Lettori fissi

martedì 21 gennaio 2025

LO STATO DEL MONDO ALL'ATTO
DELL'INSEDIAMENTO DI TRUMP


Ricevo dall'amico Piero Pagliani questa fotografia della situazione geopolitica mondiale nel momento del cambiamento di leadership al vertice Usa

Carlo Formenti 



«Tu sei la prima ragione, tutti i tuoi sogni sono la seconda»

di Piero Pagliani






Alla presenza dei personaggi istituzionali, di Giorgia Meloni come unico leader europeo invitato, e del gotha del Big Tech al completo (che aveva sempre sostenuto i Dem), con l'assenza di Zelensky, Netanyahu e von der Leyen e delle rinunciatarie Nancy Pelosi e Michelle Obama, Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca.


Il suo discorso inaugurale è stato reazionario-libertarian. Un discorso ultranazionalista (normale per i presidenti statunitensi), che ha toccato vari punti. La sicurezza/immigrazione (con punte estremiste a lui consone: gli irregolari sono tout court criminali), dazi e protezionismo contro chiunque, il ritorno deciso e aggressivo al fossile (con ringraziamento ai lavoratori dell'industria dell'auto) senza la minima

preoccupazione ecologica (ma con il “verde” Biden l'estrazione di gas e di petrolio ha già raggiunto punte non superabili), la fine delle censure (woke) e il ritorno alla “piena libertà d'espressione”, il ritorno al primato militare ma anche la pace e il rifiuto a farsi invischiare in guerre (ha giustamente rivendicato la tregua a Gaza, la fine, per ora, di quel genocidio che Biden ha sostenuto ed è stato una delle cause

della sconfitta Dem). E poi il reintegro di chi è stato espulso dalle Forze Armate perché non vaccinato contro il Covid e il rimborso dello stipendio non percepito (Biden ha pensato bene di pre-graziare Anthony Fauci).


E infine l'immancabile professione di fede nell'eccezionalità degli Usa. È, ha detto Trump, l'inizio di 4 anni grandiosi per gli Stati Uniti.


Un giudizio? Il discorso di un'America che sta soffrendo una grave crisi economica, politica, militare e geopolitica e che vuole un riscatto, che crede nel riscatto, contro tutti gli altri e rivolto a tutti gli statunitensi, con tanto di citazione del “sogno” di Martin Luther King. E con citazione del presidente McKinley che col suo protezionismo aveva “preparato i soldi per Theodore Roosevelt” (e la sua politica

di interventismo statale in economia, contro il laissez-faire). Fine del Green Deal, fine del Free Trade e riarmo per far rinascere l'America. Un discorso duro che rivela

un'America debole.


Durezza e debolezza. Saranno la cifra di questa presidenza. Una combinazione che potrebbe essere esplosiva.



Dunque Donald Trump ha giurato inaugurando il suo secondo mandato, non consecutivo. Diciamolo subito: qualsiasi notizia da oltre Atlantico inquieta, qualsiasi fenomeno e qualsiasi amministrazione. Ciò che non inquieta è tenuto nascosto dai media, emarginato da chi conta, come il pensiero di Jeffrey Sachs o Noam Chomsky, fiaccole accademiche tenute sotto il moggio, per usare l'espressione del Vangelo, oscurati perché scomodi per il potere imperiale. Oppure ha vita effimera, come il divieto di fornire assistenza militare al battaglione, poi brigata, Azov perché responsabile di crimini e al centro di una rete mondiale neonazista: il bando è durato 4 anni (ma di fatto l'assistenza è stata fornita lo stesso, come mostrano foto e documenti). Poi Biden ha deciso ufficialmente che non erano più nazisti, ma brave persone.


Insomma, in tutto l'Occidente è la stessa cosa. Noi, qui in Italia, siamo in attesa che chi dimostra venga ipso facto messo in galera o denunciato e che i servizi segreti entrino a curiosare nelle università per motivi di “sicurezza nazionale”.


Taci! Il nemico ti ascolta! Siamo tornati ai bei tempi: Quando c'era lui, caro lei …



Insomma, anche l'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca inquieta. Continuano le notizie da parte del cerchio trumpiano sui contatti ad alto livello con le controparti russe e addirittura sulla preparazione già in atto dei futuri colloqui sull'Ucraina nonché l'insistenza di Usa, UE e Nato sul “congelamento” del conflitto.


E continuano anche le docce fredde da parte russa. La portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, dopo aver detto che la Russia è attenta a qualsiasi segnale di volontà di colloquio, rispondendo alla domanda di un giornalista se la Russia sta preparando un documento sulla crisi Ucraina indirizzato agli Stati Uniti, ha risposto:


«La sua domanda mi riporta alla mente una nota canzone di Igor Nikolaev, “Tu sei la prima ragione, tutti i tuoi sogni sono la seconda.” Mi sembra che questo sia il modo in cui debba essere composto un tale documento» [1].


Il punto è questo: non ci sarà nessun negoziato su ciò che rimane dell'Ucraina e sul congelamento della linea di contatto. I colloqui, se ci saranno, verteranno su una versione 2.0 della “coesistenza pacifica”, cioè sulla proposta russa di una nuova architettura di sicurezza indivisibile, quella che nel dicembre del 2021 la Nato ha “naturalmente rifiutato” (Jens Stoltenberg) e che ora dovrà prendere in considerazione dopo oltre 1 milione di soldati ucraini morti o feriti e la distruzione del Paese. 


E non perché la Russia sta “vivendo un periodo fortunato” (“is on a roll”) come dice il John Mearsheimer, ma perché Mosca sta raggiungendo i suoi obiettivi, che non sono territoriali se non come side-effect, bensì la demilitarizzazione dell'Ucraina alla quale seguirà la sua denazificazione. Ovvero sta annientando le forze del nemico, cioè di Kiev e della Nato, salvaguardando le sue, per poter imporre la propria volontà politica, cosa che è l'obiettivo di ogni guerra (von Clausewitz docet). Così infatti ancora la Zakharova:


«Il Presidente della Russia,Vladimir Putin, in precedenza ha preso iniziative per una soluzione pacifica del conflitto in Ucraina: Mosca cesserebbe immediatamente il fuoco e dichiarerebbe la sua disponibilità ai negoziati dopo il ritiro delle truppe ucraine dal territorio delle nuove regioni della Russia. Inoltre, ha aggiunto, Kiev deve dichiarare il suo rifiuto di entrare nella Nato e portare avanti la smilitarizzazione e la denazificazione, nonché adottare uno status neutrale, non allineato e libero dal nucleare. Il leader russo ha anche menzionato la revoca delle sanzioni contro la Federazione Russa».



Mosca non negozierà quindi con Kiev, ma con Washington, secondo i propri termini. Presi dalla disperazione, gli ex “Grandi” europei, la Francia e gli UK, preoccupati di essere tagliati fuori, si agitano sognando un'armata di interposizione congiunta da schierare in Ucraina dopo i negoziati. Così ci informa il tabloid britannico “The Telegraph” [2]. Starmer e Macron, un duo ridicolo pronto per essere gettato nella pattumiera dai rispettivi popoli, non hanno ancora capito che non ci sarà nessun

“congelamento” del conflitto e quindi nessuna loro forza di interposizione. E più che altro non hanno capito che la Francia e gli UK non contano più niente.


Se ci sarà la pace, essa riguarderà la “larger picture”, dalla quale tutta l'Europa è tagliata fuori politicamente e sempre più economicamente.


I più alti funzionari russi lo stanno ripetendo da tempo. Per ultimo Nikolaj Patrushev, membro permanente del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa e alto consigliere del Cremlino: «Non c'è niente da discutere con Londra o Brussels». I negoziati saranno solo con Washington [3].



Trump è di fatto il protagonista della tregua di Gaza (sperando che regga). Sembra che non voglia sinceramente farsi invischiare in una grande guerra in Medioriente. Vuole negoziare. E anche lì si troverà di fronte Putin. La Russia ha infatti appena firmato un patto di collaborazione strategica con l'Iran. I termini militari dell'accordo saranno firmati separatamente dai rispettivi ministri della Difesa. E sicuramente saranno segreti. Quindi si potranno fare solo ipotesi. Quel che è noto sono a grandi linee gli accordi di cooperazione economica ed energetica. E qui salta all'occhio la pipeline che collegherà Iran e Russia tramite l'Azerbaijan [4]. E quando si parla di Azerbaijan si parla di un quasi protettorato turco e del Paese che attraverso la Turchia fornisce il petrolio a Israele. Ricordo anche i progetti di ripristino e potenziamento delle linee ferroviarie che collegano la Russia all'Iran passando per

l'Azerbaijan, l'Armenia e la Georgia.


Grossi interessi si muovono e collegano la Russia ai Paesi caucasici e al Vicino Oriente e oltre a ciò dopo aver visto la fine fatta dall'Ucraina, ben difficilmente gli Usa convinceranno l'Armenia e la Georgia a intraprendere azioni ostili contro la Russia, qualsiasi sia il loro governo. Tenuto conto di ciò, spostando ora lo sguardo sulla Siria si capisce perché il rovesciamento di al-Assad ha condotto a una situazione che è favorevole all'Occidente collettivo, innanzitutto a Usa, UK, Francia

e Israele, solo prima facie mentre in realtà i giochi sono aperti.


Per finire una notizia dalla Cina: il primo missile ipersonico aria-aria del mondo ha passato i test finali di resistenza. Non una bella notizia per l'US Air Force [5].


Questo è il mondo al giorno dell'inaugurazione di Trump. L'unica via d'uscita è l'adattamento da parte dell'ex unica superpotenza. Una strada costellata di straordinari ostacoli. E quindi dovremo aspettarci un Potus (President of the United States) aggressivo ma altalenante e a volte rinunciatario. Inoltre si tenga conto che sarà lui a doversi mettere sulle tracce di Putin e di Xi, non il contrario. Un'altra volta Dmitri Medvedev è stato franco e diretto:


«Se il problema di Biden era la sua inadeguatezza, la colpa della sua Amministrazione è che sul percorso con la Russia ha lasciato deliberatamente in eredità una difficile crisi ai suoi successori. I principali punti dannosi delle decisioni di Biden impiegheranno molto tempo a manifestarsi. E quindi  saranno estremamente difficoltosi da comunicare. La piena normalizzazione delle relazioni russo-americane si trascinerà per decenni. Benché a mio avviso allo stato presente sia di fondo impossibile. E, molto francamente, non è chiaro se sia affatto necessaria.» [6]



Per l'Europa non so cosa dire. Coi governi attuali e con l'attuale UE continueremo a fare i russofobi rabbiosi anche dopo che Washington avrà smesso di farlo. Siamo una sorta di Giannizzeri, quel corpo dell'impero ottomano formato da uomini nati cristiani e portati via da piccoli alle famiglie per diventare i più fedeli armigeri del Sultano. E anche i più fanatici e intransigenti: furono sterminati dal sultano Mahmud II perché si opponevano al “nuovo che avanzava”.



Note


[1] https://ria.ru/20250116/zaharova-1994023205.html?

utm_source=yxnews&utm_medium=desktop&utm_referrer=https%3A%2F%2Fdzen.ru%2Fnews%2Finstory %2Ff3c6e0bb-3192-561e-9782-089972580023


[2] https://www.telegraph.co.uk/news/2025/01/15/uk-france-talks-peacekeeping-troops ukraine-war-russia/


[3] https://www.mid.ru/fr/maps/us/1991801/?lang=en&COUNTRY_CODE=us#q24


[4] https://tass.com/economy/1901017

E' impossibile tenere separati questi sviluppi e l'attacco di Kiev, organizzato dagli UK e dagli Usa, contro il Turk Stream. Non è solo il tentativo di privare definitivamente l'Europa di gas russo a favore dell'LNG statunitense o

per ricattarla.


[5] https://thedefensepost.com/2025/01/20/china-test-hypersonic-missile/


[6] https://t.me/pozivnoy_kazman/18153

domenica 19 gennaio 2025

ANCORA SULL'AFRICA
WALTER RODNEY




I tre articoli sul marxismo africano che ho recentemente pubblicato su queste pagine, dedicati rispettivamente ad Amilcar Cabral, Said Bouamama, e Kevin Okoth (di cui è appena uscito il libro Red Africa che ho tradotto per Meltemi), hanno suscitato una certa attenzione (non solo in Italia: gli amici della rivista El Viejo Topo li stanno traducendo in spagnolo). Mi ha scritto, fra gli altri, Andrea Ughetto segnalandomi i “Ritratti” (usciti su Machina) che ha destinato ad altre due grandi figure di leader rivoluzionari neri: Thomas Sankara e Walter Rodney. Mi ha così ricordato che Rodney è pluricitato nel libro di Okoth e che quei pur brevi estratti mi avevano interessato, per cui mi sono procurato e ho letto a stretto giro due suoi lavori: The Russian Revolution. A View from the Third World e Decolonial Marxism. Essays from the Pan-African Revolution. Prima di approfondire gli stimoli che ne ho ricavato, è il caso di ricordare che Rodney, originario della Guyana, è stato un vero e proprio nomade della rivoluzione nera. Divenuto un punto di riferimento dei movimenti radicali in Jamaica, ne venne espulso (e il suo allontanamento provocò una vera e propria insurrezione). Trasferitosi in Africa, insegnò all’università di Dar Es Salaam, dove studiò il progetto di transizione al socialismo della Tanzania di Nyerere. Rientrato infine in Guyana, si impegnò a organizzare le lotte dei lavoratori del suo Paese natale, finché fu fatto assassinare (aveva trentotto anni) dai servizi del governo fantoccio al servizio dell’imperialismo occidentale, andando ad aggiungersi al lungo elenco di leader neri uccisi in Africa, Stati Uniti e Centro America.



Walter Rodney




I. La rivoluzione Russa vista dall’Africa


Perché rivendicare uno sguardo africano sulla storia della Rivoluzione Russa? Per rispondere, Rodney parte dalle menzogne che gli intellettuali occidentali hanno sfornato nelle “analisi” storiche, antropologiche, economiche, politiche e sociali che hanno dedicato a tutte le fasi – pre-coloniale, coloniale e post coloniale – della storia africana. Ecco perché, argomenta, noi africani abbiamo ragione di diffidare delle analisi che quegli stessi intellettuali hanno dedicato alla Rivoluzione Russa, e visto che le loro opere, ispirate dagli obiettivi propagandistici della Guerra Fredda contro la “minaccia comunista”, rappresentano la quasi totalità della letteratura sul tema (ad eccezione dei lavori degli storiografi sovietici), è importante che gli studiosi africani acquisiscano un punto di vista indipendente in merito all’argomento. 


Qui non ripercorrerò tutte le confutazioni che Rodney dedica alle accuse che gli autori liberal democratici hanno rivolto al grande esperimento economico, sociale e politico nato nell’Ottobre del 1917. Mi concentrerò piuttosto su quelli che egli considera i principali insegnamenti che le rivoluzioni di liberazione nazionale africane (e più in generale del Terzo Mondo) e i progetti di convertirle in processi di transizione al socialismo possono trarre da quell’esperimento. 


Una questione teorica cui Rodney dedica particolare attenzione riguarda le accuse che Socialdemocratici e Menscevichi hanno rivolto alla Rivoluzione d’Ottobre, vale a dire la tesi secondo cui i Bolscevichi avrebbero fatto una rivoluzione “contro Marx” (1), nel senso che hanno tradito il principio che stabilisce che la rivoluzione socialista è possibile solo in un paese economicamente e socialmente avanzato e non, come la Russia del primo Novecento, arretrato se non addirittura semifeudale. Secondo tale tesi, quello dei Bolscevichi sarebbe stato un colpo di stato – favorito dal caos sociale e politico generato dalla guerra – più che una “vera” rivoluzione; un putsch che ha stroncato la transizione dall’autocrazia zarista alla democrazia parlamentare e distrutto le condizioni per un “normale” (cioè capitalistico!) sviluppo economico del Paese, instaurando la dittatura di una minoranza sulla maggioranza del popolo e spacciandola per socialismo. La replica di Rodney si articola su due distinti punti di vista, il primo relativo al modello di transizione dal capitalismo al socialismo che sarebbe stato indicato da Marx come una “legge” storica universale; il secondo relativo alla definizione della Russia del 1917 come un Paese socialmente ed economicamente arretrato e quindi “immaturo” per compiere il balzo diretto al socialismo senza passare dalla fase dello sviluppo capitalistico. 


È pur vero, ammette Rodney, che la Rivoluzione Russa ha smentito le previsioni di Marx ed Engels sotto molti aspetti, soprattutto laddove essi avevano negato la possibilità che i contadini svolgessero un ruolo rivoluzionario. Ma è altrettanto vero che lo stesso Marx, in alcuni scritti, si è dimostrato disponibile a valutare l’eventualità che la rivoluzione avrebbe potuto percorrere vie alternative rispetto a quella che egli aveva immaginato per l’Europa occidentale. In primo luogo sul piano teorico generale. Vedi la lettera del 1877 al recensore dell’edizione russa del Capitale (2), nella quale, dopo avere affermato che il capitolo sull’accumulazione primitiva non aveva preteso nulla più che definire il modo in cui, in Europa Occidentale, il capitalismo è emerso dal grembo dell’ordine feudale, Marx ironizzava scrivendo che il recensore aveva trasformato il suo abbozzo sulla genesi del capitalismo occidentale in una teoria storico-filosofica che stabiliva a priori il destino di ogni popolo, a prescindere dalle circostanze storiche concrete. Poi sul piano dell’analisi di un caso storico particolare come quello della Russia zarista: vedi la lettera a Vera Zasulich (3), nella quale, intervenendo nel dibattito fra socialdemocratici e populisti in merito alla tesi di questi ultimi, secondo cui la comunità contadina - obscina – avrebbe potuto fungere da base socioeconomica della transizione al socialismo senza passare dal capitalismo, Marx non negò in linea di principio tale possibilità, pur vincolandola a certe condizioni, come il fatto che l’obscina non venisse prima svuotata dal processo di penetrazione del mercato capitalistico nelle campagne, e che una rivoluzione socialista vittoriosa nei paesi industriali potesse garantire il proprio appoggio politico, tecnologico ed economico al processo (4).


In conclusione, Rodney rovescia la prospettiva delle critiche “ortodosse” che la Seconda Internazionale e i Menscevichi rivolgevano ai Bolscevichi, accusandoli di avere “tradito” Marx per avere ordito un ”golpe” socialista in un Paese socialmente ed economicamente arretrato: la verità, argomenta, è che queste critiche erano dogmatiche, perché applicavano in modo meccanico e acritico l’analisi marxiana della storia del capitalismo dell’Europa occidentale alla Russia, laddove Lenin aveva ragione di controbattere che la linea bolscevica era fedele al metodo e non (come Kautsky e gli altri leader socialdemocratici) alla lettera del testo marxiano. 


Inoltre Rodney (pur non essendo troskista) valorizza il contributo di Trotsky all’analisi della realtà socioeconomica della Russia, da lui descritta – al contrario dei teorici dell’arretratezza - come un Paese caratterizzato da una peculiare combinazione di elementi arcaici e moderni (per esempio una classe operaia numericamente non molto estesa ma concentrata e dotata di un elevato livello di coscienza politica e una massa contadina che era stata parzialmente politicizzata dall’esperienza bellica). Un’analisi su cui fondava la sua teoria della rivoluzione permanente (cioè della transizione ininterrotta fra diverse fasi del processo rivoluzionario in grado di “bruciare” gli stadi evolutivi fra diverse formazioni sociali). 







La stessa attenzione nei confronti delle condizioni storiche concrete, argomenta Rodney, deve essere applicata all’analisi delle rivoluzioni di liberazione nazionale in Africa, per stabilire dove, se e in quale misura esistano le condizioni di trasformarle in processi di transizione al socialismo. In primo luogo, scrive, non va dimenticato come Lenin avesse osservato che il nazionalismo è sempre associato allo sviluppo capitalistico ma non è sempre favorevole alla borghesia, nel senso che nell’era del capitale monopolistico e dell’espansione coloniale,  la lotta dei popoli coloniali può assumere carattere antimperialista, e dunque costituire una vasta riserva di alleati del socialismo. La tesi sostenuta dai fautori dell’internazionalismo “puro” (5) che vedono nel nazionalismo un elemento reazionario è da respingere perché ristretta e dogmatica 


Il nazionalismo africano affonda le radici nel passato, incorporando la resistenza alle prime imposizioni dei governi coloniali, e può essere fatto risalire ancora più indietro, fino a prima dell'arrivo degli europei. Esso incorpora dunque caratteri arcaici ma non necessariamente regressivi e reazionari, nella misura in cui rappresentano un potente fattore culturale di resistenza all’imperialismo occidentale, e si inscrivono nel contesto della lotta di classe nei Paesi coloniali, che non è mai solo “locale” perché è lotta contro lo sfruttamento che la metropoli impone alle periferie (senza dimenticare che proprio tale sfruttamento consente all’imperialismo di elargire privilegi al proletariato occidentale, che viene così assumendo il carattere di un'aristocrazia operaia globale). Così come nella Cuba socialista Marx Engels e Lenin devono condividere gli onori con José Marti e Antonio Maceo, e così come in Cina viene onorato Sun Yat-Sen (ma sempre più anche le tradizioni  taoiste, buddiste e confuciane, è il caso di aggiungere), anche l’Africa ha il diritto di riscoprire la forza delle proprie radici culturali per mobilitarle contro l'imperialismo (su questo punto Rodney fa ripetutamente riferimento ad Amilcar Cabral e alla sua capacità di distinguere fra aspetti regressivi e progressivi della cultura tradizionale). Prima di entrare nel merito delle sue idee sulle strategie di sviluppo che possono sostenere un progetto di trasformazione socialista nei paesi post coloniali (tema che affronteremo più avanti nella parte dedicata al marxismo decoloniale), dobbiamo però concludere la disanima della sua analisi sulla Rivoluzione Russa.


Uno dei temi più caldi del dibattito fra intellettuali neri filo occidentali e filo-sovietici ai tempi in cui scriveva Rodney (ma la questione della “esportazione della democrazia”, oggi al centro della discussione, dimostra che il tema è tuttora attuale) era quello se la costruzione dei nuovi stati post coloniali dovesse ispirarsi al modello della democrazia liberale delle metropoli occidentali o a quello delle democrazie popolari del blocco socialista. La propaganda occidentale, invelenita dalla Guerra Fredda e dal timore di perdere il controllo sulle risorse delle ex colonie, puntava a screditare il modello sovietico dipingendo l’Urss come un Paese totalitario, nel quale il popolo aveva perso il diritto di influire sul proprio destino. 


Rodney contesta questa tesi smontando in primo luogo il tentativo di presentare il popolo russo come una massa passiva e amorfa, facilmente manipolabile da parte di un pugno di demagoghi senza scrupoli. Dietro questa narrazione, scrive, riconosciamo quel disprezzo borghese nei confronti delle masse popolari, dipinte come incapaci di auto governarsi e in preda a cieche passioni, che ha sempre accomunato tutti gli intellettuali conservatori a partire dalla Rivoluzione Francese (cita, fra gli altri, Burke, Barruel, Taine e Tocqueville). Poi ricorda che le rivoluzioni del 1905 e del Febbraio 1917 furono in larga misura delle sollevazioni popolari spontanee di cui non si conoscono i nomi dei leader, anche se ciò non vuol dire, puntualizza, che non vi fossero, bensì che si trattò di processi in cui gli individui dovettero assumere l'iniziativa ed esercitare la leadership a vari .livelli: “furono le piccole decisioni individuali a fare la rivoluzione”, scrive. 


Certo, a partire dall’Ottobre, la guida del processo rivoluzionario fu sempre più saldamente in mano ai Bolscevichi, un'esigua minoranza della popolazione. Ma chi ha stabilito che un partito debba incarnare la maggioranza? Non è probabilmente mai esistito, argomenta, un solo partito di militanti in cui aderenti abbiano rappresentato la maggioranza di una nazione, né è insolito che nelle democrazie borghesi un partito governi avendo avuto la minoranza dei voti (se avesse potuto assistere alla degenerazione delle attuali democrazie occidentali, in cui i governi esprimono la volontà, nella migliore delle ipotesi, di un quarto della cittadinanza...). Il vero nodo politico è quali interessi rappresenta il partito in questione (6). E se si esamina la Rivoluzione del 1917 è indubbio che i Bolscevichi godessero di un ampio consenso fra i lavoratori e i soldati e che la minoranza bolscevica fosse considerata dalle masse come pienamente rappresentativa dei loro interessi: il programma bolscevico chiedeva infatti pace, pane e terra mentre gli altri partiti erano coinvolti nella guerra imperialista, proteggevano gli speculatori e glissavano sulla questione della terra. Quanto allo scioglimento dell’Assemblea Costituente, conclude Rodney, la sua fine derivò dal fatto che essa rifiutò di accettare la legislazione dei soviet, per cui i Bolscevichi poterono rappresentare tale rifiuto come la prova che la rivoluzione aveva sorpassato il ruolo dell’Assemblea: la storia era andata avanti. 


Militanti bolscevichi nel 1917



Il dibattito in merito alla opposizione democrazia/totalitarismo chiama necessariamente in causa il giudizio su Stalin. La posizione di Rodney in merito si fonda su tre premesse che chi scrive considera condivisibili: 1) in barba a quanto sostenuto dai leader sovietici dopo il XX Congresso del PCUS (e dai leader dei partiti comunisti occidentali) non ha senso attribuire la responsabilità tanto dei successi quanto degli errori e dei fallimenti nel processo di costruzione del socialismo in Russia a un uomo solo: essi vanno condivisi sia dal Paese che dal Partito; 2) i Paesi coloniali devono respingere senza se e senza ma la posizione borghese che equipara comunismo e nazismo, in quanto si tratta di un espediente propagandistico dell'imperialismo occidentale per dissuaderli dall’imboccare la via del socialismo (7); 3) per quanto la costruzione del socialismo in Russia possa essersi allontanata dall'ideale originario, essa rimane in ogni caso preferibile alla democrazia borghese dal punto di vista degli interessi dei lavoratori (8). 


Ciò detto Rodney è consapevole dei limiti della linea staliniana. In particolare, sulla questione del ruolo della classe contadina – tema cruciale per le lotte di liberazione dei Paesi del Terzo Mondo -, mette in luce il diverso approccio fra il Lenin della NEP e lo Stalin della collettivizzazione forzata (anche se, pur condannando la durezza delle repressioni associate a quest’ultima, annota: “noi poveri del Terzi Mondo possiamo capire l’odio dei contadini poveri russi nei confronti dei kulak”). Quanto al tema del socialismo in un Paese solo, ad onta delle sue valutazioni positive sul ruolo svolto da Trotsky nella Rivoluzione d’Ottobre (vedi sopra), considera corretta e dettata dalla necessità storica  la posizione assunta da Stalin e dalla III Internazionale. Infine contesta le critiche degli economisti borghesi nei confronti dello sviluppo dell’Urss fra le due guerre: i risultati del processo di industrializzazione e della lotta alla povertà, soprattutto se commisurati alle condizioni del Paese dopo la guerra civile, furono innegabilmente strabilianti. Quanto alla centralità concessa all’industria pesante a scapito di altri settori, annota come essa fosse imposta dall’esigenza di difendere il Paese dalle aggressioni esterne (si trattò non a caso di un fattore decisivo nella guerra contro il nazismo), e aggiunge che se l’industrializzazione capitalista ha potuto concedere più margine alla produzione di beni di consumo, lo ha potuto fare grazie allo sfruttamento dei Paesi coloniali.


Dobbiamo dedurre che Rodney invitasse i movimenti di liberazione africani ad assumere come modello la Rivoluzione Russa? Posto che il nostro punto di vista non può essere quello dei Paesi borghesi, si chiede, può essere quello sovietico? Certamente, risponde, esistono evidenti analogie fra il passato dell’Urss e il nostro, tuttavia i problemi politici ed economici attuali complicano la nostra posizione, anche perché non va dimenticato che l’Urss ha i suoi interessi nazionali e internazionali e che la loro posizione geopolitica li rispecchia. Se a ciò si aggiunge che la via cinese al socialismo, con le sue radici storiche di rivoluzione contadina e antimperialista e con la sua scelta di dare più peso alla produzione agricola, presenta analogie più strette con la nostra esperienza, conclude, è evidente che la “via russa” resta un punto di riferimento fondamentale ma non è un dogma: il socialismo africano, potrà affermarsi solo se – come insegna Amilcar Cabral (9) – saprà applicare creativamente il metodo marxista alle concrete condizioni economico-sociali e alle tradizioni del continente e dei suoi singoli Paesi. Di come Rodney ha tentato di mettere in pratica questo insegnamento tratteremo nel prossimo paragrafo.



II. Marxismo decoloniale


Affermare la necessità di applicare creativamente il metodo marxista alla concreta realtà storica dei Paesi africani non è sufficiente. Infatti, come abbiamo visto nei tre post dedicati ai lavori di Bouamama, Okoth e Cabral (10), nel dibattito fra studiosi africani esistono posizioni che negano a priori la possibilità di applicare i principi del marxismo nel contesto africano, in quanto questi sarebbero irrimediabilmente “eurocentrici”. Sulla questione del presunto eurocentrismo della teoria marxista chi scrive è intervenuto a più riprese, anche su queste pagine (11), distinguendo fra i tre “regimi narrativi” (12) presenti nella monumentale e articolata opera marxiana, in alcuni dei quali esistono innegabilmente spunti eurocentrici, assieme però a sviluppi teorici che vanno in tutt’altra direzione. Devo confessare che il punto di vista di Rodney sul tema mi è parso a tratti sbilanciato in modo fideistico a favore della tesi dell’applicabilità della metodologia marxista a ogni luogo e a ogni tempo, nella misura in cui essa avrebbe scoperto una serie di “leggi” storiche e scientifiche universalmente valide e applicabili sia all’evoluzione sociale che a quella naturale. È un punto di vista dogmatico che ritengo vada superato alla luce dell’esauriente critica fattane dall’ultimo Lukacs (13). Ciò detto, a merito di Rodney va riconosciuto che, pur partendo da tali premesse (da intendere soprattutto come argomento polemico nei confronti della tesi della eurocentricità del marxismo), egli ha saputo estrarre dallo stesso Marx una serie di spunti che gli hanno consentito di liberarsi dal dogmatismo.







In particolare, contro l’ortodossia che insiste sulla tesi che il socialismo può essere realizzato solo in presenza di un proletariato maturo, e dopo che il capitalismo ha esaurito la sua capacità di sviluppare le forze produttive, tesi che condanna a priori qualsiasi possibilità di un salto diretto al socialismo dell’Africa “arretrata”, Rodney, come anticipato nel precedente paragrafo, cita la polemica di Marx contro il recensore dell’edizione russa del Capitale, nella quale respingeva l’interpretazione del proprio  pensiero come una “filosofia della storia” che ambirebbe a spiegare  tutto il mondo e tutte le epoche. Cita inoltre la lettera alla Zasulic in cui lo stesso Marx non escludeva che le comunità contadine di base (obscina) potessero costituire la base di una transizione diretta della Russia al socialismo senza passare dalla fase del capitalismo. Cita infine l’idea di Marx ed Engels secondo cui le condizioni affinché ciò potesse avvenire erano, da un lato, che queste forme tradizionali conservassero una certa vitalità sociale, dall’altro che la situazione internazionale  fosse favorevole grazie alla presenza del socialismo in altre parti del mondo. 


Ebbene, sostiene Rodney sulla scia di Cabral, così come Marx ed Engels hanno ragionato sul modo di produzione asiatico, è possibile ragionare su un modo di produzione africano che, al pari di quello asiatico, non è passato attraverso una fase feudale di tipo occidentale. Ciò ha fatto sì che il comunitarismo africano si sia evoluto verso forme semi feudali e che certe forme comunitarie siano sopravvissute anche nelle società stratificate generate dal colonialismo. Quanto alla seconda condizione posta da Marx essa appariva soddisfatta (al tempo in cui scriveva Rodney) dall’esistenza dell’Urss (così come oggi sarebbe soddisfatta dall’esistenza della Cina (14)). Resta ovviamente da risolvere il nodo relativo all’individuazione delle forze di classe su cui fondare un progetto di transizione, nodo che Rodney affronta da una duplice prospettiva: il conflitto di classe internazionale fra nazioni sfruttatrici e nazioni sfruttate e i conflitti di classe interni ai Paesi post coloniali. Iniziamo dal primo, mentre ci occuperemo del secondo trattando il tema della transizione.


Per un’analisi esaustiva del contributo di Rodney allo studio del rapporto sviluppo/sottosviluppo rinvio al suo saggio How Europe Underdeveloped Africa (Howard University Press, Washington 1981). Ma anche nel libro che stiamo qui discutendo viene dedicato ampio spazio al tema. Fra gli altri fattori vengono esaminati: l’impatto del commercio capitalistico sul processo di disintegrazione dei legami sociali in Africa; il meccanismo dello scambio ineguale; gli effetti della tratta atlantica; le nuove forme di accumulazione capitalistica come fattori di intensificazione della dipendenza; il colonialismo linguistico culturale, ivi compreso il ruolo del turismo. Per ovvi motivi di spazio mi limito a sintetizzare qui di seguito alcuni aspetti di questa analisi. 


La penetrazione delle merci europee (e dello scambio su basi monetarie) - con i noti effetti di distruzione di mestieri, saperi e tradizioni culturali, ampiamente analizzati nel caso della colonizzazione inglese in India –, annota Rodney, non è dipesa dalla loro superiore qualità: al contrario i loro beni a buon mercato erano di qualità inferiore ai prodotti africani (Arrighi fa la stessa osservazione analizzando il caso cinese (15)). Se sono riusciti a imporsi, è stato soprattutto grazie alla superiorità militare dei colonizzatori che, per esempio, hanno distrutto con la forza le reti  orizzontali di interscambio fra i paesi africani, imponendo a ciascuno di essi di accettare relazioni esclusive con le metropoli, ciò che ha reso impossibile la nascita di un mercato regionale. Quanto al meccanismo dello scambio ineguale, fondato sul trasferimento nelle metropoli del capitale prodotto grazie alle risorse naturali ed umane del terzo mondo nell’economia europea, sono stati versati fiumi di inchiostro (16) che non è qui il caso di riassumere. Anche sul meccanismo della riproduzione allargata, già analizzato, fra gli altri, da Rosa Luxemburg (17), esiste un’ampia letteratura, che Rodney approfondisce precisando che esso non implica solo l'estensione del capitalismo da un continente all’altro, ma anche la giustapposizione fra forme sociali e modi di produzione differenti, che vengono articolati in modo da garantire il dominio dei rapporti capitalistici e il trasferimento del valore verso il centro (18). Sul piano storico Rodney spende poi diverse pagine per dimostrare l’enorme peso che la tratta atlantica ha avuto, da un lato, sullo sviluppo occidentale (profitti del commercio di schiavi, sfruttamento della forza lavoro gratuita nelle piantagioni americane, ecc.; vedere le pagine di Marx sull'accumulazione primitiva), dall'altro lato sul sottosviluppo africano (drastico impoverimento del patrimonio socioculturale e demografico di ampie regioni), in barba a quegli storici occidentali che tentano di minimizzare l’impatto della tratta atlantica equiparandola al commercio arabo di schiavi (19).


Inoltre Rodney punta il dito contro il turismo, che definisce una nuova forma di imperialismo culturale oltre che economico che rafforza la dipendenza delle economie del terzo mondo, da un lato contribuendo a inibire le chance di un reale sviluppo economico integrato, dall'altro rafforzando il ritardo culturale e la penetrazione del “soft power” occidentale. Infine sostiene che, analizzando il concetto di dipendenza, non si può trascurare il contributo strategico del sistema educativo nel produrre individui affetti dalla sindrome della dipendenza psicologica e dello stile di vita associato al ruolo di fantocci dell’imperialismo europeo (20). Così la formazione coloniale dei “quadri” africani è stata concepita come un dispositivo di sradicamento/alienazione dalla loro civiltà di provenienza; un obiettivo che si è tentato di realizzare separando l’educazione dagli altri aspetti della vita (a differenza dei modi di educare tipici della tradizione africana), inculcando negli studenti l’individualismo e lo spirito di competizione propri della cultura dei colonizzatori per separarli dalle proprie comunità di origine e infine negando loro l’accesso a competenze scientifiche e tecnologiche funzionali allo sviluppo di un industrialismo locale indipendente. 


Per emanciparsi dal groviglio di vincoli appena descritto, intessuto attorno ai Paesi africani per imprigionarli nella trappola del sottosviluppo, non bastano mezze misure e, per Rodney, la peggior mezza misura escogitata dai leader moderati “incoronati”dalle lotte di liberazione nazionale è stata quella di immaginare una “terza via”, né capitalista né socialista, e di spacciarla come la soluzione più adatta alle tradizioni culturali e alle esigenze socioeconomiche dei popoli africani. Ecco perché dichiara senza mezzi termini che il cosiddetto “socialismo” africano, rivendicato dalle élite di una serie di Paesi di recente indipendenza negli anni Sessanta del Novecento, è stato spesso una maschera che è servita a simulare una inesistente identità fra una varietà di processi di costruzione nazionale che andavano dall’effettiva volontà di dare a vita a una società socialista al tentativo di conservare lo status quo neocoloniale. Questa maschera è servita a legittimare, fra le varie utopie, le teorie pseudo-socialiste di certi profeti della negritudine come Senghor, i quali, per evitare di fare i conti con i rapporti di classe nella società post coloniale, hanno dato vita a una narrazione romantica sulle epoche precoloniali (il socialismo africano come riscoperta delle radici tradizionali).


Contro questi camuffamenti Rodney ribadisce la sua vicinanza ad Amilcar Cabral, del quale apprezza la critica radicale del nazionalismo, ove non associato a un progetto di trasformazione socialista. Cabral - nelle cui idee Rodney sembra ritrovare l’eco del concetto di rivoluzione permanente (vedi sopra) - per quanto convinto che la lotta nazionalista precedesse la rivoluzione socialista, riteneva infatti che fosse necessario preparare quest’ultima fin dalla fase nazionale. Questa visione implica per Rodney alcune conseguenze in merito a come immaginare il processo di transizione, che egli descrive tuttavia in in un modo che non mi sento di condividere pienamente. Per esempio: Rodney concepisce la transizione come un periodo di breve durata in cui le nuove forme sociali prevalgono sulle vecchie attraverso una dura lotta che, attraverso una rapida accumulazione di mutamenti quantitativi genera un “salto qualitativo”. A parte questa questa lettura “scolastica” della dialettica hegeliana, mi pare chiaro che le esperienze dei processi rivoluzionari in Cina, Vietnam e America Latina hanno dimostrato (ma Rodney non ha potuto valutarle perché era già stato assassinato) che la transizione è invece un processo necessariamente lungo, complesso e contraddittorio, ivi compresa la convivenza fra elementi di socialismo e capitalismo (economia mista) nonché l’apertura al contributo di capitali, conoscenze scientifiche e tecnologiche ed “esperti” stranieri, ipotesi che Rodney escludeva per principio, considerandoli incompatibili con l’obiettivo del socialismo.


Samir Amin 



Tutti i marxisti rivoluzionari africani condividevano – e tuttora condividono - l’idea di Samir Amin (21), secondo cui il problema dello sviluppo del Terzo Mondo è irrisolvibile se non attraverso l’attuazione di strategie di “sganciamento” dall’economia delle metropoli coloniali e neocoloniali, strategie in grado di garantire la riappropriazione del controllo sulle proprie risorse nazionali., e la costruzione di economie regionali autocentrate e dunque non dipendenti dalle esportazioni di materie prime e/o dagli “aiuti” internazionali. Ma per realizzare tale obiettivo occorre definire chiaramente sia  i soggetti di classe su cui si intende basare la propria azione,  sia la forma politica da adottare per organizzarli e mobilitarli. Su questi e altri argomenti le posizioni si sono spesso divise, come dimostra il fatto che i giudizi sui vari leader indipendentisti e panafricanisti divergono a volte radicalmente anche all’interno dello stesso campo antimperialista. Rodney è, per esempio, più severo nei confronti di Nkrumah e meno nei confronti di Nyerere mentre, come abbiamo visto nei precedenti articoli sull’Africa apparsi su queste pagine, Okoth inverte tale giudizio e Bouamama è complessivamente più comprensivo nei confronti di quasi tutti i leader nazionalisti, nella misura in cui tiene contro delle terribili condizioni obiettive – sia a livello nazionale che internazionale – in cui hanno dovuto operare. Vediamo ora come Rodney si è misurato con i due problemi appena evocati, analizzando prima il suo tentativo di tracciare le linee generali della composizione e dei conflitti di classe in Africa, poi la sua descrizione del modello di transizione al socialismo messo in atto in Tanzania (Paese in cui, come accennato in apertura di articolo, ha vissuto e insegnato per alcuni anni).


Un presupposto comune a tutti gli autori di Red Africa (per usare lo slogan di Okoth) è la distribuzione ineguale delle classi sociali nell’era del capitale monopolistico imperialista: le classi proprietarie vivono soprattutto nelle metropoli, mentre la gran parte della forza lavoro risiede nelle aree coloniali o semicoloniali; queste ultime presentano vari gradi di stratificazione di classe, caratterizzata dalla presenza di nuove classi in formazione generate dalla integrazione dei loro Paesi nell’economia capitalista internazionale. In questo contesto il nodo fondamentale, per le forze rivoluzionarie, è quello di coinvolgere nei propri progetti politici masse popolari in grande maggioranza contadine (ancorché non  omogenee), mentre il proletariato industriale appare marginale. Per Rodney, come per Cabral, a nessuna delle classi coinvolte nella lotta di liberazione nazionale poteva essere attribuito a priori un ruolo rivoluzionario, nemmeno alle masse contadine, le quali potevano divenire una forza rivoluzionaria, come era avvenuto in Cina, solo organizzandone politicamente l’avanguardia. 


Ancora più complesso e contraddittorio appariva il ruolo della piccola borghesia che, in Africa, non presenta le caratteristiche imprenditoriali di quelle europea, composta com’è di una miriade di strati disomogenei: capi tradizionali (perlopiù arruolati nelle fila dei governi coloniali), piccoli commercianti, professionisti, quadri impiegatizi delle amministrazioni coloniali, ecc. Un coacervo di soggetti disparati che ha prodotto leader rivoluzionari come lo stesso Cabral e altri dirigenti delle guerre di liberazione nelle colonie portoghesi, ma anche borghesie compradore e agenti al servizio dell'imperialismo occidentale. Rodney ricorda che tanto Cabral quanto Fanon (22) hanno insistito sulla necessità che gli strati politicamente più avanzati di questa classe, che pure hanno svolto un ruolo decisivo nella costruzione dei movimenti antimperialisti e anticolonialisti, avrebbero dovuto, una volta conclusa la prima fase del processo rivoluzionario, “suicidarsi in quanto classe”, così come hanno insistito sul ruolo strategico della coscienza soggettiva (politicamente organizzata) in opposizione alle visioni meccaniciste e “oggettiviste”del marxismo dogmatico; né hanno trascurato il fatto che il tema dell’identità culturale africana, opportunamente depurato dalle nostalgie per un passato immaginario, può agire da correttivo  sia nei confronti dell’imperialismo culturale borghese sia delle suddette interpretazioni meccaniciste del marxismo. A quest’ultimo proposito, Rodney sottolinea che i popoli del Terzo Mondo, malgrado le esperienze storiche della schiavitù e del colonialismo, non sono disumanizzati nella stessa misura di quelli europei: i lavoratori della metropoli, scrive, sono più confusi, alienati e meno in controllo del proprio destino dei contadini africani. 


Julius Nyerere



Vediamo infine come il marxista guyanese ha tentato di applicare queste analisi al progetto di transizione socialista della Tanzania. Nell’ambiente rivoluzionario africano il giudizio su tale esperimento era controverso, come si è visto discutendo del libro di Okoth Red Africa (23). Per alcuni, il concetto di Ujamaa che stava al centro del progetto tanzaniano era infatti solo una foglia di fico, che serviva a imbellettare con riferimenti alla tradizione culturale la sostanziale resa agli interessi della borghesia locale in combutta con l'imperialismo.La posizione di Rodney appare più sfumata a e possibilista (almeno ai tempi in cui scrisse il lavoro di cui stiamo qui trattando; poi anche lui finì per prendere le distanze). 


Rodney spiega che il termine Ujamaa si riferisce originariamente alla famiglia allargata del comunitarismo africano, e che in Tanzania esso veniva usato come sinonimo del progetto di dare vita a comuni agricole in cui si sarebbero dovuti restaurare i principi della produzione collettiva, della ridistribuzione egualitaria e dell’obbligo universale al lavoro, scommettendo sull’idea che il Paese riuscisse a contare sulle proprie forze e sulla scelta di fare dell’agricoltura la propria attività principale. Dopodiché prende in considerazione alcuni fattori che, a suo avviso, avrebbero potuto agevolare tale strategia. In particolare: 1) il fatto che la piccola borghesia, in assenza di forti investimenti delle multinazionali occidentali, avesse cercato nelle istituzioni pubbliche le opportunità di mobilità sociale; 2) il fatto che la Tanzania, a differenza di altri Paesi africani, era dotata di un unico linguaggio nazionale (lo Swahili), laddove il prolungarsi dell’uso del francese e dell’inglese dopo l'emancipazione aveva altrove collaborato a mantenere questa classe al servizio dei vecchi padroni coloniali. 


Anche se l’appoggio piccolo borghese alla Ujamaa appariva tutt’altro che privo di ambiguità, queste e altre circostanze avevano collaborato, secondo Rodney, a creare una situazione di economia mista e di dualismo di potere, suscettibili di evolvere in senso socialista. Ciò posto vincola il successo del progetto al realizzarsi (più o meno) delle stesse condizioni che Marx aveva posto per una transizione diretta del comunitarismo dei contadini russi al socialismo: il socialismo si sarebbe potuto costruire in Tanzania solo qualora fosse stato in grado di anticipare il processo spontaneo di stratificazione sociale e la creazione di un proletariato rurale, fattori che avrebbero inevitabilmente portato alla integrazione del Paese nel sistema capitalistico mondiale. 


Sappiamo come sono andate le cose qui come nel resto dell’Africa, liquidando le speranze della generazione dei leader politici e teorici che avevano sognato un’Africa rossa. Ciò vuol dire che i loro progetti erano inevitabilmente condannati al fallimento dalle condizioni “oggettive” avverse in cui si è tentato di realizzarli, come suggerirebbero le presunte “leggi” storiche dettate dal marxismo dogmatico? Assolutamente no. La storia avrebbe potuto andare diversamente e può ancora andare diversamente, dal momento che la crisi del progetto di dominio globale dell'imperialismo occidentale, alimentato dal crollo dell’Urss, promette di riaprire i giochi, anche se i giocatori – tanto sul piano dei soggetti sociali, quanto su quello delle forze politiche e dei loro leder – saranno inevitabilmente diversi. 



Note


(1) La definizione della Rivoluzione del 1917 come rivoluzione “contro il Capitale” fu com’è noto usata da Gramsci il quale, tuttavia, al contrario dei suoi detrattori, la intendeva in senso positivo, riferendosi al genio di Lenin che aveva saputo innovare la teoria e la prassi del marxismo.


(2) La lettera è contenuta nell’antologia di scritti di Marx ed Engels curata da Bruno Maffi ed uscita nel 1960 per i tipi de il Saggiatore: India Cina Russia.


(3) Anche questo testo è contenuto in  India Cina Russia, op. cit.


(4) Rodney spiega che diversi anni dopo il dibattito con i populisti, Engels tornò sull’argomento per affermare che le condizioni in questione non esistevano più, in quanto lo sviluppo capitalistico in Russia aveva ormai svuotato di senso economico e sociale l’istituzione dell’obscina. In realtà questo giudizio sottovalutava il peso culturale che la memoria storica del comunitarismo contadino avrebbe avuto nella nascita dei soviet come organismi di comunità di base. Vedi, in proposito, P. Poggio, L’Obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976.


(5) Questa concezione dogmatica e ossificata dell’internazionalismo caratterizza le sinistre radicali in Occidente a partire dagli anni Settanta del Novecento, ed essa, con l’evoluzione successiva dell’ideologia “movimentista” occidentale, si è progressivamente convertita in cosmopolitismo borghese.


(6) Ne Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia (Luiss, Roma 2019) Daniel Bell descrive così la peculiare natura della democrazia popolare cinese: ai cinesi non interessano le procedure della democrazia formale occidentale, ciò che essi esigono è che i governanti facciano realmente gli interessi del popolo, e ritengono che ciò sia garantito dai duri meccanismi di selezione della leadership del Partito Comunista Cinese e dello Stato della Repubblica Popolare.


(7) L’equiparazione di comunismo e nazismo si è trasformata da espediente propagandistico in senso comune dopo l’infame delibera del Parlamento Europeo che ha “canonizzato” questa equazione.


(8) Ho recentemente citato su questa pagina la stessa convinzione espressa da Lukacs nella sua ultima intervista autobiografica (Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, Editori Riuniti, Roma 1983).


(9) Cfr. A. Cabral, Return to the Source, Monthly Review Press.


(10) Vedi su questa pagina i tre post intitolati “I popoli africani contro l'imperialismo” dedicati agli autori in questione.


(11) Cfr. “L’eurocentrismo “funzionale” di Marx ed Engels” https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/02/leurocentrismo-funzionale-di-marx-ed.html


(12) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.


(13) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Miano 2023.


(14) L’appoggio della Cina allo sviluppo indipendente delle nazioni post coloniali africane (contestato come “neocolonialista” dalle potenze imperialiste occidentali) ha caratteri molto diversi da quelli dell’appoggio sovietico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: mentre quest’ultimo aveva anche l’aspetto di sostegno militare alle lotte antimperialiste, quello cinese è soprattutto economico-finanziario e si ispira al principio della non ingerenza negli affari interni dei Paesi interessati.


(15) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007 (nuova edizione in Mimesis).


(16) Per una panoramica delle teorie del sottosviluppo e dello scambio ineguale cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(17) Cfr. R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, Pgreco, Milano 2021.


(18) Per la descrizione del sistema economico mondiale come insieme di modi di produzione diversi, conflittuali e integrati ad un tempo, cfr. A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21st Century. A Century after the Bolshevik Revolution, Routlege, London-New York 2022.


(19) Questa polemica è analizzata da Kevin Ochieng Okoth in Red Africa, Meltemi, Milano 2024.


(20) Per le pratiche di manipolazione della psicologia dei soggetti colonizzati cfr. F. Fanon, Pelle nera maschere bianche, ETS 2015.


(21) Cfr. Samir Amin, La déconnection. Pour sortir du système mondial, La Dècouverte, Paris 1986.


(22) Cfr. F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007.


(23) Cfr. Red Africa, op. cit. 

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