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sabato 26 aprile 2025

RILEGGENDO MARX
APPUNTI SUI LIBRI II E III DEL CAPITALE

3. Capitale commerciale e capitale finanziario. Lavoro produttivo e lavoro improduttivo




“[Nella misura in cui la produzione capitalistica si impadronisce della produzione sociale] le altre specie di capitale...non gli vengono solo subordinate e modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi...capitale denaro e capitale merce (in quanto esponenti di rami di affari propri) non sono ormai più che modi di esistere...delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste e ora depone nella sfera della circolazione” (Libro II, p. 79).


Inauguro la terza tappa del viaggio attraverso i Libri II e III del Capitale con questo passaggio, già citato nella tappa precedente, perché ben chiarisce il punto di vista di Marx sulla posizione che capitale merce e capitale denaro occupano nella gerarchia fra le diverse modalità di esistenza del capitale in generale: nel suo modello teorico, queste due forme svolgono la funzione di “ancelle” del capitale industriale. Si tratta di un punto di vista cruciale ai fini della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Al tempo stesso, si tratta di un punto di vista che, nella fase storica caratterizzata dal grande capitale monopolistico, terziarizzato e finanziarizzato, è al centro di critiche anche in campo marxista ma, prima di analizzare tali critiche, è opportuno approfondire il pensiero di Marx sull’argomento.


L’incapacità del capitalista (e degli economisti volgari) di comprendere il “mistero” del plusvalore, cioè del fatto che esso scaturisce dal tempo di lavoro non retribuito, argomenta Marx, fa sì che costoro attribuiscano alla sfera del commercio la capacità di creare ricchezza: “Al capitalista l’eccedenza del valore, o plusvalore, realizzata con la vendita della merce appare come eccedenza del suo prezzo di vendita sul suo valore, anziché come eccedenza del suo valore sul suo prezzo di costo, per cui il plusvalore annidato nella merce non si realizza mediante (sottolineatura mia) la vendita di questa, ma scaturisce dalla (idem) vendita stessa (Libro III, p. 63). 


In un certo senso, è come se l’auto-rappresentazione della propria attività da parte del capitalista fosse rimasta in qualche modo “congelata” all’epoca in cui il capitale commerciale mediava lo scambio di prodotti fra comunità non sviluppate, epoca in cui “il profitto commerciale non solo appare come truffa, ma in gran parte ne deriva” (Libro III, p. 418). Non a caso, finché il capitalista si limita a coordinare il lavoro di una serie di piccoli produttori, raccogliendone e venendone i prodotti sul mercato, sulla sua testa pende il sospetto di arricchirsi allo stesso modo dei vecchi mercanti, i quali lucravano maggiorando il prezzo di vendita. Solo con lo sviluppo del capitale industriale nasce la consapevolezza del fatto che il valore della merce nasce nel processo di produzione. E tuttavia il ruolo del lavoro non retribuito nella sua creazione continua a essere ignorato: “Benché nasca nel processo di produzione immediato, l'eccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo viene realizzata solo nel processo di circolazione, ed è tanto più facile che essa sembri scaturire dal processo di circolazione”(Libro III, p. 69).


Spetta a Marx il merito di avere sottratto  la merce alla dimensione trascendente in cui essa sembra aumentare da se stessa il proprio valore e di averla riportata sulla terra: “nel processo di circolazione non si produce nessun valore, quindi anche nessun plusvalore, si modifica soltanto la forma (sottolineatura mia) della stessa massa di valore (…) se nella vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore è solo perché in essa questo valore esiste già” (Libro III p. 356). Ne consegue che “quanto maggiore è il capitale commerciale in rapporto al capitale industriale, tanto minore è il saggio di profitto industriale e viceversa”(Libro III , 365).


Ciò non implica che la circolazione non contribuisca ad accrescere - ancorché indirettamente – il profitto del capitale industriale: per esempio “più il tempo di circolazione scende più il capitale funziona e più la sua produttività e la sua automatizzazione aumentano” (Libro III, P. 158). Dopodiché resta il fatto che “le dimensioni assunte dallo scambio di merci in mano ai capitalisti non possono trasformare questo lavoro, che non crea valore, ma si limita a mediare un cambiamento di forma del valore, in lavoro che generi valore” (Libro II, p. 164). E poco dopo: “se mediante divisione del lavoro, una funzione in sé e per sé improduttiva, ma che costituisce un elemento necessario alla riproduzione, viene trasformata da occupazione sussidiaria di molti in occupazione esclusiva di pochi (…) non per questo il carattere della stessa occupazione muta” (Libro II, p. 165). 


E’ vero che il capitalista commerciale si appropria di una quota di lavoro non retribuito dei suoi salariati, esattamente come fa il capitalista industriale, ma sfruttandoli il commerciante si limita ad assicurarsi una maggior quota di partecipazione al plusvalore creato dallo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale industriale. Ergo: il lavoro dei salariati del capitalisti commerciali è improduttivo. Dopodiché Marx puntualizza che certi costi di circolazione “possono derivare da processi di produzione che si limitano a prolungarsi nella circolazione, e il cui carattere produttivo è quindi semplicemente nascosto dalla forma circolatoria” (Libro II, p. 172). In merito, cita l’esempio dell’industria dei trasporti, scrivendo che visto “che il valore d’uso delle cose non si realizza che nel loro consumo, e il loro consumo può renderne necessario il cambiamento di luogo”(Libro II, p. 187), ne deriva che l’industria dei trasporti va considerata come un processo di produzione aggiuntivo (per cui i salariati che vi lavorano vanno considerati produttivi).


* * *


L’autonomizzazione del capitale denaro in sfera d’affari indipendente (banche, capitale finanziario, assicurazioni, ecc.) è conseguenza del fatto che, per consentire al ciclo riproduttivo del capitale sociale di svolgersi senza intoppi, “una data parte del capitale deve sempre essere presente come tesoro, capitale denaro potenziale...capitale inoperoso [aggettivo da intendere qui nel senso di non investito nella produzione diretta] che attende in forma denaro d’essere fatto operare, e una parte del capitale rifluisce continuamente in questa forma” (Libro III p. 400). In tale veste di capitale possibile, cioè di potenziale mezzo per la produzione di profitto “esso diviene merce sui generis, il capitale come capitale diventa merce” (Libro III, p. 428). 


La quota del proprio prodotto che il capitale industriale paga al “mercante di denaro” si chiama interesse e “non è se non il nome per una parte di profitto che il capitale in funzione deve cedere a colui che possiede il capitale possibile”(Ibidem). Qui non si tratta tanto di una fase del processo di riproduzione sociale quanto di un atto giuridico: “La transazione che trasferisce il capitale dalla mano del mutuante a quella del mutuatario è una transazione giuridica [che] non ha nulla a che vedere con il vero e proprio processo di riproduzione del capitale; [essa] non fa che introdurlo. Il rimborso (…) è una seconda transazione giuridica, il completamento della prima” (Libro III p. 439). Infine Marx introduce nell’analisi sulla funzione del denaro come capitale due sorprendenti metafore: 1) “è questo il valore d’uso del denaro come capitale (…) che il capitalista monetario aliena al capitalista industriale per il tempo in cui gli cede la facoltà di disporre del capitale prestato”; 2) “in questi limiti il denaro prestato ha una certa analogia con la forza lavoro nella sua posizione di fronte al capitalista industriale”. 


Si tratta di due analogie che consentono di valutare l’importanza della forma logica (eredità hegeliana!) nel metodo analitico marxiano: la categoria di valore d’uso, che a noi pare strettamente associata alla dimensione “materiale-concreta” della merce, viene qui associata a un fenomeno “immateriale-astratto” come il capitale denaro, nella misura in cui quest’ultimo assume la natura di capitale-merce. Quanto alla paradossale analogia fra forza-lavoro e capitale prestato, si giustifica (sia pure con la precisazione “in questi limiti”) in base al fatto che entrambi – sia la forza-lavoro che il capitale prestato – possono produrre plusvalore solo nella misura in cui vengono impiegati nel processo produttivo immediato. Dopodiché è evidente che, nella realtà contemporanea, caratterizzata dai processi di terziarizzazione e finanziarizzazione del capitale, questa attribuzione logica di centralità assoluta al capitale industriale non può che fare problema (allo stesso modo in cui inizia a fare problema la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo). Prima di vedere come si è cercato di affrontare tali sfide, è però il caso di ricordare la straordinaria capacità profetica con cui Marx, anche se non ha previsto le dimensioni che la finanziarizzazione avrebbe assunto in futuro, ha descritto alla perfezione il “demone” che l’avrebbe alimentata.  


Partiamo dalle seguenti affermazioni: 1) “Nel capitale produttivo d’interesse il rapporto di capitale giunge alla sua forma più alienata e feticistica D-D’ ”(Libro III p. 493); 2) “ adesso il capitale è cosa, ma in quanto cosa è capitale. Ora il denaro ha l’amore in corpo” (Libro III, p. 496). Quanto appena citato ci obbliga a ripartire dal feticismo della merce descritto nel Libro I: se già la merce in quanto tale è un fenomeno “sensibilmente sovrasensibile”, è un oggetto concreto che possiede un determinato valore d’uso ma è al contempo animato dal “fantasma” del valore di scambio, il capitale-merce (il capitale cosa) non può che essere depositario di un feticismo all’ennesima potenza. Un feticismo che vieta i tentativi di giustificare la produzione capitalistica attraverso la sua “utilità sociale”, nella misura in cui ne svela la vera essenza: “Appunto perché la forma denaro del valore è la sua forma fenomenica indipendente e tangibile, la forna D-D’(…) esprime nel modo più concreto il vero motivo animatore della produzione capitalistica (…) Il processo di produzione appare solo come inevitabile anello intermedio, male necessario allo scopo di far denaro (perciò tutte le nazioni a modo di produzione capitalistico sono prese periodicamente da una vertigine durante la quale pretendono di far denaro senza la mediazione del processo di produzione” (Libro II, p. 80).


Il rovesciamento dialettico non potrebbe essere più radicale: il processo di produzione, che l’analisi aveva posto al centro del processo di riproduzione sociale in quanto unico depositario della creazione di valore, si ritrova ridotto a “male necessario”, “anello intermedio” rispetto al vero scopo del capitalista: accumulare denaro. Qui non troviamo chiarito esclusivamente il presupposto di ciò che Giovanni Arrighi (1) e altri autori descrivono analizzando storicamente i corsi e i ricorsi delle “migrazioni” del capitale, dalla produzione industriale alla finanza e viceversa, troviamo anche una visionaria anticipazione della cosiddetta “economia del debito”: “nel modo di ragionare del banchiere i debiti possono apparire come merci” (Libro III, p. 589): e ancora: “nel fatto che persino l'accumulazione dei debiti possa apparire come accumulazione di capitale, si manifesta in forma estrema il capovolgimento che ha luogo nel sistema creditizio” (Libro III, p. 692); nonché delle bolle speculative come causa delle crisi finanziarie: “il valore dei titoli diventa speculativo quando esprime il provento atteso e non attuale” (Libro III, p. 592), e se l’attesa del mondo virtuale viene smentita dal mondo reale…


Ma è il momento di riprendere il ragionamento sull’arduo problema di distinguere fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. 


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Mi tocca iniziare con una autocritica retrospettiva. Esattamente quarantacinque anni fa, nel 1980, usciva per i tipi di Feltrinelli il mio primo lavoro teorico degno di essere definito tale: Fine del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo. Oggi confesso di considerare quello scritto un evidente esempio di interpretazione errata del problema della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. 


Anche allora il mio ragionamento aveva preso le mosse dall’approccio marxiano al tema nei Libri II e III del Capitale, approccio che mi era parso insostenibile alla luce delle profonde trasformazioni che il modo di produzione capitalistico aveva subito transitando dal capitalismo libero concorrenziale ottocentesco al capitalismo monopolistico, terziarizzato e finanziarizzato. Per aggiornare l’analisi alla nuova realtà sistemica, avevo azzardato una triplice operazione. In primo luogo, avevo cercato, per parafrasare il titolo di un libro di Antonio Negri (2), di giocare Marx contro Marx, contrapponendo le tesi che lo stesso Marx aveva formulato in alcuni passaggi del Capitolo VI inedito (3) e dei Grundrisse (4) a quelle del Capitale; inoltre, impressionato dall’esperimento di riorganizzazione produttiva della IBM (5), che a quei tempi dominava il mercato mondiale dell’informatica (di qui il motivo del sottotitolo ), ne avevo dedotto l’esistenza di quelle tendenze che, di lì a qualche anno, ci avrebbero indotto a ragionare di una terza rivoluzione industriale; infine mi ero lasciato suggestionare da Jean Baudrillard (6), autore che in quegli anni andava profetizzando la progressiva marginalizzazione della produzione di oggetti-merce da parte della produzione di servizi e codici immateriali. Ma procediamo con ordine.


Il modo in cui era organizzato il ciclo produttivo della IBM mi era sembrato confermare che il grande capitale monopolistico tendeva a impiegare una quota sempre più esigua di classe operaia tradizionale, a fronte di una massa crescente di forza lavoro impiegatizia. Marxisti come Braverman ne deducevano il seguente scenario: “Ogni progresso nel campo della produttività restringe il campo dei veri lavoratori produttivi, amplia quello di chi può essere utilizzato nelle lotte fra le grandi imprese per la distribuzione delle eccedenze, espande l’impiego del lavoro in occupazioni di spreco (…) e conferisce alla società l’aspetto di una piramide rovesciata che poggia su una base di lavoro utile sempre più ristretta”(7). 


Questo scenario – al pari di quello formulato da tutti gli autori che parlano di “fine del lavoro” (8) -rischia di apparire semplificatorio: 1) ove non venga letto da un punto di vista comparativo, tenendo cioè conto del fatto che la categoria di “lavoro utile” assume significati diversi in sistemi sociali diversi (come fanno Baran e Sweezy, dei quali ci occuperemo fra breve); 2) ove non venga inquadrato nell’analisi complessiva del sistema-mondo. In ogni caso, nel mio lavoro liquidavo il concetto di lavoro “veramente produttivo” in quanto suonava rozzamente “materialista”, opponendogli l’interpretazione di Negri - da me allora condivisa –, il quale, sfruttando i sopra evocati passaggi del Capitolo VI inedito e dei Grundrisse, scriveva: “l’appropriazione capitalistica della circolazione (…) determina la circolazione come base della produzione e della riproduzione, fino a un limite di identificazione storica, effettiva (anche se non logica) di produzione e circolazione” (9). Il che, ove applicato alla questione della composizione di classe, implica arruolare d’ufficio nel campo del lavoro produttivo tutto il lavoro terziarizzato (nonché eleggerlo, come di lì a poco avrebbero fatto i teorici post operaisti seguaci di Negri, a nuova avanguardia rivoluzionaria). 


Scrivevo inoltre che “indifferente è il contenuto materiale del lavoro rispetto al suo carattere di lavoro produttivo, alla sua funzione di agente valorizzante interno al capitale. Produttivo è dunque il lavoro che si scambia contro capitale, senza relazione ai contenuti concreti dell’attività” (10), e fin qui posso ancora essere d’accordo con il me stesso di allora (salvo precisare che i contenuti concreti non sono sempre e comunque indifferenti), ma purtroppo proseguivo poi affermando che “improduttivo è quel lavoro che non si svolge in forma specificamente capitalistica, che non produce profitto per un capitale”, il che voleva dire definire improduttivi quelle centinaia di milioni di lavoratori che vengono sfruttati nel Sud del mondo perché non lavorano in forma specificamente capitalistica, nel senso che non sono direttamente impiegati dalle grandi imprese metropolitane, dopodiché generano una quota gigantesca di surplus senza il quale queste ultime non durerebbero un giorno!


Oggi posso parzialmente assolvermi evocando i condizionamenti di uno spirito del tempo che, in quegli anni, era caratterizzato: 1) dal fatto che la sinistra radicale post sessantottina - esauriti gli entusiasmi per il Vietnam e la Rivoluzione Culturale cinese – aveva rimosso le lotte antimperialiste del Sud del mondo per concentrasi esclusivamente sulle metropoli “avanzate” (basta con il terzomondismo, la nostra lotta è qui, era la parola d’ordine); 2) dall’autoincensamento sociologico delle sinistre radicali partorite dalle lotte studentesche, le quali, superati i complessi d’antan per le proprie origini piccolo borghesi, avevano eletto ad avanguardie rivoluzionarie gli strati professionali emergenti – cioè loro stessi! - impegnati nei lavori “creativi” e nella produzione “immateriale” (11).


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Alessandro Visalli considera Paul Baran e Paul Sweezy i due autori che, già negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta (12), hanno inaugurato una linea di interpretazione che considera il capitalismo come un sistema sociale nel quale la valorizzazione deriva da produzione e circolazione su basi internazionali. L’elemento caratterizzante di tale approccio consiste nell’approfondire la critica all’imperialismo, al colonialismo e al neocolonialismo, identificandoli con quel fenomeno – la cosiddetta accumulazione originaria - che Marx considerava tipico di una determinata fase storica, laddove questi autori lo ritengono consustanziale al modo di produzione capitalistico, il quale lo sfrutta come controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Approfondiremo l’argomento più avanti, nella tappa dedicata alla legge della caduta del saggio del profitto e alle crisi. Qui ci limitiamo a introdurre il concetto di surplus e a descrivere come tale concetto influisce sull’argomento che stiamo trattando qui, cioè la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo. 


Marx identifica il plusvalore come somma di profitto, interesse e rendita, mentre considera secondari fattori quali le entrate dello stato, i salari dei lavoratori improduttivi, gli sprechi di vario tipo, ecc. Ma ciò non è più giustificato, sostengono Baran e Sweezy, nella fase del capitalismo monopolistico. Rispetto al surplus complessivo – definito come la differenza fra la produzione effettiva corrente e il consumo effettivo corrente della società – il plusvalore rappresenta una quota proporzionalmente minore – e tendenzialmente in diminuzione – rispetto all’epoca di Marx. E, dal momento che il surplus misurato come sopra tende ad aumentare, esso agisce come controtendenza rispetto alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Come anticipato poco sopra, affronteremo le implicazioni di quanto appena detto quando parleremo di crisi, imperialismo ecc. Restando al modo in cui Marx distingue fra lavoro produttivo e improduttivo, cosa cambia introducendo il concetto di surplus? 


A prima vista nulla. I capitalisti continuano a ignorare la differenza fra costi di produzione e costi di vendita e fra lavoro produttivo e improduttivo: per costoro essi contribuiscono entrambi a generare i loro profitti. Sappiamo però che il sistema tende a dilatare a dismisura attività quali promozione delle vendite, pubblicità, packaging, marketing, obsolescenza programmata, credito al consumo ecc.; che proliferano i ceti professionali che hanno il compito di promuovere una guerra senza quartiere al risparmio a favore del consumo, inventando continuamente nuovi bisogni ed alimentandone la soddisfazione attraverso il debito. Sullo stesso piano della promozione delle vendite “va posto l’incanalamento di un ampio volume di risorse negli impieghi sotto la voce di attività finanziarie, assicurative e immobiliari” (13). Marx, ricordano Baran e Sweezy, descriveva tutta questa gente come “una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti,di fondatori e direttori che sono tali semplicemente di nome, tutto un sistema di frodi e di imbrogli che hanno per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni”(14). 


Anche per Baran e Sweezy, come per Marx, questo processo, che oggi siamo abituati a definire terziarizzazione del lavoro, appare come proliferazione di ceti “divoratori di surplus”, e dunque anche per Baran e Sweezy, le persone che vivono di surplus “son private di una quota dei loro redditi che vanno alle persone che svolgono lavori improduttivi” (15). Come sottrarsi all’obiezione di Negri e altri i quali ribattono che la distinzione si basa su argomenti puramente logico-linguistici, dal momento che le funzioni appena descritte sono ormai talmente integrate nei processi produttivi da fare tutt’uno con essi (più che una merce non compriamo ormai solo l’immagine di questa merce che è stata costruita dal lavoro di pubblicitari, uomini marketing, ecc., non compriamo forse i prodotti Apple per il loro design piuttosto che per la loro presunta superiorità tecnologica)?. E come rispondere all’obiezione secondo cui produttivo è il lavoro che si cambia contro capitale, a prescindere dai contenuti concreti dell’attività svolta? 


È qui che scatta l’argomento comparativo: per Baran e Sweezy il termine di paragone che consente di sciogliere il dubbio è il socialismo: è improduttivo “tutto quel lavoro che ha come risultato la produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni e ai rapporti specifici del sistema capitalistico e che sarebbe assente in una società razionalmente ordinata” (16) cioè in una società socialista. E tuttavia è proprio la massa di surplus di cui si appropriano le schiere sempre più numerose di lavoratori improduttivi che consente, grazie ai loro consumi, di limitare parzialmente gli effetti della cronica tendenza del capitalismo monopolistico alla sottoutilizzazione delle risorse umane e materiali. Parzialmente perché, se fossero disponibili solo questi sbocchi endogeni, il capitalismo monopolistico sarebbe in uno stato di depressione permanente (17). La vera soluzione restano dunque l’imperialismo e la guerra. 


Note


(1) Cfr. G. Arrighi., Il lungo ventesimo secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore.


(2) Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano 1979.


(3) Cfr. K. Marx, Il Capitale. Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969.


(4) Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll. La Nuova Italia, Firenze 1969.


(5) Ebbi occasione di analizzare le strategie organizzative della IBM studiando alcuni documenti che mi furono consegnati dai delegati sindacali dell’azienda, con i quali ero in contatto in quanto responsabile provinciale per i tecnici e gli impiegati della Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici. Grazie a quella esperienza, mi feci un’idea molto precisa in merito all’impatto che il diffondersi delle reti informatiche nelle grandi aziende avrebbe avuto sull’organizzazione del lavoro tecnico-impiegatizio, e sulle trasformazioni della composizione di classe, allora già in atto. Le mie previsioni sul processo di terziarizzazione del lavoro nei Paesi industriali avanzati, sbeffeggiate da alcuni recensori “ortodossi”, si rivelarono profetiche ancorché pessimiste per difetto, nel senso che l’impatto delle nuove generazioni di computer e dell’avvento di Internet sarebbe stato ancora più radicale. A mano a mano che gli effetti devastanti della rivoluzione digitale sui rapporti di forza fra lavoro e capitale si facevano evidenti, la mia posizione si allontanò sempre più dall’ottimismo degli apologeti del postfordismo, i quali ritenevano che le nuove tecnologie offrissero inedite opportunità di democrazia, se non addirittura di superamento del capitalismo. Le mie critiche a tale visione super ottimistica esordirono con Incantati dalla Rete (Cortina 2000), in cui mettevo in luce la relazione fra le nuove sinistre “californiane” e i deliri transumanisti dei guru della Silicon Valley; proseguirono con Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy (Einaudi 2002), in cui analizzavo le strategie di dominio e sfruttamento messe in atto dai giganti dell’economia digitale; Felici e sfruttati (Egea 2011), in cui criticavo il mito del “lavoro creativo”; per culminare con Utopie letali (Jaka Book 2013) una sorta di de profundis dedicato al tragico fallimento delle illusioni alimentate dalle sinistre postmoderniste.


(6) Cfr. J. Baudrillard, Critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974.


(7) H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978, p. 206.


(8) Cfr. J. Rifkin, La fine del lavoro, Mondadori.


(9) Marx oltre Marx, cit., p, 122. Quella parentesi (anche se non logica) evidenzia l’influenza althusseriana sul pensiero di Negri, in quanto fa capire che i presunti limiti dell’analisi marxiana vengono attribuiti all’eredità “idealista” della logica hegeliana. 


(10) Nel libro Socialist Economic Development in the XXI Century (Routledge) Gabriele e Jabbour affermano qualcosa di simile: “Il processo di terziarizzazione tende a far ritenere che la maggior parte dei lavoratori delle imprese private in Usa e nei Paesi avanzati siano improduttivi. Non condividiamo, consideriamo produttive tutte le attività (,..) che generano plusvalore” (p. 63). Questa posizione, analoga a quella che il sottoscritto sosteneva nel 1980, mi sembra in contraddizione con le tesi che questi due autori avanzano in merito alla convivenza conflittuale fra modo di produzione capitalistico e paesi in transizione verso il socialismo (vedi la tappa precedente di questo percorso). Come non tener conto (cfr. le tesi di Baran e Sweezy) del fatto che i concetti di produttivo e improduttivo cambiano a seconda del contesto socioeconomico cui si riferiscono, ma soprattutto come non tener conto del punto di vista socialista, che giudica improduttivo gran parte del lavoro terziarizzato delle imprese private occidentali?


(11) Come ho argomentato in tutti i miei lavori citati in nota 5, considero privo di qualsiasi fondamento il concetto di lavoro “immateriale”, elaborato dalla cultura postmodernista, caro ad autori come André Gorz (Cfr. L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003) e altri. Il concetto è presumibilmente ispirato dalla metafora partorita da certi studiosi dei sistemi complessi (in particolare nel campo delle neuroscienze) che hanno stabilito un’analogia fra le coppie mente-corpo e software-hardware. Posto che nemmeno la produzione di software, algoritmi, codici informatici ecc. può a mio avviso essere considerata immateriale, visto che spreme la fatica di sensi, nervi, cervelli, occhi, mani, ecc. di milioni di lavoratori, la retorica dell’immateriale è palesemente delirante ove riferita all’hardware. Dopo avere giustamente osservato che tale retorica si inscrive in quella “cultura del post”, adottata da una certa sinistra infatuata del presunto ruolo progressivo delle nuove tecnologie, Fabien Lebrun (Barbarie digitale, Ed. L’Échappée) snocciola i seguenti dati: i 34 miliardi di dispositivi digitali che esistono oggi sulla terra pesano 220 milioni di tonnellate, uno smartphone contiene cinquanta metalli diversi e, se si aggiungono le infrastrutture necessarie a far funzionare reti e terminali, è evidente quanto sia paradossale il concetto di “dematerializzazione”. Di più: questa retorica suona come un insulto ai milioni di lavoratori congolesi e di altri Paesi del Sud del mondo, ridotti in condizioni di semi schiavitù per estrarre dalla terra le risorse necessarie ad alimentare la cosiddetta economia “immateriale”. Quanto al presunto ruolo antagonistico dei lavoratori creativi, fa fede la spietata analisi di Boltanski e Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis), i quali dimostrano come, venuta meno la spinta delle lotte operaie, i "reduci" delle lotte studentesche del 68 abbiano abbandonato la critica sociale per dedicarsi alla "critica artistica", vale a dire alle generiche istanze anti autoritarie dei "nuovi movimenti", che non solo sono state facilmente riassorbite dal sistema capitalistico, ma si sono convertite in efficienti strumenti di controllo e gestione degli strati superiori della forza-lavoro 


(12) Cfr. P. Baran, Il “surplus” economico e la teoria marxista dello sviluppo, Feltrinelli, vedi anche P. Baran e P. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Einaudi, Torino 1968.


(13) Il capitale monopolistico...cit., p. 119.


(14) Citato in P. Baran, P. Sweezy, op. cit., p.120.


(15) Ivi, p. 107.


(16) La differenza appare più chiara laddove Baran (Il “surplus”, cit.) mette in opposizione surplus economico effettivo (la differenza tra produzione effettiva corrente e il consumo effettivo coerente della società) e surplus potenziale, ovvero il surplus realizzabile ove non fosse limitato da eccesso di consumi, perdita di produzione dovuta a lavori improduttivi (sottolineatura mia), organizzazione irrazionale del sistema, disoccupazione dovuta all’anarchia capitalistica e all'insufficiente domanda effettiva. In poche parole : è improduttivo il lavoro che appare tale al punto di vista di una società razionale, cioè socialista.


(17) Questo è il tema della critica di Rosa Luxemburg agli schemi marxiani della riproduzione allargata. Ma di ciò più avanti. 

martedì 22 aprile 2025

RILEGGENDO MARX
APPUNTI SUI LIBRI II E III DEL CAPITALE

2. Sui rapporti fra il modo di produzione capitalistico e le altre forme sociali 


Avvertenza: le parentesi quadre contengono chiarimenti o aggiunte del sottoscritto. Viceversa i termini in corsivo sono degli autori citati, salvo eccezioni esplicitamente segnalate.


Secondo Marx, la forma di merce che i prodotti del lavoro umano tendono ad assumere a mano a mano che le forze produttive si sviluppano, tanto da generare una eccedenza rispetto alle esigenze del consumo immediato, e le relazioni sociali (scambio mercantile) che ne derivano, non vanno classificati solo fra i presupposti della nascita del modo di produzione capitalista, ma rappresentano anche e soprattutto gli agenti che consentono a quest’ultimo di assimilare-integrare tutte le forme sociali con cui esso viene a contatto. Entrambe queste funzioni sono ampiamente discusse sia nel Libro II che nel Libro III  del Capitale.


Nel capitolo XX del III Libro leggiamo: “Qualunque sia il modo di produzione sulla cui base si producono i prodotti che entrano come merci nella circolazione – la comunità primigenia o la produzione schiavistica, la produzione a opera di piccoli contadini e piccoli artigiani o la produzione capitalistica -, ciò nulla cambia al loro carattere di merci; e come merci essi devono attraversare il processo di scambio e i mutamenti di forma [cioè M-D e D-M] che lo accompagnano” (pp. 411-412). 


Il medesimo concetto è spiegato in modo più ampio e dettagliato nel capitolo IV del II Libro: “il ciclo del capitale industriale, vuoi in quanto capitale denaro, vuoi in quanto capitale merce, si incrocia con la circolazione di merci dei più svariati modi di produzione sociale, nei limiti in cui questa è nello stesso tempo produzione di merci. Siano le merci il prodotto di un modo di produzione basato sulla schiavitù, o di contadini (cinesi, ryots indiani), o di comunità (Indie orientali olandesi ), o di una produzione statale (come, sulla base della servitù della gleba, si presenta in epoche passate della storia russa), o di popoli cacciatori semiselvaggi, ecc., come merci e denaro esse stanno di fronte al denaro e alle merci in cui è rappresentato il capitale industriale, ed entrano sia nel ciclo di quest’ultimo, sia nel ciclo del plusvalore di cui è depositario il capitale merce, in quanto sia speso come reddito; dunque, entrano in entrambi i rami di circolazione del capitale merce.  Il carattere del processo di produzione da cui provengono è del tutto indifferente; come merci esse funzionano sul mercato, come merci entrano sia nel ciclo del capitale industriale, sia della circolazione del plusvalore in esso contenuto (p. 141).


Notiamo per inciso che il cenno alla produzione statale, qui riferito a “epoche passate della storia russa”, oggi potrebbe riferirsi alle merci prodotte dalle imprese di stato cinesi o di altri Paesi socialisti il che, più avanti, ci costringerà a ragionare sulle implicazioni politiche della loro integrazione nel mercato mondiale. Ciò detto, l’immediata conseguenza del passaggio appena citato è che, come leggiamo alla pagina successiva, se è vero che il modo di produzione capitalistico è condizionato da modi di produzione esistenti fuori del suo livello di sviluppo, è altrettanto vero che “la sua tendenza è, per quanto possibile, di convertire ogni produzione in produzione di merci; il suo mezzo principale a questo scopo è appunto quello di attirarle nel proprio processo di circolazione”.


Molte delle riflessioni critiche che svolgerò in questo percorso faranno leva sullo spiraglio metodologico che quel per quanto possibile apre sul determinismo che sembra qui ispirare l’argomentazione di Marx (spiraglio che, come ho argomentato altrove (1), è stato usato da autori come Costanzo Preve (2) e Gyorgy Lukács (3) per contestare le interpretazioni teleologiche della concezione marxiana della storia). Qui dobbiamo tuttavia limitarci a prendere atto che Marx ci dice che la merce funge da minimo comun denominatore, svolge il ruolo di un “linguaggio universale” in grado di mettere in relazione i modi di produzione fra loro più diversi. 


A prima vista, questa comune appartenenza dei modi di produzione alla sfera dello scambio mercantile non dovrebbe necessariamente comportare il prevalere di uno di essi su tutti gli altri. Ma per Marx le cose non stanno così: non appena la merce diviene capitale-merce essa si trasforma in un acido corrosivo che tutto dissolve: “Via via che questa [la produzione capitalistica di merci] si sviluppa, esercita effetti disgreganti e dissolventi su ogni forma di produzione anteriore, che, avendo soprattutto di mira i bisogni personali immediati, non trasforma in merce che l’eccedenza del prodotto” (Libro II, cap. I, p. 59). In poche parole, a determinare la differenza - nonché il dominio del modo di produzione capitalistico su tutte le altre forme sociali -  è, da un lato, il carattere limitato della produzione semplice di merci (propria delle società in cui solo il prodotto che eccede il bisogno personale immediato diventa merce), dall’altro, il carattere illimitato della produzione capitalistica di merce, cioè di un sistema sociale in cui il capitale-merce dev’essere integralmente trasformato in profitto pena la sopravvivenza del sistema.


Attenzione: non è la forma merce in quanto tale a svolgere la funzione dissolvente appena descritta (affermarlo equivarrebbe ad attribuirle un potere metafisico), bensì è la merce capitale, vale a dire la merce trasfigurata dal processo storico di sviluppo del capitalismo. Alle origini di tale processo si colloca il capitale mercantile: “meno sviluppata è la produzione, più il patrimonio monetario si concentra nelle mani dei mercanti o  appare come forma specifica del patrimonio commerciale” (Libro III, cap. XX, p 413). E poco sotto: “la sua [del capitale commerciale] esistenza e il suo sviluppo fino ad un certo livello sono anzi premessa storica dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, 1) come presupposto della concentrazione di patrimoni monetari, 2) perché il modo di produzione capitalistico postula produzione per il commercio, vendita all’ingrosso e non ai singoli clienti” (Ivi). Ma questo non è di per sé sufficiente a garantire il passaggio da un modo di produzione all’altro. È pur vero che “il capitale deve formarsi nel processo di circolazione prima di apprendere a dominare i suoi estremi, le diverse sfere di produzione fra le quali la circolazione serve da mediatrice” (Libro III, cap. XX p.415), ma perché le sfere di produzione (capitalistica) in questione possano esistere, occorre che, a mano a mano che ogni prodotto cade nelle mani degli agenti della circolazione, questa forza centripeta del capitale mercantile produca i suoi effetti, che consistono, come anticipato sopra, nella tendenza a convertire ogni produzione in produzione di merci, il che implica la trasformazione di tutti i produttori immediati in operai salariati.


Nel capitolo XXIV del Libro I, nel quale analizza l’accumulazione primitiva, Marx  descrive la spietatezza con cui il capitalismo procede alla separazione dei produttori immediati dai loro mezzi di produzione e alla loro trasformazione in operai salariati. Ma nei Libri II e III si dà per scontato che tale processo sia già compiuto, si presuppone cioè,“che le leggi del modo di produzione capitalistico si svolgano allo stato puro”, anche se Marx ammette che, nella realtà, “esiste sempre soltanto approssimazione; approssimazione però tanto maggiore, quanto più si è sviluppato il modo di produzione capitalistico e quanto più ne è limitata l'adulterazione e commistione con sopravvivenze di stati economici precedenti” (Libro III, cap. X, p. 227).


Esaurita la fase dell’accumulazione primitiva, il modo di produzione si fonda dunque sempre meno sull’appropriazione selvaggia del plusprodotto sociale per assume la sua forma “pura”, compiuta: “il capitale industriale è il solo modo di esistere del capitale in cui la funzione di quest’ultimo non consista unicamente nell’appropriazione di plusvalore , rispettivamente plusprodotto, ma, nello stesso tempo, nella sua creazione. Esso perciò determina il carattere capitalistico della produzione; la sua esistenza implica quella dell’antitesi di classe fra capitalisti e salariati. Nella misura in cui esso si impadronisce della produzione sociale, la tecnica e l’organizzazione sociale del processo lavorativo e, con esse, il tipo storico-economico della società vengono rivoluzionati. Le altre specie di capitale non gli vengono soltanto subordinate e in conformità modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi, insieme alle quali vivono e muovono, stanno e  cadono. Capitale denaro e capitale merce (…) non sono ormai più che modi di esistere – resi autonomi e sviluppati unilateralmente come esponenti di rami di affari propri -, delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste ed ora depone nella sfera della circolazione” (Libro II, Cap. I, p. 79). Al processo appena descritto appartiene la progressiva liquidazione dei piccoli capitalisti, che si presenta come una “separazione alla seconda potenza” delle condizioni di lavoro dai produttori, nella misura in cui, per questi soggetti, “il lavoro personale recita ancora una parte” (Libro III, cap. XV, p. 315). 


Il modello teorico che emerge dalle citazioni che abbiamo estratto dai Libri II e III del Capitale, parrebbe giustificare la tesi secondo cui Marx avrebbe concepito una visione profetica dello sviluppo futuro del modo di produzione capitalistico, considerandolo destinato a culminare nella propria mondializzazione senza residui, caratterizzata dalla dissoluzione integrale di tutti gli altri modi di produzione e dal tramonto dei loro sistemi di relazione sociale, progressivamente rimpiazzarti dal rapporto egemone, se non esclusivo, fra capitale e lavoro salariato. Questo punto di vista trova legittimazione in quei passaggi del Manifesto del 1848 che esaltano la funzione “civilizzatrice”del modo di produzione capitalistico, nella misura in cui la sua energia “rivoluzionaria” sovverte ogni relazione economica, politica e sociale, oltre che ogni valore civile, religioso e culturale delle forme sociali tradizionali (definite barbare o semi barbare), sottraendole al loro “torpore” secolare e allargando a dismisura la schiera dei lavoratori salariati, futuri becchini di ogni forma di dominio, oppressione e sfruttamento dell’uomo sull’uomo. 


Se dovessimo attenerci a questa interpretazione (come peraltro ha fatto buona parte della tradizione marxista occidentale) (4), ne ricaveremmo l’immagine di un Marx eurocentrico, condizionato dai paradigmi dell’evoluzionismo e dell'illuminismo progressista borghesi, o di quello che potremmo definire, con Costanzo Preve, un Marx intrappolato nei regimi narrativi “deterministico-naturalistico” e “grande narrativo” (5). Ora non si può negare che Marx, in sintonia con la sua nota metafora secondo cui sarebbe la natura umana a offrire la chiave interpretativa della natura della scimmia, abbia detto che il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire, tuttavia Baran e Sweezy, laddove citano tale affermazione (6), notano giustamente che essa andrebbe intesa nel senso che gli altri paesi europei avrebbero seguito la via tracciata dall’Inghilterra, più che come profezia sul futuro mondiale. Ma soprattutto non va dimenticato che in queste pagine Marx descrive un processo tendenziale e non un destino e, come avremo modo di vedere più avanti, è sempre attento ad analizzare le controtendenze che possono deviare il corso della storia in direzioni inedite.


In effetti, fatta eccezione per l’analisi del ruolo svolto dal saccheggio dei popoli colonizzati da parte delle metropoli capitalistiche nell’accumulazione primitiva, contenuta nelle parti finali del del Libro I, Marx non ha ampliato, se non per cenni episodici, il proprio modello teorico fino a comprendere tanto i segmenti sviluppati quanto quelli sottosviluppati del mondo capitalistico, il che, commentano Baran e Sweezy, “ha avuto lo spiacevole effetto di concentrare l’attenzione in maniera esclusiva sui paesi capitalistici sviluppati” (7). Non a caso tutti i contributi innovativi alla teoria marxista, dall’analisi di Lenin sul capitale monopolistico (8) a quello degli appena citati Baran e Sweezy, alle analisi della “banda dei quattro” – appellativo con cui Alessandro Visalli definisce i massimi teorici del sottosviluppo e del rapporto centro-periferia nel sistema mondo: Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi, Samir Amin e Gunder Frank (9) – si impegnano nello sforzo di porre rimedio a questo “buco” nell’opera di Marx. Mentre a David Harvey va riconosciuto il merito di avere messo in luce come la cosiddetta accumulazione primitiva non sia una fase storica limitata ai primordi dello sviluppo capitalistico, bensì un dispositivo sistemico permanente, che questo autore definisce accumulazione per espropriazione (10). 


Dopodiché va sottolineato come sia stato lo stesso Marx a smentire in varie occasioni - soprattutto nei testi “tardi” della seconda metà degli anni Settanta dell’800 – le letture deterministiche (teleologiche) del suo lavoro. Così ha invertito il proprio giudizio nei confronti del rapporti fra imperialismo inglese e colonia irlandese: laddove, in precedenza, aveva sostenuto - in ossequio alla presunta missione progressista/emancipatoria del modo di produzione capitalista metropolitano nei confronti dei modi di produzione precapitalistici delle colonie (proletarizzazione dei piccoli contadini) -, che gli irlandesi si sarebbero potuti emancipare solo in seguito una vittoriosa rivoluzione degli operai inglesi ma, una volta preso atto del fatto che il supersfruttamento della forza lavoro irlandese immigrata consentiva al capitalismo inglese di concedere privilegi ai lavoratori autoctoni, ha riconosciuto che, al contrario, nessuna rivoluzione proletaria sarebbe potuta avvenire in Inghilterra finché l’Irlanda non avesse conquistato la propria indipendenza (anticipando così le tesi di Lenin sul rapporto fra rivoluzione proletaria e lotte di liberazione nazionale). 


Di più: in una lettera del 1877 alla redazione di una rivista russa che aveva ospitato una recensione dell’edizione russa del Capitale scriveva, a proposito della tesi del recensore, il quale utilizzava il capitolo sull'accumulazione primitiva per sostenere che nessuna rivoluzione sociale sarebbe potuta avvenire in Russia se non dopo la completa espropriazione (e la riduzione allo status di lavoratori salariati) dei contadini, “[il mio critico] sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica si trovino (sottolineatura mia), per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto [sottinteso: troppo onore nell’attribuirmi la capacità di descrivere le leggi generali di sviluppo dell’umanità, troppo torto nell’attribuirmi intenzioni e meriti che non ho mai nutrito né rivendicato]”(11). 


Il passaggio è particolarmente significativo, sia in quanto conferma la tesi di Lukács, laddove costui nega l’intenzione di Marx di formulare delle “leggi generali” della storia in grado di prevederne gli sviluppi (12), sia perché, in quegli stessi anni, Marx stilava la celebre lettera a Vera Zasulič, nella quale, intervenendo sul dibattito fra socialdemocratici e populisti russi, non escludeva, in linea di principio e fatte salve determinate condizioni (13), che la comune contadina (obscina) potesse svolgere il ruolo di agente di una trasformazione in senso socialista della Russia, senza passare sotto le forche caudine della fase capitalistica. È qui che possiamo valutare l’importanza dell’inciso evidenziato in precedenza nella frase “la sua [del modo di produzione capitalistico] tendenza è, per quanto possibile, di convertire ogni produzione in produzione di merci”. Il per quanto possibile implica che le forme sociali precapitaliste possano non solo resistere al ma, date certe condizioni storiche, prevalere sul tentativo di colonizzazione da parte del modo di produzione capitalistico.


Del resto nel III Libro (Cap. XX p. 420) Marx precisa che la capacità del capitalismo mercantile di provocare la disgregazione dei vecchi modi di produzione “dipende, in primo luogo, dalla loro stabilità e articolazione interna”. E a pagina 422 aggiunge che, “in Cina, dove non viene loro in aiuto la forza politica diretta. La grande economia e il forte risparmio di tempo derivanti dalla combinazione immediata di agricoltura e manifattura, offrono qui la resistenza più accanita ai prodotti della grande industria”. Su queste aperture dell’ultimo Marx alcuni marxisti latinoamericani – fra i quali Mariategui (14) Dussel (15) e Linera (16) - hanno fondato le loro analisi sul potenziale anticapitalista delle comunità originarie del subcontinente. Quanto all’attualità  del riferimento marxiano alla capacità di resilienza della società e della civiltà cinese a fronte dell’aggressione imperialista occidentale, me ne occuperò nell’ultima parte di questo articolo a partire da due lavori, nell’ ordine del duo Alberto Gabriele-Elias Jabbour (17) e di Giovanni Arrighi (18). 


* * *


Ad Alberto Gabriele ed Elias Jabbour dobbiamo un importante contributo teorico sulla questione della transizione al socialismo. Si tratta di un testo sul quale dovrò soffermarmi in modo più approfondito allorché affronterò le parti dei Libri II e III dedicate al processo di socializzazione del capitale e alle sue implicazioni nei confronti della transizione al socialismo. Qui mi limiterò a descrivere la loro visione eterodossa della categoria marxiana di modo di produzione e alla tesi della compresenza di più modi di produzione sia a livello mondiale che nell’ambito di una singola realtà nazionale. 


Poco sopra abbiamo visto come il modello marxiano non conceda chance di sopravvivenza agli altri modi di produzione che vengono a contatto con il modo di produzione capitalistico attraverso la circolazione mercantile. Tutte le forme sociali che si aprono alle merci capitalistiche sono inevitabilmente destinate a venire integrate, sia pura in misura e forme diverse, al modo di produzione che le produce. Marx ha ovviamente in mente il rapporto fra modo di produzione capitalistico e modi di produzione precapitalistici ma, a un secolo di distanza dalla nascita del primo paese socialista, cui hanno fatto seguito altre rivoluzioni, è inevitabile prendere in considerazione anche il rapporto fra  modo di produzione capitalistico e paesi socialisti. Sappiamo che per molti teorici marxisti questo rapporto è mortale per i secondi: nella misura in cui questi ultimi vengono integrati (attraverso scambi commerciali, investimenti diretti e indiretti, ecc.) nel sistema economico mondiale dominato dal modo di produzione capitalistico, il loro destino è segnato: prima o poi finiranno per tornare a essere paesi capitalisti (non a caso un autore come Samir Amin teorizza il delinking (19) invitando i paesi del Sud del mondo che intendono imboccare la via del socialismo a sganciarsi dal mercato mondiale).


Gabriele e Jabbour ribaltano questa prospettiva a partire dalla messa in questione del concetto stesso di modo di produzione. Non si tratta di abbandonarlo, argomentano, bensì di relativizzarlo, tenendo conto della sua natura di modello astratto. Nel mondo reale non esistono modi di produzione, bensì formazioni socioeconomiche che si avvicinano solo approssimativamente al modello astratto. La relazione fra modo di produzione come figura universale, strutturale e costante e le sue particolari e specifiche manifestazioni storico-geografiche, scrivono (20), “è lungi dall’essere semplice”. Il primato di un determinato modo di produzione in uno specifico contesto storico, aggiungono (21), può essere assoluto o relativo. Se, per esempio, gli Stati Uniti costituiscono un caso di supremazia assoluta del modo di produzione capitalistico, in altre formazioni socioeconomiche possono esistere due o più modi di produzione che stanno fra loro in rapporti di rivalità e/o di simbiosi. 


Quest’ultima affermazione è compatibile con quanto afferma lo stesso Marx in merito al rapporto di simbiosi fra modo di produzione capitalistico e modo di produzione schiavistico nelle colonie dei paesi capitalisti, o alla sussunzione di varie forme produttive arcaiche all’interno del ciclo del capitale, ecc.. La differenza sta nel fatto che, mentre Marx ipotizza che queste forme ibride siano, almeno tendenzialmente, residui destinati ad evolvere verso la forma capitalista “pura”, Gabriele e Jabbour disegnano uno scenario più complesso e contraddittorio. Posto che a livello mondiale si può affermare che la previsione di Marx si è realizzata, nel senso che ovunque vige la legge del valore che caratterizza ogni forma di produzione mercantile fondata su relazioni monetarie di produzione e scambio (il che vale tanto per i paesi capitalisti quanto per i paesi socialisti e i paesi con consistenti residui di forme produttive precapitalistiche) (22), secondo Gabriele e Jabbour ciò non implica: 1) che la mera esistenza del plusvalore sia di per sé indice di sfruttamento di classe; 2) né che, pur restando il modo di produzione capitalistico dominante a livello mondiale, in alcuni paesi non possano convivere due o più modi di produzione, e che a prevalere, sulla lunga distanza, non sia necessariamente quello capitalistico.


Questa condizione ibrida di convivenza fra  più modi di produzione sarebbe propria di quei paesi che Gabriele e Jabbour definiscono sistemi socialistici, fra i quali collocano la Cina, caratterizzati dal ruolo prevalente giocato dallo stato in economia, e dal perseguimento di obiettivi quali riduzione della disuguaglianza, soddisfazione universale dei bisogni di base, sostenibilità ambientale, ecc. si tratta di sistemi misti dove: a) il meccanismo dei prezzi di mercato e la legge del valore sono la forma prevalente di regolazione nel breve medio- termine; b) il ruolo diretto e indiretto dello stato e il suo controllo sull’economia sono qualitativamente e quantitativamente superiori rispetto ai paesi capitalisti; c) il governo rivendica ufficialmente come obiettivo a lungo termine la realizzazione del socialismo in un contesto di rapido sviluppo socioeconomico, progresso tecnologico e evoluzione degli strumenti di governance economica. Il progresso verso il socialismo, in un simile quadro, può essere descritto come uno scenario in cui le interazioni di mercato e la legge del valore mantengano il loro ruolo e restano valide anche se la loro tradizionale egemonia subisce un progressivo indebolimento (23). 


* * *


Anche nel caso di Arrighi mi limiterò ad alcuni cenni relativi al tema di questo primo articolo dedicato ai libri II e III del Capitale, riservandomi di riprendere le tesi di questo autore quando affronterò il processo di socializzazione del capitale e le sue implicazioni nei confronti della transizione al socialismo. 


Nelle prime pagine del suo capolavoro - Adam Smith a Pechino (24) - Giovanni Arrighi  esorta a “prendere più sul serio la sociologia economica dell’economia”, ponendosi sulla scia di autori come Fernand Braudel e Karl Polanyi, i quali hanno spostato l’asse dell’analisi della forma sociale capitalistica dal piano dell’economia “pura” al piano della sociologia e dell’antropologia culturale. Arrighi imbocca la stessa direzione rovesciando l’interpretazione “canonica” delle teorie di Adam Smith: costui, argomenta, è erroneamente liquidato come l’apologeta del mercato autoregolantesi, che basta lasciare operare liberamente perché generi spontaneamente la ricchezza delle nazioni, mentre in realtà era ben consapevole che solo l’esistenza di uno Stato forte poteva garantire le condizioni di esistenza del mercato stesso, al punto da avanzare la tesi che i mercati non devono essere abbandonati al loro sviluppo spontaneo, bensì “usati” come strumenti di controllo e di governo. Una tesi, argomenta Arrighi, che ci consente di capire la logica delle “economie di mercato non capitalistiche" delle quali la Cina rappresenta il massimo esempio contemporaneo.


Adam Smith, secondo Arrighi, lo aveva intuito già nel 1776, laddove scriveva che la Cina era allora più ricca di qualsiasi Paese europeo grazie al carattere “stazionario” della sua economia (nel senso che ignorava la spinta di tipo europeo all’accumulazione illimitata), cioè grazie al fatto che aveva raggiunto la pienezza di ricchezze consentita dalla natura del suolo, dal clima e dalla posizione geografica. Sempre Smith definiva come “naturale” questo tipo di sviluppo, basato sull’agricoltura e sul commercio interno, mettendolo in contrapposizione con lo sviluppo “innaturale” delle economie europee, basato sul commercio estero. 


Arrighi sfrutta questa distinzione per sviluppare una critica nei confronti della tesi marxiana che vede nel modo di produzione capitalistico una fase che il mondo intero dovrà attraversare, prima di riuscire liberarsi dalle ferree “leggi” dell’economia (anche se, come abbiamo visto sopra, l’ultimo Marx non ne era più tanto convinto). Secondo il Marx del Capitale, lo sviluppo che Smith definisce “naturale” non ha alcun futuro possibile in un mondo in cui sia già diffuso lo sviluppo “innaturale” del modo di produzione capitalistico; quest’ultimo, grazie alla sua irresistibile spinta a travolgere ogni ostacolo, condanna ogni altra formazione sociale a disgregarsi non appena entra in contatto con le sue merci. 


La potenza della “via innaturale”, argomenta Arrighi (qui in perfetta sintonia con Marx), era il frutto dell’intensa competizione fra nazioni europee che aveva generato un mix unico di capitalismo, industrialismo e militarismo, unitamente a una superiorità tecnologica che le consentì di stroncare la resistenza delle nazioni extraeuropee. Resta però il fatto, sostiene ancora Arrighi, che l’appiattimento “globalista” previsto da Marx non si è realizzato: culture, tradizioni, modelli di relazioni sociali, forme di vita non solo hanno resistito ma, approfittando della crisi generata dal “troppo successo” del modello neoliberale, hanno contrattaccato, generando modelli di sviluppo alternativi a quello dominante, modelli fondati sul mercato ma non capitalistici, dei quali la Cina rappresenta l’esempio più significativo. Per ora mi fermo qui, limitandomi ad concludere con una osservazione metodologica: nella misura in cui assumiamo questo punto di vista, rifiutando la visione immanentista-teleologica della storia come processo unidirezionale verso il “progresso”, dovremmo sostituire la definizione di formazioni sociali pre-capitalistiche con quella di formazioni sociali non-capitalistiche. 



Note


(1) cfr. C. Formenti, Ombre rosse. Saggi sull'ultimo Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2022; vedi anche Guerra e rivoluzione, vol. I cap. I, Meltemi, Milano 2023; vedi infine, con Onofrio Romano, Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi, Roma 2019.


(2) Cfr., in particolare, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.


(3) Cfr- G.  Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. , Meltemi, Milano 2023.


(4) Per un’analisi critica del marxismo occidentale cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.


(5) Cfr. C. Preve, op. cit. Preve usa le seguenti definizioni per connotare i due regimi narrativi che attribuisce a Marx: 1) l’idea che la storia umana sia governata da “leggi” paragonabili alle leggi di natura (regime deterministico-naturalistico); 2) una “metafisica immanentistica governata da un Soggetto che marcia verso l’utopia di una società integralmente trasparente” (regine grande narrativo). A questi regimi Preve contrappone un terzo regime a suo avviso presente nell’opera marxiana, che egli definisce, seguendo la lezione di Lukács (cfr. nota 3), ontologico-sociale.


(6) Cfr. P. Baran, P, Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968.


(7) Ivi, p. 8


(8) Cfr. V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo,in Opere scelte, Vol. I, Edizioni in Lingue Estere, Mosca 1947.


(9) Cfr. A Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(10) Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2011.


(11) La lettera si trova in K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960.


(12) La critica lukacsiana alle interpretazioni teleologiche della visione marxiana della storia è ricorrente nella sua Ontologia sociale, cit.


(13) Anche le varie versioni della lettera a Vera Zasulič si trovano in India Cina Russia, cit.


(14) Cfr. J. C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici, Einaudi, Torino 1972.


(15) Cfr. E. Dussel, L'ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009.


(16) Cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.


(17) A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21 Century, Routledge, London 2022.


(18) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.


(19) Cfr. Samir Amin,  La déconnextion, la Découvert, Paris 1986.


(20) Socialist Economic... cit., p. 51.


(21) Ivi, P. p. 52


(22) Ivi p. 79. Secondo i due autori la convivenza fra differenti modi di produzione a livello mondiale può essere definita come un “meta modo di produzione” caratterizzato da produzione di merci e rapporti monetari di produzione e scambio, vigenza della legge del valore e dei mercati, estrazione di plusvalore, coesistenza di un macrosettore produttivo e un macrosettore improduttivo (p.96)


(23)  Ivi, p. 37.


(24) Vedi nota 18.

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