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martedì 25 febbraio 2025

PANAFRICANISMO, MARXISMO, COMUNISMO
I. I “CLASSICI”: DU BOIS, PADMORE, WILLIAMS, JAMES, CÉSAIRE


Traducendo Red Africa di Ochieng Okoth (vedi la mia recensione su questa pagina) mi sono reso conto di quanto poco gli occidentali di sinistra conoscano il pensiero radicale Nero. In quattro post pubblicati negli ultimi tre mesi, frutto di una prima tornata di letture dedicate al tema, ho discusso alcuni lavori di Amilcare Cabral, Said Bouamama e Walter Rodney oltre che dello stesso Okoth. Dopodiché, avendo realizzato di avere solo sfiorato le ricchezze di questo patrimonio di idee, ho avviato una seconda escursione che mi ha offerto ulteriori spunti di riflessione che cercherò di sintetizzare in tre articoli. Quello che state leggendo tratta del pensiero di cinque autori: William Du Bois, George Padmore, Eric Williams, C. L. R. James ed Aimé Césaire. Nel secondo mi occuperò del monumentale lavoro di Cedric Robinson, Black Marxism, nel terzo affronterò la critica di Angela Davis al femminismo delle classi medie bianche. 


Come spiega Caroline Elkins nel suo formidabile saggio sui crimini dell'imperialismo britannico (1), nel periodo fra le due guerre mondiali un gruppo di intellettuali giamaicani “itineranti” fra Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti (con puntate in Africa e in Unione Sovietica) si fece promotore del progetto di costruzione di un centro mondiale di pensiero anticoloniale che tentò di mixare le culture africane tradizionali (tanto nella versione originale che in quella diasporica) alla teoria marxista e agli insegnamenti della Rivoluzione Russa. Di questa esperienza, e dei suoi prolungamenti successivi, fecero parte fra gli altri, assieme ai già citati DuBois, Padmore, Williams, James e Césaire, Frantz Fanon, Marcus Garvey (il primo a rivendicare una nazione per gli afroamericani) e il leader storico (assieme a Malcolm X) del Black Panther, Stokely Carmichael. In questo articolo mi occupo però solo dei primi cinque. 







William Du Bois. Il decano


Du Bois nasce nel 1868 in una cittadina del Massachusetts, dopo che il padre, (un sangue misto franco-africano di religione ugonotta) e la madre (nera nata libera ma discendente di schiavi) erano emigrati negli Stati Uniti.  È il primo afroamericano a conseguire un dottorato ad Harvard e, divenuto professore di storia, a insegnare la materia all’Università di Atlanta. Di orientamento democratico-progressista, dirige la rivista “Crisis” fino agli anni Trenta, dopodiché si avvicina progressivamente al marxismo fino ad aderire (nel 1961) al Partito Comunista americano (non senza riserve, in quanto convinto che il movimento comunista conservasse pregiudizi razzisti che sarebbero potuti sparire solo in una società comunista realizzata). Muore nel 1963.


Nella sua lunga fase “integrazionista”, Du Bois fu esponente radicale di un’intellighenzia nera  che praticava quella che Cedric Robinson (autore di cui mi occuperò in un articolo successivo) definisce ironicamente “strategia della supplica”. L’ala moderata di questa tendenza, incarnata da Booker Washington, predicava la necessità di riconciliarsi con i vecchi padroni rinunciando a rivendicare parità di diritti e accesso all’istruzione superiore, e investendo piuttosto sull’istruzione tecnico professionale, in modo da acquisire competenze sufficienti a garantire il benessere economico ai discendenti degli schiavi. Du Bois criticò questa posizione sostenendo che, al contrario, i Neri avrebbero dovuto battersi per accedere all’istruzione superiore, perché solo così avrebbero potuto ottenere la parità e integrarsi nella società americana (2). Tuttavia anche lui, nota Robinson, restò a lungo legato all’idea che solo una élite nera avrebbe potuto elevare le masse “civilizzandole”, combattendo cioè le tendenze all’ozio, al gioco, al crimine e alla prostituzione. A quel tempo si vantava che i suoi allievi erano divenuti guide prudenti e non agitatori alla testa di folle in tumulto. 


È la realtà dei fatti che caratterizzano la società americana nel mezzo secolo successivo alla Guerra Civile a fargli progressivamente capire i propri errori. Vede come il sogno degli schiavi liberati di diventare proprietari “di quaranta acri di terra e di un mulo” svanisca progressivamente, concedendo ai Neri emancipati la sola “libertà” di sgobbare come braccianti e mezzadri, schiacciati dai debiti e costretti ad accettare condizioni di lavoro e di vita non molto migliori di quando erano schiavi. Vede come l’odio razzista dei bianchi poveri del Sud (e del Nord) non allenti la propria morsa ma anzi si intensifichi con lo scorrere del tempo, causando la ghettizzazione dei neri “liberati”. Vede come l’emergenza di una piccola borghesia nera non abbia dato vita alla leadership che aveva sognato, bensì a una minoranza conservatrice, se non reazionaria. Vede infine come anche la speranza che ottenendo diritto di voto i problemi dei Neri si sarebbero risolti si sia rivelata una illusione.


William Du Bois



La continuità fra il Du Bois integrazionista e il Du Bois rivoluzionario consiste nella consapevolezza che il problema del secolo XX (e potremmo aggiungere del secolo XXI) è la “linea del colore” che attraversa e divide le masse popolari oppresse e sfruttate. Il nuovo Du Bois, tuttavia, ha ormai chiaro che il problema fondamentale da cui partire per impostare la lotta è lo sfruttamento capitalistico del lavoro. Egli ha cioè capito, per dirla con Cedric Robinson, che non è in quanto schiavi ma in quanto forza lavoro che si può comprendere il ruolo svolto dai Neri nello sviluppo americano. Ha capito, per dirla altrimenti, che lo schiavismo va analizzato come sottosistema dello sviluppo capitalistico globale. Questa lucidità lo aiuta a respingere il punto di vista “essenzialista” che rischia di congelare il conflitto razziale, impendendo la ricomposizione dal basso degli interessi di classe e, assieme alle sue straordinarie testimonianze letterarie - che anticipano le analisi del Franz Fanon di Pelle nera maschere bianche (3) relative all’esperienza psicologica di sdoppiamento che il Nero vive specchiandosi nello sguardo dell’altro, rappresentano il suo lascito agli autori analizzati nei prossimi paragrafi. 



Eric Williams e Robert K James, le voci di Trinidad 


La scelta di accostare questi due autori non è dettata solo dalla loro comune nazionalità (erano entrambi trinidadiani): tanto Williams - che fu il primo ad assumere la carica di primo ministro di Trinidad e Tobago dopo l’indipendenza – quanto James –  discendente di una famiglia di schiavi influenzato dagli scritti di Williams – furono esponenti di spicco della diaspora londinese degli intellettuali neri attivi nella lotta anticoloniale (James fu membro del movimento troskista, dal quale finì tuttavia per prendere le distanze). 


La fama di Williams è legata soprattutto a Capitalism and Slavery (4), un libro pubblicato nel 1944 che riprendeva gli argomenti di una dissertazione di dottorato del 1938 (rifiutata da sei editori, benché avesse ottenuto i giudizi positivi di autorevoli storici accademici). La tesi centrale di questo lavoro è che l’abolizione della schiavitù e del commercio di schiavi verso le Indie Occidentali non sia stato l’esito delle campagne abolizioniste bensì di precisi interessi economici di una parte della classe capitalistica inglese, e delle forze politiche che la rappresentavano. Ma a fare scuola nell’ambiente degli intellettuali marxisti neri, fu soprattutto l’affermazione che è stata la schiavitù in quanto fattore determinante dell’accumulazione capitalistica a generare il razzismo, e non viceversa. Detto altrimenti: il razzismo è nato come razionalizzazione di una pratica economica tanto immorale quanto lucrativa. 


Secondo Williams i fattori storici che hanno reso indispensabile il ricorso al lavoro degli schiavi neri sono stati, nell’ordine, 1) il fatto che le popolazioni amerindie, dopo essere state schiavizzate, si sono estinte in brevissimo tempo (sia per le malattie importate dai bianchi, per le quali non avevano difese immunitarie, sia perché fisicamente e psicologicamente inadatti a sopportare il lavoro coatto); 2) la difficoltà di trasformare in forza lavoro efficiente i migranti bianchi provenienti dalla madre patria. Williams ricorda che gli immediati precursori degli schiavi neri sono stati i bianchi poveri: debitori a contratto, gente disposta a lavorare gratis per pagarsi il viaggio, religiosi non conformisti in fuga dalle persecuzioni, irlandesi e tedeschi in fuga da guerre e fame. Tutti soggetti che, in base alle tesi dei mercantilisti, alimentavano una sovrappopolazione che generava a sua volta il vagabondaggio e il crimine. 


I bianchi poveri non erano però condannati alla servitù a vita, mantenevano alcuni diritti e i loro figli nascevano liberi, inoltre i bianchi affrancati, soprattutto sul continente, in un contesto ambientale che offriva terre libere in grande quantità preferivano - come già osservava Marx in un capitolo del Primo Libro del Capitale (5) – darsi alla piccola coltivazione indipendente piuttosto che lavorare a salario nelle grandi piantagioni. Così, benché Adam Smith sostenesse che i lavoratori liberi sarebbero stati più produttivi e meno costosi degli schiavi, nei Caraibi fu giocoforza adottare la schiavitù che, oltretutto, garantiva un lavoro continuativo e cooperativo indispensabile per le coltivazioni estensive e la produzione su larga scala. Con l’affermarsi di questa soluzione, i piccoli coltivatori bianchi furono spazzati via dalla concorrenza dei grandi piantatori e i Caraibi divennero una società in cui potevano esistere solo due classi: ricchi piantatori e schiavi. Fin qui l’analisi dei motivi per cui il lavoro non libero nel Nuovo Mondo, inizialmente multirazziale, è divenuto esclusivamente nero. Ma con quali argomenti Williams giustifica la tesi secondo cui la schiavitù svolse un ruolo strategico per la nascita del capitalismo inglese? 


Williams descrive i dispositivi che governano il cosiddetto commercio triangolare: Gran Bretagna e Francia forniscono le navi negriere, l’Africa fornisce gli schiavi e le colonie restituiscono materie prime (zucchero, tabacco, cacao ecc.) alle rispettive economie patrie, un movimento inquadrato in un rigido sistema monopolistico imposto dalla teoria mercantilista, per cui le colonie possono vendere i propri prodotti solo alla madre patria (ciò che sarà causa della guerra d’indipendenza americana a fine Settecento). In Inghilterra anche il commercio di schiavi è sottoposto al monopolio della Company of Royal Adventures fino al 1698. Dopodiché venne liberalizzato e vide due milioni di neri trasbordati dall’Africa alle Americhe fino alla fine del Settecento. L’infame commercio arricchì Liverpool (a lucrare non erano solo i mercanti di schiavi, ma gli armatori e tutte le categorie dell’indotto: marinai, tessitori, avvocati, barbieri, falegnami, ecc. i quali investivano a loro volta nella tratta in quanto piccoli azionisti). Per di più  la Gran Bretagna, dopo aver vinto la guerra con la Francia, assunse il controllo della costa africana e conseguentemente della tratta.


Eric Williams



I dati forniti da Williams sono inequivocabili (ancorché ignorati o contestati dagli storici “ufficiali”, impegnati a difendere la tesi dello sviluppo autoctono dell’economia europea): ad arricchirsi non furono solo le città portuali, come Bristol e Glasgow oltre a Liverpool, ma anche i grandi centri dell’intero, come Manchester, nei quali i capitali accumulati con il commercio triangolare alimentarono lo sviluppo di vari settori industriali (legname, manifatture cotoniere, raffinazione dello zucchero, distillazione del rum, metallurgia fra le altre), delle banche e successivamente dell’industria pesante (acciaio, armi, ferrovie). In poche parole, la tesi di Williams è che l’accumulazione primitiva – come del resto ammesso dallo stesso Marx (6) – deve molto se non tutto alla tratta degli schiavi. 


A mano a mano che cresce l’influenza economica, politica e culturale del capitale industriale e dei teorici del free trade (Adam Smith in testa), l’economia schiavistica delle colonie perde però progressivamente di peso, tanto più dopo che le rivoluzioni di Haiti (vedi l’appendice in coda a questo articolo) e delle colonie nordamericane ne falcidiano i profitti. Così, malgrado la strenua resistenza della lobby dei piantatori delle Indie Occidentali (e dei loro alleati: mercanti, armatori e agenti coloniali), la tratta (1807) e la schiavitù (1833) vengono abolite e il monopolio dello zucchero, che aveva a lungo alimentato le politiche mercantiliste, subisce lo stesso destino nel 1846. Vittoria degli argomenti morali degli abolizionisti? No, replica Williams, trionfo del capitalismo liberista sul capitalismo mercantilista. 


* * *


Ne I Giacobini neri (7) - dedicato all’unica insurrezione di schiavi vittoriosa della storia delle Americhe, la Rivoluzione Haitiana (1791 – 1804) – Robert James rilancia la tesi che Williams avanza sulla relazione  fra schiavitù e accumulazione primitiva, basandosi però sulla storia francese. Dalla metà del Settecento, ricorda James, l’economia inglese che prospera sul commercio triangolare (vedi sopra) viene sfidata dalla Francia che sfrutta a sua volta le risorse delle proprie colonie antillane (Martinica, Guadalupa e, soprattutto, San Domingo isola di cui occupa la metà che diventerà l’attuale Haiti, mentre l’altra metà era proprietà della corona spagnola).


Il rapporto fra madre patria e colonie era identico a quello appena descritto, era cioè fondato sul modello mercantilista che obbligava i coloni ad acquistare le merci indispensabili alla riproduzione della società isolana dalla Francia, alla quale doveva vendere a sua volta tutti i propri prodotti (a partire dallo zucchero, che poteva essere raffinato solo sul territorio della metropoli), mentre il commercio nei due sensi doveva avvenire su navi francesi. Questo traffico, fondato sull’oppressione e sullo sfruttamento degli schiavi neri arricchiva un blocco di potere del tutto simile a quello generato dal mercantilismo inglese: piantatori, mercanti di zucchero e schiavi, armatori delle città francesi marinare, raffinerie di zucchero, finanzieri e le molteplici attività dell’indotto. 


C. L. R. James



James ricorda poi che l’enorme ricchezza creata da San Domingo rappresentava una sfida per la Gran Bretagna, soprattutto a partire dal momento in cui le colonie britanniche delle Indie Occidentali divengono invece meno redditizie, per cui la spinta abolizionista inglese non fu alimentata solo dal venir meno della centralità di quei possedimenti per la ricchezza nazionale, ma anche dal fatto che, se la Gran Bretagna fosse riuscita a bloccare o ridurre drasticamente il flusso di schiavi verso San Domingo, la sua ricchezza (e di conseguenza quella francese) avrebbe patito seri danni. 


Di qui nasce un paradosso: da un lato, la schiavitù aveva creato le condizioni di prosperità per una borghesia francese che sarebbe stata protagonista della Rivoluzione del 1789 (e ciò avrebbe rafforzato le idee abolizioniste, che già esistevano prima della Rivoluzione); dall’altro lato, il blocco mercantilista cappeggiato dai piantatori (che odiavano la vita nelle colonie per cui preferivano risiedere a Parigi, dove sfoggiavano le proprie ricchezze) sarebbe riuscito a opporsi efficacemente anche durante la Rivoluzione all’emancipazione dei neri, che pure sembrava l’esito ovvio dei principi universali di libertà, uguaglianza e fraternità proclamati nell’89. Finché la vittoria dell’insurrezione nera di San Domingo e l’indipendenza finalmente ottenuta nel 1804 chiusero definitivamente la partita, proiettando la Francia – al pari dell'Inghilterra – nell’era del capitalismo moderno, in cui sarebbero spariti lo schiavismo ma non  l’oppressione e il razzismo.



George Padmore ed Aimé Césaire. L’imperialismo bianco è sempre fascista 


George Padmore, il cui vero nome era Malcolm Nurse, era nato anche lui a Trinidad (ad Arouca) nel 1902, ma ha passato la maggior parte della vita fra Stati Uniti e Gran Bretagna (morì a Londra  nel 1959) ed è stato in Unione Sovietica. Impegnato nei movimenti antimperialisti e anticolonialisti fra le due guerre mondiali, diresse il giornale “Nero Worker” e fu uno degli esponenti dell’afro marxismo più vicini all’ortodossia comunista,  al punto da divenire membro del Comintern, dal quale si dimise quando si convinse che la linea di questo organismo stava trascurando la lotta contro l'imperialismo europeo. Su questo argomento la posizione di Padmore era radicale: amava ripetere che i sudditi neri non coglievano alcuna differenza reale fra fascismo e imperialismo, e che “quando il popolo britannico parla di fascismo dovrebbe guardare all’interno del proprio Impero”; usava espressioni come fascismo coloniale, affermando che c’era più terrorismo fascista in India e in Africa di quello esercitato da Hitler e Mussolini (8). Esaltando Lenin (che considerava il teorico rivoluzionario più importante della storia) e la sua visione della stretta interconnessione fra lotta di classe nelle metropoli e lotte di liberazione nazionale nelle colonie, Padmore considerava imperialismo liberale e imperialismo fascista come ideologie intercambiabili che corrispondevano a diversi livelli di lotta di classe nei singoli paesi. 


Giustificando i principi  di realpolitik che governavano la politica estera dell'Unione Sovietica, Padmore sottolineava come essa fosse dettata dalla necessità di mantenere lo status quo, evitando la convergenza di tutte le potenze europee contro Mosca. Da un lato, le conseguenze del trattato di Versailles (che Padmore definì il più stupido e criminale documento della storia umana), facevano sì che la Germania, privata della possibilità di espandersi altrove, avesse le sue sole possibilità di conquista ad Est. Dall’altro lato Churchill, che già aveva investito milioni di sterline per finanziare la guerra civile contro i bolscevichi, avrebbe volentieri dato via libera al Terzo Reich per attaccare la Russia, in cambio della rinuncia ad accampare pretese in Africa. Così, anche quando i processi di Mosca avevano iniziato a diffondere sfiducia fra i lavoratori degli altri Paesi, Padmore ribadì che il compito delle masse operaie del mondo restava quello di difendere l'Unione Sovietica in caso di guerra in nome dei loro stessi interessi. 


George Padmore



Quello che invece Padmore non poteva tollerare era il disinteresse nei confronti delle lotte dei popoli coloniali. L’incapacità di comprenderne le aspirazioni, sia da parte del Comintern che da parte delle sinistre europee occidentali, era infatti un chiaro sintomo di altre due incomprensioni: in primo luogo, del fatto che i relativi privilegi delle masse dei Paesi occidentali si fondano sull’oppressione e lo sfruttamento di centinaia di milioni di esseri umani degli imperi coloniali; secondariamente, del fatto che la disillusione degli immigrati sbarcati in GranBretagna e negli Stati Uniti in cerca di democrazia e di una vita dignitosa avrebbe potuto rappresentare, assieme alle lotte anti-coloniali, un potente detonatore per la rivoluzione mondiale. Una cecità cui non era estranea l’ideologia razzista che le borghesie occidentali erano riuscite a inculcare nei lavoratori bianchi. 


Simile, per vari aspetti, la biografia politica del francese di origine martinicana Aimé Césaire (1913-2008). Poeta della scuola surrealista e drammaturgo, nonché leader politico iscritto al Partito Comunista Francese, da cui prese le distanze nel 1956 con una lettera aperta al segretario Thorez nella quale accusava il Partito di sottovalutare il ruolo della lotta anticoloniale nel processo di emancipazione dell’uomo (9), fondò il partito progressista martinicano e fu sindaco della capitale martinicana di Fort de France. 





Nel campo degli studi postcoloniali, Césaire è celebrato soprattutto per avere coniato, assieme a Leopold Senghor, il concetto di Negritudine che, a partire dalla riscoperta del contributo dei popoli africani alla storia dell’arte, contestava le pretese europee di superiorità culturale e civile. Tuttavia, mentre Senghor ne diede un’interpretazione moderata, contestata dal pensiero nero radicale (10), Césaire ne fu un profeta dai toni esplicitamente rivoluzionari. Quando gli veniva richiesto di spiegare il senso della Negritudine, rispondeva “faccio l’apologia sistematica delle civiltà non europee distrutte dall’imperialismo”, per poi esaltarne la storia e i valori in quanto società comunitarie, non fondate sul privilegio di pochi, democratiche, cooperative e fraterne, non solo precapitalistiche ma anche anticapitalistiche (11). 


Se Padmore ha sotto gli occhi i crimini dell’imperialismo inglese a Césaire non sfuggono quelli dell’imperialismo francese e, rispetto al massacro coloniale pianificato in Algeria e in Indocina, reagisce, esattamente come Padmore, riscontrando un rapporto di continuità assoluta fra liberaldemocrazie borghesi e fascismo e arrivando ad affermare che Hitler non è un’aberrazione bensì il legittimo prodotto culturale dell’esperienza coloniale occidentale. Questa identificazione si fa particolarmente dura in quel Discorso sul colonialismo (12) in cui scrive che le democrazie d’Europa e Stati Uniti non rimproverano a Hitler il crimine contro l’uomo, ma il crimine contro l’uomo bianco, cioè il fatto di avere praticato contro gli europei gli stessi metodi che costoro hanno applicato nei Paesi colonizzati (13). In conclusione il discorso di Césaire non è un testo accomodante con gli eufemismi della critica postcoloniale degli accademici angloamericani e con la loro politica dell’identità, bensì una feroce accusa a una civiltà occidentale compromessa e a “una cultura moribonda chiamata a rendere conto del più elevato numero di cadaveri della storia”. 



Appendice. Note sulla rivoluzione haitiana


Alla fine del Settecento San Domingo era di gran lunga la più ricca delle colonie antillane. L’isola era stata divisa fra Francia e Spagna nel 1695, con il trattato di Ryswick, ma i francesi erano riusciti a far fruttare i loro possedimenti assai più degli spagnoli, attraverso la coltivazione estensiva della canna da zucchero e lo sfruttamento selvaggio degli schiavi africani. La mortalità della popolazione nera era altissima a causa dei maltrattamenti e del lavoro massacrante, mentre i ritmi riproduttivi erano bassi (i legami familiari erano precari, la mortalità infantile elevata e le motivazioni per generare bambini pressoché nulle), perciò, a causa di questo doppio problema, la forza lavoro coatta doveva essere continuamente rimpiazzata con nuove infornate di schiavi così, nel 1789, più dei due terzi dei cinquecentomila schiavi sull’isola erano nati in Africa. A tale proposito, James fa notare che questi nuovi arrivati erano i meno docili e, più in generale, smentisce il mito della “remissività” dei neri schiavizzati: benché oppressi al limite (e spesso oltre) dell’umanamente sopportabile, scrive, essi restavano esseri umani intelligenti e carichi di risentimento (14). 


Lo spirito di rivolta si manifestava soprattutto attraverso la fuga (un fenomeno diffuso in tutte le Americhe laddove esistevano larghe masse di schiavi). Gli schiavi fuggiaschi (maroons) si rifugiavano nelle selve delle montagne interne, dove formavano bande organizzate che sviluppavano piccole economie di sussistenza e assaltavano le piantagioni per procurarsi armi e cibo e per arruolare altri compagni di lotta (a metà Settecento il loro numero era valutato a circa tremila). Il collante ideologico- culturale di queste forme di resistenza era il culto voodoo, che mixava diverse credenze delle regioni di provenienza, assieme alla reintegrazione di pratiche produttive originarie e al ruolo di leadership degli “uomini-medicina”; un complesso di fattori, lascia intendere James, che può essere considerato uno dei prodromi dello spirito panafricano che nascerà nelle Americhe grazie al contatto fra diverse etnie nere. 


Quanto alla popolazione bianca: i piantatori (grandi bianchi) odiavano la vita nelle piantagioni e, appena possibile, tornavano a vivere nella metropoli dove potevano esibire le loro smisurate ricchezze, i piccoli bianchi erano vagabondi, ex galeotti, avventurieri, lavoratori a contratto, ma nessuno di essi svolgeva lavori servili, infine c’erano i militari e i burocrati che amministravano la colonia e godevano di un potere assoluto e senza regole (in tutto trentamila persone). James analizza poi altre due componenti: la prima era costituita da una piccola casta privilegiata fra gli schiavi che comprendeva capi squadra, cocchieri, cuochi, servitù domestica, concubine, ecc. che potrebbero essere definiti una “piccola borghesia” nera che avrebbe sfornato diversi “quadri” della Rivoluzione. La seconda era la popolazione mulatta che, secondo James, avrebbero svolto un ruolo oscillante nel corso del processo rivoluzionario, schierandosi a volte con gli schiavi a volte con i bianchi non in ragione della pelle bensì del loro ruolo di “classe media”(ai mulatti erano negati i diritti dei bianchi, ma alcuni di essi riuscivano ad accumulare notevoli ricchezze, divenendo a loro volta proprietari di schiavi e sviluppando sentimenti di superiorità razziale nei loro confronti).


Al lettore di formazione marxista non sarà sfuggito un certo gusto anacronistico che si accompagna all’uso delle categorie sociologiche di piccola borghesia e classe media. Ciò non è casuale: James è convinto che la Rivoluzione Haitiana sia stata un evento non meno “moderno” delle contemporanee rivoluzioni americana e francese e che abbia addirittura anticipato certi caratteri delle successive rivoluzioni socialiste. Ancora più significativa, da questo punto di vista, la sua riflessione sull’identità e il ruolo di classe degli schiavi neri: vivendo a lavorando assieme in gruppi di centinaia nelle grandi piantagioni, scrive, la loro condizione era più simile a quella del proletariato moderno di qualsiasi altro lavoratore a quel tempo ed è così che diedero vota a un movimento di massa organizzato. Come si vede, viene qui istituita una consistente analogia fra “classe schiavile” e classe operaia moderna, se vogliamo addirittura con l’operaio massa della produzione fordista, analogia rafforzata dal riferimento alla presunta capacità di auto organizzazione spontanea del movimento. In questo approccio pare di avvertire una eco delle simpatie troskiste di James (15), ma torneremo più avanti sui problemi teorici sollevati dal punto.


In questo contesto di stridenti contraddizioni sociali irrompe la notizia della Rivoluzione del 1789. Fra i bianchi si formano tre partiti: i realisti (perlopiù funzionari coloniali) i patrioti e l’Assemblea provinciale del Nord. I primi a ribellarsi e a ottenere il riconoscimento di alcuni diritti sono i mulatti, ma la borghesia francese che sta costruendo il proprio stato subisce il ricatto delle élite dei piantatori e degli armatori – ben rappresentati nell’Assemblea Nazionale - che sbarrano la strada alle istanze abolizioniste, sia ventilando le gravi conseguenze che queste avrebbero avuto sull’economia dell’isola e, indirettamente, su quella francese, sia rivendicando il fatto che gli schiavi – in quanto “beni privati” – erano tutelati dal diritto di proprietà. A causa di questa resistenza, la schiavitù verrà abolita (almeno sul piano giuridico formale) solo nel 1794, mentre il Direttorio e Napoleone Bonaparte cercheranno di fare marcia indietro. Ma gli schiavi, sempre più spinti all’azione dalle notizie che provengono da Parigi, non sono disposti ad attendere tanto: nel 1791 esplode la rivolta e inizia una guerra civile che durerà fino alla proclamazione dell'indipendenza dell’isola (ribattezzata Haiti) nel 1804. 


Gli insorti raggiungono il numero di centomila nel giro di poche settimane e, come prima forma di lotta, adottano quella di devastare e dare fuoco alle piantagioni. James scrive che gli schiavi, ignorati da tutte le altre fazioni in campo (realisti, patrioti e mulatti) “si auto organizzano e iniziano a lottare per la libertà” e agiscono autonomamente “come fossero stati nella metà del secolo XX”. In realtà questo giudizio sulla loro spontanea capacità di organizzazione autonoma e di prolungata e vittoriosa resistenza nei confronti delle potenti forze militari che vengono scatenate loro contro suona un po' “ideologica” (vedi sopra quanto affermato sull'anacronismo di certe categorie di lettura utilizzate da James). Tanto più che lo stesso James ci fa capire che la Rivoluzione non avrebbe mai potuto vincere se non fosse apparsa sulla scena la figura di un  condottiero dalle doti eccezionali: Toussaint L'Ouverture (16). 


Toussaint L'Ouverture



La leadership tanto dello scontro militare quanto della conduzione politico diplomatica del gioco delle alleanze si concentra nella mani di quest’uomo che, nel momento in cui assume il ruolo di condottiero, aveva già quarantacinque anni e molti capelli bianchi. Questo esponente della “piccola borghesia nera” era addetto a funzioni organizzative nella piantagione del suo padrone, gli era stato concesso di avere moglie e figli e sapeva leggere e parlare un sia pur stentato francese (abilità acquisite da autodidatta, stante che i bianchi ritenevano – giustamente, viste le conseguenze – che gli schiavi istruiti fossero i più pericolosi). Di corporatura minuta era tuttavia dotato di eccezionale vigore fisico (poteva cavalcare per ore e spostarsi di centinaia di chilometri nella stessa giornata in base alle esigenze della lotta) oltre che di una ferrea volontà.


Idolatrato dai suoi seguaci ,Toussaint rivela straordinarie capacità tattiche e strategiche, vincendo battaglie “impossibili” contro nemici superiori di numero e meglio armati, ma soprattutto si muove con incredibile astuzia nel mettere l’uno contro l’altro i propri avversari: nel 1793 gli insorti incalzati dalla truppe inviate da Parigi per domare la rivolta riescono a resistere alleandosi con i realisti spagnoli che occupano l’altra parte dell’isola. Superata questa crisi, la situazione si complica ulteriormente con l’intervento inglese, dal momento che la Gran Bretagna, sperando di sottrarre alla Francia il controllo dell’isola, ne invade le coste con una poderosa spedizione che, fra morti di febbre gialla, uccisi e feriti in combattimento, costerà a Londra decine di migliaia di soldati prima di essere costretta ad abbandonare l’impresa. Insomma, nel giro di pochi anni, l’esercito degli schiavi sconfigge francesi, spagnoli (passati da alleati a nemici) ed inglesi e Toussaint, ormai padrone assoluto dell’isola, si schiera, dopo che la Repubblica dichiara l’abolizione della schiavitù, con la madre patria e viene nominato comandante in capo dell’armata repubblicana di San Domingo. 


È però a questo punto che la sua stella inizia a declinare. In primo luogo, le terribili devastazioni provocate da anni di guerra civile rischiano di ridurre alla fame l’intera popolazione, per cui è costretto a chiedere agli ex schiavi di tornare a lavorare nelle piantagioni e trovare un compromesso con quei padroni che non sono stati uccisi o non sono fuggiti dall’isola, una scelta tanto obbligata quanto impopolare (17). Poi iniziano una serie di rivolte e di conflitti fratricidi con i mulatti che, pur di non rinunciare ai propri privilegi, si alleano con i nemici di Toussaint. Infine viene sfidato da una serie di rappresentanti del governo centrale dello stato repubblicano, i quali cercano di ridimensionarne il potere e di ristabilire rigide gerarchie di classe, se non di restaurare la schiavitù. Toussaint riesce rispedirli uno dopo l’altro in Francia, tuttavia, per ottenere tale risultato, si imbarca in una serie di spericolate manovre diplomatiche alleandosi, di volta in volta, con questa o quella fazione in lotta per il potere, per cui James gli rimprovera di essersi progressivamente distaccato dalle masse – alle quali non spiega i motivi delle proprie decisioni - comportandosi da dittatore benevolo ma assoluto.  



Napoleone Bonaparte




Gli rimprovera inoltre di essere rimasto fedele fino all’ultimo alla Francia, non raccogliendo le istanze di indipendenza che vengono dalla "sinistra” del suo schieramento. Ma soprattutto Toussaint non capisce le intenzioni di Napoleone, il quale punta a soffocare la rivolta e restaurare la schiavitù a San Domingo, per cui tenta ingenuamente di ingaggiare con il Primo Console una schermaglia diplomatica da pari a pari perdendo tempo prezioso, finché si troverà di fronte un poderoso esercito d’invasione e questa volta perde la partita: dopo essersi arreso verrà condotto in Francia dove morirà nella fortezza in cui viene confinato. James offre una lettura – che anche in questo caso ritengo di poter definire anacronistica – “troskista” della sua fine: paragona cioè i suoi errori a quello dei bolscevichi che, avendo distrutto la “sinistra” del Partito, si sono consegnati al nemico di classe: “il suo desiderio di evitare la distruzione, scrive ha finito per provocarla, come spesso capita ai moderati”. È così toccato al suo “rozzo” e spietato luogotenente, il generale Dessalines, completare l'opera buttando a mare gli invasori e proclamando l’indipendenza di Haiti (18)



Qualche riflessione conclusiva


il primo, e forse il più interessante, spunto di riflessione che emerge dalla lettura degli autori analizzati nell’articolo che avete appena letto, è il rilancio della tesi della centralità delle economie coloniali, e in particolare dello sfruttamento intensivo del lavoro schiavile nero (ma non solo), quale fattore determinante dell’accumulazione capitalistica primitiva e quale innesco del processo di transizione dall’economia mercantilista al liberismo. Non si tratta solo dei processi, ben descritti da Williams, di arricchimento di città portuali come Liverpool, Bristol e Glasgow e industriali come Manchester che, grazie ai proventi del commercio triangolare (vedi sopra), hanno accumulato capitali sufficienti a favorire il decollo di settori industriali strategici. Si tratta anche di quel movimento dialettico in ragione del quale le élite borghesi arricchitesi (anche) grazie allo schiavismo diventano, tanto in Gran Bretagna (Williams) che in Francia (James) agenti dell’abolizionismo nel momento in cui le economie coloniali perdono slancio. L'approccio materialista di autori come Williams e James tende dunque a rovesciare il punto di vista essenzialista sul fenomeno della schiavitù: non fu il razzismo, argomenta Williams, a causare la schiavitù ma fu il ruolo economico decisivo di quest’ultima e generare il razzismo in quanto fattore ideologico legittimante della riduzione in schiavitù di milioni di esseri umani. Un corollario di questa interpretazione è la svalutazione del ruolo delle campagne abolizioniste e dei loro appelli morali che, pur non sparendo del tutto, retrocede in secondo piano rispetto al fattore economico.


Per quanto questa attenzione al ruolo della schiavitù nel processo di accumulazione capitalistica non fosse una novità (se ne occupò già Marx), se allarghiamo la visuale dall'orizzonte specifico della schiavitù a quello più generale del rapporto fra metropoli e periferie, dobbiamo prendere atto che, non solo nel campo liberale ma anche nel campo marxista occidentale, vi è sempre stata una forte resistenza ad ammettere che l’origine del capitalismo moderno e la sua stessa sopravvivenza nella fase imperialistica sono strettamente legati allo sfruttamento e all’oppressione coloniale e post coloniale. 


 Nel lungo dibattito sul rapporto fra sviluppo del centro e sottosviluppo delle periferie (19) si è spesso tentato di obiettare alle tesi dei cosiddetti “terzomondisti” che lo sviluppo occidentale è stato di natura prevalentemente, se non esclusivamente, endogeno. Così gli storici accademici hanno contestato la tesi di Williams svalutandone gli argomenti; così molti economisti marxisti hanno demolito le tesi di Rosa Luxemburg sull’accumulazione allargata (20) attaccandone i ragionamenti “tecnici” ed escludendo a priori che potesse essere dimostrata con altre argomentazioni; così, infine, un marxista radicale come David Harvey – che pure, con la categoria di “accumulazione per espropriazione”, difende la tesi secondo cui l’accumulazione primitiva non è una “fase” bensì una modalità permanente della riproduzione della società capitalista – ha polemizzato con la coppia di economisti indiani Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik e con le loro tesi sullo sfruttamento imperialista dell’India da parte dell’Inghilterra (21). 


Questa reticenza delle sinistre occidentali (comunisti compresi) ad ammettere che i privilegi in termini di reddito e di diritti sociali politici e civili di cui godono le masse popolari delle metropoli sono ottenuti a spese di centinaia di milioni di persone degli imperi coloniali (e post coloniali), e ad ammettere che ciò fa sì che il ruolo rivoluzionario delle masse oppresse del Sud del Mondo non sia complementare a quello delle masse metropolitane, ma che valga piuttosto il contrario, sono i due fattori che più di ogni altro hanno contribuito all’allontanamento di intellettuali neri radicali come Padmore e Césaire dal movimento comunista “ufficiale” (mentre James si è schierato con i troskisti).


Visto con gli occhi di questi intellettuali, il dibattito fra comunisti sull’esistenza o meno di differenze sostanziali fra fascismo e liberalismo assume un senso del tutto diverso da quello che gli viene oggi attribuito dagli storici marxisti occidentali. Considerati i crimini imperialisti commessi in Asia, Africa e America Latina, Padmore e Césaire avevano tutte le ragioni per affermare che imperialismo liberale e imperialismo fascista sono ideologie intercambiabili in base ai livelli di lotta di classe esistenti nei vari paesi. E la cruda affermazione di Césaire che definisce Hitler come il prodotto culturale dell'esperienza coloniale europea, non è giustificata solo dal fatto che, in Mein Kampf, Hitler loda ed erige a modello i metodi usati da inglesi e americani contro i popoli nativi, dalla simpatia che il nazismo raccolse in Inghilterra e negli Stati Uniti finché si pensò di poterlo usare come arma finale contro l’Unione Sovietica, dal terrorismo aereo contro le città tedesche, dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki, ma anche dall'ipocrisia del processo di Norimberga, dove ai nazisti non fu rimproverato tanto di avere commesso crimini contro l’umanità, quanto di averli commessi contro l’uomo bianco, di avere cioè applicato contro gli europei gli stessi metodi che costoro avevano applicato nel Sud del mondo. 





Non credo che questi giudizi possano essere liquidati come reazioni contingenti, legate a un particolare momento storico:  quanto è successo dagli anni in cui Padmore e Césaire si esprimevano con queste parole, non ha fatto altro che convalidarle: i crimini commessi dall’imperialismo in nome della “esportazione” della democrazia e del libero mercato sono stati, se possibile, ancora più feroci, e l’ipocrisia di Norimberga si è replicata nell’ignobile delibera del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo (ribadita dal Presidente italiano Mattarella e altri figuri che insultano i milioni di morti sovietici che hanno consentito di distruggere il Terzo Reich). La lezione di Padmore e Césaire andrebbe imparata a memoria da coloro che oggi ripropongono una anacronistica logica “frontista” contro il “fascismo” (identificato con certe destre populiste e conservatrici che rappresentano un fenomeno politico e culturale del tutto nuovo e diverso) e si alleano con quei partiti "democratici£ occidentali che sono gli eredi del “vero” imperialismo fascista di ieri e oggi. 


Un terzo e ultimo nodo teorico che emerge dai discorsi dei nostri cinque autori si riferisce alla convivenza fra tensione verso la modernità e valorizzazione della tradizione culturale africana. Parto da quelli che poco sopra definivo gli “anacronismi” di James riferiti alla Rivoluzione Haitiana. L’analogia fra le masse di schiavi indotti a lavorare nelle piantagioni e i proletari moderni ammassati (prima della transizione al post fordismo) nelle grandi fabbriche non è ingiustificata, nel senso che la concentrazione in un sol luogo e la similitudine fra lavori faticosi e frustranti è un fattore comune che favorisce la formazione di una coscienza collettiva (anche se le condizioni storiche generali e le singole storie di vita sono radicalmente diverse), ma la definizione di piccola borghesia nera attribuita alla esigua minoranza di schiavi privilegiati e di classe media riferita ai mulatti (la posizione oscillante dei mulatti a san Domingo, scrive, non è dovuta alla pelle ma al loro ruolo di classe intermedia) mi sembra invece opinabile. 


La sensazione è che James cerchi di sovrapporre alla società coloniale haitiana una sorta di “idealtipo” industriale di tipo moderno, addirittura più avanzato della proto classe operaia delle metropoli occidentali del tempo. Si potrebbe dire che la sua analisi rischia di slittare nell’idealismo per eccesso di materialismo, concentri cioè l’attenzione su certe analogie di condizione “fisica” dei soggetti astraendo dal contesto storico e socioculturale. Ecco perché può applicare lo stesso schema interpretativo (appunto idealtipico) a due eventi, la rivoluzione haitiana e la rivoluzione del 1917, separati da più d’un secolo e da un oceano, imputando, come abbiamo visto, a Toussaint L'Ouverture lo stesso errore politico dei bolscevichi: l’avere cioè tradito la “sinistra” – altra categoria anacronistica se riferita all’Haiti di fine Settecento – del Partito. 


Lo stesso discorso vale per la presunta autonomia organizzativa delle masse nere insorte che, come anche James ammette, sarebbero state inesorabilmente battute se non avessero trovato un formidabile condottiero in Toussaint L'Ouverture. È vero che i grandi uomini fanno la storia, scrive da buon marxista James, ma solo entro i confini del possibile e i loro successi sono limitati dai vincoli dell’ambiente in cui agiscono. Ma Toussaint non poteva essere il Lenin di Haiti: è stato un grande capopopolo che il caso ha generato nel momento giusto al posto giusto e la cui impresa non ha potuto superare certi limiti, non per sua colpa ma per i vincoli imposti dal contesto (22). 


Quanto alla tensione verso la valorizzazione delle radici culturali africane, si tratta di un tema presente in tutti gli autori appena analizzati: sia Du Bois che Williams scrivono che il primo pensiero dei neri liberati dopo la Guerra civile americana fu abbandonare le piantagioni e coltivare la propria terra (ove questa fosse stata disponibile) e solo dopo decenni di cocenti disillusioni (il sogno dei quaranta acri di terra e un mulo era svanito, sostituito dalla realtà di un massacrante lavoro bracciantile e mezzadrile oberato dai debiti) è iniziata la migrazione verso le industrie del Nord. James, a proposito delle comunità dei maroons, ricorda che la loro economia di sussistenza era modellata sui metodi dell’agricoltura tradizionale africana. In tema di pratiche religiose, apprendiamo che tanto il culto voodoo haitiano quanto il cristianesimo del piantagioni del Sud continentale erano un mélange sincretistico di credenze, miti e riti pagani gestito da sacerdoti che sommavano i ruoli di psicologi, guaritori e vendicatori dei soprusi. Infine la Negritudine di Césaire era un’apologia sistematica delle civiltà non europee distrutte dall’imperialismo, che ne esaltava la storia e i valori in quanto società comunitarie, non fondate sul privilegio di pochi, democratiche, cooperative e fraterne, non solo precapitalistiche ma anche anticapitalistiche. È questo retaggio che tutti gli autori che Okoth raccoglie nella definizione di Red Africa hanno voluto riscoprire, non come impossibile ritorno al passato, bensì come via autonoma a un socialismo emancipato dalla tradizione eurocentrica 


Note


(1) Cfr. C. Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell'Impero britannico, Einaudi, Torino 2024. Le oltre novecento pagine della Elkins contengono un'impressionante documentazione storica degli spaventosi crimini che generali, ufficiali, burocrati e avventurieri inglesi di ogni risma hanno commesso per costruire l’Impero; crimini che il “pacifico”, “civile” e “democratico” popolo inglese preferisce ignorare e Impero di cui va tuttora fiero. Contiene inoltre una dettagliata denuncia delle complicità della classe politica – senza distinzioni fra Conservatori e Laburisti – e dei suoi maggiori leader storici (Churchill su tutti) nei confronti di tali crimini, del silenzio dei media che li hanno coperti e dei giudici che li hanno avvallati. Per un’ampia  recensione del libro vedi il blog di Alessandro Visalli al seguente indirizzo: https://tempofertile.blogspot.com/2024/12/caroline-elkins-uneredita-di-violenza.html


(2) Cfr.W. Du Bois, Les âmes du peuple noir, Éditions Rue d’Ulm Presses; Paris. 


(3) Cfr. Franz Fanon, Pelle nera maschere bianche, ETS, Pisa 2015.


(4) Cfr. E. Williams, Capitalism and Slavery, University of North Carolina Press, 1944, 1994.


(5) Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro I, Cap. XXV “La moderna teoria della colonizzazione”. Classici Utet 1974. In queste pagine Marx discute le teorie dell'economista Wakefield, il quale lamenta la difficoltà di trasformare i coloni in lavoratori salariati finché costoro possono disporre liberamente di terra da coltivare.


(6) Cfr.  K. Marx, Il Capitale, Libro I, Cap. XXIV, “La cosiddetta accumulazione primitiva”, Classici Utet, 1974. Scrive Marx (pag. 938): “La scopetta delle terre dell’oro e dell’argento, lo sterminio, la riduzione in schiavitù e il seppellimento nelle miniere della popolazione indigena, l’incipiente conquista e saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in riserva di caccia commerciale alle pelli nere, contrassegnano gli albori dell’era di produzione capitalistica”.


(7) Cfr. C. L. R. James, The Black Jacobins, Penguin, London 2001.


(8) Queste notizie sulle posizioni espresse da G. Padmore alla fine degli anni Trenta si trovano in C. Elkins, op. cit. Di Padmore vedi, fra le altre opere, Africa and World Peace, in cui analizza lo scontro fra potenze imperialiste per il controllo dell’Africa alla vigilia della Seconda Guerra mondiale.


(9) La posizione del Partito Comunista Francese sulla guerra di Algeria fu a dir poco opportunistica, se non apertamente favorevole al colonialismo di Parigi.


(10) Sulle accuse dei movimenti radicali neri a Senghor, vedi K. Ochieng Okoth, Red Africa, Meltemi, Milano 2024.


(11) Cfr. A. Césaire, Discorso sul colonialismo. Seguito dal Discorso sulla Negritudine, ombre corte, Verona 2020.


(12) Cfr. nota precedente


(13) A descrivere l’aggressione nazista all’Unione Sovietica come un episodio paragonabile alle guerre di conquista coloniali delle potenze “democratiche” occidentali è stato, fra gli altri, Domenico Losurdo. Cfr. Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1998.


(14) In Black Jacobins, op. cit.


(15) James si “innamorò” di Trotsky leggendo la sua storia della rivoluzione russa in cui ritenne di riconoscere una celebrazione della capacità di autorganizzazione spontanea delle masse popolari. Nella sua analisi della rivolta degli schiavi di Sand Domingo egli ripropone tale approccio, non senza contraddizione (vedi più avanti nel testo di questo articolo) con l’ammissione del ruolo decisivo svolto dalla leadership di Toussaint L'Ouverture.


(16) Sulla figura di Toussaint L'Ouverture, vedi, oltre al già citato Black Jacobins, S. Hazareesingh, Spartaco nero, Rizzoli, Milano 2023.


(17) Adottando l’approccio anacronistico e idealtipico di James – prescindendo cioè dalle condizioni storiche specifiche e assai diverse – si potrebbe accostare questa fase di ripiegamento della Rivoluzione haitiana alla NEP di Lenin e alle riforme di Deng Xiaoping.


(18) Notiamo qui un curioso paradosso: il troskista James non si rende conto che, nel riconoscere a Dessalines, un rozzo (culturalmente parlando) militare, il merito di avere salvato la Rivoluzione haitiana con la sua feroce determinazione, esalta involontariamente una controfigura dell’odiato Stalin: se quest’ultimo aveva sterminato i kulaki e gli oppositori interni al partito, Dessalines ha sua volta liquidato i possibili concorrenti al ruolo di leader e ha sterminato senza pietà i padroni bianchi e mulatti.


(19) Cfr, in merito, A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(20) Cfr. R. Luxemburg, L'accumulazione del capitale, Einaudi, Torino 1960.


(21) sulla polemica fra Harvey e i coniugi Patnaik cfr. vedi, sul blog di A. Visalli, il seguente articlo:  https://tempofertile.blogspot.com/2020/02/un-dialogo-sullimperialismo-david.html?q=Harvey


(22) Sul rapporto fra necessità imposte dal contesto economico, sociale e culturale e libertà di azione individuale e collettiva, sul ruolo dei grandi personaggi storici e sull'ineliminabile peso della casualità nei processi storici, vedi G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, Meltemi, Milano 2023. Chi scrive ha discusso la visione anti deterministica del rapporto fra necessità e possibilità elaborata da questo grande filosofo marxista (sintetizzata nella forma “se...allora”) in Ombre rosse. Saggi sull’ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022. 

 

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