Lettori fissi

domenica 12 ottobre 2025

Il Capitale fra ontologia e storia.
Alle radici della scissione fra marxismo occidentale 
e marxismo orientale




Due parole sulle curiose origini di questo post


Non ho mantenuto la promessa di qualche settimana fa. Dopo l’interruzione estiva, scrivevo, il flusso dei post tornerà regolare. Il protrarsi della pausa è dovuto a problemi di salute (la vecchiaia non perdona) e a scadenze editoriali (il lavoro a due mani che io e Alessandro Visalli stiamo scrivendo uscirà nell’estate del 26, ma Meltemi vuole i manoscritti entro due mesi e il succedersi degli eventi impone aggiornamenti. Però nei prossimi giorni usciranno due libri (Arlacchi sulla Cina e Pappé su Israele) che mi impegno a recensire (nel post su Arlacchi mi occuperò anche di certe perle regalateci dai marxisti nostrani sulla Cina). 

Restando in tema di marxismo nostrano, segnalo un curioso evento. Diversi mesi fa vengo invitato a un convegno sul pensiero di Marx. Accetto l’invito e, dal momento che Meltemi mi chiede di raccogliere in un volumetto gli articoli sul II e III Libro del Capitale pubblicati su questo blog, ne approfitto per approfondire certe riflessioni suggeritemi dalla loro rilettura. Invio il titolo (quasi uguale a quello che leggete sopra) agli organizzatori, ma chi mi aveva invitato (si dice il peccato ma non il peccatore) mi scrive che si scusa ma non sono stato inserito nel programma a causa:“della tardanza con cui mi ha comunicato il Suo titolo intrecciatasi perversamente con la mia dimenticanza nel sollecitarLe l’invio del titolo” (sic). Ricordate il detto“a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca”?

Mi viene da sorridere ricordando la battuta con cui gli amici di Ottolina Tv mi hanno presentato a un evento del mese scorso (“il più odiato dei marxisti italiani”). Temo di dovermi preparare a subire gli esorcismi di cui fu oggetto Costanzo Preve, benché non mi sia mai abbandonato, né intenda abbandonarmi, a certe sue intemperanze, provocate dall’amarezza di essere stato scomunicato dall’italica mediocrità “di sinistra”. 

Me ne faccio una ragione: non si può essere al tempo stesso eretici e amati, per cui certe situazioni vanno prese con ironia e non con stizza. 

Questo siparietto è giustificato dal fatto che gli appunti pubblicati qui di seguito altro non sono che la “scaletta” dell’intervento che avrei fatto al convegno di cui sopra. Prendeteli per ciò che sono: un primo abbozzo di temi che verranno trattati nel saggio sul II e III Libro del Capitale.



A mò di premessa


Nel 1984 Costanzo Preve pubblica quella che personalmente considero il suo lavoro più importante: La filosofia imperfetta (1). In quel testo avanza la tesi secondo cui nell’opera di Marx convivono tre regimi narrativi: grande narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale. Critica i primi due, nella misura in cui a suo avviso rispecchiano, sia pure in forma diversa (2), una visione immanentista della storia, che viene presentata come un processo direzionato verso l’esito predeterminato della transizione dal modo di produzione capitalistico al sistema dei produttori associati. Esalta al contrario il terzo, sul quale è possibile fondare una ontologia del lavoro umano. 


Preve mutua esplicitamente quest’ultima tesi dalla Ontologia dell’essere sociale (3), il capolavoro dell’ultimo Lukács. Questo riferimento di Preve a Lukács rappresenta tuttavia un paradosso: in molte delle proprie opere, Preve scrive di considerare il pensiero di Marx interno alla tradizione dell'idealismo tedesco; viceversa Lukács, nell’ultimo decennio di vita, autocritica in varie occasioni la propria opera giovanile, Storia e coscienza di classe (4), definendola idealista e “più hegeliana di Hegel”, mentre nei quattro volumi della Ontologia rilegge l’intera opera di Marx come una ontologia materialista, fondata sul concetto di lavoro come ricambio organico uomo-natura (secondo Lukács non è possibile capire Marx se si esamina l’economia esclusivamente a partire dalla forma storicamente determinata che essa ha assunto nella fase capitalistica, rimuovendone il carattere ontologico di ricambio uomo-natura).


L’ipotesi che avanzo qui in forma provvisoria, da approfondire in future riflessioni, è che questa “convergenza divergente” – per usare un brutto ossimoro – fra i punti di vista di Preve e Lukács è spiegabile a partire dalla compresenza di due linee di ricerca nell’analisi marxiana del Capitale, che potremmo definire, rispettivamente, idealtipico (preferisco usare questa definizione weberiana all’aggettivo metafisico, che rischia di generare confusione) e storico. La marxologia ortodossa non distingue fra questi due punti di vista, che considera due facce della stessa medaglia epistemica, cioè di un “metodo” marxiano concepito come un tutto monolitico, laddove io ritengo che si tratti di due linee che, se è forse eccessivo definire parallele, sicuramente non convergono mai fino a sovrapporsi completamente. 


Non pretendo di dimostrare una tesi tanto complessa quanto provocatoria nello spazio limitato di questo breve abbozzo. Mi limito perciò a fare alcuni esempi di ciò che intendo a partire da alcune citazioni dal II e III Libro del Capitale. Ma prima ritengo utili un paio di premesse. La prima è un’affermazione di Lukács nella quale si sostiene che l’unica vera scienza riconosciuta da Marx è la storia (5), affermazione inserita nel contesto di un discorso nel quale Lukács critica le interpretazioni scientiste ed economiste del pensiero marxiano, sostenendo che quest’ultimo, in quanto filosofia della prassi, non ha la pretesa di definire le leggi universali dello sviluppo sociale. La seconda è la critica che lo stesso Marx, in una lettera del 1877 (6) , rivolge al recensore dell’edizione russa del Capitale. Eccola: “[il mio critico] sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica si trovino (sottolineature mie), per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto [sottinteso: troppo onore nell’attribuirmi la capacità di descrivere le leggi generali di sviluppo dell’umanità, troppo torto nell’attribuirmi intenzioni e meriti che non ho mai nutrito né rivendicato]”. 


Mente corrobora la sopra citata tesi di Lukács, questo passaggio, come cercherò di dimostrare, è in contraddizione con quanto Marx scrive in alcune parti del Capitale



Primo esempio


Marx attribuisce al capitale mercantile un duplice ruolo. Da un lato, il suo sviluppo è una fondamentale premessa storica della nascita del modo di produzione capitalistico: “ [sia] come presupposto della concentrazione di patrimoni monetari, sia perché il modo di produzione capitalistico postula produzione per il commercio, vendita all’ingrosso e non ai singoli clienti” (7). Dall’altro lato, gli effetti della “forza centripeta” del capitale mercantile consistono: “nella tendenza a convertire ogni produzione in produzione di merci, il che implica la trasformazione di tutti i produttori immediati in operai salariati”. E qui siamo nel campo della costruzione di un modello astratto. La tesi di Marx è che il capitale mercantile, attirandole nel proprio processo di circolazione, converte ogni produzione in produzione di merci. Vediamo il ragionamento. “Qualunque sia il modo di produzione sulla cui base si producono i prodotti che entrano come merci nella circolazione – la comunità primigenia o la produzione schiavistica, la produzione a opera di piccoli contadini e piccoli artigiani o la produzione capitalistica -, ciò nulla cambia al loro carattere di merci; e come merci essi devono attraversare il processo di scambio e i mutamenti di forma [cioè M-D e D-M] che lo accompagnano” (8). Il mercato, la possibilità che i prodotti del lavoro umano assumano forma di merce, pre esiste dunque al modo di produzione capitalistico, ma nella misura in cui la merce diviene capitale-merce essa si converte in un acido corrosivo che dissolve tutti gli altri modi di produzione “Via via che questa [la produzione capitalistica di merci] si sviluppa, esercita effetti disgreganti e dissolventi su ogni forma di produzione anteriore, che, avendo soprattutto di mira i bisogni personali immediati, non trasforma in merce che l’eccedenza del prodotto”(9).


In ragione di tale approccio, storia come processo reale e “leggi” storiche (intese come categorie interpretative delle dinamiche che sottostanno al processo reale), si appiattiscono l’una sulle altre, il che implica che, nella definizione stessa del concetto marxiano di modo di produzione capitalistico è inscritta la necessità della sua universalizzazione, della sua estensione a livello mondiale. Partendo dall’analisi concreta del processo storico, siamo approdati alla inscrizione di un principio teleologico all’interno di tale processo. Il punto è che il paradigma in questione è stato smentito dalla storia reale, la quale non ha prodotto un mondo in cui esiste unicamente il modo di produzione capitalistico, bensì un mondo in cui ne esistono molti. 


Ciò che si è generalizzato (ad eccezione di residui di economia di autosussistenza) è l’economia di mercato. Quindi solo ponendo l’equazione economia di mercato=capitalismo (errore in cui cadono molti marxisti) si può sostenere che il modello teorico di Marx ha ottenuto conferma. Viceversa, sia la monumentale opera di Fernand Braudel (10), sia una lunga serie di contributi teorici in campo marxista - vedi Lenin sull’imperialismo; Baran e Sweezy sul capitale monopolistico (11); Myrdal sul concetto di scambio ineguale (12); gli afromarxisti (13) e la scuola della dipendenza (14) – hanno dimostrato che l’esistenza di altri modi di produzione è condizione fondamentale di sopravvivenza per un modo di produzione capitalistico che si è fondato fin dall’inizio, e si fonda sempre di più, sullo sfruttamento imperialistico dei popoli e delle nazioni del Sud del mondo. 



Secondo esempio 


Il secondo esempio si riferisce alla contraddizione fra la definizione (idealtipica) del capitale industriale come modalità di esistenza matura e compiuta del capitale e la presa d’atto (storico concreta) dell’autonomizzazione del capitale denaro (banche, finanza, ecc.) dal capitale industriale.  Nel capitolo I del II Libro leggiamo: “Nella misura in cui esso [il capitale industriale] si impadronisce della produzione sociale (…) le altre specie di capitale non gli vengono soltanto subordinate e in conformità modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi, insieme alle quali vivono e muovono, stanno e cadono. Capitale denaro e capitale merce (…) non sono ormai più che modi di esistere (...) delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste ed ora depone nella sfera della circolazione” (15). 


Ma poi c’è il controcanto. Posto che l’autonomizzazione del capitale denaro in sfera d’affari indipendente (banche, capitale finanziario, assicurazioni, ecc.) è conseguenza, spiega Marx, del fatto che, per consentire al ciclo riproduttivo del capitale sociale di svolgersi senza intoppi,  una data parte del capitale deve sempre essere presente come tesoro, capitale denaro potenziale, in tale veste di capitale possibile “esso diviene merce sui generis, il capitale come capitale diventa merce”. Dopodiché si approda al rovesciamento del rapporto fra capitale industriale e capitale finanziario: “la forna D-D’(…) esprime nel modo più concreto il vero motivo animatore della produzione capitalistica (…) Il processo di produzione appare solo come inevitabile anello intermedio, male necessario allo scopo di far denaro” (16). 


E nel III Libro leggiamo: “nel fatto che persino l'accumulazione dei debiti possa apparire come accumulazione di capitale, si manifesta in forma estrema il capovolgimento che ha luogo nel sistema creditizio” (17). Così l’egemonia “idealtipica” del capitale industriale va a farsi benedire, mentre trova conferma la tesi di Braudel sulla differenza fra il piccolo produttore che si specializza e il capitalista che non si specializza mai, investendo di volta in volta laddove esistono le condizioni per realizzare i profitti più elevati. Insomma: sono state le specifiche condizioni dell’epoca in cui viveva, a indurre Marx a considerare il capitale industriale come forma compiuta, modello ideale realizzato del modo di produzione capitalistico, dopodiché lo sviluppo storico concreto ha falsificato l'analisi fondata sul modello astratto.



Terzo esempio

Nel capitolo XXII del III Libro troviamo un fondamentale passaggio in cui si descrive come il capitale finanziario e i suoi agenti si erigono a rappresentanti del capitale sociale, mentre il singolo capitalista decade a funzionario del suo stesso capitale: “con lo sviluppo della grande industria, il capitale denaro, in quanto si presenta sul mercato, tende sempre più a non essere rappresentato dal singolo capitalista, proprietario di questa o quella frazione del capitale reperibile sul mercato, ma ad intervenire come massa concentrata, organizzata, che soggiace, ben altrimenti dalla produzione reale, al controllo dei banchieri rappresentanti del capitale sociale” (18). 


Ancora più interessante un brano del capitolo XXXVI nel quale Marx scrive che il carattere sociale del capitale è integralmente realizzato solo dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario, il quale: “mette a disposizione dei capitalisti industriali e commerciali tutto il capitale disponibile e perfino potenziale, non impegnato già attivamente, della società, cosicché né chi presta né chi impiega questo capitale ne è proprietario o produttore” (19), e subito dopo: “Con ciò, esso sopprime il carattere privato del capitale e contiene in sé, ma anche soltanto in sé, la soppressione del capitale stesso”, frase cui segue, nella pagina seguente, un’affermazione ancora più radicale in merito al ruolo (oggettivamente) rivoluzionario del capitale finanziario: “non v’è dubbio che il sistema creditizio servirà da leva potente durante il passaggio dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato”. 


Malgrado la precisazione: ciò avverrà “solo come un elemento in connessione con altri grandiosi rivolgimenti del modo di produzione stesso”, è evidente come Marx sia convinto che le trasformazioni associate allo sviluppo del grande capitale industriale e finanziario si possono descrivere come “la soppressione del modo di produzione capitalistico entro i confini del modo di produzione capitalistico”, nella misura in cui rappresentano “la proprietà privata senza il controllo della proprietà privata” (20). 


Riemerge dunque la visione teleologica e immanentista del processo storico criticata da Preve (vedi sopra), visione che, dalla II Internazionale in poi, è stata fatta propria da quel marxismo occidentale che concepisce la transizione al socialismo come processo spontaneo, come “soppressione del modo di produzione capitalistico entro i confini del modo di produzione capitalistico”, per parafrasare le parole di Marx appena citate. Contro tale visione è nato, a partire da Lenin, quel marxismo orientale che, al contrario, concepisce la rivoluzione come esito di un progetto politico, come discontinuità radicale del processo storico (il benjaminiano “balzo di tigre”). 



Due postille


Uno. Appartengono al paradigma “evoluzionista” del marxismo occidentale anche alcune correnti teoriche radicali che inorridirebbero nel sentirsi paragonare alla visione della II Internazionale. Mi riferisco, in particolare, al concetto di “tendenza” che ispira il pensiero operaista e post operaista, concetto che ha avuto la sua formulazione più paradossale nella tesi in base alla quale esisterebbe un “comunismo del capitale” (21) che contiene in sé tutti i presupposti della transizione al sistema dei produttori associati.


Due. La superiorità del comunismo orientale sul comunismo occidentale è attestata dal fatto che, a un secolo e mezzo dalla pubblicazione del Capitale, non si è verificata nessuna rivoluzione socialista nei Paesi che l'ortodossia identifica come il loro contesto “naturale”, cioè i Paesi industrialmente avanzati. Le sole rivoluzioni socialiste si sono verificate nei Paesi “sottosviluppati”, anche e soprattutto grazie a riletture creative della teoria marxista fondate sull’analisi concreta della situazione concreta, vale a dire su una visione storica e non idealtipica della teoria. Vedi il cosiddetto socialismo con caratteri cinesi, che sta riscrivendo la teoria della transizione, a lungo ossificata nelle descrizioni che ne hanno dato la Critica del programma di Gotha e l’Antiduhring. 


Note


(1) C. Preve, La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli Milano 1984.


(2) Nel saggio citato alla nota precedente, Preve definisce il discorso grande-narrativo “metafisica immanentistica di un Soggetto che marcia cantando verso l’utopia sintetica di un società integralmente trasparente” (il soggetto in questione è, ovviamente, il proletariato), quanto al discorso deterministico-naturalistico (mutuato soprattutto dalle teorie di Darwin) consiste in una antropomorfizzazione della società intesa come organismo che si evolve in ragione di leggi “naturali”.


(3) G.  Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Meltemi, Milano 2023.


(4) G.  Lukács, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997. Nella Introduzione a una precedente riedizione di quest’opera, Lukács esprime le critiche citate nelle righe seguenti.


(5) Cfr. Ontologia, cit., vol II, pp. 264-265.


(6) La lettera si trova in K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960.


(7) K. Marx, Il Capitale, Libro II, Cap. I, p. 59. Tutte le citazioni che seguono si riferiscono all’edizione UTET del 1974 (a cura di Aurelio Macchioro e Bruno Maffi)


(8) Ivi, Libro III, Cap. XX, pp. 411-412.


(9) Ivi, Libro II, Cap. I. p. 59.


(10) Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, 3 voll., Einaudi, Torino 1983, 1993, 2006.


(11) P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968.


(12) G. Myrdal, Teoria economica e Paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano 1957.


(13) Su questo blog mi sono occupato, fra gli altri autori afromarxisti, di Amilcare Cabral, Eric Williams, Walter Rodney, Cedric Robinson, C. L. R James.


(14) Sui teorici della dipendenza (Giovanni Arrighi, Gunder Frank, Samir Amin, Immanuel Wallerstein) cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(15) Il Capitale, cit. Libro II, Cap. I p. 79.


(16) Ivi, Libro II, p. 80.


(17) Ivi, Libro III, p. 692


(18) Ivi, Libro III, p. 465.


(19) Ivi, Libro III, p. 756.


(20) Ivi, Libro III, p. 555.


(21) Cfr., fra gli altri, C. Marazzi, Il comunismo del capitale,ombre corte, Verona 2010.

mercoledì 3 settembre 2025

FUREDI: SACROSANTA CRITICA DEL POLITICAMENTE CORRETTO O APOLOGIA DELL'IMPERIALISMO OCCIDENTALE?



Riprendo a scrivere su questa pagina dopo una lunga pausa, che non è purtroppo dipesa dall’essermi dedicato a sollazzi balneari o a passeggiate fra ameni boschi montani, bensì dal fatto che mi sono dedicato a tempo pieno a completare la prima stesura di un libro che uscirà dall’editore Meltemi nei primi mesi del 2026, quasi contemporaneamente a un lavoro di Alessandro Visalli. I due volumi avranno lo stesso titolo Oltre l'Occidente, benché con sottotitoli diversi, in quanto sono parte di un unico progetto al quale lavoravamo da tempo. Dirò qualcosa in merito a conclusione dell’articolo che trovate qui di seguito, soprattutto per sottolineare che le nostre riflessioni divergono di centottanta gradi rispetto a quelle dell’autore che sto per commentare.


* * *


Una delle massime più sballate di cui io sia a conoscenza è quella che recita “il nemico del mio nemico è mio amico”. Si tratta di un principio basato su un logica binaria e paranoica. Binaria, nel senso che semplifica brutalmente la realtà, riducendola a una serie di opposizioni: questo o quello, l’uno o l’altro, sopra o sotto, destra o sinistra, un punto di vista che rispecchia lo spirito di un’epoca dominata dalla successione di zero e uno che consente il funzionamento dei computer, macchine chiamate anche calcolatori appunto perché calcolano, non pensano, ma simulano il pensiero umano. Paranoica, perché rassicura chi non riesce a comprendere la complessità del reale, con le sue contraddizioni, ambiguità e sfumature, consentendogli di distinguere a priori chi e cosa considerare amico da chi e cosa guardarsi in quanto nemico (reale, possibile o immaginario). A ricordarmi quanto sia sbagliata la massima di cui sopra è stata la lettura di un libro fresco di stampa: La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica di Frank Furedi (Fazi editore). 


Il titolo mi era parso curioso: bizzarra l’idea di fare guerra a qualcosa che non esiste, se non in forma immateriale, in quanto è, appunto, passato...Ciò detto, mi aveva rassicurato il sottotitolo che spiega la metafora e, soprattutto, sembra suggerire che io e l’autore abbiamo un nemico comune (il politicamente corretto). Poi mi sono  ricordato che quattro anni fa avevo pubblicato su questa pagina un articolo contro la cultura politicamente corretta, che definivo autoritaria e violenta, nel quale partivo da due libri (entrambi usciti da Meltemi) : Politicamente corretto, di Jonathan Friedman e I confini contano, dello stesso Frank Furedi.


In quel lavoro Furedi criticava l’ideologia cosmopolita celebrata dal sociologo tedesco Ulrich Beck, nella quale vedeva, giustamente, un atteggiamento elitista e aristocratico nei confronti delle masse popolari che possono trovare rappresentanza ai propri interessi solo nella cornice istituzionale dello stato-nazione. Pur condividendo tale critica, osservavo che Furedi diceva poco o nulla sulle radici di classe e sugli interessi materiali associati all’ideologia cosmopolita. Di più: asseriva di non credere alla possibilità di risalire alle cause “oggettive” che alimentano determinate ideologie, che a suo avviso sarebbero dotate di un’autonoma dinamica evolutiva. 


Leggendo l‘Introduzione di Andrea Zhok a questo nuovo saggio, mi sono illuso che Furedi potesse avere superato tale punto di vista, palesemente idealista. Soprattutto perché, in alcuni passaggi, Zhok sottolinea la convergenza fra un liberalismo di destra che concepisce il progresso esclusivamente in termini di crescita economica, e un liberalismo di sinistra che celebra la necessità di emancipare l’individuo da tutti i vincoli culturali tradizionali (ottimo viatico per scatenare gli “spiriti animali” del capitalismo...). Vuoi vedere, mi sono detto, che Furedi ha capito che liberalismo di sinistra e di destra incarnano gli stessi interessi di classe? Purtroppo, dopo avere letto con attenzione, e con irritazione crescente, le trecento pagine del libro, confesso di non avere trovato traccia alcuna di tale ravvedimento metodologico. Al contrario, mi è parso, come cercherò di dimostrare, che la posizione di Furedi si sia fatta ancora più idealista, nonché connotata in senso reazionario, piuttosto che conservatore nel significato positivo che ritengo possibile attribuire al termine. 


***


Uno spot pubblicitario che girava qualche anno fa in tv fa mostrava una serie di scene in cui il protagonista si impegnava in un gioco competitivo contro un avversario palesemente più debole (per esempio un adulto che giocava a calcio contro un bimbo di tre anni), la scena era accompagnata da una voce in sottofondo che recitava “ti piace vincere facile?”. Dopodiché seguiva il messaggio sul prodotto (che non ricordo quale fosse, il che dimostra che, a volte, la pubblicità fallisce il bersaglio perché la narrazione che usa è così divertente da eclissare l’immagine del marchio che vuole promuovere). 


Evidentemente anche a Furedi piace vincere facile. Per centinaia di pagine sciorina infatti gli esempi più assurdi, paradossali (al limite, e spesso al di là, del demenziale) della cancel culture e del linguaggio politicamente corretto. Azioni e comportamenti di personaggi e culture di epoche distanti secoli, o addirittura millenni, dalla nostra che vengono anacronisticamente denunciati come lesivi della sensibilità (o addirittura dell’equilibrio emotivo) di questa o quella minoranza: il razzismo di Aristotele, il sessismo di Shakespeare, il machismo di Giulio Cesare e via delirando. Sedicenti storici e antropologi che esibiscono la “prova” che la maggioranza degli uomini del paleolitico erano trans. Contorti equilibrismi linguistici per sostituire parole come padre e madre, marito e moglie, portatori di handicap vari. Totalitarismo linguistico: le parole bandite dal vocabolario politicamente corretto non sono solo motivo di biasimo sociale, attivatori di censura e di quella che una sociologa tedesca ha definito la spirale del silenzio (1) (evito di usare certi termini in pubblico perché temo di espormi a giudizi negativi), possono essere addirittura essere causa di licenziamento e/o di sanzioni economiche. Giovanilismo (le idee di chi ha superato una certa età sono prive di valore). 


Più interessanti alcune osservazioni storico-geografiche in merito alle radici del fenomeno. In particolare: il contributo che il futurismo italiano (e il fascismo!) ha dato all’ideologia giovanilista nella prima metà del Novecento; lo slogan “il personale è politico” lanciato dal movimento femminista alla fine degli anni Sessanta come modello di “politicizzazione dell’identità” replicato da tutti i movimenti che hanno avuto come protagoniste una serie di minoranze sociali – gay, trans, lesbiche, queer, ecc.- decise a imporre i propri principi, valori, regole di comportamento e codici linguistici all’intera società; il ruolo fondamentale giocato dai movimenti progressisti e dall'ambiente accademico angloamericani nel diffondere la cancel culture e il politicamente corretto nel resto del mondo occidentale. 


Molto bene. Ma quali le cause storiche, economiche, politiche e sociali del fenomeno? Furedi non dice pressoché nulla in merito. Prima, quando accennavo al suo approccio idealista all’argomento, intendevo esattamente questo: il nostro sembra convinto che tutti i fenomeni in questione sono l’esito di un’evoluzione spontanea del mondo delle idee, mutazioni ideologiche le cui cause affondano nella psicologia individuale e di gruppo, né hanno la minima relazione con la dimensione degli interessi e dei conflitti socioeconomici, con la lotta fra classi sociali e/o fra nazioni dominanti e nazioni dominate. Ciò sarebbe ancora il meno, nel senso che a Furedi si potrebbe imputare solo l’incapacità di spingere l’analisi al di sotto della superficie dei fenomeni. Il guaio è che il nostro inquadra il suo discorso in una cornice ideologica che non so definire altrimenti che reazionaria.


* * *

Parto da una battuta allucinante che ho pescato fra altre perle: “la destra ha vinto la guerra economica, la sinistra ha vinto la guerra culturale” (!!!???). Che la destra abbia vinto la guerra economica non vi sono dubbi, ma in che senso la sinistra avrebbe vinto la guerra culturale, almeno che con ciò Furedi non si riferisca al leitmotiv delle destre neofasciste italiane che da anni denunciano la “dittatura” della cultura di sinistra che, secondo costoro, dominerebbe le redazioni di tv e giornali (peccato che siano ridotte a portavoce della Nato…), le case editrici (tutte in mano a noti sovversivi…), le università (dove Marx è sparito dai programmi d’esame), ecc. 


A parte le battute, ciò che Furedi ignora, o finge di ignorare, è che le guerre di cui parla non sono due bensì una, che non è stata vinta né dalla destra né dalla sinistra, bensì dal capitale. È il neoliberismo (che è in primo luogo una prassi socioeconomica e solo secondariamente l’ideologia che la legittima) che da decenni trionfa e domina la scena occidentale, tagliando posti di lavoro, salari e welfare e allargando a dismisura il divario fra super ricchi e classi lavoratrici. Ed è il liberalismo “di sinistra” che “vince” le futili battaglie del politicamente corretto, mentre ritaglia privilegi per le classi “creative” che dominano i tradizionali partiti di sinistra, i quali hanno tradito gli interessi delle masse popolari e raccolgono i voti dei ceti medio alti che abitano i centri storici delle metropoli gentrificate. 


La guerra è dunque una sola, come hanno capito Boltanski e Chiapello (2), i quali spiegano come gli strati sociali protagonisti del 68, e le successive sinistre “identitarie”, abbiano accantonato gli obiettivi per cui lottavano mezzo secolo fa, rimpiazzandoli con le demenziali “battaglie” descritte da Furedi. Battaglie che non scalfiscono minimamente gli interessi delle élite dominanti, tanto che, non a caso e come lo stesso Furedi scrive, queste sono le prime a promuovere la cancel culture sia nelle imprese che nelle istituzioni. Perciò, quando scrive che il “presentismo” (come chiama l'atteggiamento che svaluta i valori tradizionali) prescinde dalla divisioni ideologiche e partitiche, Furedi ha perfettamente ragione, ma non nel senso che dice lui, bensì nel senso che è l’ideologia comune alle élite dominanti e agli strati sociali che ne condividono gli interessi, mentre si oppongono agli interessi di quelli che stanno “sotto” (che non a caso si rivolgono ai populismi di destra). 


Veniamo al vero bersaglio polemico di Furedi. Il suo cruccio non nasce dal fatto che i guerriglieri della cancel culture criticano alcuni aspetti dell’Occidente, bensì che costoro, a suo avviso, ne attaccano l’intera eredità culturale, che il loro bersaglio è l’Occidente stesso. Magari, mi viene da dire. Se ciò fosse vero non lotterebbero per cambiare qualche voce del vocabolario, per censurare a posteriori i testi di Aristotele, Shakespeare e Kant o per buttare giù qualche statua, lotterebbero contro la politica guerrafondaia della Nato e della Ue, contro il supersfruttamento dei lavoratori, contro la censura che imperversa nei media occidentali. C’è chi, qualche anno fa, nel Paese dove Furedi insegna, ha provato a rivitalizzare un progetto di trasformazione socialista della Gran Bretagna. Si Chiamava Corbyn ed era miracolosamente riuscito a diventare segretario di un Partito Laburista che, con Tony Blair, si era macchiato di complicità con l’oscena aggressione imperialista al popolo iracheno. Ma Corbyn è stato prontamente rovesciato anche grazie alle accuse di “antisemitismo”. 


Il tema è interessante, perché Furedi rivolge alle minoranze identitarie che promuovono la cancel culture l’accusa di “vittimismo” (non posso ascoltare certo discorsi perché mi “danneggiano”, affondano il ferro nella piaga della mia storia di esclusione e marginalità sociale). C’è però un caso in cui, per Furedi, il vittimismo alimentato dalle persecuzioni subite in passato non è solo giustificato, ma giustifica a priori tutti i crimini che la vittima può impunemente commettere al giorno d’oggi. Mi riferisco, ovviamente, alla politica colonialista, razzista e genocida del governo fascistoide di Netanyahu nei confronti del popolo palestinese. Furedi si scaglia contro l’attrice Susan Sarandon e altri artisti, rei di avere manifestato “comprensione”nei confronti delle motivazioni di Hamas. 


Per inciso, Furedi critica l’atteggiamento di chi condanna gli storici che manifestano comprensione nei confronti dei pregiudizi razzisti o sessisti di certi grandi del passato, perché ciò significherebbe giustificarli, dopodiché si comporta esattamente nello stesso modo (tipico caso di doppia morale). Non solo: ha un atteggiamento negazionista nei confronti dei genocidi perpetrati dal colonialismo occidentale nei confronti dei popoli amerindi, africani, australiani e asiatici, perché la Shoah detiene il diritto esclusivo (il copyright) di essere definito genocidio (3). Non a caso, mentre si indigna (giustamente) sul massacro commesso da Hamas, non spende una parola sulle decine di migliaia di palestinesi, in gran parte bambini, massacrati dall’esercito israeliano. Se i neri sudafricani e americani abbattono la statua di Rhodes è vittimismo (forse pensa che anche gli assassinii dei neri da parte della polizia statunitense, sistematicamente impuniti, e la memoria storica degli orrori dell’Apartheid siano vittimismo). 


E ancora: l’imperialismo britannico, ammette,  ha qualche crimine sulla coscienza (6), ma ciò non giustifica chi equipara tali crimini a quelli del Terzo Reich, né chi cerca di sminuire la figura storica di Churchill, che era sì un feroce reazionario (l’aggettivo ce l’ho messo io), ma non si possono dimenticare “la sua leadership carismatica e le sue gesta encomiabili”. Mi fermo qui, mentre, nell’ultima parte di questo articolo, lascerò ad alcune anticipazioni dei temi dei due libri cui accennavo sopra il compito di spiegare perché considero questo libro di Furedi uno dei più reazionari manifesti filo occidentali che mi sia capitato di leggere.


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Scrive Furedi: “i filosofi occidentali avevano pregiudizi tipici del loro tempo ma hanno sviluppato una mentalità universalistica”. Il nodo problematico da cui partono i due volumi di “Oltre l’Occidente” è esattamente questo: entrambi critichiamo l’universalismo occidentale, sia nella sua veste di universalizzazione del modo di produzione capitalistico, sia nella sua veste di universalizzazione della democrazia e dei diritti dell’uomo, descrivendone la natura di macchina da guerra che ha provato, fallendo allorché pensava di essere vicina all'obiettivo, di sottomettere l’intero pianeta ai propri valori, principi e regole. Entrambi celebriamo il tramonto di tale progetto, sia pure da punti di vista diversi (Visalli dedica ampio spazio alle teorie postcoloniali e decoloniali, tema che io tratto solo in un capitolo della Terza Parte e nell’Appendice sulle sinistre postmoderne; Visalli mette la tecnologia al centro del proprio lavoro, mentre io dedico particolare attenzione alle lotte di liberazione nazionale in Africa e all’ideologia panafricanista). Infine entrambi ci occupiamo della sfida cinese all’egemonia occidentale. 


Vengo ora al paragone, che scandalizza Furedi, fra colonialismo e nazismo. Lascio la parola a un autore che scriveva in tempi non contaminati dalla cancel culture, Aimée Césaire:“Varrebbe la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di avere applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa” (4). Del resto, è arcinota l’ammirazione di Hitler per i metodi del colonialismo inglese (“nessun popolo, scrive il Furher in Mein Kampf, ha saputo preparare le sue conquiste economiche meglio che con la precisa brutalità della spada, né le ha sapute difendere con più spregiudicatezza degli inglesi”).


Si è tentato di liquidare il nazismo come un “unicum” storico che nulla ha a che fare con le liberal democrazie euroatlantiche, le quali pensano di essersi ripulite di ogni colpa celebrando il processo-farsa di Norimberga (nel quale si è taciuto sulla nuclearizzazione di Hiroshima e Nagasaki e sui bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, due infamie perpetrate malgrado la guerra fosse ormai alla fine). Sempre Césaire ricorda che i milioni di neri, arabi, indiani, amerindi, cinesi, vietnamiti, irlandesi, ecc. massacrati dalle potenze colonialiste occidentali, superano di decine di volte le vittime della Shoah, e che i metodi usati dagli imperialismi occidentali per stroncare la resistenza di altri popoli, non hanno nulla da invidiare a quelli praticati nei lager del Terzo Reich (5). La vera differenza è la ipocrisia, il ricorso a giustificazioni “ideali” al posto delle brutali rivendicazioni di dominio naziste. Infine, a proposito della celebrazione che Furedi dedica all’eroismo di Winston Churchill, lo invito a leggere con attenzione il profilo biografico che ne traccia Caroline Elkins (6): un feroce reazionario che simpatizzò per il nazismo (al pari del Duca di Windsor, di Henry Ford e di molti industriali e politici angloamericani) finché sperò di poterlo usare contro l’URSS; che rivendicò i lager per i prigionieri afrikaner durante la guerra boera; che giustificò i crimini britannici in India; che teorizzò il terrorismo aereo praticato durante nella guerra coloniale irachena (poi adottato dagli Usa in Vietnam e da Israele a Gaza), che fu complice della spietata repressione della resistenza irlandese, ecc. Insomma: un Goehring britannico con sigari e bombetta.


Chiudo con un ultima riflessione che traggo dalla Seconda Parte del libro che ho appena finito di scrivere, nella quale mi occupo di storici di lungo periodo come Braudel, Pomeranz e Arrighi. Il passato in quanto entità ideale omogenea cui sembra riferirsi Furedi - il quale in realtà ha in testa il mito della civiltà occidentale e delle sue presunte radici greco-romane ed ebraico-cristiane (7) – non esiste. O meglio, non esiste un unico passato storico, esistono molti passati, flussi temporali intrecciati, paralleli e mai unitari, se non come tempo astronomico. Segnati da conflitti e contraddizioni, caratterizzati da processi che durano nei secoli, come da rotture e discontinuità. Contro alcuni di questi passati, checché ne dica Furedi, è giusto scendere in guerra, perché pesano come macigni sulla nostra capacità di immaginare un mondo alternativo, mentre altri meritano di essere esaltati perché contengono i germi di una emancipazione possibile. Ciò detto, Furedi continui pure a celebrare la gloria dell’Union Jack, io di quel vessillo amo un solo colore. Il rosso.  


Note


1) Cfr. E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio, Meltemi, Milano 2017.


2) L. Boltanski, L. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.


3) Sui genocidi coloniali cfr. L. Pegoraro, I dannati della terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australia, Meltemi, Milano 2019. Per una critica della "religione olocaustica" cfr. C. Preve, Opere, vol. II, Schibboleth, Roma 2022, pp. 105 e segg.


4) A. Césaire, Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2020, p. 57.


5) Ibidem


6) Cfr. C. Elkins, Un'eredità di violenza. Una storia dell'imperialismo britannico, Einaudi, Torino 2024.


7) Sulla costruzione del mito delle radici greche ed ebraico-cristiane della civiltà occidentale cfr. C. Preve, op. cit.; vedi anche Samir Amin, Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia, La Città del Sole, Napoli-Potenza 2008.  



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