare al centro del divenire storico l’azione soggettiva della “classe” e delle avanguardie, del movimento operaio complessivo e di una direzione politica rivoluzionaria.

Un lavoro del Centro Studi “Domenico Losurdo” che sarà innanzitutto caratterizzato dall’analisi sull’attuale imperialismo e le sue irrefrenabili pulsioni di guerra; dall’analisi dell’odierno quadro internazionale segnato dallo scontro tra fronte imperialista e NATO e fronte antimperialista; sulla lotta tra i difensori reazionari dell’ordine unipolare e il fronte che persegue un nuovo ordine mondiale, quello del multilateralismo. Sullo studio, da un punto di vista di classe e antimperialista, dell’Unione europea.

Un lavoro del Centro Studi che si caratterizzerà per uno studio sulla storia del movimento marxista e comunista nel mondo e in Italia, per un’analisi dei rapporti di classe e sulla “classe” in Italia, sulle grandi questioni del lavoro e dei nuovi lavori e conseguentemente sull’odierno movimento sindacale italiano; sullo Stato borghese e le sue degenerazioni, sulla Questione Meridionale oggi, sul welfare, sulla centrale questione, da un punto di vista anticapitalista, ambiente/territorio, sul rapporto, tutto da costruire nella sua positiva dialettica, tra diritti sociali diritti civili.

Le adesioni al Centro Studi “Domenico Losurdo” sono già vaste, importanti e prestigiose e ciò sarà possibile constatarlo attraverso la lettura dei nomi degli intellettuali, dei “quadri” operai e dei dirigenti del movimento comunista e sindacale italiano che di seguito rendiamo noti.

Abbiamo, in modo consapevole e determinato, deciso di costruire un Centro Studi di carattere marxista formato sia da intellettuali che da “quadri” operai, da dirigenti del movimento operaio e sindacali e leader delle odierne grandi lotte italiane di fabbrica, e ciò affinché il lavoro del Centro Studi sia caratterizzato dall’unità tra pensiero e prassi, tra ricerca teorica ed esperienza sul campo.

Una novità essenziale caratterizzerà il Centro Studi “Domenico Losurdo”: la costituzione, sin da subito, di Gruppi di Lavoro su questioni tematiche – dalle questioni internazionali a quelle teoriche; dalle questioni relative all’economia politica a quelle relative alla “classe” – , Gruppi che saranno chiamati a produrre elaborati del più alto livello possibile che l’organizzazione del Centro Studi dovrà poi “popolarizzare”, far conoscere e portare al dibattito pubblico generale, soprattutto coinvolgendo, anche attraverso corsi di Formazione e Scuola Quadri sul piano nazionale, le lavoratrici e i lavoratori, le giovani generazioni e gli intellettuali.

Già ora, diversi altri intellettuali e “quadri” operai, oltre coloro che hanno già aderito e dato la loro disponibilità al lavoro collettivo, stanno aderendo al Centro Studi “Domenico Losurdo”.

Il Centro Studi “Domenico Losurdo” sarà un Centro aperto, disponibile al confronto e alla messa a valore delle energie intellettuali e popolari. Dunque, altre adesioni saranno benvenute, dunque vi aspettiamo, nell’obiettivo comune del rilancio di un pensiero rivoluzionario forte nel nostro Paese, per la “classe”, per le avanguardie, per il superamento dell’attuale atomizzazione e solitudine dell’intellettualità marxista italiana, per la messa in campo del necessario, e ora inesistente, “intellettuale collettivo” marxista e comunista italiano.

(Il Consiglio Direttivo del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”)


Intellettuali e dirigenti del movimento operaio e sindacale che hanno sinora aderito al Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”


Nunzia Augeri, Milano. Saggista, storica della Resistenza, traduttrice in italiano dell’opera di Samir Amin e, tra l’altro, dell’opera “Oltre il capitale”, del filosofo ungherese Ivan Metzaros. 

Laura Baldelli, Ancona. Docente di Storia e Letteratura. Esperta e studiosa di storia del cinema.  

Maurizio Belligoni, Ancona. Psichiatra, già primario di psichiatria; già Direttore Generale Agenzia Regionale Sanitaria Marche.

Fulvio Bellini, Milano. Ricercatore ed esperto di questioni economiche, geopolitiche ed internazionali. 

Annita Benassi, Roma/Lisbona. Docente, militante comunista e antimperialista, iscritta e militante del Partito Comunista Portoghese. 

Adriana Bernardeschi, Milano. Direttrice de “La Città Futura”. 

Ascanio Bernardeschi, Volterra (Pisa). Della Redazione de “La Città Futura”, studioso di questioni economiche. 

Rodolfo Bersaglia, Ancona. Docente di Storia dell’Arte, critico d’Arte ed artista. 

Erdmuthe Brielmayer, Urbino. Vedova di Domenico Losurdo; traduttrice di diverse opere di Losurdo in lingua tedesca.

Alberto Bradanini. Reggio Emilia. Già Ambasciatore a Theran e a Pechino. Diplomatico in Belgio, Venezuela, Norvegia; Console Generale ad Hong Kong. Coordinatore del Comitato Governativo Italia-Cina, è attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina contemporanea. Saggista (“Oltre la Grande Muraglia”; “Cina, l’irresistibile ascesa”). 

Giovanni Cadoppi, Reggio Emilia. Esperto e studioso di questioni storiche, internazionali e geopolitiche. Tra i più importanti studiosi di questioni cinesi in Italia, scrittore e saggista.

Liliana Calabrese, editor, Napoli.

Massimiliano Calvo, Torino. Responsabile Esteri di “Interstampa”. 

Mariella Cao, Cagliari. Leader storica delle grandi lotte contro le Basi nucleari USA e NATO in Sardegna. 

Candida Caramanica, Roma. Insegnante, presidente dell’Associazione Nazionale GEA in difesa delle donne. 

Domenico Carofiglio, Fabriano. Operaio, Whirlpool di Melano (Fabriano), già dirigente FIOM. 

Sandro Carucci, Matelica (Macerata). Operatore Sanità Pubblica, presidente Associazione Politico-Culturale “Itidealia”.

Giuseppe Casali, Portorecanati (Macerata). Medico. Vice sindaco di Portorecanati, con deleghe alla Sanità e al Turismo.

Luigi Cavalli (in arte Frank Dobrin), Plovdiv (Bulgaria). Regista cinematografico. Ultimo film girato, 2018, “Mon cochon et moi”, con Gérard Depardieu. 

Massimo Cazzanelli, Trento. Fisico, esperto di questioni economiche, militante comunista.

Alessandra Ciattini, Roma. Docente universitaria di Antropologia Culturale, presidente Università popolare “A. Gramsci”, redazione de “La Città Futura.

Roberto Comandè, Venezia. Laureato in Filosofia della Conoscenza: scienza, politica, comunicazione presso La Sapienza di Roma. Progettista Formativo.

Giancarlo Costabile, Cosenza. Docente di Pedagogia dell’Antimafia Università della Calabria.  

Wasim Dahmash, Cagliari. Intellettuale palestinese. Già docente di letteratura e lingua araba all’Università di Cagliari. Saggista e scrittore (“Voci palestinesi dall’Intifada”; “Alfabeto Arabo-Persiano”; “Letteratura plaestinese: Antologia”).

Alessandro D’Angelo, Hong Kong. Studioso di questioni internazionali e di questioni cinesi.

Lorenzo Fascì, Reggio Calabria. Avvocato, già segretario regionale PCI Calabria. 

Gianni Favaro, Torino. Presidente “Interstampa”. 

Alberto Fazolo, Roma. Saggista, militante internazionalista e antifascista. 

Salvatore Fedele, Genova. Già primario di chirurgia. 

Felix (pseudonimo di un noto dirigente e intellettuale comunista italiano), Torino. Laurea in Scienze Politiche. Docente. Studioso della Storia del movimento comunista italiano e internazionale; esperto di politica internazionale, già Deputato della Repubblica Italiana XIII Legislatura. 

Federico Fioranelli, Loreto (Ancona). Docente di Diritto ed Economia. 

Antonella Folliero, Crotone. Docente. 

Guglielmo Forges.  Docente di economia politica Università del Salento.

Carlo Formenti, Genova. Sociologo, saggista. Ultima opera, in due volumi, “Guerra e Rivoluzione”.

Francesco Galofaro, Milano. Professore associato di semiotica, Università IULM di Milano.

Domenico Gallo, Roma. Presidente Emerito della Sezione della Corte di Cassazione; già Senatore della Repubblica.

Stefano Gatti, Fabriano. Docente di Storia, storico del movimento operaio.

Rolando Giai-Levra, Milano. Direttore di “Gramsci Oggi”. 

Michele Giambarba, Molise. Chirurgo, già segretario regionale PC Molise. 

Fosco Giannini, Ancona. Già Senatore della Repubblica, direttore di “Cumpanis”. 

Giada Giannini, studentessa in Scienze Politiche, Università di Padova.

Federico Giusti, Pisa. Del Comitato “No Nato-No Camp Darby” Pisa, esperto di questioni del lavoro e sindacali.

 Raffaele Gorpìa, Potenza. Sociologo. 

Dario Leone, Molise. Sociologo, portavoce Nazionale Costituente Comunista. 

Sergio Leoni, Ancona. Dottore in Lettere. 

Fabio Libretti, Milano. Già dirigente FIOM- CGIL Milano. 

Lucia Mango, Pisa. Giurista. Esperta di questioni del lavoro. Responsabile Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP) Metalmeccanici. 

Piero Manunta, Sassari. Dirigente Movimento Comunista Sardegna.  

Giovanni Marcenaro, Genova. Ricercatore questioni filosofiche. 

Federico Martino, Messina. Giurista. Saggista. Esperto Questioni del Medio Oriente. Docente Università di Messina. 

Antonino Tommy Massara, Reggio Calabria, farmacista, studioso di farmacologia. 

Vladimiro Merlin, Milano. Docente e dirigente del movimento comunista e sindacale, già Consigliere comunale Milano.

Manolo Monereo, Madrid. Dirigente del movimento comunista spagnolo e già deputato Podemos

Giusy Montanini, Fermo. Già segretaria FIOM-CGIL Fermo e già dirigente FIOM-CGIL. 

Giuseppe Morese, Desenzano del Garda (Brescia). Operaio, già militante e dirigente FIOM TyssenKrupp di Torino, amico e collega, sulla famigerata Linea 5, dei 7 operai bruciati vivi nel rogo TyssenKrupp del 6 dicembre del 2007. 

Giovanni Moriello Campobasso. Docente. 

Manolo Morlacchi, Milano. Storico del movimento operaio e rivoluzionario; direttore editoriale della Casa Editrice Meltemi.

Piero Pagliani, Laureato in Filosofia. Docente di logica, algebra e topologia applicate all’analisi dei dati, nonché esperto di geopolitica. In India collabora da diversi anni col Dipartimento di Matematica Pura dell’Università di Calcutta. Autore, tra l’altro, di “Alla conquista del cuore della Terra. Gli USA dall’egemonia sul “mondo libero” al dominio sull’Eurasia”.

Francesco Pappalardo, Piombino. Medico del Lavoro. 

Davide Pinardi, Milano. Docente di Tecniche della Narrazione (storytelling) all’Accademia di Brera e al Politecnico di Milano; romanziere, sceneggiatore e regista cinematografico.

Maria Grazia Pippia, Sassari.  Laurea specialistica in Scienze filosofiche e della formazione continua con una tesi improntata sul cinema espressionista tedesco. 

Gianmarco Pisa, Napoli. Studioso di questioni internazionali e specificatamente dell’America Latina, saggista. 

Giorgio Raccichini, Fermo. Docente di Lettere e Storia, storico del movimento operaio.

Giuseppe Redondi, Abruzzo. Operaio Fiat/Stellantis Abruzzo, già dirigente FIOM-Cgil. 

Luca Ricaldone, Milano. “Comunisti Milano”. 

Lucio Rigotti, Milano. Docente, già militante e dirigente del Partito Comunista di Spagna. 

Onofrio Romano, Roma. Sociologo Università Roma III

Davide Rossi, Milano. Direttore Centro Studi "Anna Seghers" di Milano e Direttore dell'ISPEC Istituto di Storia e Filosofia del Pensiero Contemporaneo della Svizzera Italiana.  

Bassam Saleh’, Roma. Giornalista palestinese in Italia. Presidente “Associazione Amici dei Prigionieri Palestinesi”.

Marco Savelli, Pesaro. Già segretario regionale PRC Marche; studioso di Storia del movimento operaio.  

Giustino Scotto d’Aniello, Torino. Già segretario regionale PCI Piemonte, esperto in questioni dell’abitazione e in difesa del territorio. 

Alberto Sgalla, Ancona. Docente di Diritto e scrittore. 

Davide Scutece, Abuzzo. Già operaio metalmeccanico. Artista, pittore, disegnatore, autore di graphic novel.

Silvano Tagliagambe, Cagliari. Professore Emerito di Filosofia della Scienza. Erede ed interprete del pensiero filosofico di Ludovico Geymonat.

Stefano Tenenti, Ancona. Dirigente del movimento operaio, membro del Coordinamento regionale USB Marche. 

Alessandro Testa, Genova. Studioso di questioni filosofiche e teologiche.

Betty Toffolo, Venezia. Presidente Comitato Regionale PCI Veneto.

Michelangelo Tripodi, Reggio Calabria. Dirigente del movimento comunista in Calabria, dirigente comunista nazionale, tre volte Assessore Regionale in Calabria. 

Evgheni Utchin, Milano. Già docente di Matematica ed Economia Università “Lomonosov” di Mosca, giornalista e politologo; collaboratore di Literaturnaja Gazeta, Rossijskaia Gazeta, de “Il Fatto Quotidiano” e vice direttore di Eurasia News. 

Stefano Verzegnassi, Udine. Dirigente del movimento comunista e sindacale. 

Alessandro Visalli. Urbanista, sociologo ed esperto di tematiche energetiche.

Alessandro Volponi, Fermo. Docente di Filosofia, studioso di questioni economiche. 

Paola Volponi, Fermo.  Medico. 

Stefano Zecchinelli, Pisa.  Giornalista, della redazione di “Interferenze”, del Comitato “No Nato/No Camp Darby” di Pisa. Studioso di questioni internazionali e specificatamente della questione palestinese. 

Chiara Zoccarato, Padova. Si occupa di tematiche economiche, legate in particolare alla piena occupazione e ai programmi di lavoro garantito. Ha curato, tra l’altro, l’edizione di un libro di Randall L.Wray per Elsevier, “A Great Leap Forward. Heterodox Economic Policy for the 21st Century” uscito nel 2020.


28 maggio 2023: relazione introduttiva di Alessandro Volponi all’Assemblea di costituzione del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”

Di Alessandro Volponi, docente di filosofia e studioso di questioni economiche; membro del Consiglio Direttivo del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”





Si svolge questo nostro incontro sullo sfondo di un Paese segnato da una decadenza pluridecennale, nel corso della quale conformismo e opportunismo sono dilagati ben oltre l’orto della politica politicante. Non mancano, però, focolai di rivolta o movimenti monotematici che perseguono obbiettivi sacrosanti, episodi straordinari di protagonismo operaio (GKN) e minuscoli partiti antisistema invisibili e immobili, insomma “non tutto è di plastica, qualcosa ancora freme, frigge” per dirla con Paolo Volponi, ma il panorama è desolante e, apparentemente, senza via d’uscita. Costituire un Centro Studi intitolato a un grande del marxismo, fondato su inequivocabili premesse teoriche, mirato a socializzare conoscenze, a proporre temi di ricerca e a preparare, in definitiva, un programma di alternativa di società, è un progetto ambizioso e impegnativo che va realizzato con umiltà e tenacia.

“Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l’azione concreta di costruzione”, questa asserzione, contenuta in un articolo intitolato “Democrazia operaia” apparso ne L’ordine nuovo del 21 giugno 1919, ci ricorda lo straordinario esordio di un intellettuale collettivo formato da giovani eccezionali studiosi e da addetti alla produzione, l’avanguardia operaia torinese, che insieme progettarono di governare le fabbriche e lo Stato.

Potrà sembrare stravagante, a questo punto della relazione, un panegirico della memoria finché non si consideri che la memoria è un nemico giurato del trasformismo, del malgoverno, della criminalità organizzata, del fascismo e dell’imperialismo ed è chiaro che la Storia e il suo uso pubblico sono un grande, importante, terreno di lotta tra progresso e reazione. Non solo, ma se “il vero è l’intero”, per intero dobbiamo intendere anche la storia di ogni singolo problema: le cause fisiche di un disastro ambientale, ad esempio, sono le cause prossime ma la storia del disastro è fatta di paludi bonificate, di fiumi tombati, di sviluppo agricolo intensivo, di mancata disciplina urbanistica, etc.

Così il disastro della pubblica amministrazione o la stagnazione lunghissima della nostra economia andrebbero affrontati a partire dalle loro storie e dalla loro storia comune.

L’uso politico della storia può sconfinare nel ridicolo come quando si ricercano collegamenti diretti tra i fascisti al governo e il ventennio, accompagnati da richieste di dichiarazioni nette di antifascismo, autentiche istigazioni all’ipocrisia; non perché manchino quei collegamenti ma perché ha pesato, e ancora pesa, come un macigno sulla nostra società il fascismo DOPO il fascismo. Non solo l’eredità del fascismo – corruzione e inefficienza burocratica, anticomunismo fanatico, conformismo e spirito gerarchico, annientamento del senso dello Stato (quel poco che l’Italia liberale aveva diffuso) e della dignità nazionale (si pensi all’Italia fascista nel rapporto con la Germania nazista ) –, non solo l’eredità ma l’attività: lo stragismo e il golpismo, sempre al servizio del più forte, stavolta gli Stati Uniti, ieri il Terzo Reich, con degne collaborazioni, mafia, ndrangheta, P2 e apparati dello Stato “deviati”.

L’attuale connubio NATO-nazisti ucraini (anch’esso ha una storia e risale all’immediato dopoguerra), NATO-terroristi, è per noi un orribile film già visto fino alla nausea. Storia italiana dunque, in primo luogo, del lungo dopoguerra, inseparabile, però, dal contesto internazionale, storia difficile, opaca, costellata di crimini, storia di una democrazia ricattata e snaturata, di una Costituzione ignorata, di una sovranità limitata, per usare un eufemismo, condizioni che non impediscono al movimento operaio e alla sua espressione politica di crescere lentamente, attraversando gli anni ‘50 (il fascismo in camicia bianca) e gli anni ’60 quando le minacce golpiste inibiscono o condizionano pesantemente i timidi tentativi di riforme del centrosinistra.

A cavallo dei due decenni, intanto, si è compiuta la grande trasformazione del Paese col contributo decisivo delle Partecipazioni statali e in particolare dell’ENI di Mattei che costruisce una politica economica estera indipendente (è semplicemente grottesco il tentativo di intestare a Mattei la politica economica estera della Meloni, la giovane recluta del più servile atlantismo). È, però, nel biennio ’68-’69 che affonda le sue radici la breve stagione “costituzionale” del nostro dopoguerra; dal dicembre ‘69 al ‘78 si succedono: la liberalizzazione degli accessi all’Università, l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, il divorzio, gli asili nido pubblici per bambini da zero a tre anni, la tutela delle lavoratrici madri, la scuola a tempo pieno, l’obiezione di coscienza, la tutela del lavoro a domicilio, i “decreti delegati” sulla democrazia nella scuola, il nuovo diritto di famiglia, i consultori per la maternità e la contraccezione, la riforma penitenziaria, la legge per la prevenzione e cura della tossicodipendenza, la legge per la tutela delle acque, la legge di parità di genere sul lavoro, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, la legalizzazione dell’aborto, la chiusura dei manicomi e l’abrogazione delle attenuanti per delitto d’onore e del “matrimonio riparatore”.

Sono tutti figli della rivolta dei giovani, che mise al centro il Vietnam e la struttura autoritaria della società italiana, e dell’autunno caldo (’69), momento straordinario nella storia del movimento operaio italiano: salario, diritti, salute, sicurezza e democrazia nei luoghi di lavoro. Né vanno dimenticate le fortune elettorali del PCI, quanti diritti civili sono stati strappati con un partito che ancora metteva al centro il lavoro e il salario! Ma proprio nel giorno in cui il Senato approva lo Statuto dei diritti dei lavoratori (12-12-1969) ha inizio la strategia della tensione con la bomba di piazza Fontana a Milano; mentre i massacri di sindacalisti e lavoratori nell’immediato dopoguerra riuscirono a depotenziare il vivacissimo movimento contadino in Sicilia, con la mafia in prima linea, il nuovo stragismo sembra fallimentare sino all’affaire Moro. Nel 1975 il salario reale del metalmeccanico italiano è il più alto in Europa, presto l’inflazione a due cifre e poi lo svuotamento progressivo del meccanismo di rivalutazione automatica si incaricheranno di ridimensionarlo drasticamente; nel 1976 il PCI vede il culmine del consenso, l’anno prima aveva fatto man bassa nelle amministrative, Roma conobbe la sua prima amministrazione onesta ed efficiente dall’epoca di Ernesto Nathan, così Napoli, già feudo dei Lauro e dei Gava, sembrò avviata ad una luminosa rinascita democratica, le regioni rosse, oasi di buongoverno nel mondo mefitico della politica italiana, rompevano l’isolamento. Il leader di quel PCI incarnava la diversità comunista e seduceva i ceti medi “riflessivi”.

Quello che Pasolini chiamò uno Stato nello Stato, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, sembrava raccogliere i frutti di una lunghissima battaglia per l’egemonia che affondava le sue radici nei Quaderni del carcere. La reazione è tremenda, pensate a quanti fatti avvengono tra il ‘78 e l’81 sul piano interno e internazionale: l’assassinio di Moro, la rapidissima scomparsa di Luciani, l’elezione di Wojtyla, sodale di Brzezinski, la strage di Bologna, la marcia dei sedicenti 40.000 a Torino e la resa immediata dei sindacati, l’elezione della Thatcher e di Reagan, l’attentato a Wojtyla e l’invenzione della pista bulgara, capaci di incendiare la Polonia. Intanto in Sicilia si spara: Terranova, Chinnici, Costa, Mattarella, Boris Giuliano, secondo La Torre condannati da un tribunale internazionale, e la sua stessa morte rinvia ad un duplice movente, il disegno di legge antimafia e il movimento contro i missili a Comiso del quale è il principale animatore. Ma si spara anche a Milano, nel ’79 è assassinato Ambrosoli, mandante Sindona, e in quello stesso anno vengono arrestati Baffi e Sarcinelli, la Banca d’Italia aveva rifiutato di salvare la banca di Sindona e la magistratura romana era al servizio di Andreotti, il presidente del Consiglio che fu sostenuto anche dall’astensione del PCI. Il compromesso storico, figlio anche del trauma cileno, proposto da Berlinguer, fu una risposta adeguata a tale sfida? Fu il risultato dell’analisi concreta della situazione concreta? 

A fronte dello spietato realismo di Lenin, Berlinguer è un “cavaliere della virtù” destinato a infrangersi contro il duro scoglio della realtà ma la sua proposta non discende neanche da un’analisi “molecolare” della società italiana di impronta gramsciana, non solo le masse cattoliche sono idealizzate ma la stessa NATO diviene un “ombrello protettivo”. La NATO non è mai stata un’alleanza difensiva (con tutte le sue guerre illegali, l’art. 5 è scattato una sola volta per la strage del Bataclan contro l’Isis, lo Stato islamico ), inoltre, i suoi padroni negli ultimi anni avevano finanziato, diretto o ispirato la distruzione fisica dell’enorme Partito comunista indonesiano (un milione di morti?) nel ’65, l’anno dei bombardamenti a tappeto sul Vietnam del Nord, il golpe in Grecia nel ’67 (dove saranno addestrati molti stragisti italiani), il golpe cileno del ‘73 e intanto continuavano a istruire i torturatori e gli specialisti antiguerriglia sudamericani (i capiscuola furono importati dalla Germania nei primi anni del dopoguerra) e a rifornire di esplosivi i terroristi neofascisti in Italia.

A mio avviso, Aldo Moro aveva un’idea molto più realistica della D.C. e dei suoi elettori e quando comprende, da prigioniero, che gli americani hanno una sponda importante nel suo partito comincia a raccontare la D.C. e a raccontare il doppio Stato ma i “rivoluzionari” gli tappano la bocca per sempre e occultano parte delle sue carte. Anche in questa vicenda, che segna una svolta nella storia del Paese, il PCI si attesta sulla linea della solidarietà nazionale, si confonde nel partito della fermezza con i complici nostrani della più insidiosa tra le trame atlantiche. Da questo terribile ’78 inizia il declino inarrestabile del comunismo italiano, interrotto soltanto dall’omaggio postumo che il Paese rende alla statura morale di Enrico Berlinguer alle europee dell’84 ma il processo degenerativo che ha portato alla Bolognina, e che tocca il fondo con Renzi, non è iniziato col declino elettorale; l’ultimo Amendola chiama all’impegno per sostenere il marxismo tra le culture del partito ed esprime la sua preoccupazione: i giovani non dicono quello che pensano e si guardano intorno prima di parlare. Schietto sino alla brutalità, ci informò che i non comunisti erano dentro e minacciavano l’egemonia marxista nel partito; guardando meglio intorno a sé avrebbe realizzato che anche tra i meno giovani c’erano non comunisti, magari destinati ad una prestigiosa carriera. A scanso di equivoci, non abbiamo nulla in contrario alla collaborazione nella ricerca e nello studio con non comunisti onesti e capaci di fornire contributi interessanti in questioni rilevanti. Uno dei compiti dei nostri gruppi di lavoro sui temi che andrò ad illustrare dovrebbe essere proprio il confronto col meglio della cultura borghese.

Il processo degenerativo del PCI, scandito dalla scomparsa progressiva dei grandi vecchi, coinvolge inevitabilmente il circostante: CGIL, mondo delle cooperative, stampa di area, etc. È stato un processo lento e graduale, almeno fino all’ultima fase, al pari di tante socialdemocrazie europee e dello stesso PCUS, all’interno del quale un Eltsin costruisce la sua carriera. Impressionante è, invece, la rapidità con cui si consuma la vicenda del partito che nutrì e dichiarò l’ambizione di rifondare il comunismo. A pochi anni dalla sua nascita, una parte di quel partito si trova al governo quando dagli aeroporti italiani la NATO bombarda Belgrado, pochi anni più tardi il monarca di quel giovane partito baratterà la presidenza della Camera con la totale irrilevanza nel governo del Paese. Ed è proprio dalla storia che vengono i primi segnali: la resistenza “angelicata”, il riconoscimento delle foibe, etc. Insomma, il segretario del sedicente partito della rifondazione comunista era un anticomunista! L’altro segnale, meno vistoso, è la dissoluzione del Comitato scientifico per il programma, ostacolo ad un accordo senza programma col centrosinistra. Intanto, gli ex comunisti rivalutano Craxi nel confronto impudente con Berlinguer, dimostrano la loro affidabilità atlantica e lo zelo europeista, avviano, in nome del riformismo, tutte le controriforme che caratterizzano il centrosinistra e che Berlusconi non è in grado di realizzare. Il riformismo, spero di non scandalizzare nessuno, può essere una cosa seria; pensate al giudizio di Gramsci su Matteotti: non è uno di quegli avvocati socialisti che fa i comizi sull’aia dei contadini ogni cinque anni, Matteotti organizza cooperative, difende i diritti dei lavoratori.

Se questa rozza descrizione dei fatti si avvicina alla realtà, possiamo meravigliarci della catastrofe politica, sociale e, prima di tutto, culturale che oggi viviamo? La stessa narrazione della guerra in Ucraina ne è testimone, il delirio propagandistico ha costruito il capovolgimento della realtà per cui la NATO è al fianco della democratica Ucraina combattente per la libertà, dove non si tratta di misurare il grado di democrazia o di presenza criminale nei due Paesi belligeranti, non sarebbe difficile in base a dati oggettivi, e neppure di misurare l’autenticità della solidarietà putiniana verso il martoriato Donbass, la questione vera è la NATO e la lunga transizione in corso degli USA dall’egemonia al dominio, col ricorso sempre più frequente alla guerra. Mai, forse, abbiamo avuto condizioni oggettive così favorevoli (crisi dell’imperialismo, crisi ambientale, povertà di massa nei Paesi “ricchi”, assenza di futuro per i giovani), mai condizioni soggettive più sfavorevoli per la prospettiva socialista. È infinitamente più presente l’idea della fine del pianeta che l’alternativa al capitalismo e, d’altra parte, che la civiltà sopravviva al capitalismo è tutt’altro che una certezza.

Come dovrà articolarsi, dunque, il Centro studi? Secondo la nostra proposta, in gruppi di lavoro distinti per aree tematiche che sono le seguenti:

 – Questioni internazionali: questo gruppo potrà disporre, tra l’altro, dei rapporti internazionali politici e culturali che sono stati costruiti negli anni e che continuano ad estendersi e ad approfondirsi, dovrà insegnarci a guardare il mondo e l’Occidente con gli occhi degli altri.

– Marxismo e teoria della rivoluzione in Occidente: la chiarezza delle premesse teoriche è la migliore garanzia di unità e di produttività.

– Storia del movimento comunista: penso dovrà dedicare particolare attenzione al più recente passato con uno sguardo aperto all’Europa e soprattutto al mondo.

– Economia e politiche economiche: i temi forse più urgenti sono il salario, il fisco, il problema del debito e della povertà dello Stato che è anche un problema per la democrazia ma l’obiettivo di fondo è costruire un programma organico di medio periodo per l’economia italiana.

– Lavoro e Sindacato: retribuzione e tempi di lavoro in Italia sembrano il risultato di una resa senza condizioni, la manomissione del diritto del lavoro, i nuovi lavori, rappresentanza e democrazia sindacale sono temi cruciali che richiedono proposte innovative oltre che il ripristino di garanzie “classiche”.

– Stato, autonomie, democrazia, Giustizia: anche la crisi dello Stato si manifesta in Italia con una specifica, particolare gravità e l’attuazione del PNRR mostrerà anche all’Europa il disastro della pubblica amministrazione.

– Diritti civili e questioni di genere: per noi i diritti civili sono una cosa seria non una bandierina, quasi unica distinzione tra destra e centrosinistra praticamente omogenei, in particolare il più dimenticato, il diritto di cittadinanza per la parte del proletariato che vive e lavora in Italia, che in Italia paga le tasse ma non può votare.

– Sanità e Stato sociale: il collasso della Sanità pubblica e la povertà di massa costituiscono emergenze drammatiche.

– Questione meridionale: in realtà, la questione meridionale è questione nazionale e la sua soluzione è parte decisiva della risposta necessaria alla crisi italiana ma agli straordinari compagni meridionali spetta il compito principale di istruzione e proposta.

– Scuola, università, ricerca: al di là delle chiacchiere su istruzione e ricerca=futuro, questi settori versano in una crisi profonda, dovuta, in parte, al sotto finanziamento mentre il diritto allo studio è sempre più compromesso.

– Arte, cultura, comunicazione: entrare in sintonia con le antenne più sensibili ai movimenti profondi della società è forse il modo più utile di prepararsi a comunicare i nostri contenuti, anche i più complessi, traducendoli nel linguaggio più semplice e attraente.

– Ambiente, territorio, urbanistica: molti danni sono irreparabili e la gestione capitalistica della transizione energetica contiene un ossimoro insuperabile, profitto-ambiente; solo un cosciente movimento di massa può arginare la crisi ambientale se, però, saprà superare i limiti inevitabili di ogni movimento monotematico. 

 I gruppi di lavoro saranno, naturalmente, liberi di modificare le denominazioni proposte, di scorporare ambiti di ricerca o di accorparli, tutti i compagni potranno suggerire nuovi campi di studio o ridefinire i confini delle aree proposte, quel che salta agli occhi è l’esistenza di intersezioni profonde tra diverse aree, di qui la necessità di apertura reciproca tra i gruppi di lavoro che nel tempo, ne sono certo, si arricchiranno di nuove competenze e si gioveranno di un coordinamento unitario assicurato dal Consiglio direttivo. Essi potranno operare con disparati strumenti: convegni, seminari, pubblicazioni, attivando corsi di formazione, richiedendo interviste per ricercare interlocuzioni.

Malgrado la sua lunghezza questa relazione non è stata esauriente, spero almeno sia stata stimolante.

Vi ringrazio per l’attenzione.


28 maggio 2023: conclusioni di Fosco Giannini all’Assemblea di costituzione del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.

                                                         





Fosco Giannini, già Senatore della Repubblica; membro del Consiglio Direttivo del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”


Innanzitutto un saluto ed un ringraziamento agli oltre 50 compagni/e, docenti, intellettuali, quadri operai e dirigenti del movimento comunista, operaio e sindacale, sui 62 che sinora hanno aderito al nascente Centro Studi Nazionale che oggi – domenica 28 maggio 2023 – sono presenti a quest’assemblea on-line di costituzione del Centro Studi.

Sintetizzando in una sorta di formula, potremmo asserire che l’obiettivo strategico del Centro Studi che oggi prende forma è quello di contribuire a riprogettare e riconsegnare un pensiero forte, marxista, comunista, rivoluzionario, al movimento comunista e antimperialista italiano.

Un obiettivo che non potrà che incardinarsi, essenzialmente, su due pilastri analitici, su due questioni centrali: 

-primo, l’odierna, inequivocabile pulsione alla guerra, e persino alla guerra mondiale, del fronte imperialista guidato dagli Usa e dalla Nato e, conseguentemente, la questione dell’abbandono, da tanta parte della “sinistra” italiana, dell’analisi e della prassi dell’antimperialismo e dunque la necessità di ricostruire un senso comune di massa antimperialista come necessaria avanguardia per un movimento unitario e di massa contro la guerra;

- secondo, la ricostruzione di un pensiero e di una prassi della rivoluzione in Occidente.

Di conseguenza, vi sono due problematiche da mettere a fuoco: l’attuale quadro internazionale e i suoi “movimenti” carsici e di superficie che lo caratterizzano e la lotta contro il neopositivismo e il neoidealismo di ritorno che oggi gravano, in Italia, su tanta parte della “sinistra”, a volte anche su parti non secondarie di quella comunista.

Per ciò che riguarda il primo punto, il quadro internazionale, potremmo, per comodità analitica, dividere l’ultimo e recente periodo storico in tre fasi - la prima è quella che inizia il 26 dicembre del 1991, con l’ammainamento della gloriosa bandiera sovietica dalle cupole del Cremlino. L’Unione Sovietica, con la drammatica responsabilità di Gorbaciov, si autodissolve e immediatamente l’imperialismo, tramite il suo cantore Fukujama, “ratifica” la “fine della storia”. Il mondo appare alle forze imperialiste e capitaliste uno sterminato mercato da conquistare, con le buone o con le cattive. Si liberano gli spiriti animali dell’imperialismo che vuol credere davvero nella propria follia idealistica di “fine della storia”. Una sorta di “superstizione” antistorica e antiscientifica che tuttavia produce un lungo e terrificante ciclo di guerre imperialiste: contro la Jugoslavia (che sebbene inizi nell’agosto del 1990, è già un prodotto del combinato disposto tra crisi “gorbacioviana” dell’URSS e conseguente scatenamento imperialista), Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen, guerre alle quali si aggiunge – tra tentativi  di golpe e golpe riusciti-  la nuova stagione golpista nordamericana in America Latina (Cuba, Venezuela, Brasile, Bolivia, Nicaragua).

-Seconda fase: Fukujama non fa in tempo a decretare la fine della storia e la morte del socialismo che l’intera America Latina è attraversata da una potente pulsione antimperialista: non solo Cuba resiste, ma il Venezuela di Chávez annuncia la costruzione del socialismo, Daniel Ortega rilancia il potere sandinista in Nicaragua, Lula vince in Brasile, il MAS (Movimento per il Socialismo) di Evo Morales apre una grande stagione di trasformazioni sociali in Bolivia e altri Paesi dell’America Latina si liberano dal giogo statunitense e iniziano a costruire un fronte unitario antimperialista. Nel continente africano, il Sud Africa imperniato sul grande Partito Comunista, SACP, non solo rafforza la propria rivoluzione anti apartheid ma inizia a segnare positivamente di sé l’intera Africa australe e diversi altri Paesi africani iniziano a scrollarsi di dosso le mosche americane e a girare il capo verso un mondo diverso e più solidale. L’Asia e l’Eurasia sono segnate dal più grande sviluppo economico della storia dell’umanità, quello cinese, dallo sviluppo vietnamita, dalla grande forza dei due partiti comunisti indiani, dalla vittoria socialista nel Laos e nel Nepal, dalla forza del grande partito comunista che lotta all’interno di uno dei più classici imperialismi, quello giapponese, e dalla politica di Putin che chiude le porte al tentativo, che Eltsin aveva iniziato ad agevolare, di penetrazione imperialista in Russia, per sgretolare la Russia e trasformarla in un unico e subordinato mercato americano ed occidentale.

Questa è la seconda fase nella quale, attorno al cardine cinese, si materializza un immenso fronte antimperialista mondiale che produce l’esperienza dei BRICS e la Nuova Banca di Shangai, alternativa al Fondo Monetario Internazionale. In questa seconda fase i rapporti di forza tra fronte imperialista e fronte antimperialista mutano a favore del secondo, la Cina emerge quale nuova potenza mondiale in grado di porsi come partner oggettivo di tanti Paesi in via di decolonizzazione e il nuovo fronte antimperialista spunta le unghie all’imperialismo.

-La terza fase è quella che viviamo, caratterizzata dallo stupore dell’imperialismo nel constatare quanto irrisorio fosse il suo sogno di fine della storia, dall’improvvisa paura di passare dalla “vittoria eterna” alla fine della propria egemonia mondiale, di veder svanire quel mondo unipolare vissuto come base materiale del proprio dominio, una serie di profonde frustrazioni che si rovesciano in una feroce e rinnovata spinta bellica e golpista sul piano planetario.

 Una terza fase segnata da un rabbioso ritorno imperialista alla guerra totale, disseminata tra i continenti e consapevole premessa persino di una Terza guerra mondiale. È all’interno di questo nuovo atteggiamento iper bellicista degli Usa e della Nato che vanno collocati sia il golpe nazifascista del 2014 a Kiev e il progetto di trasformare l’Ucraina in una sterminata base NATO dotata di testate nucleari puntate contro Mosca, che il summit del G7 del giugno 2021 in Cornovaglia, in cui Biden fa genuflettere e ordina a tutti gli alleati – compresa l’Ue e compresa la Merkel- di firmare il sanguinario Documento di Carbis Bay, ove prende corpo il progetto di costruzione di un vasto fronte militare imperialista volto ad attaccare militarmente la Cina e la Russia. Un documento, questo di Carbis Bay, che gronda sangue e che, se davvero vi fosse una Terza guerra mondiale, ne sarebbe il documento ufficiale.

La guerra imperialista è dunque all’ordine del giorno e, nonostante ciò, il movimento marxista e comunista italiano non riesce a mettere in campo, a promuovere, nessuna lotta di massa, nessuna mobilitazione contro la guerra degna di questo nome, né tantomeno ad unirsi, unire comunisti e marxisti, per questa lotta.

È anche a partire da ciò che possiamo asserire di essere, in Italia, di fronte ad una crisi profonda del marxismo. Ma il marxismo è in crisi in Italia – è bene subito specificarlo per non essere irretiti nelle maglie di quel mainstream generale, italiano e occidentale, tendente a “ratificare” la fine del marxismo e del comunismo nel mondo – mentre è in grande sviluppo, politico e teorico, in aree sempre più vaste del mondo e solo sotto la pressione della cultura dominante, che trova una sponda in uno storico e vasto provincialismo italiano, si può negare tale evidenza.

 Oggi possiamo, con totale onestà intellettuale e lontani da ogni sterile propaganda, affermare che le forze internazionali che si rifanno al marxismo, all’antimperialismo e al comunismo governano, o assieme ad altre forze governano, circa un quinto dell’intera umanità, dalla Repubblica Popolare Cinese al Sud Africa e altre regioni dell’Africa, passando per il Vietnam, il Nepal, il Laos, sino a vaste aree dell’America Latina. Un arco governativo rivoluzionario mondiale al quale si aggiungono forze considerevoli, di massa, di natura marxista, comunista e antimperialista che dall’opposizione influenzano positivamente, orientando centinaia di milioni di proletari, Paesi immensi come la Russia, l’India, il Giappone e altri Paesi dell’Africa e, seppur in misura minore - in virtù della crisi del marxismo europeo prodotta anche dall’eurocomunismo, alla quale si sottraggono comunque importanti partiti comunisti come il PC Portoghese e l’Akel di Cipro - dell’Unione europea.

Un quadro reale e totalmente diverso e “rovesciato”, rispetto al quadro mainstream, che ci spinge a riflettere e ad asserire quanto segue: questo contesto internazionale, segnato da una grande avanzata del fronte marxista, comunista, antimperialista, rivoluzionario, appare oggi – per il proletariato mondiale e per le forze rivoluzionarie mondiali e  rispetto alla falsa pietra tombale che la cultura dominante occidentale vorrebbe posare sul movimento operaio complessivo occidentale, italiano – persino più favorevole dello stesso quadro delineatosi nel 1917, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, quando la stessa Rivoluzione, pur suscitando immensi entusiasmi nel proletariato mondiale, non aveva ancora consolidato se stessa, mentre il vastissimo e attivissimo fronte marxista, antimperialista, comunista attuale ha già piantato bene i piedi sulla terra, conquistato aree intercontinentali di popoli e Stati, cambiando i rapporti di forza internazionali, a sfavore dell’imperialismo, tra fronte imperialista e antimperialista. Spuntando le unghie all’imperialismo. 

Un contesto internazionale che sarebbe oltremodo favorevole alla ripresa, anche nei Paesi ad alto sviluppo capitalistico, anche in Europa e in Italia, del processo di trasformazione sociale e anticapitalista. Un contesto oggettivo favorevole al quale, tuttavia, non si unisce una condizione soggettiva rivoluzionaria favorevole. E ciò in virtù della crisi profonda del marxismo in diverse aree dell’Occidente e, specificatamente, in Italia.

Una crisi del marxismo in Occidente e nel nostro Paese sovraordinata dal ritorno di un’egemonia dogmaticamente neopositivista e dunque produttrice di un neo moderatismo subordinato che contrasta visibilmente con il coraggio rivoluzionario, ad esempio, sul piano prettamente filosofico, teorico e politico, di quell’antidogmatismo e di quella rivitalizzazione del marxismo che segnano di sé la rivoluzione economico-politica della Repubblica Popolare Cinese e del Partito Comunista Cinese che, attraverso il rilancio storico e su basi immense di una NEP leninista segnata dai caratteri cinesi, non solo ha risolto il problema, conquistandola, dell’accumulazione originaria mancante, ma ha lanciato e sostenuto il più grande sviluppo economico della storia dell’umanità offrendosi, a partire da ciò, come cardine del nuovo fronte antimperialista mondiale, catalizzatore e sponda dei popoli e degli Stati del mondo volti a liberarsi dal domino statunitense.

Naturalmente, per un intero mondo che cambia, e cambiato per tanta parte dalle forze d’ispirazione marxista, in campo non vi è solo il Partito Comunista Cinese ad agire attraverso un rinnovamento antidogmatico e anti determinista del marxismo. Il Partito Comunista del Sud Africa, il Partito Comunista del Vietnam, i due grandi Partiti Comunisti Indiani, Cuba, il Venezuela, l’intero Socialismo latino-americano del XXI Secolo rivivificano il marxismo attraverso sia le loro originali vie nazionali che attraverso innovazioni – il tipo di sviluppo economico, la democrazia popolare diffusa e rivoluzionaria – che battono in breccia il neopositivismo e il neo moderatismo di tanta parte della sinistra, a volte anche comunista, occidentale e italiana.

Crisi del marxismo in Italia: sarebbe surreale, idealistico, antimarxista porre la questione in sé, come se tale crisi fosse una crisi del mondo accademico, intellettuale e teorico.  Marx, Engels: il loro pensiero rivoluzionario prende corpo, si alimenta, si rilancia solo attraverso la realizzazione concreta di quella loro filosofia. Centrale, nel marxismo, è il rapporto dialettico tra la storia nel suo farsi e lo sviluppo teorico. La crisi del marxismo italiano è frutto di un idealismo sempre in fieri nel mondo culturale italiano ma che ha trovato nuova vitalità e nefasto ruolo attraverso la crisi politica del marxismo, attraverso l’involuzione ideologica profonda del contenitore politico più grande del marxismo: il PCI.

A partire da ciò, il carattere già difficilmente estirpabile del pensiero idealista italiano, dell’attualismo gentiliano, si è riorganizzato in un corpo, via via sempre più potente e strutturato. Appunto, il grande corpo, in “mutazione genetica”, del PCI.

Per estirpare dalla cultura italiana, dalla coscienza operaia italiana il male oscuro dell’idealismo  sarebbe occorsa un’offensiva, di lungo corso, ideologica, culturale, politica condotta dal materialismo dialettico, dal marxismo non dogmatizzato, da un marxismo anti determinista, che invece ha cessato troppo presto la propria battaglia, la propria vitalità poiché, già nella prima parte degli anni ’70, il PCI andava mano a mano abbandonando tale battaglia per imboccare la strada, sul piano prettamente filosofico, di un positivismo di maniera attraverso il quale, di nuovo, come negli anni della Seconda Internazionale e del PSI di Turati, tornava la fondamentale osservanza del perimetro politico entro cui agire e il conseguente divieto di oltrepassare quel limite politico auto imposto, giungendo così ad una sorta di superfetazione dello “stato di cose presenti” quale cavallo di Troia per l’abbandono dell’azione soggettiva, la rimozione del senso ultimo del leninismo, di Lukács, di Gramsci, della filosofia della scienza di Ludovico Geymonat e di Silvano Tagliagambe, la cui adesione al Centro Studi a cui stiamo lavorando ci onora.  

Come in modo straordinario ci onora il poter chiamare il nostro Centro Studi “Domenico Losurdo”, che nella sua fondamentale opera “Il marxismo Occidentale- Come nacque, come morì. Come può rinascere”, casa editrice Laterza, 2017, scriveva, a pagina 159: “La rottura del marxismo occidentale con la rivoluzione anticoloniale è anche il rifiuto di farsi carico dei problemi in cui questa si imbatte con la conquista del potere. Anche a tale proposito chiaro è il contrasto tra marxismo occidentale e orientale. Assuefatto al ruolo di opposizione e di critica in varia misura influenzato dal messianesimo, il primo guarda con sospetto o riprovazione al potere che il secondo è chiamato dalla vittoria della rivoluzione a gestire. È il potere in quanto tale a essere oggetto della requisitoria del giovane Bloch”.  Il giovane Bloch che infatti scriverà che il potere è male in sé, indipendentemente dalla natura del potere, rivoluzionario o borghese, anticipando così un’intera schiera di intellettuali, filosofi, dirigenti politici   del marxismo occidentale, volti a spaccare il capello della critica in sedici, rispetto alle esperienze dell’Unione Sovietica, della Cina popolare, dei poteri costruiti dalle vittorie anticolonialiste,  critiche che finivano spesso nella liquidazione di quelle stesse esperienze, senza mai, peraltro, sviluppare autocritiche in relazione all’abbandono, di fatto, dei progetti rivoluzionari del marxismo occidentale nel proprio campo d’azione.

Il 24 dicembre del 1917, su “L’Avanti”, Antonio Gramsci pubblicava un articolo che avrebbe rappresentato un vero e proprio spartiacque nella storia del socialismo e del comunismo italiano, e non solo.

L’articolo trattava della Rivoluzione d’Ottobre e il titolo era “Una rivoluzione contro il Capitale”. Il Capitale con la C grande, il Capitale di Marx, il suo libro, e il senso ultimo dell’articolo era il seguente: una lettura, un’interpretazione distorta, non dialettica, essenzialmente positivista del pensiero di Marx ha portato ad una degenerazione dell’analisi (mai propriamente elaborata da Marx) per cui al socialismo ci si sarebbe arrivati solo attraverso e dopo il pieno sviluppo della forze produttive capitalistiche, che da sole (ecco il positivismo svuotato dall’azione soggettiva), nella lettura deterministica, avrebbero prodotto le condizioni per l’inverarsi del socialismo. Un’impostazione politico-filosofica quale abbandono di ogni pensiero e pratica della rivoluzione, un’impostazione sbaragliata e resa risibile da Lenin, dalla rivoluzione d’Ottobre, dalla rivoluzione cinese, vietnamita, cubana, venezuelana, nicaraguense…

Il recupero, da parte di Gramsci, dell’azione soggettiva umana e della “classe” nel farsi storico avrebbe segnato di sé la prima, lunga fase storica del PCI. Ma quando questa spinta ideologica, teorica, politica leninista-gramsciana tende ad esaurirsi (anni ’70?), il PCI inizia a recuperare il positivismo e il determinismo della Seconda Internazionale, tende a rimuovere non solo Gramsci ma l’essenza filosofica stessa del Lenin del “Materialismo ed Empiriocriticismo”, tende ad una sorta di drammatica, per il movimento comunista e rivoluzionario italiano, oggettivazione dell’“immodificabilità” dello stato presente delle cose. 

Esempi tipici del neo positivismo del PCI sono stati il pensiero e la prassi di uno dei più grandi leader del Partito: Giorgio Amendola. Nel connubio apparentemente inestricabile di filosovietismo e “socialdemocrazia” di Amendola vi è racchiuso molto del “mistero” del neo positivismo del Partito Comunista Italiano. In verità il filosovietismo amendoliano (che dignitosamente resisteva di fronte al sempre più profondo smarcarsi del PCI dall’Unione Sovietica e persino dall’Ottobre), attribuendo in modo totalmente determinista all’URSS il compito di allargare continuamente il campo socialista a livello mondiale, affidando alla stessa URSS il compito, destinale, della rivoluzione mondiale, poteva permettere al PCI di attestarsi in una posizione essenzialmente socialdemocratica, tanto il socialismo era garantito dall’URSS e dal campo socialista. Nulla vi è di più positivista di questa posizione amendoliana (che avrebbe segnato di sé tanta parte del PCI per poi degenerare in politiche anti amendoliane – quelle “occhettiane” - essenzialmente radical e liberal), nulla contribuisce, più di questa posizione, a rimuovere l’azione soggettiva nella storia che Lenin e Gramsci avevano riconquistato per i movimenti operai nazionali e per il proletariato mondiale.

La riassunzione oggettiva del positivismo, tra l’altro, spesso si affiancava – dialettica tra le cose – ad un piegarsi ad un dogmatismo tanto pigro quanto opportunista sino a che la libertà rivoluzionaria del pensiero marxista, di cui Ludovico Geymonat era stato uno dei più grandi esponenti, veniva rimossa.

Occorrerebbe, da questo punto di vista, rivalutare e rilanciare tanta parte dell’opera di Geymonat, ora pressoché inesistente nella coscienza dei militanti marxisti italiani. Di quel Geymonat che ad esempio scrive, sul volume numero 9 della propria “Storia del pensiero filosofico e scientifico”, edizioni Garzanti, nel coraggioso capitolo “I rapporti tra scienza e filosofia in URSS” e in relazione al famoso caso “Lysenko” (l’agronomo sovietico che tentò di trasformare il proprio, discutibile, progetto di rivitalizzazione dell’agricoltura russa in una totale concezione del mondo pseudo marxista, a partire da stravaganti assunti quali quello di piantare i semi molti vicini tra loro, violando così la legge naturale e affermando che “le piante della stessa classe non sarebbe mai state in conflitto tra loro”) scrive Geymonat che “La linea su cui ci si era attestati nel 1939 (in URSS, n.d.r.) subì un sostanziale arretramento ed il materialismo dialettico venne scopertamente utilizzato come semplice strumento di ratifica e giustificazione ideologica di un verdetto che era già stato pronunciato in altra sede…” (pag. 441) e, a pagina 443, che la filosofia di Marx, di Engels e di Lenin fu costretta ad assumere facce diverse secondo l’opportunità del momento e che “la pretesa di farne il parametro di riferimento ultimo, alla luce del quale valutare la correttezza delle ipotesi scientifiche, costituiva una patente deformazione  del suo significato, una grave violazione dei principi che ne avevano occasionato la nascita e accompagnato lo sviluppo”.

Non si mette qui in discussione la grandezza di una formazione politica, il PCI, senza la quale non vi sarebbe stata la democrazia in Italia, senza la quale il fascismo, nella sua forma postfascista, avrebbe ancora avviluppato l’Italia, senza la quale non vi sarebbero state le grandi conquiste per il movimento operaio italiano né la costruzione di un senso comune di massa avanzato, progressista, di classe.

Qui, vogliamo dire che il consumarsi della spinta rivoluzionaria antipositivista leninista-gramsciana porta pian piano, ma inesorabilmente, il PCI ad arretrare il proprio baricentro ideologico ricollocandolo sul terreno del dogmatismo, del positivismo, del moderatismo dell’antico socialismo italiano anteriore a Gramsci e al Partito Comunista d’Italia. 

Il neopositivismo del PCI pian piano degenera nell’accettazione della pseudo realtà fenomenologica come ultimo orizzonte strategico, in quella visione hegeliana per cui “il reale è razionale

”; nella “grata accettazione della realtà” della filosofia greca antica e persino- “sul tardi”, verso la fine, attraverso l’avvenuto dominio politico della piccola borghesia intellettuale sul PCI- nella, per molti versi famigerata, “gelassenheit”, la contemplazione del mondo che si fa arrendevolezza.

Ma dove trova le proprie basi materiali questa involuzione di tipo dogmatico e determinista che segna di sé il PCI dagli anni ’70 in poi, attraverso una spirale sempre più degenerata che sbocca nella Bolognina e poi nel XX° Congresso di scioglimento del PCI a Rimini, il 31 gennaio del 1991?

Possiamo qui evidenziare solo alcune tappe di un lungo percorso:

- attraverso la rottura col movimento comunista mondiale;

- attraverso una critica “da destra” (la condivisione del progetto “gorbacioviano” volto sia al sostanziale superamento dell’antimperialismo che allo smantellamento del partito comunista dell’Unione Sovietica quale forza guida del socialismo) e non “da sinistra”, come sarebbe stato necessario, (rilancio del PCUS come partito d’avanguardia, superamento della stagnazione e rilancio dell’economia sovietica anche attraverso un nuovo e proficuo rapporto tra democrazia popolare – i Soviet da ricostruire – e il potere comunista centrale);

- attraverso il progressivo abbandono del leninismo e del pensiero e la prassi di Gramsci, abbandono che si realizza anche tramite la totale rimozione della forma-partito comunista leninista-gramsciana costruita essenzialmente nei luoghi di lavoro e nello scontro diretto capitale-lavoro, recuperando invece, e appieno, l’unica istanza organizzativa conosciuta dalla Seconda Internazionale: quella della sezione territoriale che, privata dell’apporto politico e ideologico dell’organizzazione nei luoghi di lavoro, diviene il luogo di elezione della mediazione politica interclassista e di promozione dei quadri – sia a livello di direzione politica che sul piano istituzionale – non operai e non proletari;

- attraverso la piena assunzione politica e ideologica dell’eurocomunismo, una formulazione apparentemente innocua (tant’è che ancora molti militanti comunisti odierni credono che l’eurocomunismo semplicemente sia, sia stato, l’azione dei comunisti in Europa), ma che in verità rompe, eleggendo di nuovo la classe operaia europea e la sinistra europea ad avanguardie internazionali, con la visione mondiale di Lenin del processo rivoluzionario, rompe con la concezione leninista dell’anello debole della catena, con l’analisi leninista della “classe operaia aristocratica”, rompe con l’azione di spostamento sulle spalle dell’immenso mondo extra occidentale del processo rivoluzionario, recuperando appieno, l’eurocomunismo, il dogma positivista del processo rivoluzionario come “inevitabile” portato dei punti alti dello sviluppo capitalista;

- attraverso la scelta dell’ombrello della NATO come condizione migliore per la costruzione del socialismo;

- attraverso la mitizzazione dello Stato borghese e delle istituzioni borghesi come uniche vie per la costruzione del socialismo, dell’illusione di un socialismo “approvato” dallo Stato borghese;

- attraverso la scelta del compromesso storico come sbocco finale del grande processo di crescita – politica, elettorale e sociale – del PCI, in alternativa allo sbocco finale dell’accumulazione di forze verso la trasformazione sociale e la transizione al socialismo.

Una degenerazione del marxismo che, a partire dalla pulsione suicidaria del PCI e dalla negazione della propria, gloriosa, storia, si riverbererà su tutte le formazioni politiche comuniste post-PCI.

Si riverbererà sul Partito della Rifondazione Comunista, che entrerà ben presto in un trend iper movimentista alla Eduard Bernstein per il quale “il movimento è tutto e il fine è niente” e per il quale, spentosi l’ardore movimentista, lo sbocco naturale è il revisionismo marxista, il deliquio moderato e accomodante;

- si riverbererà sul partito comunista nato dalla scissione dal PRC, il PdCI, che farà dell’istituzionalismo totale, a scapito della lotta di classe, lo strumento principe per l’organizzazione del consenso elettorale e politico;

- si riverbererà sul partito comunista nato dalla scissione del PdCI, il PC, che sceglierà infine anch’esso, attraverso lo snaturamento totale della propria natura politica iniziale e la propria, sostanziale e ambigua trasformazione in altro da sé, la strada del più cieco elettoralismo quale strada maestra del proprio essere e della propria “riproduzione politica”;

- si riverbererà nel partito nato direttamente dallo scioglimento del PdCI, l’attuale PCI, che pienamente investito dalla crisi marxista italiana, scivola sempre più in una sorta di imbarazzato opportunismo filosofico, teorico e politico che lo paralizza letteralmente nell’opera di ricerca politica e teorica aperta, costringendolo persino a rimasticare un neo berlinguerismo acritico e di maniera e di tipo prettamente sentimentale ma, consapevolmente quanto idealisticamente, volto alla conquista di consenso elettorale attraverso la “nostalgia” dell’uomo Berlinguer e della sua storia personale tanto specchiata quanto ideologicamente e politicamente ambigua. 

Da notare che, attraverso questa lunga trafila di scissioni comuniste che iniziano, per non finire più, dalla sostanziale scissione di Rifondazione Comunista dal PDS, emerge un dato che assume il carattere di una coazione a ripetere: ogni partito comunista che si costituisce in Italia dopo l’autodissoluzione del PCI storico, nasce da una “gemmazione” dal partito comunista precedente e mai attraverso un progetto ideologico, politico e teorico autonomo. Di modo che ogni, piccolo, partito comunista che viene alla luce si porta dietro, a volte peggiorandoli, i difetti e i “pesi” ideologici della casa madre, nell’impossibilità, in questa muta malsana, di mettere a fuoco un proprio, autonomo profilo politico-teorico costruito nella ricerca e nella lotta antimperialista e anticapitalista e all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe.

È su questa lunga, quarantennale, “stagnazione filosofica”, culturale, politica che il marxismo italiano attuale trova le radici profonde della propria, alquanto grave, crisi.

Ed è a partire da tali constatazioni, da tale lettura dello stato delle cose, che il Centro Studi Nazionale che vogliamo chiamare “Domenco Losurdo” – poiché è nel pensiero profondo e vasto di questo di nostro grande filosofo che possiamo trovare un potente aiuto per riattualizzare e rilanciare il marxismo italiano – vorrà procedere, al fine di mettere a fuoco quei grandi temi volti alla trasformazione sociale e alla transizione al socialismo che la lunga crisi del marxismo italiano ha reso rugginosi. 

Il Centro Studi darà un ruolo centrale ai Gruppi di Lavoro tematici: questioni Internazionali e relazioni Internazionali; il primato della lotta contro la guerra imperialista, per l’uscita dalla Nato e dall’Ue; l’attualità del marxismo, la sua involuzione italiana in senso di nuovo idealista e la necessità che esso si rinvigorisca in un bagno di realtà, attraverso l’analisi compiuta della natura dell’attuale scontro di classe; la degenerazione antidemocratica dello Stato borghese e la diffusa illegalità come produzione della stessa degenerazione dello Stato borghese; le fondamentali questioni dell’Economia e dell’Economia Politica; la centralità del lavoro, del conflitto capitale-lavoro e le questioni sindacali; l’esigenza politico-teorica (altra lezione di Losurdo) di intrecciare la lotta per i diritti sociali con quella per i diritti civili, prendendo le massime distanze da quelle posizioni “comuniste” e volgarmente neo machiste e persino neo razziste che, constatando la rimozione (reale) da parte della sinistra radical del conflitto di classe, tentano di rimettere al centro (a parole) il conflitto capitale-lavoro demonizzando i diritti civili, in un rovesciamento politico-filosofico contrario e speculare a quello della sinistra radical e che ottiene come unico obiettivo quello di impoverire ancor più il già macilento marxismo italiano.

I Gruppi di Lavoro Tematici del Centro Studi saranno l’architrave del lavoro complessivo del Centro Studi: a tali Gruppi sarà dato il compito di produrre elaborati, i più alti possibile, sul piano della ricerca marxista, affinché poi questi elaborati, dall’organizzazione del Centro Studi, vengano popolarizzati, portati alla discussione, al confronto con “la classe”, con gli intellettuali e con le giovani generazioni, divenendo temi di Convegni e di iniziative pubbliche, nelle città e nelle università, nelle fabbriche e nelle scuole, giungendo ad essere materia per la Formazione e per le Scuole Quadri che il Centro Studi intende aprire al nord, al centro e al sud del Paese.

Il Centro Studi sta conquistando a sé, in quest’ottica generale, di giorno in giorno nuove e prestigiose adesioni, tra le tante quella del filosofo Silvano Tagliagambe, erede intellettuale in Italia di Ludovico Geymonat e della sua filosofia della scienza; di Carlo Formenti, sociologo e saggista volto al rilancio antidogmatico del pensiero e della prassi del marxismo; di Mariella Cao, leader storica delle grandi lotte contro le Basi nucleari USA e NATO in Sardegna, del professor Giancarlo Costabile, docente di pedagogia dell’antimafia all’università della Calabria; del professor Federico Martino, giurista, docente all’università di Messina e particolarmente incline a lavorare sul tema della “rivoluzione in Occidente”; di Erdmuthe Brielmayer, la vedova di Domenico Losurdo e traduttrice in tedesco di tante opere di “Mimmo”, di Domenico Gallo, presidente emerito di sezione della Corte di Cassazione e già senatore della Repubblica, di Nunzia Augeri, saggista, storica della Resistenza, traduttrice in italiano, tra l’altro, delle opere di Samir Amin e dell’opera “Oltre il capitale”, del filosofo ungherese István Mészáros, di Evgheni Utchin, già docente di Matematica ed Economia all’università “Lomonosov” di Mosca, giornalista e politologo; collaboratore di Literaturnaja Gazeta, Rossijskaja Gazeta e, in Italia, de “Il Fatto Quotidiano” e tanti e tante altre i cui nomi prestigiosi troverete nella lunga lista di adesioni al Centro Studi. 

Una lunga lista nella quale campeggiano anche i nomi di diversi leader delle lotte operaie nelle grandi fabbriche italiane e i nomi di dirigenti del movimento operaio e sindacale italiano. Poiché – e su questo il Centro Studi lavorerà – solo il connubio tra intellettuali e quadri operai, tra l’intelligenza delle accademie e l’intelligenza delle fabbriche potrà farci cogliere l’obiettivo del rilancio del marxismo italiano, per il quale obiettivo il Centro Studi “Domenico Losurdo” è nato e vuole impegnarsi.

 




 

 








 













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