Howard Zinn, Storia del popolo americano
di Alessandro Visalli
Con il consenso dell'amico Visalli rilancio su questa pagina il testo dell'ultimo post che ha pubblicato sul suo blog. Si tratta di una lunga e articolata riflessione storica sulle modalità con cui il capitalismo americano ha gestito i conflitti di classe, etnici e identitari della società statunitense dall'indipendenza ai giorni nostri, sfruttando con grande maestria il principio divide et impera. L'analisi parte dal libro di Howard Zinn "Storia del popolo americano da 1492 ad oggi", ma è assai più che una recensione, nella misura in cui allarga l'orizzonte ad altri contributi teorici ed affronta, fra gli altri, il tema cruciale delle radici teologiche del suprematismo imperiale a stelle e strisce., argomento che anche il sottoscritto ha trattato in molti dei post recentemente apparsi su questo blog.
Carlo Formenti
Premessa
Howard Zinn, nato nel 1922 e morto nel 2010, è stato uno scrittore radicale americano newyorkese di inclinazioni socialiste libertarie e provenienza da una famiglia di immigrati ebrei europei (dall’Austria e dalla Siberia). Dagli anni Sessanta prese parte attivamente al movimento per i diritti civili, sia nel ruolo di docente di storia sia in quello successivo di docente di scienze politiche. Prese posizioni coraggiose e personalmente costose contro la discriminazione razziale e la guerra del Vietnam (1).
Il suo testo più famoso, Storia del popolo americano da 1492 ad oggi (2), è uno straordinario affresco dell’intera storia degli Stati Uniti, fino ai primi anni di Bush junior, descritta sotto il profilo della storia popolare. Ovvero della storia delle lotte e mobilitazioni popolari e delle diverse forme di oppressione che sono state praticate nella storia del paese. È quindi, e soprattutto, una storia dei dispositivi di controllo sociale e di formazione e dominio delle élites e di formazione e sfruttamento di sempre nuove ineguaglianze e colonie interne. Anzi di controllo proprio rendendo funzionali le ineguaglianze interne tramite il sistematico spostamento su altro della natura economica di queste.
La “scoperta”
La storia prende ovviamente le mosse dai viaggi di Colombo, soprattutto del secondo viaggio la cui complessa organizzazione e l’alto costo (ben 17 navi) rendeva necessario garantire l’immediato profitto. Ovvero, chiaramente, aprire un canale di approvvigionamento di schiavi ed oro. Colombo tenta di adempiere al mandato, in un paese ricchissimo di risorse naturali ma non sviluppato in senso occidentale, soprattutto garantendo i primi. E quindi occupando militarmente Haiti, che viene selvaggiamente sfruttata e nella quale si attua in poco meno di un secolo un vero e proprio assoluto sterminio. Una popolazione locale stimabile in 250.000 abitanti viene ridotta praticamente a zero, grazie ad uno spietato ipersfruttamento in piantagioni intensive. Su questa esperienza si forma la militanza antirazzista del più importante autore militante spagnolo del tempo, Bartolomé de Las Casas (3).
Ma il Nordamerica, di cui si parla in questo testo, fu invaso specialmente dagli inglesi e nel secolo successivo. Inoltre le popolazioni native, i first peoples, erano frammentate in centinaia di clan e alleanze federative, e potevano opporre una resistenza, se pure ostinata tuttavia frammentata e discontinua. A fronte di questa debolezza, che faceva sembrare agli europei abituati a densità sociali ed organizzative diverse il paese come vuoto ed immenso, gli inglesi (ma anche i francesi) esercitano quella che Zinn chiama una specifica “perfidia e brutalità”, causata in ultima analisi da un impulso interno. Precisamente da “quell’impulso speciale e potente che sorge all’interno delle civiltà basate sulla proprietà privata” (4). Una spinta che è fatta di bisogno di spazio e terra, che lo concepisce come libero e da possedere in modo esclusivo. Di qui la necessità, in una logica per i contemporanei evidente, di sottrarlo agli usi comunitari non riconoscibili come legittimi. E dunque scacciare ed uccidere chi pretendesse di affermarli.
Al momento della conquista e colonizzazione vivevano nelle Americhe 75 milioni di membri dei first peoples, di cui 25 nel Nord America, ma divisi qui in almeno 2000 lingue e dialetti e un centinaio di culture tribali principali (navajo, lakota, chippewa, cheyenne, apache, irochesi, le cinque nazioni mohawk, oneida, onodaga, cayouga e seneca del 1722, e via dicendo). Un’enorme varietà, dunque, alcuni costruivano villaggi e coltivavano il mais, con forme straordinariamente evolute e adattate di aridocultura e tecniche ingegneristiche di irrigazione perfettamente adatte allo scopo, altri avevano artigianati raffinati ed estesissime reti di scambio, oppure culture basate sull’abbondate pesca o caccia e in genere con sistemi sociali perfettamente egualitari, stabili e spesso con elevato livello di parità sessuale. Ma anche straordinarie capacità culturali, di argomentazione logica e retorica, raffinate capacità diplomatiche, come quelle messe in evidenza da David Graeber e David Wengrow nel loro L’alba di tutto (5). Ad esempio, è descritta la straordinaria vicenda di Kondiaronk, stratega dei Wendat, una confederazione di quattro popoli irochesi che cercò all’inizio del Settecento di evitare che inglesi, francesi e la coalizione hanfenosaunee si unissero contro la sua. In prospettiva l’obiettivo del leader nativo di organizzare una grande coalizione contro gli invasori (6). Presumibilmente inviato come ambasciatore del suo popolo in Francia, si fa critico sia del cristianesimo sia della logica della trasposizione del potere sulle cose (la proprietà) in potere sugli uomini. I suoi arguti argomenti, secondo Graeber, influenzano profondamente lo stesso dibattito europeo contemporaneo sulla ineguaglianza. Uno dei più specifici argomenti portati da Kondiaronk, e riportati in Dialogues curieux: entre l’auteur et un sauvage de bon sense qui a voyagé, del 1703, dell’aristocratico francese Louis-Armand de Lom d’Arce, è che le leggi punitive di stampo europeo, e la stessa dottrina cristiana della punizione eterna, non sono rese necessarie dalla naturale cattiveria umana, ma da una forma di organizzazione sociale che incoraggia il comportamento egoista e l’avidità. Sono quindi le distinzioni tra “mio e tuo”, per usare le sue parole riportate nel libro, a rendere “disumana” la vita in Francia. Come dice, “affermo che quello che chiamate denaro è il diavolo dei diavoli; il tiranno dei francesi, la causa di tutti i mali; il flagello delle anime e il mattatoio dei vivi” (7). Insomma, “un uomo motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole”.
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Kondiaronk |
Questa critica indigena, ovvero dei pochi rappresentanti dei first peoples che riuscirono a farsi ascoltare e talvolta viaggiare, a partire dall’inizio del XVIII secolo, influenza il dibattito sulla eguaglianza e come reazione le teorie evoluzionistiche, che invariabilmente, partono dallo ‘stato di natura’ egualitario. La domanda di come si possa trasformare il possesso, e quindi la ricchezza, in potere è anche al centro della riflessione di un avido lettore di diari di viaggio: Jean-Jacques Rousseau. Anche per lui la proprietà è la causa del problema dei mali della società, ma mentre per i first peoples la libertà presume una condivisione comunitaria dei beni, e quindi della sicurezza sociale, per gli europei resta legata alla proprietà e non può essere concepita alternativa. E quindi è indipendenza.
Mentre per i primi, al contrario, la libertà è figlia della interdipendenza in un contesto di reciproco riconoscimento e sostegno, socialmente indotto, per il nostro ed il pensiero illuminista europeo essa è figlia piuttosto del possesso incontestato e non limitato. E il possesso esclusivo resta connesso, sia pure in modo complesso e contraddittorio, con l’idea del progresso e dell’evoluzione (nel passaggio dallo ‘stato di natura’ dei first peoples, alla società).
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Jean-Jacques Rousseau |
Le prime colonie
Mentre tutti questi dibattiti e influenze erano ancora da venire, nel 1619 in Virginia, dove le prime colonie inglesi sopravvissero a stento alla crisi per fame del 1609-10, prese l’avvio un’economia protocoloniale fondata sulla necessità di coltivare i cereali da una parte ed il tabacco di esportazione, dall’altra. I coloni erano davanti ad un problema: pochi e per lo più di classe media (artigiani, piccoli ex proprietari) e non avevano attitudini e desiderio di coltivare personalmente la terra (attività dura e ingrata con i mezzi dell’epoca); d’altra parte non potevano mettere al lavoro i first peoples, culturalmente inadatti, abili a sottrarsi nei grandi spazi del continente, ed anche militarmente forti. I virginiani trovarono la soluzione importando schiavi. Il bacino era relativamente vicino perché ai caraibi nel secolo precedente erano stati importati almeno 1 milione di neri dall’Africa per sostituire le popolazioni autoctone sterminate.
Gli africani erano più adatti perché le culture africane erano in fondo simili a quelle europee. Nel continente, oggi tendiamo a non vederlo, influenzati da una storiografia razzista e colonialista sviluppata soprattutto nell’Ottocento, ma in Africa tra il 1500 ed il 1600 erano presenti grandi stati, imperi persino, grandi centri urbani e un consolidato e importante artigianato. Inoltre, vi veniva praticata un’agricoltura avanzata, che faceva uso di utensili di ferro, e impegnava oltre cento milioni di persone. Lo stesso traffico degli schiavi era in parte autoctono, e venne quindi facilmente canalizzato verso i porti di scambio in centro Africa da attori locali. La forma sociale locale si potrebbe descrivere, a grandissime linee, come una sorta di feudalesimo con consolidate gerarchie e strutture complesse, insediato in forme di vita tribali e talvolta comunitarie. Una società dove l’idea di proprietà privata era presente, ma non strutturava completamente il sociale e gli istituti repressivi erano temperati. In questa società, o meglio nell’enorme varietà delle società africane per lo più mancava quindi la febbre del profitto illimitato che un secolo dopo impressionerà Kondiaronk.
Una volta catturati, mischiati tra etnie diverse e separati gli uni dagli altri, gli africani erano quindi particolarmente adatti e, al contempo, particolarmente inermi. Strappati ad una cultura consolidata tribale e comunitaria, con legami familiari allargati e costitutivi, venivano a trovarsi tra estranei, la cui lingua talvolta neppure capivano e portati in paesi lontanissimi. Nelle navi negriere erano scientemente separati e divisi, tenuti in condizioni inumane e alla fine venduti uno ad uno (8). La tratta fu dominata prima dagli olandesi e poi dagli inglesi, nel pieno del fenomeno a Liverpool sostavano normalmente cento navi negriere.
In circa due secoli, in questo modo vennero catturati e trasportati nelle Americhe del Nord da 10 a 15 milioni di neri, su 45 milioni che furono sottratti al continente. È impossibile non vedere il nesso tra questa immane sottrazione di persone e distruzione di comunità e l’interruzione dello sviluppo autoctono che il continente subì nell’età del colonialismo europeo. E sottovalutare l’enorme contributo di questo trasferimento di ricchezza e forza lavoro nella costruzione della superiorità economica e quindi militare (o militare e quindi economica) dell’Occidente.
Bisogna aprire una parentesi. La colonizzazione inglese del Nord America è diversa sia da quella spagnola del Sud e Centro America (e di parte del Nord), sia da quella francese dell’attuale Canada. Mentre le altre due nascono da strutture statuali altamente organizzate e centralizzate, e sono sempre dipendenti fortemente dalla madre patria nelle loro strutture amministrative, la colonizzazione inglese nacque per ondate semispontanee di gruppi marginali e religiosi. La colonizzazione spagnola, che cominciò prima, di Nunez Cabeza de Vaca in California nel 1528-36, o Hernando de Soto in Florida nel 1539-41, e nelle aree degli attuali Arizona, Colorado, Nevada, New Mexico, Kansas, Oklahoma, era fondata su una precisa gerarchia sociale al centro della quale troviamo il 1-2% di popolazione spagnola, poi la popolazione “creola” (di sangue spagnolo, ma nata nel nuovo mondo) e in basso gli “indios”, trattati poco più che come schiavi. Nel XVII secolo alimentò questa espansione una emigrazione di ca 250.000 unità (su 10 milioni di popolazione complessiva).
Invece quella inglese aveva numeri quasi doppi ma stentò a decollare fino a che, verso il 1630, le debolissime colonie virginiane, intorno a nuove compagnie commerciali videro l’attivazione di una robusta immigrazione dall’Inghilterra di gruppi che si sentivano perseguitati. Questo è il contesto della rivoluzione inglese e con essa si intreccia. Nel 1629 si formò la Compagnia della baia del Massachussetts, che aveva l’obiettivo di favorire l’emigrazione di coloro che si sentivano perseguitati e volevano fondare una comunità all’altezza della propria fede religiosa (9). Nel 1630 17 navi trasportarono oltre mille coloni, nei tredici anni successivi ne arrivarono 20.000. Per il tempo ed il luogo sono numeri significativi. Vennero fondate colonie come Boston o Charleston, Concord e Hartford.
La base sociale della colonizzazione inglese
Ma chi sono quelli che vengono? Ci aiuta un bel libro di Cristopher Hill, Il Mondo alla rovescia (10), il trentennio tra il 1620 ed il 1650 in Inghilterra è caratterizzato da una tremenda crisi economica che esacerba l’odio di classe e viene imputato al governo, alla istituzione di monopoli pubblici e alla pressione fiscale. Nelle elezioni dei due Parlamenti tenute nel 1640 molti ‘scamiciati’, organizzati in quello che all’epoca si identificava genericamente come il ‘Partito Popolare’ riuscirono ad eleggere molti candidati, contro le élite. Sull’orlo della guerra civile che scoppiò subito dopo tra il Re ed il Parlamento e prima della formazione della New Model Army di Cromwell, proliferano continue eresie religiose, si formano gruppi radicali, in alcuni casi (come i membri della “Famiglia dell’Amore”) in continuità con i fermenti cinquecenteschi. In tutti i primi anni del Seicento la rivolta contro la religione istituzionalizzata, i suoi simboli ed esponenti, è crescente ad opera di sette come i “Puritani” ed altre.
Quel che avviene è un processo di disgregazione dell’unità feudale tra l’uomo e i suoi ruoli e quindi i ‘padroni’. Nel 1569 un’inchiesta del governo calcolò in 13.000 gli “uomini senza padrone” e nel 1602 nella sola Londra in 30.000. Si trattava di vagabondi (la “canaglia”), ma anche membri delle sette protestanti, popolate di piccoli artigiani che non potevano inserirsi nelle Corporazioni ufficiali, apprendisti, che si sentivano eletti e, al contempo, liberi nel loro esclusivo rapporto con Dio. Poi abitanti delle campagne ma non ufficiali (una legge del 1589 impediva di costruire case a chi non avesse abbastanza terreno), che praticavano mestieri come fabbri, carbonai, tessitori, etc. ma saltuariamente e nelle fasi di richiesta della nascente struttura produttiva. Quindi commercianti itineranti, che contribuivano enormemente a portare le nuove idee in giro.
Come dice Hill:
“sotto alla superficiale stabilità dell’Inghilterra rurale, quella dei vasti campi aperti che colpiscono la vista, stava la brulicante mobilità degli abitanti della foresta, gli artigiani e gli operai edili itineranti, i disoccupati in cerca di lavoro, i suonatori e i giocolieri girovaghi, gli ambulanti e i ciarlatani, i vagabondi, i barboni; gente che si raggruppava soprattutto a Londra e nelle grandi città, ma che aveva basi ovunque una zona appena colonizzata riusciva a sfuggire al meccanismo delle parrocchie, o nello zone colonizzate da tempo in cui c’era bisogno di manodopera. Era in questo modo che venivano reclutati gli eserciti e gli equipaggi delle navi, era qui che si trovò una parte almeno dei coloni per l’Irlanda e il Nuovo Mondo, uomini disposti a correre qualunque rischio nella speranza di conquistarsi un pezzo di terra (e con essa lo status che ne derivava), speranza che non poteva avverarsi nella sovraffollata Inghilterra” (11).
Con questo materiale umano, il processo di colonizzazione fu in sostanza organizzato dalla Compagnia in un primo momento e poi da istituzioni create dai primi coloni. Un General Court, formato dai capifamiglia, determinava l’autorizzazione ad insediarsi. Nel 1647 l’approvazione delle Law and Liberties, creò una prima fusione tra diritto inglese e istanze radicali religiose dei coloni. La crescita demografica fu imponente, da 250.000 abitanti all’inizio del Settecento si passò a 2,5 milioni in soli cinquanta anni. La gerarchia originaria era a tre strati: i diretti successori dei primi fondatori al centro, religiosi, commercianti o proprietari terrieri; in mezzo artigiani e piccoli proprietari; in basso i lavoratori salariati, spesso appena arrivati. Poi ci sono gli schiavi.
Dividere e gestire
Insomma, in una società in crescita, ma isolata e immersa in enormi spazi e circondata da nemici attuali o potenziali, dipendente da lavoratori sradicati e tenuti in condizioni disumane di sfruttamento e minaccia, era essenziale dividere. Ovvero impedire che i subalterni (siano essi ‘bianchi’, ‘neri’ o ‘rossi) si potessero percepire come simili e diversi dai dominanti, che erano strutturalmente minoranza. Oltre all’influenza della secolare cultura europea (gerarchica e fondata su un concetto di premio e punizione inscritto nella storia della fusione del cristianesimo paolino con la cultura romana (12)), costituì strumento di questa tecnologia del dominio, la coltivazione della barriera razziale. Specifiche leggi cercarono sempre di frenare la tendenza degli schiavi appena arrivati di sottrarsi e formare villaggi di maroons, tanto più quando minacciavano di unirsi a servi bianchi e indiani. Venne messo a punto un sistema di controllo capillare, sottile e crudele, sia a livello fisico (con tremende repressioni e punizioni, individuali e collettive) e psicologico. L’incubo che dominava le élite, e lo farà per tutta la storia americana, era semplicemente che i bianchi poveri si potessero unire ai neri (ed ai first peoples) contro i ricchi.
Nel 1676 in Virginia ci fu un caso di questo genere. La “insurrezione di Bacon”, che venne repressa con grande dispiego di uomini e mezzi, e punita in modo spietato. Bianchi poveri e neri non potevano mai agire insieme. Bacon, che organizzava bande armate per uccidere gli indiani, ai quali sottrarre la terra, venne arrestato dagli inglesi ma liberato dalla folla (nel contesto coloniale erano spesso gli immigrati poveri, affamati di terra di proprietà e disperati, a promuovere autonomamente la spinta per il genocidio dei first peoples. Talvolta il governo coloniale agiva da freno, sulla base di equilibri superiori). Allora scrisse la “Dichiarazione del popolo” che esprimeva al contempo odio per i first peoples e risentimento per i ricchi. Di qui la feroce repressione.
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La rivolta di Bacon |
Riassumendo, la catena dell’oppressione in Virginia, nella quale all’epoca vivevano 40.000 coloni, era alla metà del Seicento e nel Settecento la seguente: “gli indiani erano depredati dai bianchi della frontiera, che erano tassati dalle élites di Jamestown, e l’intera colonia era sfruttata dall’Inghilterra, la quale comprava il tabacco dei coloni fissandone il prezzo e ricavando centomila sterline l’anno per il Re” (13).
Nacque in questo contesto, sulla base delle protoideologie egualitarie importate dall’Inghilterra (“livellatori”, “diggers”, “seekers”, “ranters”, quaccheri) nel contesto della gloriosa rivoluzione della metà del Seicento (14) quella imponente immigrazione che vide i poveri andare oltremare sulla base di un contratto di servitù che durava da cinque a sette anni (e non era sempre rispettato). Poveri, già sradicati e pericolosi in patria, talvolta ex militari, che ovviamente rappresentano una minaccia. Dopo la metà del Seicento ne fanno parte anche sbandati della “gloriosa rivoluzione”, talvolta con esperienza nella New Model Army, che vengono trasportati sulle stesse navi negriere, a volte in condizioni quasi analoghe, vengono comprati e venduti e sottoposti ad abusi, ma reagiscono in modo individuale. Fuggendo o ribellandosi. Quando possono vanno all’Ovest.
Questa è la scena originaria nella quale si formano le divisioni di classe, genere, razza e cultura le quali strutturano fino ad oggi la società americana. In Virginia nel 1700 le famiglie abbienti principali erano ormai 50, e vivevano in grandi piantagioni per l’esportazione del lavoro di schiavi neri, servi bianchi e sorveglianti intermedi. Vennero allora scritte costituzioni schiaviste (quella del North e South Carolina da John Locke), che istituirono e consolidarono una nuova aristocrazia di tipo pseudo-feudale nella quale alla fine 8 famiglie avevano il 40% del terreno e solo un esponente di queste aveva il diritto ad essere nominato Governatore. Non diversamente avvenne a New York ed a Boston, dove nel 1687 50 individui possedevano il 25% della ricchezza, ma nel 1770 ormai ne avevano il 40% e il 30% della popolazione maschile adulta e bianca non aveva nulla.
Nel 1700 gli schiavi erano l’8% della popolazione, nel 1770 diventarono al Sud il 21%, ma gli abitanti generali, nel frattempo, erano esplosi (sia per crescita demografica autoctona, sia per immigrazione).
In questo contesto gli scontri sociali si susseguirono, e resteranno alti in pratica per due secoli.
La “rivoluzione americana”
La crisi “rivoluzionaria” (15) utilizzò questa energia, ma fu canalizzata e sfruttata dalle élite. Le quali avevano concluso, sulla base dell’esperienza, che i first peoples non servivano a nulla, i negri erano docili e redditivi e i poveri bianchi invece pericolosi. Dunque, i burocrati coloniali li spingevano verso la frontiera (contro i first peoples) previa assegnazione a imprenditori concessionari. La meccanica era semplice e consolidata, le élite politiche definivano nuove concessioni reali nei terreni “vuoti” della “frontiera”; queste erano acquisite con anticipazioni dal sistema finanziario del Nord ed assegnate a imprenditori che le spezzettavano e rivendevano ai poveri appena arrivati; questi organizzavano carovane verso l’Ovest per prenderne possesso, ovviamente uccidendo i first peoples presenti. Quando andava male arriva l’esercito.
Come è riassunto in un testo dell’epoca, bisogna “che gli indiani e i neri siano di freno gli uni agli altri, per evitare che dato il loro numero ampiamente superiore, veniamo schiacciati, dai primi o dai secondi” (16). Anche se talvolta andava male, nell’insieme funziona, da Bacon all’epoca rivoluzionaria si registrarono 18 sollevazioni, 6 rivolte di neri e 40 altre sommosse minori. Il razzismo fu in questo contesto un potente strumento pratico al fine di rendere possibile questa separazione e controllo. Un altro meccanismo fu la deviazione dell’energia contro un altro nemico esterno: l’Inghilterra.
Nel 1776 alcuni personaggi eminenti creano quindi una nuova nazione su un’idea geniale nella sua semplicità: un sistema di controllo nazionale capace di unire paternalismo a comando. Venne in tal modo diretta la furia, che nasceva da lotte di classe non completamente consapevoli (a loro volta connesse, come abbiamo visto, con le tradizioni importate dall’Inghilterra seicentesca) contro le élite giuste (e non contro di loro). Peraltro, ci furono sempre molte rivoluzioni dentro la rivoluzione (17), tra questa quella dei “Regolatori” di Ethan Allen che in alcune contee godettero dell’appoggio di 6 persone su 7. La repressione dei “regolatori”, dove avvenne, determinò un sostanziale disinteresse alla lotta contro gli inglesi, che venne condotta soprattutto dalle classi medie (la “umanità di medio rango” di Colden) che furono cooptate al Nord agli interessi del grande commercio e della intermediazione finanziaria e fondiaria. I membri dell’associazione “Sons of Liberty”, ad esempio, oltre ad essere di Boston, erano tutti delle classi medie e superiori; le classi povere faticavano a farsi coinvolgere in quelle che alla fine gli sembrava (e giustamente) una guerra tra ricchi.
Sarà un politico di grande talento, e capacità populista, come Patrick Henry, a trovare le parole giuste grazie ad uno stile intenzionalmente semplice e trascurato, lunghe pause, un tono emotivo al contempo preciso e vago. Grazie all’azione di questa coalizione, alla quale partecipò anche Thomas Paine, con il suo Common sense, del 1776, e la retorica di Thomas Jefferson, alla fine “livellatori” e “zappatori” furono marginalizzati ed estromessi dalla rivoluzione.
Durante la guerra i poveri vennero in sostanza incorporati nell’esercito, e nella sua promessa di avanzamento sociale, e le terre espropriate ai “lealisti” furono intelligentemente utilizzate per creare una classe media cuscinetto, politicamente fedele al Congresso Continentale. Emersero figure come George Washington (l’uomo più ricco d’America, grandissimo proprietario terriero e di schiavi), un ricco mercante bostoniano come Hancock, un agiato stampatore come Franklin (quel che più si avvicinava nelle condizioni del tempo ad un intellettuale).
Finita la guerra vennero regolati i conti con i first peoples.
Il modello che si affermò, qui non è il caso di ripetere tutta la storia, fu imposto nei dibattiti che seguirono tra le élite (Hamilton, Madison) sulla base di un accordo di fondo per il controllo di classe della situazione. E sulla base di un’alleanza sociale che vedeva favorevoli circa un terzo di piccoli proprietari ed artigiani i quali fondamentalmente volevano essere protetti dalla concorrenza inglese. Questa è la scena che portò in seguito al redde rationem della guerra civile.
Guerre di conquista e regolamento di conti
Ma prima ci fu l’affermazione del “destino manifesto” ad espandersi che portò alla guerra con il Messico del 1846, provocata con una scusa. Ci fu in tal caso un serrato dibattito, nel quale Lincoln, non ancora deputato, si dichiarò favorevole e Thoureau contrario, come molti lavoratori.
Si trovò a dire il senatore Johnson, mettendo a punto una retorica da allora sempre praticata:
“verremmo meno alla nostra nobile missione se rifiutassimo di perseguire gli alti fini che ci indirizza la saggia Provvidenza. La guerra è foriera di mali, e in ogni epoca ha dispensato morte e distruzione in grande quantità; eppure, per quanto ciò appaia imperscrutabile, l’Onnisciente Dispensatore degli eventi l’ha resa al tempo stesso lo strumento per realizzare il grande obiettivo dell’elevazione e della felicità dell’uomo. È alla luce di ciò che io aderisco alla dottrina del ‘destino manifesto’” (18).
L’esercito americano, per la metà formato da immigrati recentissimi irlandesi e tedeschi che erano interessati solo al soldo, combatté e vinse alla fine una guerra molto impopolare per entrambe le parti e condotta su grandi spazi. Nel 1848 il Messico, occupata la capitale, capitolò e perse metà del paese.
Nel Sud il sistema era invece imperniato sulla piantagione, ed una struttura che potrebbe essere descritta come aristocratica (che esprime nei primi decenni praticamente l’intera classe politica) che continuava a crescere sulla base del lavoro schiavistico, il quale letteralmente macinava vite. In una indagine che ci è rimasta si legge che in una piantagione nel tempo su 32 schiavi, solo 4 raggiungeranno i 60 anni, 4 i cinquanta, 7 moriranno entro i 40 e gli altri prima, ben 9 a 5 anni (evidentemente i bambini di età inferiore neppure venivano registrati). In queste condizioni erano frequenti piani clandestini per ribellarsi ed uccidere i bianchi, o fuggire. Temendo l’unione con i bianchi poveri la risposta fu di assumerli come sorveglianti, in secondo luogo imponendo una religione particolarmente adatta a spostare sull’altro mondo i desideri.
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Piantagione di cotone |
Su questa base si affermò il modello di Lincoln, che, inaugurando anche qui una tradizione, si presentava come rivoluzionario ma si appoggiava sul mondo degli affari, vestendo di abiti umanitari un mix di ricchissimi e ceti medi del Nord come propria base sociale ed elettorale.
Lo scontro di interesse tra un Sud agricolo e dedito all’esportazione, ed un Nord finanziario e proto-industriale, che attraeva immigrati europei e temeva la concorrenza inglese, determinò infine la guerra civile che mobilitò molte speranze nelle popolazioni marginali, chiamate a sostenere lo sforzo bellico. Speranze puntualmente tradite nel dopoguerra, quando le terre furono restituite ai bianchi ricchi (anche del Nord). Superando quindi la breve stagione di Grant che vide un piccolo insediamento di deputati neri, e apertura delle scuole, che ma terminò negli anni Settanta, durando meno di un decennio. Una nuova coalizione tra industriali del Nord e uomini di affari del Sud inaugurò allora l’era del carbone e dell’energia.
Questo clima di speranze deluse, è quello nel quale prese la parola una nuova intellettualità che si era formata nelle scuole aperte ai neri e trovò in persone come W.E.B. Du Bois (19) i propri leader.
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Du Bois |
Queste sono le condizioni nella quali, dopo la repressione del movimento della valle dell’Hudson, politici “progressisti” come Andrew Jackson padroneggiarono la retorica liberale e gli atteggiamenti populisti sulla base di una ben calibrata politica dell’ambiguità che, in sostanza, però continuò ad appoggiarsi sugli strati intermedi di commercianti ed impiegati (in crescita), verso una classe lavoratrice che fu tenuta costantemente in condizioni di frammentazione ed impotenza. Cominciarono a nascere, insieme ad una società più urbanizzata, nuovi fermenti come le prime forme di organizzazione femminile e il Movimento delle otto ore. Cosa che non impedì, nella crisi del 1873, l’emergere di un nuovo e più aggressivo capitalismo dei Carnegie e Rockfeller: i “Robber barons”.
Quando partì la ripresa che farà ancora più grande e potente gli Stati Uniti, la gestione delle tensioni crescenti avvenne sulla base di quello che Zinn chiama un “terrazzamento sociale”, nel quale la remunerazione e il grado di sfruttamento seguiva il colore (e l’epoca di immigrazione). Seguì la meccanizzazione crescente dell’agricoltura e quindi lo spostamento della forza lavoro sull’industria e la crescita della popolazione. Ma anche l’infrastrutturazione del territorio, soprattutto ad opera delle ferrovie di Carnegie e la rete crescente di interdipendenza finanziaria.
Contromovimenti
Theodore Roosevelt venne eletto in un paese nel quale si susseguivano gli scioperi ed il movimento per i lavoratori di Eugene Debs acquistava sempre più forza. Nel quale si avviò anche l’Alleanza degli agricoltori in Texas dalla quale nacque il movimento populista. Il Partito del popolo univa in una breve e piena di energia stagione repubblicani del Nord, democratici nel Sud, operai urbani e agricoltori neri e bianchi. Si trattava di uno strano partito, radicale e interraziale che venne aggredito dalle retoriche delle élite anche sotto questo profilo per inserire un cuneo tra bianchi e neri, operai ed agricoltori. Fino a che durò cerca, tuttavia, di creare una cultura indipendente; venne creato in Servizio Conferenze che arrivò ad avere 35.000 conferenzieri professionali, un enorme numero di riviste e opuscoli a stampa che si occupavano di economia, teoria politica, legge e governo, etc. una sola rivista, la “National Economist”, aveva 100.000 lettori.
Il movimento fallì alla fine perché non riuscì mai di farsi carico di interessi che erano potenzialmente divergenti e dirigerli, non riuscì ad unire stabilmente nei e bianchi, e venne attratto e assorbito dalla politica elettorale. In sostanza progressivamente, candidato dopo candidato e leader dopo leader, venne assorbito e neutralizzato nel Partito Democratico.
Continuando il suo racconto Howard Zinn ci mostra come ci sia sempre stato un nesso anche tra la chiusura della frontiera (così decisiva per la stabilizzazione sociopolitica della società americana attraversata da tensioni di crescita pericolose) e la proiezione estera. Secondo le sue parole, “il sistema del profitto, con la sua naturale tendenza all’espansione, comincia a volgere lo sguardo all’esterno” (20). La depressione del 1893 fece nascere l’idea nel sistema industriale e finanziario che la vendita all’estero poteva risolvere il sottoconsumo interno (senza obbligare ad alzare i salari e quindi ridurre i profitti), prevenendo anche il conflitto di classe. In sostanza si spostò all’esterno la tendenza a trovare un nemico e un inferiore al quale rivolgere il proprio risentimento. Come disse sinteticamente Theodore Roosevelt, “questo paese ha bisogno di una guerra”, ovviamente verso le razze “inferiori”.
Ovvero verso paesi che non sanno governarsi da soli e ‘hanno bisogno di aiuto’; in sostanza una riaffermazione, fuori del continente, della dottrina del “destino manifesto”. A farne le spese inizialmente furono le Filippine che in tre anni di guerra aspra e violentissima furono occupate e piegate, passando dal dominio spagnolo a quello americano.
Ma siamo anche negli anni apicali della sfida socialista, quando autori famosi come Mark Twain, Upton Sinclair, Jack London, Theodore Dreiser, Frank Norris, promuovono l’idea e, d’altra parte, si affermò il taylorismo che puntava a disinnescare la forza degli operai nelle fabbriche. I sindacati assumevano sempre maggiore forza, ma anche qui si lavorò per separare lavoratori bianchi e neri. Scriverà Du Bois, “il risultato finale di tutto questo è stato convincere il nero americano che il suo nemico peggiore non è il padrone che lo rapina, ma il lavoratore bianco suo collega” (21). Si affermarono anche organizzazioni operaie molto radicali ed efficaci, come i IWW (o “Wobblies”), i quali propugnavano un’azione diretta, senza divisioni di sesso o razza, e puntavano allo sciopero generale che espropri gli imprenditori. Un’idea basata su una forma di anarco-sindacalismo, anche se minoritario (forse diecimila militanti al massimo), ma determinato e coraggioso. Ad un certo punto i socialisti di Debs furono spinti dal loro successo a prendere le distanze dai Wobblies, i cui metodi spesso violenti, li rendevano un facile bersaglio. Non servì, perché nelle condizioni della Prima Guerra Mondiale furono repressi insieme.
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Eugene Debs |
Nacque in risposta a queste tensioni una sorta di capitalismo politico che attenuava e sopiva, che concedeva, ma per tutelare meglio gli interessi a lungo termine della classe capitalista, operando per i suoi interessi generali e prospettici, più che per quelli della singola fabbrica o industriale. Lo scopo, dice Zinn, era molto semplice e chiaro: tenere a bada il socialismo.
Guerre
Ma la lotta al socialismo non fu condotta solo dai politici dell’era progressista, un altro modo è il solito classico: la guerra. In un momento di necessità arrivò infatti a salvare la situazione la Prima Guerra Mondiale, proprio durante la pericolosa recessione del 1914. Du Bois lo vedrà in modo semplice: il capitalismo aveva bisogno di rivalità internazionale per creare una comunità artificiale tra ricchi e poveri. In realtà è un effetto secondario gradito, la crisi economica inasprì lo scontro tra capitali che si rifugiarono sotto la protezione nazionale, e lo trasformò in scontro tra sistemi di capitali nazionali e quindi nazioni. Scontro per gli “Imperi”, e quindi la proiezione protetta di capitali e aree commerciali, e scontro per regolare i debiti (22).
Fatto sta che la guerra consentì anche di regolare i conti interni. Il Presidente Wilson fece arrestare Debs per tutta la guerra e annientare i IWW, arrestati e processati in massa. Seguiranno le misure contro l’immigrazione dal Sud e dall’esterno, con la parziale incorporazione della forza lavoro nera nelle fabbriche del Nord e dopo il crollo del ’29 la rivolta dei reduci, il New Deal, la TVA e l’inquadramento dei sindacati (23). Il dopoguerra wilsoniano fu anche l’epoca della retorica anticoloniale (che, in realtà, era rivolta contro le colonie tedesche e solo quelle), promossa da un paese che, ricorda Zinn, tra il solo 1900 e 1933 era intervenuto a Cuba 4 volte, in Nicaragua 2 volte, a Panama 6 volte, Guatemala 1 volta, Honduras ben 7 volte.
La Seconda Guerra venne combattuta contro il nazifascismo, anche se durante l’intero periodo intermedio la preoccupazione di tutte le potenze Occidentali era piuttosto di fermare il comunismo. Lo dimostra l’atteggiamento nella Guerra di Spagna e comunque quello verso le potenze dell’Asse, solo con molta riluttanza designate come nemici. Questo, sia detto tra parentesi, fornisce uno sfondo anche alle esitazioni di Chamberlain, che vedeva il nemico a Mosca, non a Berlino. La guerra si combatté comunque con la solida determinazione, distruzione sistematica delle città inclusa, e risolse anche problemi sociali interni. Alla fine, servì, e quindi venne stabilizzata nella cosiddetta “Guerra fredda” (questa volta contro l’avversario giusto).
Rivolte e muri di gomma
Seguiranno la rivoluzione cinese, la guerra di Corea, le lotte per la decolonizzazione fino agli anni Sessanta inoltrati. Sul fronte interno la mobilitazione connessa con il riarmo, la crociata di Mc Carty e la dottrina del “pericolo evidente ed immediato”, la crescita del budget militare da 12 Mld nel 1950 a 45 nel 1960, fino a 80 nel 1970. Ormai negli anni Cinquanta e Sessanta il paese visse una sorta di economia di guerra permanente e si sentiva ormai sotto saldo controllo da parte delle sue élite.
Ma, durante gli anni tra la metà dei Sessanta ed i Sessanta avvenne l’esplosione sociale e politica della quale lo stesso Zinn fu testimone e protagonista. Iniziarono i neri, con le rivolte a Montgomery e l’emergere di grandi leader come King e Malcom X, tutti uccisi ovviamente non appena si radicalizzarono (Martin Luther King muore non appena comincia a parlare contro la guerra del Vietnam e la povertà). Dopo la Grande marcia del 1963 Kennedy cercò di riassorbire il movimento nella “Coalizione democratica”, come a suo tempo fatto con successo con il Partito Populista. In sostanza riuscì, ma per un poco ci furono movimenti divergenti, come quello di Huey Newton e le Black Panther, i cui leader furono assassinati in modo specifico e mirato. Oppure la League of Revolutionary Black Workers.
Emerse quindi il grande movimento pacifista contro la Guerra del Vietnam (una guerra coloniale nella quale gli Stati Uniti avevano preso il posto dei francesi) nella quale furono impiegate sette milioni di tonnellate di bombe (il doppio della Seconda guerra mondiale), e l’azione di grandi personaggi come Muhamad Alì. L’apice della protesta si ebbe nel 1970, prima del ritiro americano nel 1975.
Ci saranno anche molte altre mobilitazioni di diversi settori della società americana: le donne, i first peoples (24), le lotte nelle carceri nelle quali troverà la morte George Jackson. Una generale rivolta contro “modi di vivere oppressivi ed artificiosi”, che si esprime in tutto: dall’abbigliamento alla musica (con autori come Bob Dylan e Joan Baez, tra gli altri). Cominciò a declinare la fiducia diffusa nel governo. Ne furono segno giurie popolari sempre più ribelli, che assolsero Angela Davis e altri membri delle Black Panther. Il momento più basso si ebbe con la crisi per le dimissioni di Nixon.
Che, tuttavia, furono, al contempo una deviazione di attenzione.
La controffensiva
Di qui partirà la controffensiva neoliberale. Avremo la Commissione Trilaterale con Huntington, la destabilizzazione del Cile, la controffensiva in America Latina e ovunque possibile, il tentativo di riconquista e riassorbimento attraverso una sorta di “populismo dall’alto”. Per la terza volta, dopo “l’era progressista” e la “nuova frontiera”, si giocò la carta di un membro ricchissimo dell’establishment che si vestì da uomo del popolo come fece l’aristocratico Patrick Henry nel 1700. Toccò ad un ricchissimo imprenditore di arachidi del Sud, Jimmy Carter, vestirsi da contadino e costruire un richiamo populista. Scelto per il ruolo da Rockefeller e Brzezinski, Carter introdurrà un pacchetto sofisticato di apparenti riforme e potenziamento delle spese militari.
Seguirà il cambio di cavallo rappresentato da Reagan, che fece crescere ulteriormente il divario nella società americana e assistette all’inizio della disgregazione dell’Urss, cosa che gli consentì maggiore spazio di manovra per avventure come l’interferenza con i Sandinisti in Nicaragua, l’invasione di Grenada, l’uccisione di Oscar Romero in San Salvador, e poi, con il successore ed ex presidente Bush la prima guerra in Iraq (un vecchio e fedele alleato mediorientale, fattosi ingombrante).
Poi verrà Clinton con la sua retorica progressista e sostanza conservatrice, le sue contraddizioni, la sua svolta decisa verso l’internazionalizzazione dei capitali, la “terza via” e la riforma del welfare, l’eliminazione dei sussidi, la lotta neoliberale allo “Stato interventista” e poi, la Somalia, il Nafta, gli attacchi alla Jugoslavia al momento della dissoluzione sovietica. L’avvio della spinta ad Est della Nato, Seattle.
Verrà allora Bush Junior, con l’elezione rubata, l’11 settembre e la “Guerra al terrorismo”, le nuove avventure militari e i “Neocon”, l’Afghanistan. Tutti i fallimenti che fanno parte del declino americano di questi tempi (25).
Le tecniche, dividere e nascondere
Al di là di ogni valutazione il punto del libro è che il sistema americano riesce sempre ad esercitare il più ferreo controllo dividendo e incorporando, distribuendo qualcosa a quanto basta per avere uno scudo e impedire che si sommino troppe forze ostili. Mette sempre gli uni contro gli altri, i piccoli proprietari contro chi non ha nulla, i neri contro i bianchi, i nati in America contro gli immigrati, i vecchi immigrati contro i nuovi, i professionisti contro i non istruiti, le città contro le campagne, il Nord contro il Sud, l’Est contro l’Ovest, i giovani contro gli altri e tutte le minoranze contro tutte (una delle ultime tecniche (26)).
L’importante è che non si veda la frattura principale, tra chi ha troppo e chi non ha niente.
Un esempio di questa attitudine dell’establishment anglosassone (e americano in primis) di cogliere ogni opportunità per silenziare e neutralizzare le sfide sistemiche, sostituendole se del caso con meno pericoloso ribellismo individuale, in particolare estetico, è rintracciabile nella trasformazione del Movimento dei diritti civili, che tanta preoccupazione fece prendere negli anni Sessanta all’FBI, in un movimento molto meno solido di risegregazione identitaria. Giovani avvocati come Derrick Bell si convinsero che le lotte contro la segregazione erano state in fondo utili al potere. E che, con le sue parole, “il razzismo è una parte integrante, permanente e indistruttibile di questa società [americana]” (27). Nel contesto della disillusione post-moderna verso le “grandi narrazioni” e il correlato “universalismo illuminista” (anche, se non soprattutto, della tradizione marxista che era il vero bersaglio) (28), la nuova strategia non era essere tutti eguali, ma tutti diversi. Creare diritti differenziati che favorissero alcuni gruppi svantaggiati, risarcendoli sul piano simbolico e spesso linguistico.
Questa idea si contamina con quella di “intersezionalità”, promossa da Kimberlé Crenshaw, con la sua “Teoria critica della razza”. L’idea, apparentemente plausibile, è che ogni individuo si forma all’incrocio di diversi attributi, secondo un’individuale ed irripetibile costellazione di identità, come proposto da Donna Haraway. Dunque una donna nera, o un omosessuale latinoamericano (è ovviamente irrilevante se ricco o povero), non possono essere capiti se non da altre donne nere e omosessuali latinoamericani. Non sfugge che secondo questa strana logica ogni mobilitazione generale è impossibile, e soprattutto lo sono quelle per ragioni economiche. Non per caso queste teorie nascono nelle più ricche università americane, da persone certamente non di classe popolare.
Secondo la sintesi di un anziano Edward Said (29), questa idea portante, che la vittimizzazione di gruppi identitari fornisca un qualche accesso privilegiato alla virtù, non garantisce l’umanità, “attestare una storia di oppressione è necessario ma non sufficiente, fino a che quella storia non è ricodificata nel processo intellettuale e universalizzata per includervi tutti i sofferenti” (30). In altri termini fino a che non è inserita nel contesto della produzione sociale dell’oppressione che altri vivono, se pure diversamente, e in un progetto di riscatto che li coinvolga. O, per dirlo in altro modo, “nonostante quanto pensano Lyotard e i suoli accoliti, ci troviamo ancora in una periodo di grandi narrazioni, di drammatici scontri culturali e di spaventose guerre”, le cose vanno quindi collocate “nel più ampio contesto” e non solo dipendere “da una professionalità tecnica o dalla stantia ‘giocosità’ della critica postmoderna, con il suo altezzoso spregio per qualsiasi cosa che non sia gioco locale o pastiche” (31). L’autore palestinese, che tanta parte ebbe nella formazione del paradigma, in questi ultimi scritti protesta contro quella particolare “pedagogia dell’apartheid” ed esaltazione del particolarismo, che impedisce in radice che “un maggior numero di persone possa beneficiare dei vantaggi per secoli negati alle vittime delle discriminazioni di razza, classe e genere”.
Grazie a trucchi simili, trovati con istinto sicuro, alla fine l’America riesce sempre ad indicare una bella casa amena su una collina, mentre all’ombra di questa distrugge e tortura, schiavizza e incarcera, bombarda tutti e sempre (ma in modo “intelligente”), dichiarandosi aggredito, obbliga tutti a regole che lui stesso non rispetta e cambia ogni volta vuole, fa e disfa alleanze, designa nemici esistenziali e “nuovi Hitler” con i quali fa patti prima, combatte in mezzo e li rifà dopo. Tradisce gli amici, ogni volta possibile. Tradisce soprattutto gli amici, perché li considera inferiori.
Si comporta da impero, ma sempre, attentamente, “riluttante”. Obbligato, malgrado la propria modesta inclinazione, da un “destino manifesto” che non ha scelto. Che gli viene da Dio.
Conclusione, lo spirito premoderno di un paese di frontiera
Perché una nazione imperiale, che è nata sulla spinta delle componenti più disperate e radicali della rivolta religiosa seicentesca, innestando sul giano bifronte del liberalismo che abbiamo visto parlando del libro della Elkins sull’eredità di violenza dell’Impero britannico (32), ha un tono veterotestamentario. Qualcosa che, come vedremo leggendo Taubes (33), è radicalmente antipaolino. Riporta l’universalismo, conformemente ad una postura anglosassone implicita, al nomos ed all’ethos, alla Gerusalemme ed al popolo eletto. Paolo intendeva, invece, fondare un popolo e contestando al contempo l’universalismo romano e la comunità etnica ebraica. Nella “teologia politica negativa” paolina l’autorità viene sempre dall’amore per il prossimo. L’altro da sé. Ed è un movimento orizzontale che passa per il crocifisso, ovvero passa per l’indigenza (l’imperfezione, la finitezza). Per ciò che è proprio dell’uomo e ha sempre a che fare con l’amore che, esso solo, consente l’attivazione di quel movimento tramite il quale accedere alla perfezione. L’uomo nella antropologia paolina, e in quella cristiana al suo meglio, non è mai un ‘io’, ma sempre un ‘noi’. All’universale non si arriva per un movimento interno di dispiegamento, come l’espansione di una dote, di un possesso, ma si arriva perché ci si apre. Per l’evento, nel quale ci si contamina (34), si sa perdere sé stessi (così, e solo così, trovandosi).
Il carattere veterotestamentario dell’universalismo imperiale americano promana dalla stessa esibizione della violenza nuda, alla quale ci ha abituato dentro e fuori, ogni qual volta si renda necessario. Le analisi di Jan Assmann, in Non avrai altro Dio (35), e nelle altre opere (36) mostrano come la “semantica culturale” (37) americana pratica la relazione tra la violenza ‘necessaria’ e levatrice non in relazione al tema della sovranità, quanto della trascendenza. In relazione alla missione divina. Diventa allora una questione della verità. Pratica, e profondamente tanto più quanto meno se ne avvede (come ogni habitus acquisito alla nascita), la “distinzione mosaica” (38). Impone alla costruzione americana, figlia di tante diaspore individuali e di gruppo, di distinguere il vero dal falso. Cosa che rende quella americana un’enorme “Cultura di enclave” nel senso dell’antropologa Mary Douglas. Qualcosa che è autoevidente, determina una cornice di vita comune, e anche individuale, la quale si contrappone naturalmente ad altri stili di vita tanto profondamente da poter uccidere per essa in modo assolutamente ovvio.
Ma tutta questa energia, questa determinazione e questa violenza è posta a servizio. Diventa una forma che rende possibile la stabilità dello sfruttamento, sentendosene innocenti. In sostanza da un certo punto di vista la costruzione americana è un capolavoro.
Note
(1) Scrisse il primo libro contro la guerra, Vietnam. The logic of Whitdrawal, Beacon Press, 1967.
(2) Howard Zinn, Storia del popolo americano, dal 1492 ad oggi, Il Saggiatore 2017 (ed. or. 1980).
(3) Nato nel 1474 e morto nel 1566 è stata una straordinaria figura di teologo e vescovo spagnolo strenuamente impegnato nella difesa dei nativi americani, e successivamente anche dei neri importanti in sostituzione. Fondamentale fu la sua partecipazione al dibattito del 1550 di Valladolid, nel quale il suo avversario fu Juan Ginés de Sepulveda. Il testo principale è Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle indie, Marsilio 2012 (ed. or. 1552).
(4) Zinn, cit., p. 25
(5) David Graeber, David Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli 2022.
(6) Graeber, cit., p. 61 e seg.
(7) Graeber, p. 67
(8) Si veda, Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa, Bompiani 2019 (ed. or. 2012); Howard French, Africa. E la nascita del mondo moderno, Rizzoli, 2023; Zeinab Badawi, Storia Africana dell’Africa, Rizzoli, 2024.
(9) Si veda, Francesca Canale Cama, Amedeo Feniello, Luigi Mascilli Migliorini, Storia del mondo. Dall’anno 1000 ai giorni nostri, Laterza, 2019, pp. 579 e seg.
(10) Christopher Hill, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, PGreco, 2023.
(11) Hill, op.cit., p. 38.
(12) Un tema, questo, di enorme complessità per un approccio al quale rimando ad Alessandro Visalli, Classe e Partito. ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, 2023, cap. 3, Mutamenti, p. 103 e seg.
(13) Zinn. p. 52
(14) Si veda, Christopher Hilll, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, op.cit.
(15) Mi permetto di rinviare anche ad Alessandro Visalli, Classe e Partito. ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, 2023, cap. 2, Rivoluzioni, p. 60 e seg
(16) Zinn, p. 65(17)
(17) Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale, 1750-1804, Einaudi, 2017 (ed. or. 2016).
(18) Zinn, p. 166.
(19) Grande intellettuale e militante nero, in realtà con sangue africano, olandese, francese e haitiano, nato nel 1868 e morto nel 1963.
(20) Zinn, p. 313. Per una lettura di questa tendenza si veda, Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
(21) Zinn, p. 347.
(22) Si veda, ad esempio, Niall Ferguson, Il grido dei morti, Oscar, 2014,
(23) Fasi descritte anche nel mio Dipendenza, op.cit.
(24) Si veda, Aram Mattioli, Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Einaudi, 2024.
(25) Gli altri, Obama, Trump, Biden, ancora Trump sono fuori del libro, perché l’autore è morto nel 2010 e sostanzialmente termina con le immediate conseguenze del 11 settembre 2001, Afghanistan prima dell’Iraq. Non parla della seconda guerra in Iraq e non della crisi del 2008. Non dei due fallimenti di entrambe.
(26) Si veda Yascha Monk, La trappola identitaria. Una storia di potere e di idee del nostro tempo, Campi del Sapere, 2023.
(27) In Yascha Monk, La trappola identitaria., cit., p. 59-
(28) Non è difficile riconoscere una linea genealogica precisa tra l’emergere, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, di idee riprese dagli autori della ‘critica della ragione’ formatisi negli anni Trenta tra le due guerre, e il loro consolidarsi e diventare dominanti negli anni Ottanta, quando il marxismo subisce un autentico tracollo. Quando gli autori della svolta postmoderna criticano le “grandi narrazioni” e “l’illuminismo”, in realtà stanno attaccando l’idea di rivoluzione ed il marxismo-socialismo.
(29) Edward Said, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, 2008 (ed. or. 2000).
(30) Said, cit., p. 437.
(31) Idem.
(32) Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’imparo britannico, Einaudi Torino 2024 (ed. or. 2022).
(33) Jacob Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi 1997 (ed. or. 1993).
(34) Questa grande parola la uso nel senso di Derrida.
(35) Jan Assmann, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, Il Mulino, 2007.
(36) an Assmann, Verso l’unico Dio. Da Ekhnaton a Mosè, Il Mulino 2018 (ed. or. 2014); Jan Assmann, Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, Il Mulino, 2009.
(37) Per come la descrive Assmann “le grandi narrazioni e le differenziazioni principali con cui una società si orienta nello spazio e nel tempo e che rendono impresse nei miti fondatori, nei simboli, nelle immagini e nei testi letterari della propria tradizione”, in Non avrai altro Dio, cit., p. 29.
(38) Termine centrale della interpretazione di Assmann, per la quale la trasposizione che Mosè pratica dalla esperienza imperiale del suo tempo (Assiria ed Egitto) tra la vera e la falsa religione, tra vecchio e nuovo, che separa e distingue un “popolo che dimora a parte” (Nm 23, 9). Si veda Assmann, Dio e gli dei, cit., p.189.
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