Lettori fissi

mercoledì 20 gennaio 2021


 

    DALLA IBM ALLA GIG ECONOMY

Tutti i modi per dividere i lavoratori 

Nei primi anni Settanta, dopo un’esperienza di lotta sindacale nella multinazionale americana di cui ero dipendente (la 3M Minnesota), mi fu offerta la possibilità di divenire funzionario dei metalmeccanici, con l’incarico di seguire i settori a prevalente composizione tecnico impiegatizia. Per un giovane (23 anni), era una incredibile opportunità, sia di fare nuove esperienze, sia di valutare il potenziale conflittuale degli strati medio alti della classe lavoratrice che, in quegli anni (sull’onda delle lotte studentesche e operaie del 68/69), sembrava in crescita. Quindi, dopo qualche  esitazione dettata da scrupoli ideologici (militavo nel Gruppo Gramsci, una delle formazioni della sinistra extraparlamentare duramente critiche nei confronti delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio) decisi di accettare. I compagni di organizzazione condivisero la mia scelta, anche perché la proposta veniva dalla FIM di Milano che, a quei tempi, rappresentava – malgrado l’affiliazione confederale alla CISL - la punta più avanzata del movimento sindacale “ufficiale”, tanto sul piano rivendicativo (aumenti uguali per tutti) quanto sul piano organizzativo (appoggio all’organizzazione operaia di base fondata sui delegati di reparto - Quam mutatus ab illo !). 
Seguirono tre anni di preziose esperienze di lotta (sia pure soggette ai limiti di uno di strato di classe restio, per mentalità e cultura, a condividere le velleità antagoniste dell’operaio comune) che mi consentirono di allungare lo sguardo verso quell’imminente futuro di ristrutturazioni tecnico-organizzative che – assieme ai processi di finanziarizzazione e delocalizzazione produttiva – avrebbero consentito al capitale di sbaragliare il nemico di classe. In particolare, fu in tal senso decisiva la possibilità di studiare i modelli  di organizzazione del lavoro, di gestione del personale e di politiche commerciali di un colosso come la IBM, allora dominatore incontrastato del mercato mondiale dell’informatica. Non appena fui in grado (grazie a una serie di documenti interni messi a disposizione da alcuni dipendenti) di analizzare le politiche aziendali del Moloch, rimasi affascinato e terrorizzato al tempo stesso dalla maligna genialità di certe strategie. L’IBM anticipava infatti di trent’anni politiche che oggi, dopo l’esplosione di Internet e  della New Economy, appaiono scontate. 
Mi limito qui a elencare le più significative: l’impresa contava allora più 300.000 dipendenti in decine di filiali sparse per il mondo e interconnesse attraverso un’efficiente rete interna; molte di queste filiali erano “doppioni” che sfruttavano solo una parte della loro capacità produttiva, ma che erano pronte a riempire gli eventuali “buchi” causati dal fatto che una qualche filiale gemella fosse bloccata da scioperi, guerre, rivoluzioni o catastrofi naturali. Tutte le nostre rivendicazioni (mutuate sul modello di quelle della forza lavoro fordista) ottenevano l’appoggio - moderato – dei soli strati inferiori (perforatrici, segretarie, magazzinieri, addetti all’assistenza clienti, ecc.) della forza lavoro, mentre venivano snobbate dalla “pancia” (maggioritaria) degli strati medio alti (manager esclusi), fatta di analisti dei sistemi, programmatori, ingegneri, venditori, amministrativi, addetti alla comunicazione e al marketing, ecc. Una massa letteralmente “nebulizzata” in una serie di posizioni (salariali e di carriera) altamente individualizzate, che rispecchiavano un “punteggio” fondato su un’ampia gamma di parametri (adesione agli obiettivi aziendali, spirito cooperativo, flessibilità, rispetto delle gerarchie, ecc.). Questa sofisticata architettura nascondeva il bastone del comando sotto una panoplia di carote in cui i fattori di “riconoscimento” prevalevano sugli incentivi materiali. In questo modo ogni dipendente poteva illudersi di occupare una posizione singolare nell’organigramma aziendale e di svolgere, in relativa autonomia, un ruolo importante, oltre che creativo e appagante, per la comunità (anche se suscitò un certo clamore un documento redatto dal sindacato interno in cui si mostrava come dietro questa “individualizzazione” si celasse la realtà di un inquadramento rigido e predeterminato, e il sistematico intento di mettere in competizione i lavoratori, sia come singoli, sia come gruppi professionali). 
Ma quello che più mi impressionò fu la politica commerciale. La IBM non vendeva computer, vendeva un modello organizzativo. Non solo perché i proventi derivanti dalla consulenza ai clienti (a partire dalla manutenzione e implementazione del software) rappresentavano una quota significativa dei profitti, ma anche e soprattutto perché le imprese che acquistavano i prodotti IBM finivano per adottarne le strategie, i valori, la “filosofia”, tanto sul piano degli organigrammi interni, quanto su quello delle politiche commerciali. In questo modo, la IBM contribuì notevolmente a creare quell’ambiente produttivo, sociale e culturale che, nei decenni successivi, avrebbe favorito i processi di delocalizzazione, terziarizzazione del lavoro, “smaterializzazione” del prodotto, ecc. Modelli che le ondate successive della rivoluzione digitale, a partire dall’esplosione del Web, avrebbero perfezionato e generalizzato (ridimensionando il ruolo dei giganti dell’hardware come IBM a favore di quelli del software, come Microsoft, del design industriale, come Apple, dei motori di ricerca, come Google, dell’e.commerce come Amazon e dei social, come Facebook).
Fino alla fine dei Settanta (e ben oltre), la consapevolezza dell’impatto che le nuove tecnologie avrebbero avuto sull’organizzazione del lavoro, sulla composizione di classe e sui livelli di combattività della classe lavoratrice rimase tuttavia piuttosto scarsa. Tanto che un mio libretto (Fine del valore d’uso) uscito da Feltrinelli nel 1980, nel quale prevedevo un radicale ridimensionamento del peso delle tute blu a fronte della crescita esponenziale del lavoro terziario nelle grandi imprese dei centri metropolitani, mentre la produzione materiale si sarebbe spostata verso le aree periferiche a basso costo del lavoro (processo reso possibile dalle tecnologie informatiche che consentono appunto di decentrare le mansioni esecutive concentrando le funzioni di controllo, progettazione e comando), fu accolto con scherno (e adesso ci vengono a raccontare che la classe operaia sta per sparire, scrisse un recensore di cui non ricordo il nome sulle pagine del Manifesto). 
Del resto, l’interesse delle sinistre, a fronte del riflusso delle lotte operaie culminato con la marcia dei quarantamila quadri Fiat del 1980, si era ormai allontanato dal mondo della produzione, spostandosi sui ceti medi emergenti (da parte dei socialdemocratici), oppure (da parte delle sinistre radicali) sul cosiddetto “operaio sociale” – un mix di strati giovanili, marginali e periferici che scaricavano rabbia e frustrazione in scontri violenti con le forze dell’ordine e coltivavano velleitari progetti insurrezionali – mentre veniva progressivamente affermandosi il mito del lavoro autonomo, visto non come un ripiego di fronte all’espulsione di forza lavoro causata dalla ristrutturazione tecnologica, bensì come “libera scelta”, rifiuto dell’alienazione e della subordinazione gerarchica legate al lavoro dipendente nelle grandi fabbriche (mito che, non molto dopo, sarebbe tornato utile alle élite neoliberali per alimentare l’ideologia dell’imprenditore di se stesso). 
Con la rivoluzione digitale e gli anni Novanta abbiamo assistito a un potente ritorno di attenzione sul rapporto fra innovazione tecnologica e lotta di classe. Purtroppo nella gran parte dei casi questa attenzione è coincisa con l’esaltazione acritica del presunto potenziale emancipativo delle nuove tecnologie. Prima vennero i miti della cultura hacker che, mentre creava la cassetta degli attrezzi che sarebbe servita ai vari Bill Gates, Steve Jobs, Sergej Brin, Jeff Bezos, Zuckerberg e soci per costruire in tempi brevissimi i loro imperi monopolistici, alimentava i sogni sull’imminente avvento di una società democratica, “orizzontale”, fondata su una rete di libere comunità autogestite, cosmopolite, emancipate dai vincoli del potere politico e delle sue regole (ma senza mettere in discussione le basi del sistema capitalista: l’iniziativa privata e il libero mercato restavano dogmi indiscussi, per cui questa ideologia è stata giustamente definita come una sorta di anarco-capitalismo). A seguire è subentrata la versione post operaista del sogno hacker:  i lavoratori della conoscenza (le classi creative in altre versioni) vennero battezzati come la nuova avanguardia rivoluzionaria, pronta a raccogliere il testimone delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta. Queste teorie, incapaci di analisi critica nei confronti del contenuto di classe della tecnica in generale e delle tecnologie digitali in particolare (il rapido progresso tecnologico vi veniva descritto come un fattore sostanzialmente “neutro”, senza mettere in conto i condizionamenti economici, sociali e culturali che ne sovradeterminano percorsi e sviluppi, dogmaticamente assimilato al marxiano sviluppo delle forze produttive quale presupposto necessario – ma non sufficiente, se avessero assimilato il pensiero del maestro – del balzo evolutivo verso un superiore livello di civiltà), hanno partorito un’utopia che attribuisce ai knowledge workers non solo le competenze, ma anche la consapevolezza di possederle e la volontà di sfruttarle per sottrarre al comando capitalistico il controllo sulla produzione e sulla riproduzione sociali, controllo destinato a passare nelle mani delle loro comunità autonome senza dover transitare da perigliosi assalti al potere politico (destinato a dissolversi assieme a quello della classe capitalista: Stato e mercato aboliti in un colpo solo!).
Alla fine del primo decennio del Duemila tutte queste utopie erano state spazzate via da due crisi (prima quella dei titoli tecnologici poi quella generale) che hanno accelerato esponenzialmente il processo di concentrazione monopolistica dei settori high tech, spegnendo, nel contempo, le aspettative in merito al presunto potenziale emancipativo e democratizzante della Rete. In un libro del 2011 (Felici e sfruttati, Egea) ho cercato di descrivere le molteplici modalità di attacco ai rapporti di forza delle classi lavoratrici rese possibili dalla pervasiva colonizzazione dell’ambiente digitale nei confronti della totalità delle relazioni sociali, politiche ed economiche. La vera novità rispetto alla filosofia IBM sopra descritta, consiste infatti nel fatto che non si tratta più di modellare solo o principalmente organizzazioni aziendali e relazioni industriali, bensì di ridisegnare ritmi e stili di vita, identità individuali e collettive, bisogni, desideri e aspirazioni, rapporto fra tempo libero e tempo di lavoro, ecc. Fra le altre cose, tentavo di mettere in luce: la messa al lavoro degli utenti-consumatori, mobilitati per generare la valanga dei big data (materia prima dei modelli di business delle Internet Company) in cambio dell’illusione di poter accedere a illimitate e gratuite occasioni di riconoscimento e autogratificazione (di qui il titolo felici e sfruttati); la separazione fra uno strato privilegiato di tecnici e la massa  della forza lavoro, con i primi deputati (come gli ingegneri tempi e metodi d’antan) a organizzare il tempo di vita e di lavoro (sempre meno reciprocamente distinguibili) dei secondi per esaltarne la produttività (una sorta di taylorismo digitale); una individualizzazione ancora più spinta dei lavoratori attraverso la creazione di complesse catene del valore che scendono fino agli schiavi della gig economy (autisti Uber, runner delle società di Delivery, addetti ai call center ecc.). Il tutto senza che non esista più, apparentemente, alcuna possibilità di attivare relazioni indipendenti e dirette fra le disiecta membra di questo corpo di classe, ormai riconoscibile come tale solo dai centri di comando che ne coordinano dall’alto e da fuori le interazioni. 

Eppure qualcosa – sia pure faticosamente – sembra si stia muovendo per tentare una ricomposizione degli interessi di classe. In un’intervista a “Città Futura”  https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/tech-workers-coalition-%e2%80%93-sezione-italiana un portavoce dell’appena nata sezione italiana della Tech Workers Coalition (un movimento sindacale internazionale dei lavoratori del settore tecnologico nato cinque anni fa) dichiara: <<Twc agisce per unificare le rivendicazioni di lavoratrici e lavoratori di settori molto differenti, si cerca di tendere quel filo rosso che unisce due sistemi: il primo è quello che oso chiamare “filiera tecnologica”, composta sia da quelli che partecipano direttamente alla produzione di tecnologia, come programmatrici, ingeneri, sistemiste, analisti, grafici (…) sia da chi vi partecipa indirettamente, come magazzinieri, personale di cucina, personale di servizio, minatori del silicio, ecc. Il secondo si riferisce invece a tutti quelli che utilizzano ciò che viene generato dal settore ICT, ai lavoratori che si trovano alla fine della catena di produzione, coloro che sono passati da usare uno strumento tecnologico per produrre, o addirittura emanciparsi, e che ora ne sono succubi, come rider, operatrici di call center e tutte le altre figure della gig economy>>. 
Mi sembra una buona notizia, perché a prescindere dal successo (che spero significativo) di questa difficile impresa, credo si tratti di un segnale che va nella giusta direzione. A mano a mano che le vecchie strutture sindacali dimostrano la loro scarsa capacità (per tacere della volontà) di adattarsi alle mutazioni della composizione della forza lavoro per meglio promuoverne gli interessi, occorre infatti inventare qualcosa di radicalmente nuovo (o forse di antico, visto che certe nuove esperienze associative somigliano a quelle dei primordi del movimento operaio, quando le aggregazioni per settore produttivo erano ancora di là da venire e le organizzazioni cooperative e mutualistiche tentavano di aggregare i frammenti dispersi di un proletariato in formazione). Tempo fa si era parlato di “sindacato sociale”. Personalmente credo piuttosto che la logica debba essere quella di costruire, per dirla con Gramsci, una sorta di blocco sociale. Con la differenza che con questo concetto Gramsci alludeva alla costruzione di alleanze di classe sotto l’egemonia del proletariato e del suo partito, mentre oggi, in assenza di un partito e in presenza di una classe profondamente frammentata, credo che costruire il blocco sociale voglia dire – assai prima che ragionare di alleanze fra classi, che mi pare compito di una fase ben più avanzata dell’attuale – in primo luogo ri-costruire l’unità di classe. Progetti come quello della Twc possono rappresentare un primo passo in tale direzione. Senza dimenticare che occorrerà poi saldare spezzoni assai più ampi, dai dipendenti pubblici ai settori industriali meno direttamente coinvolti dall’high tech, all’enorme massa dei servizi “arretrati” (turismo, intrattenimento, ristorazione, servizi di cura alle persone, ecc.). Il tutto tentando nel contempo di rompere le barriere generazionali, etniche, di genere, ecc. che il neoliberalismo sta sfruttando con grande maestria. Ma qui il discorso travalica l’ambito sindacale e rinvia al compito di ricostruire un partito di massa dei lavoratori.  
  

    
 


                  

sabato 16 gennaio 2021


 QUEI PREPARATIVI PER METTERE FUORI LEGGE I COMUNISTI

In una risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 19 settembre 2019 leggiamo i  seguenti passaggi:  si "sottolinea che la Seconda guerra mondiale è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti"; si "ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell'umanità, e si rammenta l'orrendo crimine dell'Olocausto perpetrato dal regime nazista"; si "condanna con la massima fermezza gli atti di aggressione, i crimini contro l'umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari"; si esprime "inquietudine per l'uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali" ricordando che "alcuni paesi europei hanno vietato l'uso di simboli sia nazisti che comunisti" (l’aspetto paradossale di tale divieto consiste nel fatto che fa apparire la Russia di Putin, dove il partito comunista è legale in barba alla tenacia con cui si è tentato di estirparne la memoria, assai più democratica dei dirimpettai occidentali).    
Ad eccezione di alcune blande proteste delle sinistre cosiddette radicali, questa infamia ha potuto passare, se non inosservata, senza che ne fossero messe in luce tanto le palesi falsità storiche, quanto le potenziali, e gravissime, conseguenze politiche. Affermare che la guerra è iniziata a causa del patto Molotov-Ribbentrop significa sorvolare sulle pesanti responsabilità delle “democrazie” europee (Inghilterra e Francia su tutte) che hanno dato via libera a Hitler per le annessioni di Austria e Cecoslovacchia e hanno lasciato che i nazifascisti aiutassero Franco a schiacciare la Repubblica spagnola, lasciandogli credere che avrebbe avuto mano libera per ulteriori avventure militari (e il timore che il primo bersaglio di tali avventure sarebbe stata l’Urss – come è effettivamente avvenuto non molto dopo – ha avuto non poco peso nel determinare la decisione russa di firmare il patto del 39). Equiparare  l’Olocausto con i pur gravi crimini del regime stalinista è fuorviante, tanto sul piano delle dimensioni quantitative, quanto sul piano ideologico (in Urss non vi sono stati genocidi motivati da odio razziale). Nel documento non si fa ovviamente parola del contributo sovietico alla sconfitta del nazismo (senza il sacrificio di 39 milioni di russi le potenze occidentali non avrebbero sconfitto le armate naziste). Quanto alla generica definizione di totalitarismo, questa etichetta viene ossessivamente utilizzata per accomunare regimi e governi dalle caratteristiche profondamente diverse fra loro, come Cina, Vietnam, Cuba e Venezuela (quest’ultimo legittimato da libere elezioni!), allo scopo di creare una mobilitazione ideologica permanente delle opinioni pubbliche occidentali nel contesto della nuova guerra fredda contro la Cina.
Fin qui le fake news, per usare un termine di moda. Ben più grave l’accenno contenuto nell’ultima frase: citando il fatto che alcuni Paesi europei “hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti” è chiaro che si vuole preparare il terreno alla messa fuori legge dei partiti comunisti in Occidente.

L’accostamento fra destre estreme e comunismo è il leitmotiv che prelude a tale operazione (a chi ha la mia età, riaffiorano inevitabilmente alla memoria le campagne contro “gli opposti estremismi” degli anni Sessanta e Settanta). È chiaro che, dopo la sconfitta di Donald Trump, e dopo la parodistica “insurrezione” dei suoi fan seguita a tale sconfitta (senza sottovalutare la gravità degli eventi, è ridicolo immaginare che quella patetica versione occidentale di “assalto al palazzo d’Inverno” avrebbe potuto rovesciare il poderoso apparato federale degli Stati Uniti), si sono create le condizioni ideali per rilanciare la campagna sugli opposti estremismi di cui sopra. Si punta il dito contro Trump per distogliere l’attenzione dalla luna degli oltre sessanta milioni di americani incazzati che lo hanno votato in assenza di una reale alternativa all’establishment che incarna gli interessi delle élite tecno finanziarie (anche per il fatto che Sanders e Ocasio Cortez non hanno avuto il coraggio di rompere i ponti con il  Partito Democratico). 
Così, adesso che anche in Europa i vecchi partiti di centro sinistra tirano il fiato, a mano a mano che avanza il processo di normalizzazione dei movimenti populisti, maturano le condizioni per lanciare una guerra preventiva contro possibili recrudescenze social comuniste che potrebbero attecchire nel vuoto che la crisi del populismo apre a sinistra (quello che si è spalancato a destra è già occupato dalla riscossa neoliberale). 
In un post precedente – intitolato “Quando a dichiarare lo stato di emergenza sono i giganti del Web” – citavo alcune mie precedenti analisi in merito alla stretta alleanza fra élite politiche e finanziarie e multinazionali informatiche – alleanza su cui si è fondato il progetto imperiale americano negli ultimi decenni. In questo senso, scrivevo, il diktat di Zuckerberg e soci che ha silenziato Trump va preso per ciò che è, vale adire un atto politico con il quale Silicon Valley sancisce il proprio sostegno al regime change che porta al potere un’amministrazione assai più sensibile di quella trumpiana agli interessi della lobby high tech. Scrivevo anche che gli europei non possono accettare un potere privato che serve gli interessi di una potenza concorrente (ancorché alleata), per cui è presumibile che nel prossimo futuro tenteranno di affermare il proprio controllo giuridico-politico sui nuovi media. 
Ma anche in questo caso, si punterà il dito contro populismi e sovranismi di destra ma il vero bersaglio sarà il “pericolo rosso”, per combattere il quale si costruirà una censura politicamente legittimata e non più affidata ai pretoriani privati dell’economia di Rete (usando le armi delle campagne contro il linguaggio “politicamente scorretto” e “l’incitamento all’odio” – si sa che per questi signori il termine allude all’odio di classe). È forse per dimostrare che questa politicizzazione della censura non è necessaria, perché gli sceriffi privati sono capaci di svolgere da soli il ruolo di estirpare dalla Rete ogni velleità “sovversiva” che Facebook ha deciso di mettere la mordacchia al Partito Comunista di Rizzo, “colpevole” di avere osato paragonare la folla che ha dato l’assalto a Capitol Hill alle squadracce neonaziste protagoniste della “rivoluzione colorata” in Ucraina (e alle quali i media occidentali hanno generosamente regalato la patente di combattenti per la democrazia). 

 
Non so se le sinistre “radicali” sapranno valutare i rischi che questa svolta neomaccartista – che rischia a intensificarsi a mano a mano che la guerra fredda si farà più feroce – potrebbe avere anche per loro. Purtroppo non credo ci si possa contare: ormai hanno quasi tutte espunto la parola comunismo dal loro lessico (bene comunismo fa più figo), si sono convertite all’uso della neolingua politicamente corretta (evitiamo di parlare di lotta di classe per carità), e si uniscono ossequiosamente al coro delle condanne dei regimi "totalitari", per cui presumo siano convinte di non correre alcun rischio. E forse – sia detto a loro vergogna – hanno ragione. 
             


giovedì 14 gennaio 2021


 QUANDO A DICHIARARE LO STATO DI EMERGENZA SONO I GIGANTI DEL WEB


Nel primo decennio del Duemila mi ero concentrato sull’analisi dell’impatto della rivoluzione digitale su economia, politica e cultura, pubblicando, nell’ordine, Incantati dalla Rete (Cortina, 2000), in cui analizzavo il retroterra culturale (un mix di ideologie libertarie e New Age) dei manager della Net Economy; Mercanti di futuro (Einaudi 2002), dedicato al ruolo delle nuove tecnologie nel processo di finanziarizzazione dell’economia globale; Cybersoviet (Cortina 2008), una critica delle profezie sulle magnifiche sorti e progressive della democrazia di Rete, e Felici e sfruttati (Egea 2011) in cui indagavo i dispositivi di integrazione di consumatori, lavoratori autonomi e classi “creative” nel processo di valorizzazione delle Internet Company. Questa quadrilogia può essere descritta, in sintesi, come un’opera di decostruzione delle illusioni che le sinistre postmoderne hanno a lungo coltivato - e tuttora coltivano (ma io stesso le avevo in parte condivise fino alla fine dei Novanta) – sulla presunta capacità delle nuove tecnologie di agire da fattore di democratizzazione dei sistemi produttivi e sociali. 

Negli ultimi dieci anni mi sono occupato solo saltuariamente, e mai in modo sistematico, di questi argomenti , preferendo dedicare la mia attenzione alle forme inedite che la lotta di classe veniva assumendo con l’aggravarsi della crisi sistemica e alle strategie messe in campo dalle élite dominanti per conservare la propria egemonia. Ovviamente non mi sfugge il fatto che le relazioni sociali mediate dalla Rete svolgono un ruolo importante anche in questo tipo di fenomeni, tuttavia non ho più ritenuto necessario dimostrare – visto che ciò mi sembrava evidente per chiunque non avesse fette di salame sugli occhi - che il mondo di Internet avesse ormai subito un processo irreversibile di normalizzazione e integrazione nei dispositivi di dominio del capitalistici: i sogni delle comunità hacker, open source, e di tutti coloro che avevano scambiato la Rete per una Nuova Frontiera senza leggi né padroni, avevano lasciato il posto a un mostruoso conglomerato di potere fatto da un pugno di società monopolistiche (Amazon, Apple, Facebook e Google su tutte). Ora il clamoroso caso del “silenziamento” dei profili Facebook e Twitter del Presidente degli Stati Uniti mi induce a riprendere il filo dei ragionamenti di qualche anno fa. 

Il potere dei social network, per tacere di quello delle società che gestiscono i cloud che ospitano la quasi totalità delle nostre informazioni - come Google, Amazon ed Apple -, è ormai divenuto tale da sovrastare quello delle più alte cariche istituzionali della nazione più potente del mondo (e quindi anche di tutte le altre)? Ciò  non è confermato dal fatto che queste società pagano tasse irrisorie rispetto ai loro profitti, riuscendo a costringere gli Stati a fare a gara per offrirgli condizioni di miglior favore? Nei libri sopra citati avevo spesso evocato le visioni profetiche degli scrittori cyberpunk come William Gibson, Bruce Sterling e Neal Stephenson, i cui romanzi, già negli anni Ottanta, descrivevano un mondo dominato dalle multinazionali informatiche, arroccate in una rete di città-stato interconnesse attraverso i canali di un multiverso virtuale abitato dalle élite, un mondo senza stati né frontiere in cui le immense masse dei perdenti e degli esclusi venivano confinate nello Sprawl, i territori fisici desertificati che circondano le cattedrali dei super ricchi. Siamo dunque arrivati a questo punto?


Prima di rispondere, è il caso di ricordare che sulle nuove sinistre libertarie queste fantasie esercitano un fascino irresistibile. Anche se, nei loro sogni, le profezie cyberpunk si riflettono come in uno specchio capovolto: a dominare non sono le multinazionali ma le comunità autonome dei lavoratori della conoscenza, che avrebbero ormai acquisito la competenza e il know how per controllare e dirigere tutto, e che si preparano a pilotare l’umanità verso un futuro di ricchezza, libertà e felicità. Tuttavia, anche nella loro versione spariscono Stati, nazioni e frontiere, mentre i liberi cittadini della Rete si stringono in un grande abbraccio cosmopolita (una versione laica delle visioni del filosofo e teologo gesuita Teilhard de Chardin). Per inciso, gli esponenti di queste sinistre sono gli stessi che, di fronte all’atto di forza delle Internet Company contro Trump, applaudono entusiaste per la censura nei confronti del mostro fascista, senza interrogarsi sulle implicazioni del fatto che questa censura non sia stata frutto di una decisione pubblica, politica bensì del diktat arbitrario di un pugno di magnati privati. Insomma: le immagini capovolte finiscono per coincidere nella visione di chi è convinto che sia meglio che a tacitare l’uomo nero provveda papà Facebook o chi per lui, piuttosto che il Moloch del potere politico. Come Marx ben sapeva, mercato e anarchia vanno a braccetto (non a caso per i signori di Silicon Valley c’è chi ha coniato la definizione di anarcocapitalisti).

Ma torniamo alla domanda. Nei miei ultimi lavori ho scritto in varie occasioni che il conflitto, a mano a mano che gli effetti della crisi affondano i denti nelle carni del corpo sociale, non assume solo la forma popolo versus élite, ma anche quella flussi (di merci, denaro, informazioni) contro territori. E ho sostenuto che la resistenza dei territori (dello Sprawl volendo riprendere l’immagine della narrativa cyberpunk) è destinata a farsi sempre più forte. Così le periferie (i gilet gialli francesi, le mareas spagnole, i proletari americani che votano Trump in odio alle sinistre politically correct da cui si sentono traditi e quelli inglesi che votano Brexit per le stesse ragioni) cingono d’assedio le metropoli gentrificate. E a questi conflitti interni alle singole nazioni di sommano quelli fra nazioni periferiche e nazioni centrali: Sud ed Est Europa versus imperi centrali, America Latina contro Stati Uniti, nazioni africane che gravitano sempre più nell’orbita dell’emergente potenza cinese percepita come alternativa agli imperialismi occidentali. 
L’espulsione di Trump dalla Rete significa che questa ipotesi è sbagliata? Vuol dire che il potere delle élite tecnologiche, alleate con le élite finanziarie, continuerà a prevalere sulle velleità di resistenza della politica e dei territori, che la globalizzazione continuerà ad avanzare inarrestabile, sospinta dai cinque monopoli (tecnologico, finanziario, mediatico, militare e culturale) sui quali, sostiene Samir Amin, si fonda il dominio del centro sulle periferie? La mia risposta è no, per due ragioni fondamentali.

1) L’atto di forza di re Zuckerberg e degli altri monarchi della Rete è un atto politico, perché questi monarchi privati, che apparentemente non rispondono a nessun’altra regola di quelle che loro stessi si danno,  sono tutti, guarda caso, americani. Il loro potere è cresciuto all’ombra del potere imperiale statunitense, che ne ha accompagnato la crescita con gli enormi investimenti pubblici che ne hanno reso possibili i successi, tutelandone i diritti di proprietà,  proteggendoli contro i tentativi degli altri Stati di imporre limiti in materia di privacy e fisco alla loro libera attività, ecc. La convergenza di interessi  fra potere politico dello Stato americano e potere delle Internet Company è sempre stata fortissima, perché il primo ha sempre considerato il secondo come un’arma strategica per mantenere il suo vantaggio competitivo nei confronti degli altri Stati capitalisti. E, guarda caso, quando si è trattato di passare informazioni sensibili sulla concorrenza internazionale (ma anche sugli stessi cittadini americani dopo l’11 settembre) alle varie agenzie dello Stato Usa, i cyber monarchi si sono dimostrati assai meno reticenti di quando le richieste arrivavano dall’altra sponda dell’Atlantico. 

Il conflitto che è esploso con il caso Trump nasce dal fatto che costui è stato il primo presidente che ha tentato di sottrarsi agli accordi de facto (strettissimi con le amministrazioni democratiche, ma che neanche i presidenti repubblicani avevano mai messo in discussione) fra politica e Rete. Quella dei boss di Internet non è stata un’iniziativa privata, bensì un’operazione politica per rimuovere un ostacolo all’insediamento di un’amministrazione che si annuncia assai più sensibile alle ragioni  dell’alleanza fra i palazzi della politica e Silicon Valley. Dopodiché è probabile che si proceda comunque a ridurre i margini di autonomia dei tecnocrati privati, formalizzandone i rapporti con la politica e inquadrandoli in una cornice giuridica ad hoc. Il che ci conduce alla seconda ragione. 

2) Non è certo un caso se in Europa è stata la voce della Merkel a deplorare con particolare energia l’arbitrarietà delle decisioni di Facebook, ove si consideri che da tempo la Ue a trazione tedesca discute sulla necessità di normalizzare il “Far West” della Rete, inquadrandolo in una cornice di regole dettate dalla politica. Il potere dei territorio torna a far valere le proprie ragioni nel momento in cui i conflitti interimperialistici si fanno più duri, sospinti dal vento della crisi, per cui anche gli “alleati” saranno sempre meno disposti a concedere agli Stati Uniti il vantaggio di poter usare come cavalli di Troia le proprie reti private d’impresa. 

La questione non si pone neanche nel caso della Cina, la quale, da un lato, ha sempre “schermato” il proprio spazio virtuale dalla penetrazione delle tecnologie occidentali, dall’altro lato, a mano a mano che i suoi progressi nel campo del digitale glielo consentivano, ha a sua volta “contro invaso” i mercati occidentali con i propri prodotti e servizi di Rete (da qui la guerra commerciale Usa contro Huawei e Tic Toc). Ma a certificare la priorità che lo Stato/partito cinese attribuisce alla logica territoriale rispetto alle logiche di flusso, o se si preferisce alla politica rispetto alla tecnofinanza, è soprattutto la recente decisione di stroncare il tentativo di Jack Ma, il magnate del gruppo Alibaba (versione cinese di Amazon), di alimentare il processo di finanziarizzazione dell’economia attraverso il suo impero commerciale online. 

Per concludere: è probabile che la mossa dei social contro Trump non segni il tramonto della politica “locale”, esautorata dai giganti della globalizzazione tecnofinanziaria, ma che rappresenti piuttosto il picco della parabola ascendente del potere privato sui flussi di informazione digitale, a partire dal quale inizierà una curva discendente caratterizzata dal progressivo aumento del controllo politico sulla Rete. Mi pare già di sentire le reazioni scandalizzate dei libertari di sinistra: accettare questa tendenza vorrebbe dire mettere la mordacchia allo spazio di  libertà che i nuovi media hanno dischiuso ai movimenti sociali, strappando il monopolio dell’informazione ai media mainstream. Sul fatto che la regolamentazione giuridico-politica comporterà una limitazione di quello spazio, e che tale limitazione riguarderà i movimenti antisistema di sinistra assai più dei Trump di turno non vi sono dubbi. Ma non  vi sono dubbi, almeno a mio avviso, nemmeno sul fatto che l’idea che si possa difendere quello spazio restando nell’ombra dei padroni delle piattaforme private è assolutamente delirante: sarebbe come preferire la condizione di servi della gleba a quella di cittadini, perché contro la censura politica si possono fare battaglie politiche, contro la censura privata non esiste difesa alcuna.

lunedì 11 gennaio 2021


 DOPO L'UOMO NERO, LA ROCCIA NERA

di Piero Pagliani



Trump non era un rivoluzionario e quindi non poteva fare nessuna rivoluzione. Ha fatto finta di promuoverne una, tutta interna al grande schema capitalistico e imperiale, creando aspettative e  raggiungendo alcuni successi, pochi di tipo materiale, molti di più di tipo ideologico in quanto si è fatto interprete del trumpismo, un fenomeno sociale preesistente alla sua corsa alla Casa Bianca: in sintesi, ha fatto smaltire i sentimenti di rivalsa dei deplorables (mai altro termine fu più rivelatore dei sentimenti politici e morali di chi lo utilizzò) che non ne potevano più dell'ipocrisia dei buoni sentimenti di chi li licenziava, gli portava via la casa, li impoveriva, toglieva il futuro a loro e ai loro figli, mentre si arricchiva a dismisura. Di conseguenza, in varia misura i cattivi sentimenti hanno iniziato o ricominciato a diventar popolari.
Trump ha costruito poco e prodotto molti pasticci inconcludenti, tuttavia ha creato apprensione nei suoi avversari che sapendo che tutto il sistema è in bilico precario, hanno tremato al pensiero che un falso profeta, senza spina dorsale e casinaro, facente parte della loro stessa risma, come Trump, mettesse a repentaglio quell'equilibrio anche solo facendo “Bù!”. 
Così Trump è diventato l'Uomo Nero, che difatti fa “Bù!”.
Come succede dopo le rivoluzioni fallite (o mai tentate) emerge qualche forma di bonapartismo. In questo caso ri-emerge e si rinvigorisce il bonapartismo dei Dem, o più precisamente del partito trasversale neo-liberal-con, che sotto la bandiera arcobaleno di “diritti” che non intralciano di una virgola il sistema, hanno immediatamente inzeppato il governo di donne di destra ma politicamente corrette.
Questo progressivismo elitario è uno dei tratti storici del bonapartismo che Marx disprezzava ferocemente: l'«alta bohème bonapartista e capitalista», con la grande città, Parigi, il laboratorio politico e culturale di allora, infestata dai boulevardiers e dalle boulevardières, «ricca, capitalista, coperta di soldi, infingarda, che ora [dopo il massacro della Comune] ingombrava, con i suoi lacchè, i suoi ladri in guanti gialli, con la sua bohème di letterati e con le sue cocottes, Versailles, Saint-Denis, Rueil e Saint-Germain» [1]. E' il vivido spaccato dei centri di molte metropoli occidentali di oggi, dopo la schiacciante vittoria della lotta di classe dall'alto.
Adesso, senza nemmeno più il bisogno di sventolare alcuna ingannevole bandiera se non, in modo tra il patetico e il vergognoso, quella totalmente sgualcita della “sostenibilità”, i vincitori di Washington stanno inzeppando la nuova amministrazione di finanzieri provenienti dalla Blackrock, la Roccia Nera, la più famelica delle grandi corporation finanziarie, tutte note per avere “lo stomaco per vangelo”, come avrebbe detto John Milton in Paradiso Perduto.
Ecco dunque Brian Deese, direttore del National Economic Council con delega alla Sostenibilità [2], Mike Pyle direttore dei consiglieri economici per la Harris [3] e Wally Adeyemo vice segretario al Tesoro [4].
Agli sciamani deplorable con le corna in testa si agita dunque davanti un drappo rosso. 
Domanda: “Perché? Ci sono o ci fanno”?

Non credo che i redivivi boss liberal e neocon non siano preoccupati dal fatto che il Paese sia spaccato in due. Anche senza l'avviso dello “sciamano” Jack Angeli, lo sapevano benissimo. Sanno però che non possono farci nulla, che non hanno strategie alternative al rilancio delle medesime mosse, al double down, come si fa a poker quando si è con l'acqua alla gola ma si è andati troppo in là.
Quindi, più interventi imperialistici nonostante la maggior parte dei precedenti non sia andato a buon fine, nonostante i Russi abbiano missili ipersonici non intercettabili [5] e nonostante la Cina abbia missili che possono colpire con precisione una finestra [6] e tra un mese scenderanno su Marte [7].
E più finanziarizzazione, nonostante l'FMI abbia allertato che mentre il PIL statunitense si è contratto del 5%, l'indice Nasdaq è aumentato del 40% e che negli ultimi 20 anni il valore del mercato azionario USA è aumentato di 6 volte mentre il PIL è solo raddoppiato [8]. Cosa che vuol semplicemente dire che la baracca si regge sul niente, su masse enormi di capitale fittizio che solo per non crollare succhiano  sempre più sangue dalla società, immiserendone una gran parte ed elargendo qualche premio a un'altra parte, a scalare secondo la posizione gerarchica, secondo le amicizie e secondo le furbizie. 
Siamo immersi in un'enorme discarica di valori nominali in putrescenza. Cosa che il Fondo Monetario Internazionale e il Financial Times chiamano più elegantemente “The Great Disconnect” tra finanza ed economia reale [9].
Gli economisti mainstream più arditi osano proporre al più qualche timida forma di regolamentazione. Ma oltre non si va. Non si va perché bloccati da una visione scientifica, ideologica e culturale ottusa o semplicemente perché non si ha il coraggio di intralciare i vested interests, di infastidire chi detiene il potere fondandolo proprio su impero e finanza. Per un sistema che nasce e si perpetua con in testa la concezione tomistica dell'universo, quella copernicano-galileiana semplicemente non è concepibile,  prima ancora di essere inammissibile. E se per caso si riconosce che sì, il Sole sta fermo ed è la Terra che gli gira intorno, ci si rende conto che è una verità indicibile, e soprattutto inagibile perché se no “tutto il mondo cascherebbe”.
E' un giro vizioso che nella storia del capitalismo si ripete. Analizzando la crisi dei subprime io lo chiamai “effetto Vajont”, perché la sequenza degli eventi fu una copia di quella che causò la tragedia del 1963 e che può essere condensata in questa formula: <<Come ti muovi fai un errore, perché hai creato una situazione che ti consente solo due scelte ed entrambe conducono al disastro, più velocemente o meno velocemente>> (in realtà c'è sempre una terza scelta; offre salvezza, ma sovverte radicalmente la logica  delle idee dominanti).
Infatti, secondo lo studio dell’americano F. D. Patton condotto insieme a A. J. Hendron nel 1985, le cose sopra Longarone nell’autunno del 1963 andarono sinteticamente così. <<Dopo le prove d’invaso che avevano indebolito i pendii della montagna, essendo ormai chiaro che la massa rocciosa stava scivolando, i tecnici avevano abbassato il livello dell’acqua per contenere i possibili danni della sua caduta. Questo, però, si rivelò un errore perché, a causa delle abbondanti precipitazioni che si erano avute nei due mesi precedenti il disastro, si era creata una forte pressione dell’acqua sottostante la frana: l’azione di contrasto esercitata contro di essa dal liquido contenuto nel bacino venne meno con lo svuotamento, ed allora la massa rocciosa crollò>>. [10].  
Allo stesso modo, quando Greenspan si decise a intervenire per frenare un mercato immobiliare ormai pericolosamente drogato rialzando decisamente i tassi d’interesse, la sua azione causò un disastro. Da una parte i proprietari si trovarono a passare da un basso tasso iniziale a un tasso d’interesse ben più oneroso e dall’altra lo “svuotamento” del mercato immobiliare causò una diminuzione della pressione verso l’alto dei valori, così che i proprietari si trovarono con un debito più alto del valore della loro proprietà (situazione che viene elegantemente chiamata “negative equity”).
L’effetto Vajont, cioè il riempimento dell’invaso che crea una pressione che allarga linee di frattura, permette agli agenti atmosferici di creare una spinta contraria su enormi masse e poi una volta che si capisce che la montagna inizia a scivolare viene all’improvviso svuotato facendo letteralmente precipitare gli eventi, è il tratto caratteristico tipico del capitalismo. E’ l’effetto delle sue contraddizioni intrinseche dovute al fatto che il processo di accumulazione è di classe.
Nel caso in oggetto, il primo passaggio fu quello che possiamo chiamare “nascondere la polvere sotto il tappeto”: nascondere cioè la crisi con prestiti domestici che avevano il compito di sostenere la valorizzazione dei capitali delle banche e dei fondi d'investimento, delle società di assicurazioni, del settore edilizio (cioè del complesso chiamato FIRE – Finance, Insurance, Real Estate). Ciò creò un bozzo di polvere che a un certo punto non poté più essere tenuto nascosto e così scoppiò la “bolla finanziaria”, che come tutte le bolle finanziarie sono fatte di pura aria, di puro nulla generato dalla Great Disconnect e come tutte le  bolle finanziarie devono necessariamente scoppiare, così come scoppiò quella dei subprime nel luglio 2007 quando <<tutto l’edificio è cominciato a crollare, pezzo per pezzo, nel corso di episodi di crisi successive, ogni volta più spettacolari. [...] I primi casi di pre-fallimento dovuti a insolvenza sono stati trattati come delle eccezioni. Non lo erano. E’ stato necessario iniettare somme sempre maggiori non più nel sistema di credito come un tutto, ma nel salvataggio di banche anch’esse sempre più grandi>> [11]. 
A Longarone c'era una soluzione, che avrebbe salvato la vita a migliaia di innocenti. Era stata spiegata già tre anni prima dal geologo austriaco Leopold Müller che nel febbraio del 1961 concludeva così la sua perizia: <<La sola misura di sicurezza possibile è l’abbandono del progetto>>. O tre anni dopo, capito cosa stava succedendo, si sarebbe potuta evacuare urgentemente la città. Ma bisognava assumersi responsabilità, bisognava ammettere colpe e inoltre erano soluzioni che costavano, costavano molto. E quindi non furono adottate.
La stessa cosa successe nel 2007. Si gettò la colpa sui piccoli risparmiatori, sui piccoli proprietari, cioè sui truffati e non sui truffatori. Questi ultimi dovevano essere salvati, se non tutti quasi tutti. La scelta dipese, ancora una volta, dalla posizione di potere, dalle amicizie e dalle furbizie. 
Rendersi conto della disconnessione tra le masse di capitale fittizio e quelle di capitale reale voleva dire rendersi conto che l'accumulazione senza fine e senza un fine (che se esistesse sarebbe un fine sociale e non di classe ma, per l'appunto, non c'è) generava impressionanti e insuperabili contraddizioni. O meglio, ai piani alti questo si sapeva da tempo ma, ancora una volta, era una verità indicibile e, soprattutto, ancora una volta, era una verità non agibile. 
Lo Stato si mise allora a gonfiare un'altra bolla, a far fluire denaro fresco non verso il commercio e l’industria (che non potevano garantire profitti adeguati alla necessità di accumulazione) ma verso le imprese finanziarie, un esempio seguito anche dalla parte opposta dell'Atlantico [12]. Le imprese finanziarie che un tempo avevano il compito di fornire nutrimento al commercio e all'industria ora, al contrario, avevano la necessità di succhiarne il sangue fresco per continuare a far vivere un morto. Così, la working class e la middle class man mano si riempirono di deplorables e i distretti dove vivevano e lavoravano divennero una rust belt mentre un capitalismo Nosferatu si ingigantiva, dapprima, tra Reagan e Bill Clinton, mostrandosi al mondo con una nuova sfavillante Belle Époque, in seguito con una lugubre sequenza di guerre, colpi di stato, attentati.
  
L'amministrazione Biden si sta verosimilmente attrezzando a rilanciare questo ciclo per l'ennesima volta, sempre più spaventato perché la bolla di oggi è così gigantesca da far sembrare quella dei subprime un palloncino per bimbi. Rilancerà, quindi, e lo farà proprio mentre Pechino sta finendo i collaudi dello Yuan digitale, destinato a minare il predominio del Dollaro e proprio quando la straordinaria operazione di Jack Ma sui mercati finanziari internazionali è stata fermata dal governo [13]. Un segnale di Pechino che la finanza cinese non ammette intrusioni pericolose da quella putrescente che fa capo alla City of Brexit London e a Wall Disconnected Street. 
Per parafrasare Marx, mentre a Londra e a New York si cerca la pietra filosofale del Great Reset, a Pechino si batte moneta reale (per quanto virtuale possa sembrare) [14].

Piotr

[1]  K. Marx  La guerra civile in Francia. Editori Riuniti, 1977. Prototipo di questa tipologia di intellettuali progressisti era George Sand, proto-femminista, socialista nel 1848 e infine cheerleader dei fucilatori di Comunardi. Il bonapartismo di cui parla qui Marx è quello cresciuto sotto Napoleone III e sopravvissuto alla sua parabola politica.
[2]  https://newrepublic.com/article/160403/brian-deese-blackrock-biden-adviser-climate
[3]  https://www.bloomberg.com/news/articles/2021-01-08/blackrock-s-pyle-picked-as-kamala-harris-s-top-economic-adviser
[4]  https://www.wsj.com/articles/blackrock-emerges-as-wall-street-player-in-biden-administration-11606841207
[5] https://www.military.com/equipment/weapons/why-russias-hypersonic-missiles-cant-be-seen-radar.html
[6] https://www.scmp.com/news/china/military/article/3116674/pla-showcases-missiles-new-years-eve-warning-taiwan
[7] https://www.space.com/china-tianwen-1-mars-orbit-insertion-february-2021
[8] https://www.imf.org/-/media/Files/Publications/covid19-special-notes/en-special-series-on-covid-19-the-disconnect-between-financial-markets-and-the-real-economy.ashx
[9] https://www.ft.com/content/00b4937c-d47b-11e4-8be8-00144feab7de
[10]  Si veda Università degli Studi di Brescia Corso di Pianificazione urbana e territoriale – AA 2008/09 - http://www.amm.unibs.it/content/dav/unibs/ing/900672_3905/Pub/disastri del passato recente.pdf.
[11] François Chesnais, “La recessione mondiale: momento, interpretazioni e poste in gioco della crisi”. Dicembre 2008   http://www.eco.unibs.it/~palermo/PDF/chesnais.pdf
[12] I fondi stanziati nel 2009-10 per il rilancio dell’economia reale negli USA erano il 9,4% di quelli per il salvataggio del settore finanziario, così come in Francia (26 mld di euro contro 360 mld). Il piano per il sistema finanziario della riluttante Germania è stato di 81 mld mentre l’Europa nel suo complesso è arrivata a 400 mld di euro. In Canada il rapporto in miliardi di dollari canadesi è stato di 32 a 200 (cfr. Louis Gill, “All'origine delle crisi: sovrapproduzione o sottoconsumo?” - http://www.eco.unibs.it/~palermo/PDF/gill.pdf). 
[13] https://www.sinistrainrete.info/finanza/19113-giacomo-marchetti-la-moneta-digitale-cinese-cambiera-la-finanza.html?highlight=WyJ5dWFuIl0=

https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/19488-redazione-contropiano-criptovalute-e-crisi-del-dollaro.html?highlight=WyJ5dWFuIl0=

[14] L'idea di Great Reset, che nelle intenzioni dovrebbe essere un antidoto indolore alla Great Disconnect, è l'esito obbligato della constatazione che il processo di accumulazione non può uscire dalla crisi che con una Quarta Rivoluzione Industriale, mentre nella realtà il grosso del commercio e dell'industria si basa ancora essenzialmente sulla Seconda Rivoluzione Industriale. Al di là del fatto che non esistono antidoti indolori alla Great Disconnect, la Quarta Rivoluzione Industriale è centrata, nei piani, sulle nuove tecnologie e tra di esse quelle informatiche. A tal riguardo c'è da notare che il peso economico del settore digitale è percentualmente molto modesto e non sembra poter accrescersi comparativamente in modo veramente significativo. E' molto importante invece il suo ruolo sistemico - e quindi il ruolo politico e ideologico dei suoi possessori e controllori - che è quello del sistema nervoso periferico della società e in parte di quello centrale (nonostante i progressi della cosiddetta AI, bisogna ancora capire se i sistemi artificiali prenderanno il posto di parti del sistema nervoso centrale o se lo affiancheranno e in che modo o se, detto metaforicamente, alcune funzioni del sistema nervoso centrale verranno spostate in quello periferico, concentrando in altri distretti i processi decisionali). Il contenzioso tra Pechino e Jack Ma non può essere ridotto a una questione di alta finanza, ma sono convinto che includa l'ostilità del governo cinese al monopolio privato di parti importanti del sistema nervoso della moderna società cinese.









QUEL MARXISMO RIDOTTO A "TERRAPIATTISMO" 

 
Hosea Jaffe e Gunder Frank, benché esponenti di rilievo del marxismo (sebbene defilati ed “eretici”), hanno avuto il coraggio di puntare il dito contro l’incapacità della maggior parte dei loro compagni di strada (a partire dagli stessi Marx ed Engels) di emanciparsi da una visione eurocentrica. Basti pensare, in proposito, al disprezzo nei confronti delle culture precapitalistiche (liquidate come arretrate e barbare e destinate ad essere “civilizzate” dal capitalismo) che trasuda da certe pagine del Manifesto, o ai giudizi espressi in molti degli scritti raccolti nell’antologia Cina, India, Russia (con l’eccezione di alcuni testi dell’ultimo Marx, nei quali veniva valorizzato e riconosciuto il potenziale rivoluzionario delle comunità di base dei contadini russi). 
Di questo e altri limiti della tradizione marxista occidentale (vedi in proposito gli scritti di Domenico Losurdo) mi sono occupato, assieme all’amico Onofrio Romano, in un recente volumetto pubblicato da DeriveApprodi (Tagliare i rami secchi, 2019). La lettura di un libro di Paolo Perulli (Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo) mi stimola a riprendere il filo di quei ragionamenti. Chiarisco subito che questa non è una recensione, nel senso che il libro in questione – alquanto ambizioso – tocca un ampio ventaglio di problemi che richiederebbero considerazioni più estese di quelle che intendo svolgere in questo scritto, nel quale mi limiterò a esaminare gli aspetti che più hanno sollecitato la mia attenzione critica. 
Parto da una citazione di Marx che ci fa subito afferrare il punto di vista da cui parla l’autore: <<l’universalità verso la quale {il capitale} tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livello di sviluppo faranno riconoscere nel capitale stesso l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza>>. Il passaggio è densissimo. In sostanza vi si dice: 1) che il capitale tende all’universale e che tale tendenza è irresistibile; 2) che il solo ostacolo alla realizzazione della tendenza (cui più avanti viene associata <<l’enorme influenza civilizzatrice del capitale>>)  è immanente al capitale stesso. 
Qui c’è tutto il repertorio di quelli che altrove (vedi sopra) ho definito i rami secchi da tagliare per salvare il nocciolo rivoluzionario del marxismo da certi orpelli filosofici (con riferimento alle influenze storiciste, evoluzioniste, illuministe e positiviste che condizionavano il pensiero dei fondatori). In particolare mi riferisco: all’idea che esista una necessità storica immanente alla formazione sociale capitalistica che la destina a superare tutte le formazioni sociali precedenti e a unificare il mondo sotto le proprie leggi, e all’idea che questa unificazione è il presupposto necessario di un formidabile balzo in avanti sulla via della civilizzazione umana –balzo che avverrà allorché le contraddizioni interne al capitalismo ne determineranno (l’inevitabile) crollo.
Perulli si attiene rigorosamente a questo schema. Per lui l’economia del debito (frutto della convergenza fra i processi di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia, accelerati da e intrecciati con gli effetti della rivoluzione digitale), con particolare riferimento al debito sovrano, è, come recita il sottotitolo, la <<fase estrema>> del capitalismo. Estrema perché  <<il capitalismo finanziario si riproduce mediante l’indebitamento veicolato in prodotti finanziari che deve continuare a produrre illimitatamente , e che a loro volta riproducono debito in una spirale infinita>>, per cui è inevitabile che questa <<cattiva infinità>> esiti nel crollo del sistema. Premesso che la sua analisi dei meccanismi dell’economia del debito, ancorché corretta, non introduce sostanziali novità rispetto ai molti lavori teorici che sono già stati dedicati al fenomeno (mentre mi è parsa deficitaria nella descrizione delle sue radici storiche, ove confrontata con quelle di autori come Arrighi, Samir Amin, Harvey e altri), resta il fatto che non si vede perché tali meccanismi dovrebbero automaticamente portare al crollo (qualcuno, a proposito degli reiterati annunci della fine imminente del capitalismo a causa delle sue contraddizioni interne, ha coniato la battuta <<il capitale ha i secoli contati>>). 
Le ragioni di questa opzione “determinista” si comprendono a mano a mano che, nel corso della lettura, ci rendiamo conto che Perulli è convinto che non esista più nessuna forza esterna in grado di frenare la deriva del sistema. Questa forza non può essere la politica, dacché <<sovrano è proclamato il consumatore (e non il politico)>> (basta che sia proclamato tale perché lo sia effettivamente? Magia della svolta linguistica…). Non possono essere gli Stati che sarebbero ormai controllati, in quanto debitori del capitale privato, dalle agenzie di rating (controllano anche gli Stati Uniti, che le agenzie di rating le hanno inventate per consolidare il loro dominio sugli altri stati nazione?). Non può essere la lotta di classe, perché le classi sociali non si affacciano mai nell’analisi di Perulli, il quale ritiene che il capitalismo si fondi oggi principalmente <<su tipi umani e stili di vita>> e che le nostre società siano abitate <<da due popoli, un popolo del mercato, i creditori dello Stato, e un popolo dello stato, i cittadini contribuenti>>. Non può essere la ragione critica (incapace di preservare le élite dominanti dai rischi mortali connessi all’economia del debito), perché l’etica capitalista – tanto quella individuale quanto quella collettiva, di classe – nella misura in cui lo Stato non è più in grado di imporne gli interessi collettivi,  sarebbe ormai fondata esclusivamente sulla credenza, cioè su quella religione secolare che alimenta la fiducia nel fatto che anche le scelte più rischiose saranno, in un modo o in un altro, premiate dal mercato. Per dirla in parole povere: viviamo in un sistema globale privo di alternative <<che non siano sacche di resistenza e società arretrate in attesa di essere trasformate in senso capitalistico>>.
Come è agevolmente intuibile, secondo questa visione “terrapiattista” del marxismo, che ci presenta un mondo “levigato” dalla fresa di un capitale che <<è unico, è solo, è universale>>, non esiste spazio alcuno per alternative di sorta. È pur vero che, dopo il fallimento del socialismo sovietico, un’alternativa si è presentata con il socialismo di mercato cinese. Ma Perulli non può ammettere che esista un ircocervo come un capitalismo senza capitalisti. L’enigma cinese, come lo chiama – come quegli economisti liberali che si dannano per capire come un sistema che ha introdotto potenti meccanismi di mercato continui a essere governato da uno Stato/partito di tipo socialista – è un inciampo che lo disturba profondamente, e che il nostro tende quindi a rimuovere, classificandolo come un’anomalia che spiega perlopiù con l’influenza, non tanto del marxismo-leninismo sbandierato dal regime, quanto delle tradizioni religiose del confucianesimo, del taoismo e del buddismo. La sua analisi dell’influenza del fattore religioso – che è effettivamente rilevante – appare tuttavia piuttosto superficiale, anche perché - su questo come su altri argomenti - Perulli trascura quello che i politici e gli intellettuali cinesi scrivono della loro realtà, preferendo affidarsi alle analisi occidentali, a partire da quelle – classiche quanto datate -  di Max Weber. 
A dettare la rimozione è il vincolo dell’universalismo eurocentrico, in nome del quale il capitalismo cinese, a prescindere dalle sue peculiarità, deve essere sostanzialmente simile a quello nostrano, altrimenti verrebbero meno le condizioni del crollo globale vaticinato:  simul stabunt simul cadent, Occidente e Oriente sono destinati a sprofondare assieme nel buco nero dell’economia del debito. A onore del vero, la concezione terrapiattista di Perulli non è affatto un caso isolato: di fatto, è condivisa dalla maggioranza dei teorici marxisti, i quali, con poche eccezioni - penso ad autori come Giovanni Arrighi, Samir Amin, Domenico Losurdo, Alvaro Linera e a Polanyi (che però non era propriamente  marxista) – sono assolutamente incapaci di cogliere il rapporto dialettico fra la forza espansiva del capitalismo di matrice occidentale e le reazioni delle società tradizionali investite dal suo impatto. Non capiscono cioè che la relazione non è a senso unico, che se, da un lato, il capitale ha la capacità di adattarsi ad altre forme di vita subordinandole ai propri fini e interessi, le forme di vita in questione (date certe condizioni) sono a loro volta capaci di adattarsi ai rapporti economici di tipo capitalistico, riproducendosi ai margini del mercato o addirittura imparando ad usarlo ai propri fini di autoconservazione. 
Linera (cfr. Forma valor y forma comunidad, Quito 2015) lo ha dimostrato analizzando le dinamiche sociali e politiche che hanno reso possibile la rivoluzione boliviana (ma la sua analisi è estensibile alle altre rivoluzioni bolivariane). Ma il caso più eclatante di questa inversione dei rapporti di forza fra invasore e invaso è indubbiamente la Cina. Perulli è costretto ad ammettere gli strepitosi successi cinesi nel campo della lotta alla povertà (800 milioni di persone sottratte a tale condizione a tempo di record, cui si aggiungono i trenta milioni di posti di lavoro recuperati in poco più di un anno dopo la crisi del 2008) ma li attribuisce, come gli economisti neoliberali, alla uniformazione del sistema cinese alle leggi del mercato, piuttosto che al saldo controllo che lo Stato/partito ha mantenuto sui settori strategici e sul sistema bancario. Un controllo – a proposito della presunta inevitabilità di una crisi del debito in salsa cinese – che ha ricevuto recente conferma con la “decapitazione” di Alibaba e del suo fondatore Jack Ma per aver tentato di introdurre in Cina le pratiche della “finanza casinò”.
E ancora, è costretto ad ammettere che la crisi radicale della democrazia occidentale fa sì che la selezione di una classe politica adottata dal sistema cinese appaia paradossalmente competitiva. Ma attribuisce tale superiorità (che è apparsa schiacciante nel caso della gestione della pandemia) al fatto che mentre le democrazie devono fare i conti con i comportamenti di exit e di voice (qui il nostro fa esplicito riferimento alle categorie elaborate da Hirschman) la Cina non ha questo problema perché non  ammette simili comportamenti, incompatibili con il suo sistema autoritario: <<nel modello del socialismo di mercato, scrive, non esiste autonomia dei livelli inferiori…esiste un costante mutuo adattamento tra due livelli, uno che orchestra ogni cosa e l’altro che si uniforma>>. 
Questa diagnosi è frutto di palese ignoranza dei reali meccanismi di funzionamento del sistema politico cinese, per i quali rinvio alle analisi, fra gli altri, del sociologo canadese Daniel Bell che vive e insegna in Cina da 12 anni (cfr. Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss 2019).  Altrimenti saprebbe: 1) che l’apparato dello Stato/partito cinese è fortemente delocalizzato e ammette ampi margini di autonomia locale; 2)  che prevede significativi spazi di democrazia rappresentativa (900 milioni di cinesi partecipano ad elezioni locali aperte a candidati indipendenti) e consultiva (la Conferenza consultiva politica del popolo ha 3000 membri garantisce una costante interazione fra istanze sociali e potere politico); 3) che il carattere ferocemente selettivo dei processi che consentono l’accesso alle cariche amministrative e politiche (prevede, fra l’altro, anche meccanismi simili ad alcuni di quelli introdotti dalla Rivoluzione culturale, come l’obbligo di servire per un certo periodo in  comunità povere) è orientato a garantire il benessere delle masse, per cui non è un caso se il regime gode di livelli di consenso incomparabili con quelli di qualsiasi nazione “democratica”. Insomma quel mix di marxismo e confucianesimo che Perulli considera come un “residuo”, destinato a essere riassorbito dallo strapotere delle forme di vita capitalistiche, si è viceversa dimostrato come un potente dispositivo per usare il mercato capitalistico a fini totalmente diversi dalla pura accumulazione di profitti. 
Non ho qui il tempo né la voglia per analizzare la pars costruens del saggio di Perulli. Mi limito a dire che allude a una improbabile prospettiva di globalizzazione decentrata (!?) fondata su un nuovo “contratto sociale” (uscire dalla tradizione della filosofia liberale è difficile…) in cui giocherebbero un ruolo determinante fattori quali: i movimenti di protesta verso le imprese che violano certi valori etici, movimenti che dovrebbero/potrebbero favorire le visioni etiche (!?) del capitalismo rispetto alle visioni utilitaristiche; le pressioni e l’influenza dei cittadini/consumatori su certi temi fondamentali (qui si avverte una eco della “democrazia del controllo” teorizzata da Rosanvallon, in cui alla lotta per il potere subentra appunto la lotta per il suo controllo);  l’avvento, dopo il paradigma dell’azione collettiva e il paradigma dell’individualismo, di un paradigma “connessionista”, per cui Perulli rilancia le utopie anarco capitaliste che le prime esperienze sociali mediate dalla Rete avevano alimentato negli anni Novanta (poi spazzate via dal dominio delle grandi piattaforme monopolistiche), riferendosi, fra l’altro, all’utopia dei blockchain che consentirebbero la nascita di “un capitalismo che permette di regolare transazioni fra pari senza la presenza di un’autorità centrale”. Vi risparmio il resto e concludo dicendo che, in sintesi, mi è parsa una summa delle illusioni benecomuniste e alterglobaliste che alimentano la cultura delle sinistre “alternative” da quando hanno abbandonato ogni velleità di superamento politico del capitalismo (tanto crolla da solo…)  
  
 
      

venerdì 8 gennaio 2021


 La presa di Capitol Hill

L'America non è questo. No, l'America è proprio questo


Ascoltato in un talk show su La 7 dedicato all’assalto a Capitol Hill: l’ineffabile Veltroni rilancia il detto (del cui copyright non ricordo in questo momento il detentore) secondo cui l’assalto al Parlamento di Washington starebbe al populismo come la caduta del Muro di Berlino sta al comunismo, nel senso che entrambi gli eventi segnerebbero il culmine di una parabola, inaugurandone al tempo stesso l’inevitabile curva discendente. Dopo l’articolo di Aldo Cazzullo, che qualche giorno fa si è avventurato a celebrare l’inizio di una fase di “normalizzazione”, questo è un secondo esempio degli sforzi con cui le élite occidentali si impegnano a sostituire le loro speranze alla realtà. 
Che il primo populismo (sia nelle varianti di destra che in quelle di sinistra) stesse esaurendo la sua spinta propulsiva era chiaro a chiunque dotato di un minimo di capacità analitica. A sinistra, movimenti come Podemos, France Insoumise, l’M5S (benché in quest’ultimo caso sinistra suoni come una parola grossa) e le ali di sinistra del Labour inglese e dei Dem americani, si sono lasciati irretire dalle sirene liberali, accogliendone l’invito a fare fronte comune contro il pericolo “fascista” (scambiare i populismi di destra con il fascismo storico è stato possibile perché la cultura delle sinistre è succube del pensiero di autori come Foucault, Deleuze e Guattari, i quali hanno de storicizzato il fascismo, derubricandolo a categoria psico-antropologica), perdendo autonomia e capacità egemonica. A destra, i trumpismi di ogni tipo hanno a loro volta esaurito la propria funzione di falsa alternativa alle politiche neoliberiste dopo essere andate al governo, dove hanno dimostrato la loro incapacità di fare meglio (e facendo se possibile peggio) delle élite tradizionali, e perdendo così l’effimera egemonia che si erano conquistate grazie all’inettitudine delle sinistre.
Questo vuol dire che le contraddizioni che hanno generato il primo populismo sono superate o in via di superamento? Assolutamente no. La crisi pandemica, che si è sovrapposta ai postumi della crisi del 2008, sta generando condizioni ancora più drammatiche per le classi subalterne del mondo intero (escluse quelle della Cina, che ha agevolmente assorbito l’impatto dell’epidemia, e quelle di altri Paesi non occidentali, che ne sono stati meno colpiti): la miseria e i livelli di ineguaglianza aumentano a ritmi vertiginosi, assieme alla rabbia per il disastro dei sistemi sanitari e scolastici e , in generale, di tutti i servizi pubblici, falcidiati da decenni di tagli e privatizzazioni. Le élite tradizionali di centro, destra e sinistra possono (e soprattutto vogliono) offrire soluzioni radicali a queste sfide? La risposta è ancora: assolutamente no. Non possono perché la crisi ha eroso drammaticamente i loro margini di manovra in materia di politica economica. Non vogliono perché, per riuscirci, dovrebbero compiere scelte (nazionalizzazioni, colossali investimenti pubblici in deficit, politiche espansive sul piano salariale e occupazionale, ecc.) tali da mettere in discussione tutti i vantaggi accumulati in decenni di “guerra di classe dall’alto”. Quindi, nella misura in cui ritengono di non correre più il pericolo di perdere il controllo, si limiteranno a tornare a gestire l’esistente: business as usual.   
Purtroppo per loro (e per noi) questa fiducia è illusoria. L’assalto al tempio della “democrazia” Usa è solo l’ultimo di una serie di eventi (basti pensare all’assedio dei gilet gialli alla capitale francese, interrotto solo dalla crisi pandemica, o alle guerre commerciali e diplomatiche che segnalano il ritorno della guerra di tutti contro tutti che caratterizza le nuove relazioni fra grandi e medie potenze) che certificano come la crisi del sistema capitalistico fondato su globalizzazione, finanziarizzazione ed economia del debito stia ormai investendo anche le stesse istituzioni liberal democratiche, palesemente incapaci di ottenere l’indispensabile consenso e legittimazione popolari. Gramsci avrebbe detto che siamo in una situazione in cui le élite dominanti, non più in grado di esercitare egemonia, devono accontentarsi di esercitare il dominio. In passato ciò ha voluto dire ricorrere al fascismo. Oggi è stato il populismo di destra a svolgere la funzione di deterrente e ruota di scorta, ma il suo fallimento riduce ulteriormente i margini di manovra delle élite (costrette a reggersi quasi esclusivamente sui servigi delle “sinistre” convertite al liberalismo). E Lenin avrebbe detto che siamo in una situazione “oggettivamente” rivoluzionaria, aggiungendo tuttavia che mancano soggetti politici capaci di trarne profitto (per questo poco sopra scrivevo purtroppo anche per noi e non solo per loro, perché queste sono situazioni in cui l’assenza di vie di uscita può generare catastrofi). 
Ma torniamo ai fatti di Washington. Parto da due aspetti che l’amico Andrea Zhok ha messo in luce in altrettanti post sul suo profilo Facebook  https://www.facebook.com/andrea.zhok.5 : 1) la violenza quale fattore strutturale della politica americana; 2) il cieco atteggiamento delle élite democratiche benpensanti di fronte al popolo sporco, brutto e cattivo. La “novità” dell’invasione di Capitol Hill è puramente mediatico-spettacolare perché di simili eventi è punteggiata l’intera storia americana. Una storia che si potrebbe descrivere come una lunga, ininterrotta guerra civile che, per motivi antropologico-culturali  e storico-geografici (la giovane età in quanto nazione, le dimensioni subcontinentali, la disponibilità illimitata di terra e risorse strappate ai nativi nella fase iniziale, la popolazione cresciuta per successive ondate migratorie da tutti gli altri continenti e appesantita dall’onta dello schiavismo e del successivo apartheid, ecc.) non ha assunto la forma della lotta di classe come in Europa, bensì quella di una selvaggia guerra per bande (fra mafie etniche, fra boss locali e nazionali, fra lobby industriali e finanziarie, fra categorie professionali, fra corpi di polizia statali e federali, ecc.). Il film Gang of New York di Scorsese è forse il quadro più fedele di come funziona una “democrazia” che, quando il conflitto supera certe soglie, non esita a ricorrere all’assassinio politico (dai fratelli Kennedy a Malcolm X). 
Quanto al secondo punto mi limito a citare quanto scrive Zhok perché non saprei dire meglio: <<Che di volta in volta l'elezione di qualche bruto sgrammaticato non rappresenti una soluzione, e finisca nel fango, non costituisce proprio nessuna consolazione (salvo che per i quaquaraquà dell'informazione di regime). Perché i bruti sgrammaticati e le plebi senza speranza, le famiglie disfunzionali e i patetici terrapiattisti, i seguaci di sette improbabili e di milizie terroristiche tutti questi sono coltivati accuratamente da quel sistema che sorride impomatato a sessantaquattro denti da programmi politicamente corretti, dal sistema che mette in piedi riti elettorali dove si sceglie tra i soliti inutili noti, dal sistema che esiste solo per autoperpetuare il potere del denaro e dei suoi cultori. Se il "popolo fa schifo", cari i miei "democratici", questo non è una ragione per compiacersi della propria benpensante superiorità, ma è il segno di un fallimento epocale, il vostro>>. 
Aggiungo solo che è illusorio pensare che la sconfitta di Trump e il “ritorno all’ordine” dopo questa effervescenza preludano a una svolta radicale nelle politiche del regime. Non concedendo nulla alla sinistra di Sanders e Ocasio-Cortez, Biden ha già fatto capire che non intende mettere in questione le politiche economiche che favoriscono il grande capitale finanziario, né pensa di concedere alcunché in termini di riforma sanitaria, accesso gratuito ai livelli di istruzione superiore, ecc. Continuerà certo a parlare il gergo politically correct per grattare la pancia a femministe e Lgbt, quanto ai neri: tutti hanno giustamente  osservato che, se a manifestare fossero stati i militanti di Black Lives Matter, la polizia avrebbe ucciso decine di persone, mentre tutti abbiamo visto i poliziotti compiacenti che toglievano le transenne per agevolare l’accesso al palazzo agli esagitati trumpiani. Ma credete che le cose cambieranno, che le decine di migliaia di poliziotti razzisti e di estrema destra che formano le “forze dell’ordine” americane saranno licenziati o indotti a smettere di uccidere i neri? 
E allora? Il nodo centrale resta (non solo per gli Stati Uniti ma per l’intero Occidente) quello della rappresentanza. La democrazia liberale fallisce perché non è più in grado di garantire rappresentanza politica agli interessi e ai bisogni della sterminata massa di perdenti, esclusi ed emarginati, proletari, sottoproletari, disoccupati e sotto occupati, indebitati, immiseriti, generati da quarant’anni di regime neoliberista e ai quali la pandemia sta dando il colpo di grazia. Non è quindi improbabile che morto un Trump se ne faccia un altro, che il suo popolo cerchi e trovi rappresentanza in qualche tipo di scissione di un Partito Repubblicano in ginocchio. 
E la sinistra, o quel che ne resta? Se resterà impigliata nell’alleanza con i liberali “progressisti” in posizione subalterna, non ha futuro. Già ha visto fallire lo sforzo di Sanders (come dei vari Iglesias, Corbyn e Mélenchon) di costruire un blocco sociale che rinsaldasse le masse proletarizzate ai ceti medi riflessivi (e hanno fallito perché, con l’alleanza di cui sopra, hanno perso presa sulle masse proletarizzate restando con i soli ceti medi “riflessivi”). 
L’unica via di uscita sarebbe rompere con i Dem e fondare un nuovo partito (sarebbe bello assistere a una competizione elettorale a quattro che sconvolgerebbe il dispositivo bipartitico made in Usa – che non a caso piace anche ai liberali nostrani – studiato su misura per negare rappresentanza politica agli ultimi) con l'obiettivo di contendere  alla destra l’egemonia sulle spinte sociali antisistema. Se non avrà il coraggio di farlo, non solo non riuscirà a cambiare le cose, ma rischia di fare la stessa fine della II Internazionale che fu complice della I Guerra Mondiale. Già perché, se la guerra civile permanente in America dovesse inasprirsi ulteriormente, l’unica via di uscita sarebbe puntare il dito (e il fucile) su un nemico esterno (del resto sta già facendo da tempo, orchestrando una violenta campagna anticinese che Biden pare deciso a condurre ancora più decisamente di Trump). E le “sinistre” occidentali non sembrano lontane dall’aderire a questo richiamo alle armi, come denuncia un preoccupato articolo del Qiao Collective https://www.qiaocollective.com/en/articles/what-does-critique-do?fbclid=IwAR3dQtqs43RW4xUv8qOotfZEtpMxFcT6vlX2jtsaLu9YD7kDfVKR1Ic5qhE . 
Chiudo segnalando, in tema di venti di guerra, un boxino non firmato del Corriere dell’8 gennaio, dedicato alle reazioni internazionali. Già il titolo dice tutto: “La condanna di Merkel e il silenzio del nemico Xi”, ma nel testo troviamo di peggio: <<Il suo (di Xi Jinping) ministro degli esteri osa parlare di doppio standard della comunità internazionale che sostiene i  manifestanti di Hong Kong>>.  Qui a osare è piuttosto l’anonimo redattore che ha partorito questa buffonata, ove si consideri che l’intera informazione occidentale sulla Cina è vergognosamente ispirata al principio del doppio standard: da ex docente di sociologia della comunicazione mi piacerebbe condurre una piccola ricerca confrontando gli spazi che vengono dedicati alle “malefatte” del regime di Pechino (o dei regimi venezuelano, cubano, nordcoreano, ecc.) con quelli riservati alle magagne dei regimi liberal democratici.          
    

 

lunedì 4 gennaio 2021


 QUANDO IL LAVORO E' "MORALMENTE CATTIVO" 

L'alienazione secondo Rahel Jaeggi


Rahel Jaeggi è una filosofa di origine svizzera che insegna a Berlino. Esponente della quarta generazione della Scuola di Francoforte (allieva di Axel Honneth) è conosciuta anche come teorica femminista - non assimilabile alle correnti del femminismo “emancipazionista”, come si evince da un recente libro che contiene una sua lunga conversazione con Nancy Fraser (Capitalismo, Meltemi Editore). Nel saggio breve “Patologie del lavoro” (testo che ho già segnalato sul mio profilo Facebook https://www.sinistrainrete.info/teoria/12285-rahel-jaeggi-patologie-del-lavoro.html?fbclid=IwAR2W9D9GD-8o6E0Xj0HoObMqnhizkgpnMOpXl7ZYsgsM7CfKHXNeizVNmKI ), uscito su Women’s Studies Quarterly  e, in versione italiana, su Consecutio Rerum, la tematica femminista è tuttavia evocata solo marginalmente mentre, come certifica il titolo, il focus è su quelli che l’autrice definisce <<gli sviluppi sociali aberranti del lavoro>>.
Credo che sia utile chiarire preliminarmente che qui il concetto di lavoro non coincide con quello utilizzato da Marx nei suoi scritti fondamentali. La Jaeggi prende piuttosto le mosse da una frase di Hegel, in cui si afferma <<possiamo dire che il lavoro equivale a condividere, partecipare o prender parte alle risorse generali della società>>, dopodiché specifica ulteriormente che, per risorse, intende ciò che una determinata società ha raggiunto in termini sia di ricchezza che di competenze. Il lavoro, aggiunge, consente a ognuno di condividere le risorse della società <<anche perché consente di condividere il sapere nel suo evolversi e il know how di una società>>.
Dicevo prima che siamo se non lontani, decentrati rispetto al concetto marxiano di lavoro. Infatti dalle frasi appena evidenziate, è evidente che qui il lavoro viene concepito a partire dall’alto dell'astrazione, piuttosto che dal basso della materialità del processo produttivo. Si potrebbe dire che si parte dal general intellect, piuttosto che approdarvi come all’esito dell’evoluzione di uno specifico modo di produzione. Del resto la Jaeggi chiarisce che oggetto della sua indagine non è il lavoro retribuito, e non solo perché le preme ribadire la piena appartenenza all’ambito lavorativo sociale del lavoro femminile non retribuito, ma anche perché la sua è una prospettiva filosofico-antropologica che si basa su concetti che si propongono di trascendere i rapporti di produzione specificamente capitalistici. 
Da un lato, tutto ciò è in linea con il pensiero del suo mentore Axel Honneth, nella misura in cui costui si propone di integrare il tema marxiano dello sfruttamento con il tema del riconoscimento, introdotto dalle culture post marxiste (femminismo, post colonialismo, ecc.), dall’altro lato, comporta uno slittamento da un punto di vista “oggettivo” a un punto di vista “soggettivo” nell’analisi delle patologie del lavoro. Non è importante solo un lavoro senza sfruttamento, ma anche un lavoro senza alienazione, scrive Jaeggi, dal che si intuisce che intende suggerire una visione più ampia del concetto di alienazione. 
A questo punto è bene precisare che intendo sospendere qualsiasi considerazione critica nei confronti di questo approccio, limitandomi a considerare che, a mio parere, mettere fra parentesi la dimensione “oggettiva” dell’alienazione come sfruttamento capitalistico (separazione del produttore dai mezzi di produzione, perdita di controllo sulla propria attività, ecc.) impedisce di cogliere, fra le altre cose, alcuni radicali mutamenti del modo di produzione indotti dalla rivoluzione digitale - mutamenti relativi al rapporto fra plusvalore relativo e assoluto, lavoro produttivo e improduttivo, “lavoro del consumatore”, rapporto fra tempo di lavoro e tempo di vita ecc. di cui mi sono occupato in lavori di qualche anno fa, come Felici e sfruttati (Egea Editore). Ciò detto ritengo che il contributo di Jaeggi sia importante nella misura in cui ha il merito di evidenziare la “multidimensionalità” dell’alienazione, mettendola in relazione a fenomeni quali la precarizzazione del rapporto di lavoro, il venire meno delle aspettative legate alla “emancipazione” dal lavoro dipendente (tipiche delle ideologie degli anni Settanta), la disumanizzazione del lavoro in alcuni settori produttivi (in particolare nei servizi) e la disoccupazione. 
Sulla condizione patologica del disoccupato non è necessario spendere troppe parole: la sua condizione è infatti quella dello “scarto” sociale, del superfluo, dal momento che - e qui Jaeggi torna a rivolgersi a Hegel – il valore e la dignità stessa dell’individuo sono mediati dal lavoro che, oltre a definirne la posizione e il ruolo sociali – l’identità - ne garantisce il riconoscimento in quanto persona. Questo presupposto è negato da chi – come i teorici post operaisti – a partire dagli anni Settanta e da un’ideologia “post lavorista”, rifiuta totalmente questa identificazione fra attività lavorativa ruolo sociale. Jaeggi non entra direttamente in polemica con questa visione – che nemmeno cita – ma la smonta di fatto,  ragionando sulla parabola del lavoro autonomo che, a partire dagli anni Settanta, è stato assunto da alcuni strati professionali – i cosiddetti “creativi” (anche se Jaeggi non usa questa definizione) – come sinonimo di “autocoltivazione” (“autovalorizzazione” nel linguaggio negriano), di una visione bohémien dell’attività lavorativa come libertà e creatività.
La torsione in senso liberale (e individualista!) che il capitalismo ha impresso a questa ideologia - vedasi le analisi di Boltanski e Chiapello ne Il nuovo spirito del capitalismo (Mimesis) e di Dardot e Laval ne La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi) – ma soprattutto l’uso che è riuscito a farne per ristrutturare i processi lavorativi ad elevato contenuto professionale, <<non hanno portato all’abolizione dell’alienazione bensì a un suo sviluppo paradossale>>. Una forma di alienazione che si manifesta attraverso la insostenibile pressione ad autopromuoversi, a competere (perversione della ricerca di riconoscimento); il timore di fallire, associato alla celebrazione dell’auto imprenditorialità e delle connesse ideologie che esaltano il rischio e la responsabilità individuali; nonché la perdita di qualsiasi capacità collettiva di agire. 
Credo che una parte ancora più interessante dell’analisi sia quella che si concentra sui lavori più ripetitivi, dequalificati e privi di attrattiva. Caratteristiche che Jaeggi associa in particolare ai lavoratori del settore dei servizi, precari, sottopagati, super sfruttati - che non sono esclusivamente né prevalentemente donne, come sembra ritenere, riferendosi per esempio alle imprese di pulizia; basti infatti pensare alla gig economy – Uber, i runner dei vari servizi di consegna a domicilio – o alla logistica – Amazon, Ikea – dove la percentuale di forza lavoro maschile è elevata. In ogni caso la sua analisi parte dal seguente assunto: gli individui hanno ricche e intense aspettative riguardo alle loro condizioni di lavoro che possono essere (e quasi sempre sono, aggiungerei io) deluse. 
Queste aspettative, che avevano trovato espressione nel ciclo di lotte sindacali degli anni Settanta e nelle sue rivendicazioni, appaiono oggi frustrate dalle nuove condizioni lavorative che vigono nei settori appena evocati. E tuttavia, e trovo che questa sia la considerazione più originale e stimolante, i lavoratori conservano un disperato desiderio di identificazione con il proprio lavoro anche nelle condizioni più difficili. È evidente come questa tesi rovesci le analisi in cui si sostiene che la combattività dell’operaio comune, condannato a un lavoro ripetitivo, massacrante e privo di ogni attrattiva, nasceva principalmente dal suo totale rifiuto di identificarsi con la propria attività (che nella narrazione ideologica si trasformava in rifiuto del lavoro tout court).  Viceversa Jaeggi ci dice che spegnere il desiderio di identificarsi con il proprio lavoro è impossibile, e che la sofferenza – l’alienazione – cresce proprio perché diventa più difficile tale identificazione. Quindi la rabbia e la frustrazione nei confronti di un lavoro percepito come moralmente cattivo, non si traduce in rifiuto del lavoro in generale, bensì in richiesta di un lavoro buono
A conclusione di questa breve recensione – che non fa giustizia alla complessità del testo della Jaeggi, di cui mi sono qui limitato a evidenziare alcuni aspetti – vorrei sollevare un interrogativo che riguarda le prospettive di una società socialista rispetto al tema dell’alienazione. Una volta concesso che l’alienazione è una condizione che non può essere ricondotta esclusivamente allo sfruttamento economico (ciò di cui, sia detto per inciso, era perfettamente consapevole anche Marx), e che essa presenta numerosi volti e sfaccettature che chiamano in causa anche i temi del riconoscimento, e che – aggiungerei – va analizzata tanto sul piano oggettivo (collettivo) quanto sul piano soggettivo (individuale), è lecito attendersi che una futura società socialista possa liberarcene definitivamente? Personalmente condivido l’opinione espressa da Samir Amin che, nei suoi ultimi scritti, invitava ad abbassare le pretese , sostenendo che il socialismo riuscirà forse a emancipare l’umanità dallo sfruttamento, ma assai difficilmente la libererà da altre facce dell’alienazione connaturate alle nostre caratteristiche di specie (a partire dalla dipendenza dalle protesi tecnologiche). Detto altrimenti: è vero che l'identità umana è modificabile in quanto culturalmente determinata, ma non è infinitamente modificabile né è del tutto culturalmente determinata.              


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