Lettori fissi

mercoledì 25 giugno 2025

 ERRATA CORRIGE

IL NOME DI LORETTA NAPOLEONI, AUTRICE DI "TECNOCAPITALISMO", IL LIBRO CHE HO RECENSITO NELL'ULTIMO POST ASSIEME A "RIBELLATEVI" DI JEAN LUC MELENCHON, E CHE NEL TITOLETTO INTERNO ERA INDICATO CORRETTAMENTE, NEL CORPO DELL'ARTICOLO E' DIVENTATO NICOLETTA, UN REFUSO CHE SI E' PURTROPPO RIPETUTO  IN TUTTO L'ARTICOLO. RINGRAZIO L'AMICO CHE ME LO HA SEGNALATO E  MI SCUSO VIVAMENTE CON L'AUTRICE PER L'ERRORE (ESSENDO STATO A MIA VOLTA VITTIMA DI SIMILI INFORTUNI EDITORIALI SO QUANTO SIANO IRRITANTI).  

Carlo Formenti


martedì 24 giugno 2025

UTOPIE LETALI 2



Quasi dodici anni fa (ottobre 2013) usciva, per i tipi di Jaka Book, Utopie letali, un saggio in cui analizzavo gli svarioni teorici, le derive ideologiche e i miti che stavano sprofondando le sinistre radicali nella più totale incapacità di analizzare, e ancor meno di contrastare, le strategie di ricostruzione egemonica del progetto neoliberale che, dopo la crisi del 2008 che ne aveva evidenziato contraddizioni e debolezze, era impegnato a restaurare il consenso delle larghe masse occidentali, in parte tentate dalle insorgenze populiste. In quelle pagine accusavo, nell’ordine, le teorie postoperaiste che rimpiazzano la lotta di classe con fantasmatiche “moltitudini”; l’idiosincrasia dei movimenti libertari nei confronti di qualsiasi forma di organizzazione e potere politico (stato e partito eletti a simboli del male assoluto); la fascinazione delle tecnologie digitali gabellate per  strumenti di democratizzazione economica, politica e sociale; l’eurocentrismo incapace di prendere atto dello spostamento dell’asse antimperialista verso l’Est e il Sud del mondo; il dirottamento dell’impegno politico e sociale verso obiettivi rivendicativi di carattere particolaristico (libertà civili e individuali versus interessi e libertà collettive). 


Da allora l’offensiva capitalista si è incattivita, assumendo i connotati di un liberal fascismo di nuovo conio (confuso, ahimè, con il liberalismo e il fascismo “classici”, e quindi affrontato con i vecchi arnesi del frontismo). Abbiamo assistito a una reazione rabbiosa di fronte all’impossibilità di restaurare il sogno di una pax atlantica e di un nuovo secolo americano, accarezzato dopo il crollo dell’Unione Sovietica; una reazione che ha sfruttato la pandemia del Covid19 per imporre un ferreo disciplinamento ideologico, politico e sociale; che ha avuto ragione con relativa facilità dei populismi di sinistra (Syriza, Podemos, Sanders, Corbyn, M5S, di Mélenchon diremo più avanti), mentre ha integrato quelli di destra (Trump in testa) nel proprio progetto; che ha identificato nella Terza guerra mondiale (di cui abbiamo visto i prodromi in Ucraina, in Siria, nel genocidio di Gaza e nella guerra che Israele e Stati Uniti hanno scatenato contro l’Iran) la soluzione finale alla crisi secolare iniziata negli anni Settanta del Novecento.


I soggetti politici e culturali che criticavo in Utopie letali hanno imparato qualcosa dalle sconfitte subite nell'ultimo decennio? La loro connivenza di fatto – salvo sporadici pigolii pacifisti – nei confronti della propaganda anti russa, anti cinese e anti islamica (e anticomunista! Vedi l’ignobile delibera del Parlamento europeo che equipara comunismo e nazismo) con cui l’Occidente collettivo prepara la nuova guerra mondiale; e la loro ottusa riproposizione delle tesi e delle analisi di cui sopra, benché smentite dai fatti, non alimentano speranze. I due libri che discuto in questo post: Tecnocapitalismo. L’ascesa dei nuovi oligarchi e la lotta per il bene comune, di Loretta Napoleoni, e Ribellatevi! La rivoluzione nel XXI secolo, di Jean-Luc Mélenchon (appena usciti per i tipi di Meltemi) concorrono ad alimentare il mio pessimismo.



Loretta Napoleoni: sedotta dai miti tecnolibertari, delusa dalla realtà anarco-capitalista. 


A colpire, nella narrazione di Loretta Napoleoni, è la paradossale alternanza fra, da un lato la celebrazione della potenza liberatoria ed emancipatrice che le tecnologie digitali sarebbero in grado di regalare agli individui, alla società, alla specie umana in generale e all’ambiente naturale in cui viviamo, dall’altro lato il riconoscimento che le aspettative suscitate dalle nuove tecnologie non sono andate solo deluse, ma si sono rovesciate in altrettanti incubi. Un esito negativo che Napoleoni ascrive alla malignità di un pugno di tecnocapitalisti, ignorando il fatto che esso era inscritto nella natura stessa delle tecnologie in questione o, per meglio dire, in quella dei rapporti economici, sociali e politici che le hanno prodotte.


L’autrice inaugura il catalogo degli eroi della guerra contro l’autoritarismo dei poteri costituiti (economici, politici e sociali) con il gruppo di matematici, hacker , attivisti, fan di fantascienza che, nato alla fine degli anni 90 a San Francisco, si auto definiva cypherpunk (una crasi fra la cultura cyberpunk che imperversava in quegli anni (1) e la parola cypher, che allude alle tecnologie crittografiche). L’obiettivo fondamentale di questo movimento “libertarian”, scrive l’autrice, era scongiurare il probabile uso liberticida delle nuove tecnologie da parte dello Stato (non da parte delle imprese, le quali si sono rivelate ben più abili dello Stato nell’opprimere e sfruttare lavoratori, cittadini e utenti - ma si sa: per i libertarian la libertà economica è sacra quanto se non più di quella individuale). 


Non a caso i tecnocapitalisti, come la Napoleoni chiama i magnati della cyber economy, sono stati fulminei nell’applicare la lezione dei profeti del digitale: la lentezza con cui il diritto reagisce alle innovazioni genera un’area grigia che chiunque può sfruttare ai propri fini, leciti e illeciti. Quest’area ha partorito colui che l’autrice considera un altro “eroe”della battaglia per mettere l’individuo al riparo dall’occhio invadente del Grande Fratello: quel Nakamoto (pseudonimo dietro il quale c’è chi immagina si nasconda un Robin Hood che vuole redistribuire la ricchezza alla gente comune, mentre i più avveduti subodorano la mano di un insider dell’alta finanza) che ha il discutibile merito di avere inventato il bitcoin, la più nota e diffusa di una serie di criptovalute. 





Un’invenzione, azzarda Loretta Napoleoni, che potrebbe avere reso possibile il sogno dei  cypherpunk, vale a dire “la decentralizzazione dello Stato e il rafforzamento di un individuo che diviene sovrano di se stesso all’interno della moltitudine”. Se aggiungiamo ai due esempi appena citati l’esaltazione della “insurrezione virtuale” della comunità denominata Reddit, protagonista di una guerra finanziaria contro Wall Street condotta con le armi del nemico (e puntualmente conclusasi con una sconfitta), si sarebbe tentati di chiudere qui il discorso, liquidando il libro della Napoleoni come un’ingenua utopia neo anarchica, una versione cyber dei sogni ottocenteschi dei vari Owen, Proudhon, Saint Simon e Fourier. In realtà le cose sono più complesse, nel senso che l’autrice non è inconsapevole delle ombre associate a certe visioni “libertarie”.


Sui cypherpunk scrive, per esempio, che costoro – insensibili a temi sociali e politici - erano convinti che solo la tecnologia e non la legge (e quindi non la politica né il diritto!) può proteggere le libertà individuali, e si professavano antidemocratici perché, essendo la maggioranza “ignorante”, la democrazia è sinonimo di tirannia -  rozza versione della tesi “classica” di Alexis de Tocqueville (2). Inoltre, dopo aver spiegato che il meccanismo delle criptovalute si fonda sulla fiducia degli utenti, né più e né meno delle monete “ufficiali”, il cui valore operativo è interamente fondato sulla fiducia dei cittadini - in realtà le cose sono assai più complicate, ma sorvoliamo -, e dopo avere sostenuto che questo denaro virtuale potrebbe rappresentare un mezzo di emancipazione dal monopolio statale sull’emissione di moneta, l’autrice è indotta ad ammettere che le criptovalute si sono rivelate “uno specchio del mondo reale” (ma va!?) e che, una volta finite sotto il controllo dei tecnocapitalisti, hanno contribuito ad aumentare, più che a ridurre, le disuguaglianze. 


Insomma: c’era un volta il sogno di un futuro in cui “il monopolio della comunità avrebbe sostituito il monopolio dello Stato”, ma poi sono arrivati i cattivi che lo hanno trasformato in un incubo. Ma chi sono i cattivi? Va detto che l’autrice sembra avere le idee chiare sulle modalità di funzionamento del processo di finanziarizzazione dell’economia e sul fatto che esso si è avvalso di meccanismi agevolati proprio dalla rivoluzione digitale (vedi la facilità e la velocità con cui, una volta trasformati i debiti – come i mutui immobiliari – in merce, “impacchettandoli” in fondi “certificati” dalle agenzie di rating, questi hanno potuto inondare un mercato finanziario globale che opera “in tempo reale”, innescando la bolla dei subprime). Tutto ciò è stato reso possibile dall’integrazione fra alta finanza e colossi della tecnologia. Sono stati questi ultimi (i famigerati GAFAM cioè Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) a monopolizzare il settore tecnologico, facendo sì che esso, lungi dal favorire la redistribuzione della ricchezza, abbia aggravato le disuguaglianze e intensificato lo sfruttamento del lavoro promuovendo, fra gli altri, fenomeni come la uberizzazione del lavoro e la gig economy, cui l’autrice dedica pagine interessanti (3). 


Fin qui tutto bene. I guai iniziano laddove Napoleoni sostiene che il colpo di mano dei tecnotitani è stato favorito dalla presunta “fine” di uno stato-nazione ormai del tutto asservito ai loro interessi. Il ritornello sulla fine dello stato suona stucchevole da quando economisti e studiosi di sociologia politica hanno chiarito che il neoliberismo non è una riproposizione del liberismo classico, del laissez faire, bensì una dottrina (4) che riconosce allo Stato il compito decisivo di creare le condizioni per il corretto funzionamento di un mercato che, abbandonato a se stesso, non può garantire la riproduzione del sistema. Del resto, storici di lungo periodo come Braudel (5) e teorici del sistema mondo come Arrighi (6) spiegano che, fin dalle sue origini mercantiliste, il grande capitale finanziario ha sempre agito in stretta connessione (pur con fasi conflittuali) con lo Stato, e che il capitalismo, per dirla con Braudel, non può esistere senza lo Stato, di più, non può esistere senza farsi esso stesso Stato. Con buona pace di Loretta Napoleoni: niente di nuovo sotto il sole, se non il ripetersi in forma diversa dell’appropriazione capitalistica dello Stato. 


I buchi nella narrazione di Napoleoni sono il frutto di un equivoco di fondo, che consiste nella mancata comprensione del fatto che la Tecnica (uso maiuscola per sottolineare l’enfasi metafisica attribuita all’entità in questione) non è un sistema che si sviluppa con dinamiche proprie e indipendenti da quelle delle relazioni sociali (di classe!), politiche, culturali (ideologiche!) che compongono la civiltà umana nel suo complesso. Se avesse tenuto conto di queste interdipendenze sistemiche, non avrebbe avuto difficoltà a capire come il trionfo del Tecnocapitalismo sulle utopie hacker fosse inscritto nelle radici stesse della cosiddetta rivoluzione digitale: tanto negli interessi economici, politici e militari (vedi il ruolo dell’Arpa nello sviluppo di Internet) che ne hanno creato le condizioni, quanto nell’ideologia anarchica (anche se sarebbe più corretto definire i libertarian anarcocapitalisti, più che anarchici nel senso classico del termine) dei suoi ideatori. 


Questi ultimi coltivano il sogno di un’evasione individuale dal potere soverchiante dei monopoli (non a caso sono fan della fantascienza: vedasi un autore come Philip Dick (7) che fu maestro del genere). Un sogno che rilancia la cultura individualista dei pionieri che nell’800 abbandonavano le metropoli della costa orientale (dominate dai magnati) per andare alla ricerca di un posto al sole nelle praterie occidentali. E adesso, esauritosi il sogno della Rete come frontiera virtuale, occupata dalle enclosure dei GAFRAM, non resta loro che il mito della nuova frontiera dello spazio. Purtroppo anche qui i tecnotitani Musk, Bezos e Branson, scrive Napoleoni, stanno occupando i posti migliori, anche se va detto che certe narrazioni di espansione cosmica si riducono a campagne di marketing per promuovere progetti di turismo spaziale per super ricchi e altre forme di messa a valore dello spazio extraterrestre a noi più vicino, visto che, allo stato attuale delle tecnologie, l’unico spazio colonizzabile è, e tale resterà presumibilmente per secoli a venire, quello orbitale (del che, mi viene da dire, non possiamo che rallegrarci, dato che non vi è conquista coloniale che non sia associata alla mostrificazione dell’altro, al genocidio e alla distruzione ambientale). 


Del resto sono proprio le barriere apparentemente invalicabili – naturali, economiche, culturali, sociali, demografiche, geografiche, ecc. - che consentono di riconoscere il demone che possiede tecnocapitalisti e tecnoanarchici, magnati e pionieri, finanzieri e hacker, sognatori in piccolo e sognatori in grande: è il demone che Hegel chiamava cattiva infinità e Marx accumulazione allargata, mentre Loretta Napoleoni preferisce parlare di mito della crescita infinita, e fin qui posso essere d'accordo con lei, mi si rizzano invece i capelli in testa quando chiama in causa la tesi di tale Edward O. Wilson, un biologo secondo il quale il mito della crescita infinita non sarebbe un prodotto della storia umana bensì del nostro corredo genetico. Si capisce quindi perché, sviata da questo cattivo maestro, conclude così il suo lavoro: “Ignari delle conseguenze dei fallimenti dei nostri governi, delle nostre società e, soprattutto, di noi stessi, stiamo camminando come sonnambuli verso la distopia, a meno che qualcuno o qualcosa non riesca a svegliarci in tempo” Insomma, per dira con Heidegger, solo un Dio ci può salvare...



Jean-Luc Mélenchon: tribuno del popolo o neogollista di sinistra?


Formulare un giudizio complessivo sul libro-manifesto di  Mélenchon non è impresa banale perché, per ammissione dello stesso autore, non si tratta di un insieme organico di tesi, bensì di un collage di argomentazioni prese a prestito da vari autori. Il che sarebbe anche accettabile, dal momento che il nostro non è un teorico, bensì il leader carismatico di un movimento (populista più che popolare, come vedremo) come Tsipras e Iglesias lo sono stati di Syriza e Podemos. Ciò che ai miei occhi lo rende meno accettabile è il fatto che le fonti cui attinge (non citate ma riconoscibili) coincidono quasi punto a punto con le utopie letali contro cui sparavo a zero anni fa: l’impianto populista è mutuato da autori come la coppia Laclau Mouffe (8); il concetto di rivoluzione cittadina dal movimento ecuadoriano di Rafael Correa (9); l’astio nei confronti del “socialismo reale” (oggi evoluto in russofobia) è di chiara matrice troskista; la retorica decrescitista evoca la filosofia ecologista di autori come Latour e Latouche (10); l'entusiasmo per le potenzialità democratiche dei social rinvia alle stesse fonti della Napoleoni; infine l’esaltazione per le ribellioni spontanee delle “moltitudini” fatte di singolarità individuali e per la cultura antipartitica e antiorganizzativa che esse secernono è un mix di suggestioni postoperaiste e  troskiste. Il tutto condito con vaghi accenti sciovinisti che giustificano la definizione di neogollista di sinistra, forse malevola ma tutt'altro che arbitraria. Ma procediamo con ordine. 



Un altro “incantato dalla rete”


Le considerazioni critiche appena fatte sul testo di Loretta Napoleoni valgono, parola per parola, per le pagine che Mélenchon dedica al tema della Rete, per cui non mi dilungo eccessivamente sull’argomento, limitandomi a prendere atto che anche lui si iscrive – per parafrasare il titolo di un mio libro del 2000 (11) – al club degli “Incantati dalla Rete”. Pur non mancando di denunciare a sua volta l’irreversibile espropriazione dei sogni tecnolibertari da parte della banda dei GAFRAM, resta infatti convinto che la nostra sia “l’epoca dell’iper-individuo e della connessione” per cui annuncia, non senza prosopopea, che “la singolarità individuale è un fatto essenziale del nostro tempo” che ha battezzato la nascita di un “super individuo”. 


Che la nostra sia l’era della connessione, non sussistono dubbi, nel senso che è l’era in cui il capitale, e il sistema politico che ne rappresenta gli interessi, sfruttano le tecnologie digitali per disciplinare, controllare e mettere al lavoro non solo operai, tecnici, impiegati e lavoratori “autonomi” ma anche l’intera massa dei cittadini-utenti-consumatori (12). Che ciò comporti di fatto  l’abolizione delle forme tradizionali di associazione collettiva - politica, culturale e civile - rimpiazzata dal surrogato virtuale dei social, mi pare abbia francamente poco a che fare con l’emergenza (altro termine cui Mélenchon ricorre spesso, mutuandolo dai teorici della complessità) di un super individuo. Questo è semmai l’immaginario veicolato da media, pubblicità, e altri venditori di fumo (“diventa l’imprenditore di te stesso”) che alimenta l’illusione – soprattutto nelle nuove generazioni – di essere padroni del proprio destino quanto più si viene ridotti ad atomi isolati, privi di qualsiasi reale autonomia di decisione e di scelta. 


Il nostro tenta però di rovesciare la frittata mostrandoci il bicchiere mezzo pieno, anzi pieno fino all’orlo, laddove scrive che “lo spazio delle reti è la principale e talvolta unica agorà contemporanea, il punto di partenza di innumerevoli azioni rivendicative”. Così, celebrando l’emergenza di questo immaginario spazio globale, richiama in vita le narrazioni “alter mondialiste”(stroncate dalla macelleria messicana di Genova 2000 e definitivamente sepolte dalla frammentazione di un sistema mondiale che precipita verso la Terza guerra mondiale) e delira di “una nuova comunità globale in crescente inclusione”, caratterizzata da un processo di “creolizzazione generale”, proprio mentre l’esplosone dei particolarismi identitari scatena ondate di odio generalizzato. Ma evidentemente per Mélenchon questi sono dettagli marginali, trascurabili controtendenze. Lui guarda piuttosto con fiducia al radioso futuro della Noosfera (!). Sì, avete letto bene: si tratta proprio della visione allucinatoria del mistico gesuita Teilhard de Chardin (13), anche se il nostro dice che non è la stessa cosa (forse si riferisce alla versione del concetto riformulata a suo tempo dal mio amico Franco Bifo Berardi, il quale però credo l’abbia ormai ripudiata, rinsavito da un sano rigurgito di realismo pessimista). Per chi lo ignorasse per noosfera si intende la sfera di tutte le attività della mente umana che sarebbe “diventata una realtà digitale che include tutti i pensieri digitalizzati”. No comment...



Qualche residuo di lucidità


Gli unici scampoli di lucidità critica il libro Mélenchon li concede nelle pagine dedicate alla critica del sistema neoliberale. È vero che anche lui – come Loretta Napoleoni – è rimasto all’idea che il neoliberismo è una riedizione del laissez faire di ottocentesca memoria, e sul tema non dice nulla di realmente in nuovo, ma almeno in questo caso ha scelto di citare gli autori giusti (sempre senza nominarli). 


Così scrive che il liberalismo che oggi domina il mondo è entrato in una nuova fase in cui cui ha rinunciato al progetto democratico (progetto che Mélenchon identifica con quello “intorno cui si erano organizzate le società europee all’indomani della Seconda guerra mondiale”). Andrebbe tuttavia precisato che il liberalismo non è mai stato democratico, ha solo usato la narrazione democratica per legittimare il proprio dominio nelle centrali imperiali, mentre nelle periferie coloniali si è comportato esattamente come il Terzo Reich hitleriano (14). 


Scrive inoltre che le nuove tecnologie hanno consentito al capitale finanziario di realizzare il sogno della riduzione a zero del tempo di realizzazione del profitto (D-D’ senza passare da M, saltando cioè tutte le noie, i rischi e gli imprevisti della produzione e del mercato delle merci), un sogno che già Marx aveva analizzato nel Terzo Libro del Capitale (15). Descrive poi come la tendenza crescente alla divaricazione fra i cicli lunghi dell’eco sistema e i cicli brevi (tendenti a zero) dell’economia siano la causa principale della catastrofica degradazione dei sistemi ambientali, cui collaborano anche fenomeni quali l’obsolescenza programmatica, lo spreco sistematico e la monetizzazione dei “diritti” di inquinamento (temi presenti anche nel libro di Nicoletta Napoleoni).





Populismo e cittadinismo


Come fronteggiare la sfida di un sistema neoliberale che sta trascinando il mondo verso il baratro della guerra e della catastrofe economica, sociale e ambientale? L’unica forza in grado di scongiurare il disastro, risponde Mélenchon, è la “rivoluzione cittadina”. Cosa intende con questo slogan a dir poco generico? Provo a decodificare. 


In primo luogo, c’è sicuramente l’intenzione di evocare la memoria dei citoyen protagonisti della Grande Rivoluzione del 1789. Poco importa che Marx abbia smontato la narrazione di un cittadino che, dietro il mito dei diritti universali dell’uomo, nascondeva i prosaici interessi della classe borghese. Mélenchon non si cura di anticaglie come la lotta di classe, perché oggi, scrive, la teoria - termine generico con cui allude presumibilmente alle tesi del filosofo populista Ernesto Laclau (16) - “presenta una nuova conflittualità sociale: dopo il proletario contro il borghese ecco i nuovi protagonisti loro e noi, gli oligarchi contro il popolo”. 


Purtroppo i leader europei che hanno tentato di importare in Europa le idee di Laclau (ritagliate sull’esperienza del peronismo argentino) sono andati incontro a clamorosi fallimenti (vedi, fra gli altri, Tsipras e Iglesias). Ma evidentemente Mélenchon spera che la Francia sia terreno più fertile per applicare certi modelli latinoamericani (non a caso la sua rivoluzione cittadina fa il verso alla revolucion ciudadana dell’ecuadoriano Rafael Correa). Dimentica però che i soli esprimenti populisti di sinistra riusciti nel subcontinente sono stati quello del Venezuela, dove il movimento di massa ha potuto contare sulle sinistre riunite nel PSUV fondato da Chavez e soprattutto sul sostegno delle forze armate, e quello della Bolivia, Paese caratterizzato dalla presenza di una schiacciante maggioranza di origine india (17). Viceversa le rivoluzioni cittadine alla Correa, che hanno fatto leva sulle classi medie urbane che tanto piacciono al nostro, sono state sconfitte.


Il punto è che, per il mondo urbano contemporaneo non vale più il motto medievale “la città rende liberi”: le metropoli postmoderne sono il teatro di un processo di gentrificazione che ha espulso i ceti popolari dai centri e li ha ricacciati nelle periferie per cui movimenti come quello dei Gilet Gialli, che Mélenchon cita a più riprese, sono movimenti periferici che esprimono la rivolta delle banlieu e delle piccole medie città di provincia contro l’arroganza dei ceti medio alti di Parigi, egemonizzati dalle destre neoliberali (18). 


Ma il nostro è convinto che esista un unico movimento globale contro il potere costituito (come quello degli hacker esaltati dalla Napoleoni), espressione di “una radicale crisi di consenso da parte dei popoli nei confronti dell’autorità che li governa”. Quali autorità? Tutte perché, per l’ideologia libertaria, il potere è cattivo per definizione. Quindi Mélenchon traccia un elenco di rivolte che somiglia alla proverbiale notte in cui tutte le vacche sono nere, nel quale troviamo, accanto a Occupy Wall Street e ai Gilet Gialli, il movimento degli ombrelli di Hong Kong (dichiaratamente anticomunista e filo occidentale) e i neonazisti di Piazza Maidan.


Ammesso e non concesso che esista questo movimento globale contro lo Stato (contro ogni forma di Stato) e dato che, come lo stesso Mélenchon ammette, si tratta di soggetti che non vogliono nemmeno sentir parlare di politica, come potranno trovare risposta le sue rivendicazioni? Ma con il voto naturalmente: “la convinzione democratica e le elezioni sono la forma necessaria di mobilitazione politica in grado di invertire il corso degli eventi”. Così tutti i salmi neo anarchici finiscono in gloria, cioè nell’urna elettorale...


Per concludere: cosa non ho trovato che avrei voluto trovare e cosa ho trovato che non avrei voluto trovare nel libro di Mélenchon


Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna dei crimini vecchi e nuovi dell’imperialismo francese. A partire dal tentativo di soffocare la rivoluzione degli schiavi haitiani che avevano creduto, sbagliando, che il motto Libertè Egalitè Fraternitè valesse anche per loro. Una rivoluzione guidata da eroi come Toussaint Louverture (19), che fra qualche secolo saranno forse ricordati come i protagonisti di un evento storico più importante della presa della Bastiglia, e che riuscirono a sconfiggere sul campo gli eserciti “rivoluzionari” di Parigi, ma furono poi costretti a pagare per più di un secolo i “danni” provocati ai piantatori francesi. Un episodio osceno che è la causa principale della miseria del popolo haitiano e del quale la Francia si è finora rifiutata di fare ammenda. A seguire con i crimini di guerra perpetrati in Indocina e in Algeria, sui quali i socialisti e i comunisti francesi hanno chiuso più di un occhio. A seguire infine con l’assassinio di Gheddafi, perpetrato in combutta con l'imperialismo americano, e con gli interventi in Siria e in Sahel.


Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna del razzismo e dell'islamofobia che, come denuncia il libro di Said Bouamama, fanno parte del bagaglio culturale di larga parte dei cittadini francesi, e non solo di quelli di destra.


Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna della scandalosa deliberazione del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo.


Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna della strategia della NATO che, in barba agli impegni assunti all’atto della riunificazione delle due Germanie, ha esteso i propri confini a Est fino ad andare “ad abbaiare ai confini della Russia”, per usare le parole del compianto papa Francesco. 


Non ho trovato una condanna chiara e inequivocabile del regime di Netanyahu e del carattere razzista e genocida della politica israeliana (quanto pesa la lobby sionista all’interno della sinistra francese?) 


Ho invece trovato una esaltazione del ruolo politico delle classi medie, celebrate come “essenziali all’equilibrio di questo tipo di società” (cioè della società capitalista!).


Ho trovato l’approvazione delle pratiche assembleari cittadine che evitano accuratamente di discutere temi problematici e “divisivi” (come l’immigrazione e il razzismo?). Altro che versione postmoderna dei soviet, che erano organismi in cui si discuteva ferocemente di tutto, prima di assumere decisioni... 


Ho trovato una condanna della “invasione criminale e assurda dell’Ucraina”, senza alcun cenno al regime change del 2014 orchestrato dalla Cia, o alle persecuzioni nei confronti della popolazione russofona che hanno preceduto l’intervento di Mosca (un riflesso del passato trotzkista?).


Ho infine trovato un invito a non consegnare alle destre la difesa della sovranità nazionale (occorre “prendere la bandiera e farla propria” scrive). Giusto! Ma che significa l’accusa “Macron ha buttato fuori la Francia da se stessa”? quel se stessa include la Francia imperiale (colonialista, razzista e criminale), la Francia capitalista che sfrutta le masse degli immigrati, la Francia che si schiera con l’Occidente collettivo contro i popoli del Sud del mondo? Si spera di no, ma certi accenti sciovinisti (che risuonano anche nella sigla France Insoumise), a partire dall’assunzione implicita che non esiste nessuna “vera” rivoluzione se non la Grande Rivoluzione Francese, per tacere delle “omissioni” elencate poco sopra, giustificano l'interrogativo che azzardavo nel titolo del paragrafo: “tribuno del popolo”o neogollista di sinistra?



NOTE


(1) Mi riferisco ad autori come Bruce Sterling e William Gibson, autori di romanzi che descrivono una sorta di medioevo digitale, dominato dalle grandi imprese high tech il cui potere può essere sfidato solo dai cowboy della Rete, cioè da un pugno di tecnoanarchici individualisti.


(2) Cfr. Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1999.


(3) Chi scrive si è occupato di uberizzazione del lavoro e gig economy in Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.


(4) Non è possibile comprendere la stretta relazione fra Stato e mercato che caratterizza il sistema neoliberale senza studiare l’ordoliberalismo. Vedi, in particolare, F. von Hayek, La società libera, Rubettino 2007. Sulla differenza fra liberalismo e neoliberalismo vedi A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020.


(5) Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, 3 voll., Einaudi, Torino 1982, 1993, 2006.


(6) Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1996.


(7) La monumentale opera letteraria di P. K. Dick, che anticipa i temi del movimento cyberpunk, è una epopea del piccolo imprenditore americano, schiacciato dalla concorrenza dei monopoli high tech.


(8) Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, Londra 1985; vedi anche E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 1908.


(9) Sulla revolucion ciudadana di Rafael Correa, cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2013.


(10) Cfr. B. Latour, Come abitare la Terra, Einaudi, Torino 2024, e S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2014.


(11) C. Formenti, Incantati dalla Rete, Cortina, Milano 2000.


(12) Vedi C. Formenti, Felici e sfruttati, cit.


(13) Cfr. P. Theilard de Chardin, Il fenomeno umano, Queriniana 2024.


(14) Sugli orrori commessi dall’imperialismo inglese cfr. C. Elkins, Un’eredità di violenza, Einaudi, Torino 2024, e analoghe considerazioni andrebbero fatte sull’imperialismo francese e su quello americano; quanto all’imperialismo tedesco, Aimé Césaire ironizza sull’ipocrisia delle democrazie occidentali che a Hitler non rimproveravano tanto i crimini contro l’uomo, quanto i crimini contro l’uomo bianco, l’avere cioè commesso contro i bianchi gli stessi delitti che essi avevano commesso contro i popoli di colore (Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2020).


(15) Vedi quanto ho scritto in proposito su queste pagine: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2025/04/rileggendo-marx-appunti-sui-libri-ii-e_26.html


(16) Cfr nota 8.


(17) Sulla natura anticapitalista delle comunità originarie dei campesindios andini e sul loro ruolo determinante nella rivoluzione boliviana, cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Quito 2015.


(18) Cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014.


(19) sulla rivoluzione haitiana e sulla figura del suo leader Louverture, cfr. S. Hazareesingh, Spartaco nero, Rizzoli, Milano 2020.

lunedì 16 giugno 2025


I VENTI DI GUERRA SI INTENSIFICANO


Questo blog è nato per ospitare analisi teoriche su argomenti di storia, filosofia, politica, economia, sociologia, geopolitica e scienze umane in generale. Solo in rare occasioni ha ospitato interventi su temi di stretta attualità politica, anche se i temi in questione sono stati ovviamente inseriti nelle analisi di tipo generale. Ciò detto, è chiaro che non si può tacere sull'agghiacciante realtà in cui stiamo vivendo da tre anni a questa parte, con un blocco euroatlantico diviso sul piano degli interessi economici, ma compatto nello sforzo di difendere la propria declinante egemonia scatenando una serie di guerre di aggressione nei confronti delle nazioni in via di sviluppo e dei popoli del Sud globale: prima foraggiando di armi e mezzi il regime neonazista ucraino nel tentativo di distruggere la Russia, poi legittimando il genocidio del popolo palestinese scatenato dal regime liberal fascista israeliano, infine dando semaforo verde all'infame aggressione dello stesso regime contro la nazione e il popolo iraniani. Si tratta di tre momenti di un criminale disegno politico che può concludersi solo con lo scoppio di una Terza guerra mondiale. Se la follia dell'Occidente morente non si spingerà fino a provocare un olocausto nucleare, è altamente probabile che tale guerra si concluda con una sua catastrofica sconfitta. Per quanto un simile evento possa essere auspicabile, nella misura in cui schiuderebbe la strada al crollo del modo di produzione capitalistico, il suo costo in termini di vite e della sofferenza di centinaia di milioni esseri umani sarebbe tale che vale la pena che tutte le nostre (ahimè scarse) energie di sinceri rivoluzionari vengano spese per scongiurarlo. Allo stato dei fatti, tuttavia, possiamo contare solo sulla paziente e saggia leadership cinese alla guida del fronte antimperialista delle nazioni del Sud globale, oltre che sulla straordinaria capacità di resistenza che la nazione e il popolo sovrano della Russia (a prescindere dalla sua attuale leadership politica), il popolo palestinese e la nazione e il popolo dell'Iran stanno dimostrando (ben al di là delle previsioni dell'aggressore occidentale). Sono tre potenti fattori di dissuasione che, si spera, potrebbero ritardare se non bloccare del tutto i progetti dei signori della guerra di Washington, Tel Aviv, Londra, Parigi e Berlino (con Roma come ruotino di scorta). Per quanto riguarda in particolare il ruolo dell'Iran, concludo rinviando all'importante articolo che Alessandro Visalli ha appena pubblicato sul suo blog.   

mercoledì 14 maggio 2025




RILEGGERE MARX
APPUNTI SUI LIBRI II E III DEL CAPITALE 
5. Crisi, centralizzazione, caduta del saggio del profitto



Analizzerò il contributo di Marx all’analisi delle crisi capitalistiche partendo dal seguente presupposto: dal Capitale non è a mio avviso possibile derivare un modello monocausale del fenomeno, benché si sia tentato di farlo imputando, di volta in volta, la caduta del saggio di profitto, la sovrapproduzione, il sottoconsumo, le turbolenze finanziarie, ecc. La mia tesi è che, mentre i motivi delle crisi variano a seconda del periodo storico in cui si sono verificate, esse sono tutte associate a due caratteristiche strutturali del modo di produzione capitalistico che stanno “a monte” delle cause contingenti: il carattere “anarchico” di tale modo di produzione, cioè l’assenza di una programmazione razionale del processo complessivo di riproduzione sociale, e la necessità di garantire a ogni costo la continuità del ciclo complessivo del capitale, pena la rovina.


Inizio da quest’ultimo argomento, che Marx tratta nei primi quattro capitoli del Libro II (“Il ciclo del capitale denaro”, “Il ciclo del capitale produttivo”, “Il ciclo del capitale merce”, “Le tre figure del processo ciclico”). A pagina 83 del capitolo I leggiamo (le sottolineature sono mie) : “Il processo ciclico del capitale è quindi unità di circolazione e produzione; include l’una e l’altra. In quanto le fasi D-M, M’-D’ sono atti circolatori, la circolazione del capitale fa parte della circolazione generale delle merci; ma, in quanto sono sezioni funzionalmente determinate, stadi del ciclo del capitale che appartiene non soltanto alla sfera di circolazione, ma anche alla sfera di produzione, il capitale [denaro] descrive entro la circolazione generale delle merci un ciclo suo proprio. Nel primo stadio, la circolazione generale delle merci gli permette di rivestire la forma nella quale potrà funzionare come capitale produttivo; nel secondo gli permette di spogliarsi della sua funzione di merce, in cui non può rinnovare il proprio ciclo, e nello stesso tempo gli apre la possibilità di separare il suo proprio ciclo di capitale dalla circolazione del plusvalore ad esso concresciuto. Il ciclo del capitale denaro è quindi la forma fenomenica più unilaterale, dunque la più evidente e caratteristica del ciclo del capitale industriale, il cui fine e motivo animatore – valorizzazione del valore, creazione di denaro, accumulazione – vi è rappresentato in modo che salta agli occhi”. Per inciso, sottolineo che queste righe esprimono, con parole diverse, lo stesso concetto di un altro passaggio in cui Marx scrive che, per il capitalista, la forma ideale di attività è quella sintetizzata dalla formula D-D, cioè la creazione di denaro mediante denaro, mentre la fase produttiva del ciclo è solo un mezzo necessario, un impiccio del quale egli non può fare a meno per realizzare il suo vero obiettivo. Teniamo presente questo punto cruciale e andiamo avanti.


A pagina 100 (siamo nel capitolo II, dedicato al ciclo del capitale produttivo) Marx, ragionando sulla possibilità che la metamorfosi D-M, che prelude all’acquisizione delle risorse necessarie all’avvio del processo produttivo, si imbatta in qualche ostacolo come, per esempio, una carenza di mezzi di produzione sul mercato, scrive che in questo caso “il flusso del processo di riproduzione è interrotto, esattamente come quando il capitale resta immobile in forma di capitale merce [cioè in caso di carenza di sbocchi di mercato]. La differenza è però questa: esso può persistere nella forma di denaro più a lungo che nella transeunte forma merce. Non cessa di essere denaro quando non funziona come capitale denaro, ma cessa di essere merce, e in generale, valore d’uso, quando viene trattenuto troppo a lungo nella sua funzione di capitale merce”. 


Con ciò siamo arrivati al nodo cruciale che Marx sintetizza all'inizio del Capitolo IV (“ Le tre figure del processo ciclico”): “La continuità è il segno caratteristico della produzione capitalistica “ (p. 132), dispiegando ulteriormente il concetto nella pagina successiva: “Tutte le parti del capitale percorrono nell’ordine il processo ciclico, occupano contemporaneamente diversi stadi dello stesso. Così il capitale industriale, nella continuità del suo ciclo, viene a trovarsi contemporaneamente in tutti i suoi stadi e nelle diverse forme di funzione che vi corrispondono (…) Il ciclo reale del capitale industriale nella sua continuità (sottolineatura mia) è, quindi, non soltanto unità di processo di circolazione e processo di produzione, ma unità di tutti e tre i suoi cicli”. Ed è precisamente nel binomio unità-continuità del ciclo che si annida il seme della crisi: “Ogni arresto nel susseguirsi delle parti getta lo scompiglio nel loro giustapporsi; ogni arresto in uno stadio ne provoca uno più o meno grave in tutto il ciclo non solo della parte di capitale che si è fermata, ma della totalità del capitale individuale” (p. 134). Detto, per inciso, che uno dei fattori che possono provocare un arresto sono le lotte operaie (1), va chiarito che quanto abbiamo appena letto vale tanto per il capitale individuale quanto per quello complessivo, dal momento che “la produzione capitalistica esiste e può continuare ad esistere solo finché il valore capitale venga valorizzato, cioè descriva il suo processo ciclico come valore resosi autonomo; finché, dunque, le rivoluzioni di valore vengano in qualche modo superate e compensate (sottolineatura mia) (p. 136). 


L’imperativo di garantire la continuità del processo di valorizzazione, assieme all’assenza di regolazione sociale della produzione, fa sì che possa accadere, anche se e quando la produzione viaggia a pieno regime, che “una gran parte delle merci sia entrata solo in apparenza nel consumo [mentre] in realtà giaccia invenduta (…) si trovi ancora, di fatto, sul mercato. Flusso di merci segue a flusso di merci, finché accade che il flusso passato risulti solo in apparenza inghiottito dal consumo. I capitali merce si contendono l’un l'altro il posto sul mercato. Pur di vendere, gli ultimi arrivati vendono sotto prezzo [sono indotti a] vendere a qualunque prezzo per essere in grado di pagare. Questa vendita non ha assolutamente nulla a che vedere con lo stato effettivo della domanda: ha solo a che vedere con la domanda di pagamento, con l’assoluta necessità di convertire merce in denaro. Scoppia allora la crisi” (Libro II, pp. 102-103). 


Parliamo dunque qui di sovrapproduzione, la cui altra faccia è il sottoconsumo, a proposito del quale Marx scrive (Libro II, p. 101) “per la classe dei capitalisti, la costante esistenza della classe operaia è necessaria [non solo per produrre plusvalore, ma perché] è anche necessario il consumo (…) del lavoratore”; concetto che nel Libro III (p.610) approfondisce così: “la capacità di consumo degli operai è limitata sia dalle leggi del salario, sia dal fatto di essere impiegati solo finché è possibile impiegarli con profitto”; per concludere poco dopo che “La causa ultima di ogni vera crisi resta sempre la miseria e la limitatezza del consumi delle masse rispetto alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive come se il loro limite fosse soltanto costituito dalla capacità di consumo assoluta della società". La contraddizione fra la fame assoluta di profitto del capitalista e la limitata capacità di consumo delle masse, ci fa capire che la sovrapproduzione è sempre relativa, come Marx ribadisce in questo lungo passaggio: “Non è che si producano troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo decente e umano la massa della popolazione (…) periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza, per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un saggio di profitto dato. Si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale (…) Non è che si produca troppa ricchezza. È che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalista.” (Libro III, pp. 329-330) 


In sintesi: il carattere anarchico del modo di produzione capitalistico genera la dismisura della produzione; conseguenza della dismisura è la possibilità che si diano interruzioni della continuità del ciclo di accumulazione; l’interruzione genera la crisi che, nei passaggi appena citati, assume la forma della sovrapproduzione, che però non è la causa, bensì l’effetto delle contraddizioni strutturali del modo di produzione.


L’'interruzione del ciclo, tuttavia, può essere provocata anche da altri fattori. All’inizio del Capitolo XXVI del Libro III (“Accumulazione del capitale denaro e suo influsso sul saggio di interesse”, pp.525 e segg.), Marx cita il seguente estratto dal volume The Currency Theory reviewed (1845): “In Inghilterra ha luogo una costante accumulazione di ricchezza addizionale [una gran parte della quale era presumibilmente il frutto del saccheggio dell’India e altre colonie, NdA], che tende infine ad assumere la forma del denaro.Ma dopo l’aspirazione a guadagnar denaro, il desiderio più ardente è quello di disfarsene in questa o quella forma d’investimento che arrechi un interesse o profitto; giacché il denaro in quanto tale non produce ricchezza (sottolineatura mia)”. 


Trova qui conferma la tesi marxiana secondo cui il plusvalore irrigidito in tesoro “costituisce capitale denaro latente, perché fin quando persiste nella forna denaro, non può svolgere funzioni di capitale” (Libro II, pp. 104-105). Ma colpisce ancor più l’attualità di queste righe, che avremmo potuto leggere su un giornale americano ai primi del Duemila, poco prima dell’esplosione della bolla speculativa dei subprime. Sappiamo infatti che, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, le enormi masse di denaro affluite negli Stati Uniti da ogni parte del mondo, anche in conseguenza dello sganciamento del dollaro dall’oro, faticavano a trovare impieghi remunerativi nel settore  industriale, il che ha provocato un’accelerazione mostruosa del processo di finanziarizzazione. Queste situazioni di “pletora di capitale denaro” sono destinate, scrive Marx, ad aumentare “via via che si sviluppa il credito”, spingendo l’economia al di là dei limiti connaturati al modo di produzione capitalistico, per cui generano “eccesso di commercio, eccesso di produzione, eccesso di credito”(Libro III, p. 637 ). Profezia che ha avuto clamorosa conferma nella seconda metà del secolo scorso, allorché, esaurita la spinta alla crescita industriale, l’eccesso si è progressivamente concentrato nel settore finanziario. E poiché nemmeno la finanza può crescere all’infinito, si è disperatamente tentato di farla crescere su se stessa, dilatando l’economia del debito, le scommesse sul futuro, i titoli speculativi ad alto rischio, ecc. Trasformando cioè l’economia in una immane bisca, finché alcune puntate troppo azzardate – vedi la cartolarizzazione massiva di debiti inesigibili - hanno generato il crac. Il ciclo è sempre il solito: il carattere anarchico del modo di produzione genera la dismisura (in questo caso finanziaria), la dismisura provoca l’interruzione del ciclo, l’interruzione provoca la crisi.


* * * 


Nella seconda parte di questa quinta e ultima tappa del nostro viaggio attraverso i Libri II e III del Capitale ci occuperemo della concentrazione e centralizzazione dei capitali, nonché della cosiddetta legge della caduta del saggio di profitto, fenomeni che, come vedremo, Marx mette in relazione. Accostiamo il problema del saggio di profitto partendo dal concetto di composizione organica del capitale. “Un certo numero di operai corrisponde ad una certa quantità di mezzi di produzione; quindi una certa quantità di lavoro vivo ad una certa quantità di lavoro già oggettivato nei mezzi di produzione”,  scrive Marx (Libro III, p.191), quindi prosegue: “Questo rapporto è molto diverso in diverse sfere di produzione, spesso in diversi rami di una sola e medesima industria, quantunque occasionalmente possa essere esattamente o quasi lo stesso in rami d’industria assai distanti fra loro. Questo rapporto costituisce la composizione tecnica del capitale, ed è la vera base della sua composizione organica”. In conclusione, anche se si possono dare, a seconda del valore dei mezzi di produzione messi in moto dalla forza lavoro, differenze più o meno grandi fra composizione tecnica e composizione di valore, la definizione completa del concetto che ci viene data da Marx è la seguente: “Chiamiamo composizione organica del capitale la sua composizione di valore, nella misura in cui è determinata dalla sua composizione tecnica e la rispecchia” (Libro III, p. 192).


A mano a mano che aumenta la concentrazione del capitale, che vengono introdotti nuovi mezzi di produzione, che il progresso tecnologico e scientifico alimentano l’incessante sviluppo della produttività del lavoro, che quantità crescenti di macchine vengono messe all’opera dal lavoro vivo “questo graduale aumento del capitale costante in rapporto al capitale variabile avrà necessariamente per risultato una graduale caduta del saggio di profitto pur restando invariato il saggio di plusvalore, ovvero il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale” (Libro III, p. 272). La legge appena enunciata, chiarisce Marx poche pagine dopo “non esclude affatto che la massa assoluta del lavoro messo in moto e sfruttato dal capitale sociale (…) cresca; non esclude neppure che i capitali sottoposti al comando dei singoli capitalisti comandino una massa crescente di lavoro e quindi pluslavoro”, infatti la diminuzione è relativa e non ha nulla a che vedere con la grandezza assoluta del lavoro e del pluslavoro messi in moto, dal momento che: “La caduta del saggio di profitto non deriva da una diminuzione assoluta, ma da una diminuzione soltanto relativa della parte variabile del capitale totale, dalla sua diminuzione in confronto alla parte costante” (Libro III, pp. 278-279).


L’allargamento della scala della produzione e l’aumento della produttività del lavoro sociale fanno dunque sì che “ogni prodotto individuale preso a sé contiene una somma di lavoro minore che in stadi più bassi della produzione” (Ivi, p. 273). Nello stesso tempo, alla caduta del saggio di profitto associata all’aumento della produttività si accompagna un aumento della massa del profitto. Ciò basta a neutralizzare gli effetti della legge? No, pur se Marx elenca una serie di controtendenze che ne frenano la progressione. Il singolo capitalista può aumentare il saggio di plusvalore sfruttando certe invenzioni prima che si generalizzino (ma prima o poi si generalizzano e il saggio di plusvalore torna a livellarsi); l’aumento della sovrappopolazione relativa “è inseparabile dallo sviluppo della forza produttiva del lavoro che si esprime nella caduta del saggio di profitto e ne è accelerata” (Ivi, p. 303) e consente di abbassare i salari al disotto della media - il che rende più a buon mercato sia gli elementi del capitale costante sia i mezzi di sussistenza (2) – ma essi non possono scendere oltre un certo limite e, d’altro canto “la compensazione del numero ridotto di operai grazie all’aumento del grado di sfruttamento del lavoro si imbatte in confini insuperabili; se quindi può ostacolare la caduta del saggio di profitto, non può annullarla” (Ivi, p. 317). 


Infine Marx cita, fra i fattori che operano in controtendenza alla legge, il commercio estero (soprattutto coloniale): “i capitali investiti nel commercio estero possono fornire un più alto saggio di profitto perché (…) qui si è in concorrenza con merci prodotte da paesi con minori facilità di produzione, cosicché il paese più progredito vende le proprie merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato che i paesi concorrenti”; e poche righe  sotto, anticipa la tesi dello scambio ineguale che verrà sviluppata nel secondo dopoguerra dai teorici del sottosviluppo (3): “Lo stesso rapporto si può stabilire nei confronti del paese in cui si esportano e da cui si importano merci: avviene che questo dia in natura più lavoro oggettivato di quanto ne riceve, e tuttavia ottenga la merce a un prezzo inferiore a quello al quale potrebbe produrla egli stesso” (Ivi, p. 305); e nella stessa pagina  aggiunge che i capitali investiti in colonie “possono fornire saggi di profitto più alti, perché ivi il saggio di profitto è più elevato a causa del più basso sviluppo industriale e, grazie all'impiego di schiavi, coolies, ecc., vi è anche più elevato lo sfruttamento del lavoro”. 


Torniamo al Libro II (Capitolo IV, “Le tre figure del processo ciclico”, p. 136) dove leggiamo : “Il processo si svolge in modo del tutto normale se i rapporti di valore restano costanti; si svolge, in realtà, finché le perturbazioni nel ripetersi del ciclo [le discontinuità del ciclo stesso] si compensano; quanto maggiori sono le perturbazioni, tanto più capitale denaro deve possedere il capitalista industriale per poter attendere la compensazione; e poiché (…) la scala di ogni processo di produzione si allarga, e con essa cresce la grandezza minima del capitale da anticipare, quella circostanza si aggiunge alle altre che sempre più trasformano la funzione del capitalista individuale in monopolio di grandi capitalisti monetari, isolati o associati”. mentre nel capitolo XIV (“Il tempo di circolazione”, p. 310) scrive, a proposito dei vantaggi generati dallo sviluppo di grandi centri nei quali  convergono vie e mezzi di trasporto: “questa particolare facilità dei traffici e la rotazione in tal modo accelerata del capitale (…) determinano una più rapida concentrazione sia del luogo di produzione, sia del luogo di smercio. Con la concentrazione così accelerata di masse di uomini e capitali in dati punti, va di pari passo la concentrazione di queste masse di capitali in poche mani”. 


Dunque i processi di concentrazione e centralizzazione si alimentano a vicenda, ma qual è la loro relazione con la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto? Rieccoci al Libro III (Capitolo XV “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge, ”pp. 309 e segg.) dove troviamo la risposta: “l’accumulazione accelera la caduta del saggio di profitto in quanto implica la concentrazione dei lavori su grande scala, quindi una più alta composizione organica di capitale (…) la caduta del saggio di profitto  accelera a sua volta la concentrazione del capitale e la sua centralizzazione mediante l’espropriazione dei più piccoli capitalisti e degli ultimi resti di produttori immediati…” (4). 


Subito dopo, con un crescendo incalzante, il testo accelera verso la sentenza di morte per il modo di produzione capitalista. Ecco la sequenza:

“La contraddizione consiste in ciò, che il modo di produzione capitalistico racchiude una tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive (...) mentre d’altro lato ha come scopo la conservazione del valore capitale esistente e la sua valorizzazione nella misura estrema (…) Il suo carattere specifico è di servirsi del valore capitale esistente come mezzo per la valorizzazione massima possibile di questo valore. I metodi con cui essa raggiunge questo scopo comprendono: la diminuzione del saggio di profitto,la svalorizzazione del capitale esistente e lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a spese delle forze produttive già prodotte”.

“La svalorizzazione periodica del capitale esistente [ che serve a frenare la caduta del saggio di profitto e ad accelerare l’accumulazione con la formazione di nuovo capitale] turba (…) il processo di circolazione e riproduzione del capitale, ed è quindi accompagnata da improvvisi arresti e crisi del processo produttivo”.

“La diminuzione del capitale variabile in rapporto al capitale costante (…) dà impulsò all’aumento della popolazione operaia, mentre crea di continuo una sovrappopolazione artificiale. L'accumulazione del capitale (…) viene rallentata dalla caduta del saggio di profitto, per accelerare ulteriormente l’accumulazione del valore d’uso; a sua volta, questa dà all'accumulazione considerata quanto al valore un ritmo accelerato”

“La produzione capitalistica tende incessantemente a superare questi suoi limiti immanenti, ma li supera solo con mezzi che le contrappongono di nuovo, e su scala più imponente, questi stessi limiti” 

Ergo: “Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”. 


* * *

Giunti a questo punto, dobbiamo prendere atto di un inconfutabile dato di fatto: mentre le contraddizioni del modo di produzione capitalistico descritte nel Capitale hanno trovato innumerevoli conferme storiche, la loro mancata soluzione non ha provocato la prevista crisi terminale del sistema. A cosa possiamo imputare questa errata previsione ? Elenco qui di seguito le due cause che considero determinanti: 1) la deformazione prospettica provocata da una concezione teleologica del processo storico, al quale vengono attribuite leggi immanenti, automatismi “oggettivi” che ne orientano le presunte tendenze di fondo (anche se sappiamo che in alcuni testi tardi Marx ha rinnegato tale visone); 2) la descrizione della classe operaia come forza produttiva del capitale, priva di soggettività autonoma, classe in sé e non per sé (un limite cui solo la teoria leninista del partito è riuscita a porre rimedio). Naturalmente si potrebbe citare anche la prospettiva eurocentrica da cui Marx ha osservato la realtà mondiale, sottovalutando le capacità di resilienza e resistenza di classi, popoli e culture extraeuropee alla colonizzazione da parte del modo di produzione capitalistico; così come si potrebbe citare la sua descrizione del processo di socializzazione del capitale come prodromo della transizione alla società dei produttori associati, un fattore che è stato sfruttato per giustificare sia il gradualismo riformista dei partiti socialdemocratici che i deliri operaisti sul cosiddetto “comunismo del capitale”, ma questi sono limiti imputabili al contesto storico in cui Marx si è trovato a svolgere il suo lavoro teorico. Ciò detto, mi avvio a concludere questo percorso analizzando i contributi di tre autori che hanno provato a spingere la teoria al di là dei limiti appena accennati, vale a dire Rosa Luxemburg, il duo Paul Baran e Paul Sweezy e Giovanni Arrighi. 


* * *


Nella sua ponderosa Accumulazione del capitale (5)  Rosa Luxemburg, oltre a ricostruire – e a criticare - gli schemi della riproduzione semplice e della riproduzione allargata che Marx formula  nella Terza Sezione (“La riproduzione e circolazione del capitale totale sociale”) del Libro II del Capitale, ripercorre le controversie teoriche sull’argomento che si sono susseguite fra gli economisti classici ed altri autori a lei contemporanei. Non la seguirò in questo accidentato percorso, né tantomeno nelle complicate argomentazioni logico-matematiche con cui la grande teorica e leader comunista cerca di dimostrare che gli schemi marxiani non funzionano. Anche perché, come lei stessa osserva giustamente nella sua “Anticritica”, l’appendice in cui replica ai critici che ne contestavano le tesi, gli schemi matematici in quanto tali non possono dimostrare alcunché, visto che lo stesso Marx non li intendeva come una dimostrazione delle proprie teorie, bensì come un modello, un esempio del modo in cui pensava che funzionassero i meccanismi della riproduzione sociale totale. La mia critica, argomenta Luxemburg, non riguarda tanto gli schemi, quanto il fatto che il loro presupposto storico è insostenibile.


Il vero nodo della questione, scrive, è il fatto che: “Nel II, come anche nel I Libro del Capitale, Marx parte dal presupposto che la produzione capitalistica sia l’unica ed esclusiva forma di produzione” (6). Ciò è confermato dalle seguenti parole di Marx (si tratta di una citazione dal Libro I): “Per cogliere l’oggetto della ricerca nella sua purezza, liberi da circostanze perturbanti accessorie, dobbiamo considerare tutto il mondo commerciale come una nazione e presupporre che la produzione capitalistica si sia imposta dovunque e abbia conquistato tutti i rami dell'industria”. Il guaio, commenta Luxemburg, è che il presupposto da cui muove Marx “per cogliere l’oggetto della ricerca nella sua purezza” è palesemente falso, perché in realtà come tutti sanno e come lo stesso Marx ammette, aggiunge la Luxemburg poche righe sotto, la produzione capitalistica “non è affatto l’unica, né il suo dominio è esclusivo e totale (…) in tutti i paesi capitalistici [anche i più sviluppati] esistono numerose aziende artigiane e contadine fondate sulla produzione semplice delle merci (…) esistono anche in Europa paesi in cui la produzione contadina e artigiana è tuttora prevalente, come la Russia, i Balcani, i Paesi scandinavi, la Spagna. Infine (…) esistono giganteschi continenti nei quali la produzione capitalistica ha appena cominciato a mettere radici in piccoli punti sparsi, mentre per il resto i loro popoli presentano tutte le forme economiche possibili, dalla comunistica primitiva, alla feudale, contadina, artigiana” (7). 


Che l’osservazione appena citata fosse valida ai tempi in cui l’autrice scriveva è incontestabile. Ma, come abbiamo a nostra volta sostenuto sulle pagine di questo blog, analizzando le tesi di Gabriele e Jabbour sulla convivenza fra modi di produzione (8), quelle di vari autori afro marxisti (9) e quelle di Giovanni Arrighi, ispirate all’opera del grande storico dell’economia Fernand Braudel (10), la sua validità permane intatta ai giorni nostri. Se la produzione capitalistica fosse acquirente illimitata di se stessa, se cioè produzione e mercato di sbocco si identificassero in un continuo gioco di scambi reciproci fra settori produttivi di mezzi di produzione e settori produttivi di mezzi di sussistenza, argomenta Luxemburg, le crisi periodiche non avrebbero ragione di esistere, l’accumulazione capitalistica sarebbe un processo illimitato esente da conflitti e contraddizioni, e ogni discorso sulla necessità della transizione al socialismo perderebbe senso. Viceversa noi sappiamo che questa armonia sistemica non esiste, “che ogni imprenditore produce alla cieca, in concorrenza con altri, e vede solo ciò che gli passa davanti al naso (...) che l’attuale produzione assolve il proprio scopo al modo dei sonnambuli, attraverso un eccesso o un difetto, entro continue oscillazioni dei prezzi e crisi”(11). Sappiamo d’altro canto che la produzione capitalistica, “pur con le sue diversità dalle altre forme storiche di produzione, ha questo in comune con esse, che, sebbene il suo scopo determinante sia, soggettivamente, il profitto, essa deve oggettivamente soddisfare i bisogni materiali della società” (12). 


Anarchia della produzione, necessità di soddisfare i bisogni materiali della società aumentando nel contempo i profitti: una contraddizione che può essere affrontata solo garantendo un continuo allargamento della produzione, pena interruzioni catastrofiche del ciclo. Perché il meccanismo stia in piedi ad onta delle sue contraddizioni immanenti, occorre dunque che esista la possibilità di un continuo allargamento del fabbisogno sociale: nel nostro magazzino “dovremo trovare anche un terzo gruppo di merci non destinate né al rinnovo dei mezzi di produzione consumati né al mantenimento degli operai o della classe capitalistica, merci contenti il plusvalore estorto ai lavoratori, che rappresenta il vero obiettivo del capitale: il profitto destinato all’accumulazione” (13).


La soluzione sta nel fatto che, contrariamente al modello immaginato da Marx, che si fonda sul presupposto che la produzione capitalistica sia l’umica ed esclusiva forma di produzione, l’accumulazione capitalistica si compie in un ambiente fatto di diverse forme precapitalistiche, per cui “la produzione capitalistica conta su acquirenti di origine contadina e artigiana dei vecchi paesi e su consumatori di tutti gli altri, e a sua volta non può fare tecnicamente a meno di prodotti di questi strati e paesi (…) perciò fin dall’inizio si svolse fra la produzione capitalistica e il suo ambiente non-capitalistico un rapporto di scambio, in cui il capitale trovò la possibilità sia di realizzare il proprio plusvalore ai fini di una ulteriore capitalizzazione in denaro, sia di rifornirsi di tutte le merci necessarie per l'allargamento della sua produzione, sia infine di assorbire nuove forze-lavoro proletarizzate mediante la decomposizione violenta di forme di produzione non capitalistiche” (14)


Le argomentazioni teoriche di Rosa Luxemburg non sono mai piaciute agli economisti marxisti in quanto considerati scientificamente approssimativi e “ideologici”. Eppure è evidente che la teoria leninista dell’imperialismo (benché Lenin abbia a sua volta criticato l’opera della Luxemburg) trova qui un’amplificazione che, da un lato, corrobora la tesi della convergenza di interessi fra proletariato dei paesi industrialmente avanzati e masse dei paesi sottosviluppati, dall'altro lato offre spunti di riflessione in merito alla possibilità di costruire blocchi di classe anticapitalisti all’interno dei singoli paesi (non  a caso le tesi luxemburghiane hanno goduto di ampi favori nei paesi dell’America Latina, dove la convivenza fra diversi modi di produzione è una diffusa realtà di fatto). Nè è un caso se le sue idee hanno goduto della simpatia di autori come Paul Sweezy (che firmò l’Introduzione alla Accumulazione), il quale ha inaugurato una generazione di teorici marxisti che, nel secondo dopoguerra, sono tornati a riflettere sul concetto di imperialismo. 


Chiudo con un’annotazione critica: se la Luxemburg ha il merito di avere messo in luce gli “automatismi riproduttivi” che, in certe sezioni del Capitale, rischiano di oscurare la conflittualità immanente al modo di produzione capitalistico, dall’altro lato ha il demerito di avere elaborato un’ennesima variante della teoria del “crollismo”. Infatti, ipotizzando che arrivi una fase storica in cui si avveri il presupposto marxiano della sparizione dei modi di produzione precapitalistici, scrive: “Ma attraverso questo processo il capitale prepara in duplice modo il proprio crollo. Da una parte, allargandosi a spese di tutte le forme di produzione non-capitalistiche, si avvia verso il momento in cui l’intera umanità consisterà unicamente di capitalisti e salariati e perciò un'ulteriore espansione risulterà impossibile; dall’altra parte nella misura in cui questa tendenza s’impone [realizzando il dominio assolto e indiviso della produzione capitalistica nel mondo] dovrà provocare la rivolta del proletariato internazionale …”(15). E qui è difficile evitare la tentazione di citare l’ironica battuta di Giorgio Ruffolo: il capitale ha i secoli contati…


* * *


Nell’ articolo su lavoro produttivo e lavoro improduttivo, abbiamo anticipato alcune idee di Paul Baran e Paul Sweezy sul capitale monopolistico e sull'imperialismo. In particolare, abbiamo introdotto il concetto di surplus - definito come “la differenza fra ciò che la società produce e i costi per produrlo” - grandezza che comprende il plusvalore. Per Marx quest’ultimo rappresenta la somma di profitto, interesse e rendita ad esclusione delle entrate dello stato, delle spese per trasformare le merci in denaro e dei salari dei lavoratori improduttivi, ma Baran e Sweezy sostengono che mentre tale esclusione è giustificata finché si ragiona di economia concorrenziale, diviene anacronistica nell’era del capitale monopolistico, in cui la quota del plusvalore rispetto al surplus sociale complessivo tende a contrarsi, mentre quest’ultimo tende a crescere in misura tale da compensare, se non neutralizzare, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. 


Ciò riduce o elimina il rischio di crisi? No, rispondono Baran e Sweezy: seppure l’unità tipica del mondo capitalistico non è più la piccola impresa, bensì la grande società per azioni che produce una parte importante del prodotto di una o più industrie, e seppure quest'ultima dispone di un orizzonte temporale più esteso di quello del singolo capitalista, per cui compie i suoi calcoli in modo più razionale, resta il fatto che “il capitalismo monopolistico è altrettanto privo di un piano quanto il suo predecessore concorrenziale. Le grandi società per azioni sono in rapporto fra loro, con i consumatori, con il lavoro, con le imprese minori principalmente attraverso il mercato. Il funzionamento del sistema è tuttora il risultato non intenzionale delle azioni egoistiche delle numerose unità che lo compongono” (16). 


Permane quindi il carattere anarchico della produzione, ovvero la prima causa potenziale di crisi. Che dire del secondo fattore, cioè della possibilità di rallentamento o interruzione del ciclo? A provocarlo è ora soprattutto l’eccesso di surplus che non trova sbocco, sono cioè quei profitti che, se non vengono investiti né consumati, non sono tali: “il problema di realizzare il plusvalore è in realtà più cronico oggi che ai tempi di Marx”. Ciò che ha impedito a Marx e agli economisti classici di interrogarsi più a fondo sull'adeguatezza dei modi di assorbimento del surplus è stata probabilmente  la loro convinzione che il dilemma centrale del capitalismo si riassumesse nella caduta tendenziale del saggio di profitto: “Viste da questo angolo visuale, scrivono Baran e Sweezy, le barriere allo sviluppo capitalistico sembravano consistere più in una carenza del surplus necessario per mantenere il ritmo dell’accumulazione che in una insufficienza dei modi caratteristici di utilizzazione del surplus” (17). Se invece la barriera principale diventa quest’ultima, il rischio è che l’eccesso di capacità finisca per scoraggiare ulteriori investimenti e che, con il venir meno degli investimenti, calino reddito, occupazione e surplus, per cui ecco la crisi. La soluzione consiste, a questo punto, nello stimolare con ogni mezzo la domanda, pena la stasi e la morte del sistema. 


È a partire da qui che l’analisi di Baran e Sweezy tende a convergere con quella della Luxemburg: al pari di costei, i due sono infatti convinti che, se fossero disponibili soltanto gli sbocchi endogeni, il capitalismo monopolistico sarebbe in uno stato permanente di depressione. Bisogna cioè abbandonare il modello riproduttivo che si fonda esclusivamente sugli scambi reciproci fra diversi settori produttivi, nonché sui consumi di capitalisti, operai e percettori di rendita. Per spiegare il modello alternativo che emerge dalla loro analisi con concetti a noi più familiari, potremmo dire che esso su fenomeni quali la terziarizzazione, la finanziarizzazione, l'economia del debito, il keynesismo di guerra (inteso come effetto combinato di imperialismo, sistema militare-industriale, neocolonialismo). Ma ascoltiamo le loro parole. 


La lotta contro gli spettri di sottoconsumo, sottoinvestimento e sottoccupazione cronici, argomentano Baran e Sweezy, richiede la crescita di nuovi strati improduttivi di forza lavoro, che vanno ad aggiungersi ai tradizionali ceti divoratori di surplus: “si è avuto un aumento di stratificazione all’interno della classe lavoratrice in senso stretto e molte categorie di impiegati e di operai specializzati hanno conseguito redditi e posizioni sociali che fino a non molto tempo fa erano godute solo dai componenti delle classe medie. Contemporaneamente, sono aumentati i vecchi ceti ‘divoratori di surplus’ e sono sorti nuovi ceti: tecnocrati delle imprese e dell’amministrazione,; banchieri e avvocati, redattori pubblicitari ed esperti di relazioni pubbliche, agenti di cambio e assicuratori, esperti immobiliari e così via” (18). 


Paradigma del nuovo terziario parassitario, scrivono Baran e Sweezy, è la pubblicità e tutto quanto vi ruota attorno (promozione delle vendite, marketing, packaging, design del prodotto, ecc.).: “l’importanza economica della pubblicità non sta fondamentalmente nel fatto che essa determina una ridistribuzione della spesa dei consumatori tra differenti beni, ma nei suoi effetti sul volume della domanda effettiva globale e quindi sul livello dell’occupazione e del reddito” (19). Quindi, da un lato, creazione di reddito e assorbimento di surplus, ma dall'altro “gli effetti indiretti sono forse non meno importanti e agiscono nella stessa direzione (…) essi sono di due specie: quelli che riguardano la disponibilità e la natura delle occasioni di investimento, e quelli che riguardano la divisione del reddito sociale complessivo fra consumo e risparmio [leggasi la propensione al consumo]...Permettendo di creare la domanda di un prodotto, la pubblicità incoraggia l’investimento in impianti e attrezzature che altrimenti non si farebbero”. Infine funzione della pubblicità è “quella di condurre per conto dei produttori e venditori di beni di consumo, una guerra incessante contro il risparmio e a favore del consumo [utilizzando a tale scopo] i cambiamenti della moda, la creazione di nuovi bisogni, l’introduzione di nuovi mezzi di distinzione sociale” (21).


La guerra contro i risparmi implica, a sua volta, la crescita esponenziale di quell'altro settore improduttivo che va sotto la voce di attività finanziarie, assicurative e immobiliari: “l’intera attività parassitaria di compravendita e speculazione immobiliare (…) non avrebbe alcuna ragione di esistere in un ordinamento sociale razionale. La maggior parte di ciò che la nostra società spende per l’attività finanziaria assicurativa e immobiliare è una semplice forma di assorbimento del surplus, caratteristica del capitalismo in generale e (…) del capitalismo monopolistico in particolare” (22). Detto che Baran e Sweezy hanno assistito solo alla fase iniziale di un processo che, pochi anni dopo, al culmine della rivoluzione neoliberale, avrebbe toccato vertici parossistici, fino all'esplosione della bolla del 2008, gli va comunque riconosciuto di avere intuito lo stretto legame fra terziarizzazione e finanziarizzazione.


Passiamo al tema dell’imperialismo, rispetto al quale si potrebbe dire che l’approccio  di Baran e Sweezy rappresenta un ponte fra le tesi di Lenin e della Luxemburg e quelle dei teorici del sistema mondo. Sappiamo (vedi nota 3) che Baran e Sweezy lamentano il fatto che Marx non abbia ampliato il suo modello teorico fino a comprendere le regioni sottosviluppate del mondo. Ciò è vero solo in parte (23), ma è innegabile che Marx abbia parzialmente trascurato il fatto che, scrivono Baran e Sweezy, “fin dai suoi primissimi inizi nel Medioevo, il capitalismo è sempre stato un sistema internazionale e gerarchico costituito da una o più metropoli al vertice e da alcune colonie completamente dipendenti alla base, ordinate secondo molti gradi di classificazione e subordinazione. Queste caratteristiche sono di capitale importanza per il funzionamento del sistema nel suo complesso e dei suoi singoli componenti (…) La gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso (…) abbiamo quindi una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori” (24).


Prima di concludere, credo vada infine riconosciuto a Baran e Sweezy - benché non abbiano potuto assistere alla caduta dell’Unione Sovietica, al successivo tentativo degli Stati Uniti di ergersi a unica potenza mondiale, e all’ascesa della Cina che ne ha frustrato il progetto – il merito  di avere messo in luce il duplice meccanismo per cui la metropoli imperiale gode, da un lato, dei mostruosi sovraprofitti che le multinazionali realizzano a spese delle nazioni periferiche e semiperiferiche, dall'altro dell’ancora più mostruoso assorbimento di surplus garantito dal gigantesco apparato militare che la potenza egemone mantiene per conservare il proprio ruolo. Il sistema militare industriale non serve solo in vista di eventuali conflitti interimperialistici, serve anche e soprattutto a conservare il controllo sul proprio dominio imperiale. Ma serve soprattutto ad assorbire le eccedenze di capitali: lo si è visto con la Seconda guerra mondiale, che ha realizzato ciò che le politiche keynesiane seguite alla crisi del 29 non erano riuscite a fare, e lo stiamo vedendo oggi, dal momento che la crisi della globalizzazione e la conseguente contrazione dell’area di controllo imperiale spingono il sistema a scommettere di nuovo sul keynesismo di guerra. 


A coronamento del loro modello di auto-riproduzione sistemica, Baran e Sweezy, concentrano l’attenzione sulle nuove forme che tale modello impone alla lotta di classe: “Se si assume la stabilità del capitalismo monopolistico, con la sua provata incapacità di fare uso razionale  (..) del suo enorme potenziale produttivo, è necessario decidere se si preferisce la disoccupazione di massa e le caratteristiche della grande depressione, o la relativa sicurezza di occupazione e di benessere materiale assicurata dagli enormi bilanci militari [e dalla creazione di ampi strati di lavoro improduttivo e altri parassiti “divoratori di surplus” NdA]. Poiché la maggior parte degli americani, operai compresi [ma vale purtroppo anche per larga parte dei cittadini europei] assumono ancora senza discussione la stabilità del sistema, è del tutto naturale che essi preferiscano la situazione che personalmente e privatamente è più vantaggiosa per loro [o meglio: che continuano a credere tale contro ogni evidenza…]” (25).  Ecco perché, argomentano, l’iniziativa rivoluzionaria contro il capitalismo, un tempo nelle mani del proletariato dei paesi avanzati, è passata in quelle delle masse periferiche che lottano contro l’oppressione e lo sfruttamento imperialistici. 


* * *


Nella parte su socializzazione e socialismo, avevo elogiato un articolo di Bellamy Forster che lamenta il ripudio del concetto di imperialismo da parte dei marxisti occidentali. Qui devo però precisare che dissento da alcuni suoi giudizi. In particolare, Bellamy elenca David Harvey e Giovanni Arrighi fra gli autori che hanno “tradito” il concetto in questione. L’accusa ha qualche fondamento nel caso di Harvey (26), mentre mi pare francamente ingiustificata nel caso di Arrighi, il quale, anche se nei suoi ultimi lavori non usa quasi mai il termine imperialismo, ha dato, assieme a Wallerstein e altri autori (27), un contributo decisivo alla comprensione alle dinamiche del funzionamento del capitalismo come sistema mondiale, a partire dai rapporti di dipendenza fra centri e periferie. Se preferisce ricorrere al concetto gramsciano di egemonia per descrivere tali rapporti, è perché cerca di estendere l’analisi ai fattori socioculturali, e non limitarsi a quelli economici. Questa scelta lo pone sulla scia di autori come Karl Polanyi (28) e Fernand Braudel (29) e, nel contesto degli argomenti di cui stiamo qui discutendo, ha notevoli implicazioni nei confronti di tre concetti marxiani discussi in precedenza: 1) l’idea che lo sviluppo del modo di produzione capitalistico tenda a stabilire il primato del capitale industriale sui capitali finanziario e commerciale; 2) l’idea che tale sviluppo (in assenza di una rivoluzione socialista) comporti l’annientamento di tutti gli altri modi di produzione (visione che il diamat staliniano ha “canonizzato” nella concezione della storia come successione di stadi: comunistico primitivo, schiavistico, medioevale, capitalistico); 3) l’idea che la concorrenza sia la causa principale di gran parte delle contraddizioni sistemiche.


Che Marx abbia descritto l’industria moderna come la forma più evoluta del modo di produzione capitalistico, argomenta Arrighi, è dovuto al fatto che, nel XIX secolo, il capitalismo era sembrato “specializzarsi” in tale ramo d’attività, per cui si comprende perché, secondo Marx, questo particolare settore economico rappresenti il “vero volto” del capitale. Eppure non va dimenticato che, soprattutto nel III Libro, lo stesso Marx ribadisce in varie occasioni che i capitalisti prediligono – e scelgono appena possibile - la forma D-D’ rispetto ai rischi dell’avventura industriale, che considerano come un male necessario per valorizzare il proprio capitale. Arrighi, al pari di Braudel, batte ancora più decisamente su questo tasto, mettendo in luce come il capitalismo, in tutto il corso della sua lunga storia, non si sia mai lasciato ingabbiare nella produzione e nel commercio di singole merci, né in particolari settori di attività, ma abbia costantemente mantenuto un rapporto “strumentale” nei confronti dei mondi del commercio e della produzione. Le sue caratteristiche sono invece sempre state la plasticità, l'eclettismo, l'adattabilità camaleontica, doti che gli hanno consentito di sfruttare le più svariate opportunità di esercitare quella capacità di “procreare” (il termine è di Marx), che più di ogni altra ne connota l’essenza. 


Passiamo a un altro punto. Secondo Braudel, il capitalismo non è mai stato in grado di esaurire l’intera vita economica, di “contenere” l’intera società produttiva. Ancora nell’Europa di oggi (scrive alla fine degli anni Settanta) esistono larghe fasce di autoconsumo, così come esistono piccole imprese artigianali e commerciali, nonché vari tipi di attività che esulano dalla contabilità nazionale. Certo, è soprattutto nel Medioevo che la quasi totalità della produzione è assorbita dall’autoconsumo della famiglia e del villaggio e non entra nei circuiti del mercato. Ed è sempre nel Medioevo che i principali agenti del mercato sono venditori ambulanti e bottegai; ma già allora su questo livello inferiore si elevava l’élite dei grandi mercanti, che dominavano fiere e borse e controllavano il commercio di lunga distanza. Grazie alla concentrazione di masse crescenti di denaro nelle loro mani, costoro iniziarono a svolgere funzione di finanziatori di altri mercanti e di principi, nonché ad acquistare direttamente da contadini e artigiani i loro prodotti per esercitare la funzione di grossisti (è il primo passo verso lo sfruttamento del lavoro a domicilio che nel I Libro del Capitale Marx descrive come l'antenato della manifattura). 


Questa sfera superiore della circolazione che si innalza al di sopra degli scambi quotidiani dei mercati elementari e dei traffici a breve distanza, secondo Braudel, è già capitalismo (siamo a cavallo dei secoli XIV e XV, ma in alcune regioni d’Europa si può risalire più indietro). Un fenomeno che lo stesso Braudel definisce contromercato, in quanto, grazie alla sua dimensione internazionale, si sbarazza delle regole dei mercati tradizionali (locali), aggira barriere politiche e giuridiche, gestisce “scambi ineguali in cui la concorrenza...ha poco spazio ed in cui il mercante gode di due vantaggi: in primo luogo quello di avere interrotto il rapporto diretto e lineare tra il produttore ed il consumatore (…); in secondo luogo, dispone del denaro in contanti che è il suo principale alleato” (30). Come dire che la cosiddetta libera concorrenza è sempre stata un mito degli economisti liberal borghesi, mentre  il capitalismo è nato tendenzialmente monopolista e tale è rimasto. 


Torneremo fra poco sull’argomento, ma prima occorre prendere atto di un corollario di questo modo di approcciare la storia del capitalismo. La coesistenza fra il livello inferiore dell’economia di mercato e il livello superiore del protocapitalismo non è una fase transitoria, contingente. Contrariamente a Marx, il quale prevede che, a mano a mano che il proto capitalismo mercantile evolve in modo di produzione capitalistico maturo, il livello inferiore sia destinato a sparire, nella concezione che abbiamo appena descritto, il livello superiore non può distruggere il livello inferiore per il semplice motivo che la sua natura è quella di un parassita che sfrutta tutto ciò che gli sta sotto, che ne succhia le risorse per metterle a frutto e valorizzare alla seconda potenza il valore creato dagli altri modi di produzione, del quale si appropria. Al modello del marxismo ortodosso, basato sulla successione di stadi (schiavitù, servaggio, capitalismo), subentra la visione di una coesistenza fra modi di produzione diversi – visione condivisa da Luxemburg, Baran e Sweezy, i teorici della dipendenza, Gabriele e Jabbour, oltre che da Braudel e Arrighi.


Riprendiamo il tema del monopolio come tendenza originaria. Per Arrighi, come per Braudel, l’argomento è intrecciato con la questione del rapporto fra concentrazione del potere capitalistico e stato; questione che Marx, ricorda Arrighi, affronta nel Libro I del Capitale a partire dal ruolo del debito pubblico nel sostenere l’espansione iniziale del capitalismo. Ecco la citazione in questione: “Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica (…) Come con un colpo di bacchetta [il debito pubblico] conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usuraio. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero altrettanto denaro in contanti” (31). 


Ragionando su questo rapporto storico fra stato e capitale, e sul ruolo che esso ha svolto nella costruzione del dominio europeo sul resto del mondo, Arrighi scrive a sua volta: “la transizione realmente importante che esige una spiegazione non è quella dal feudalesimo al capitalismo, ma quella da un potere capitalistico diffuso a uno concentrato. E l'aspetto più rilevante di questa transizione (…) è la singolare fusione di stato e capitale (sottolineatura mia) che in nessun luogo fu realizzata in modo tanto favorevole al capitalismo come in Europa” (32). Ecco perché, aggiunge Arrighi citando Braudel, il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo stato, quando è lo stato. Non solo il capitalismo monopolistico, ma anche il capitalismo monopolistico di stato si rivela dunque come una caratteristica originaria del capitalismo; “la concorrenza fra gli stati per il capitale mobile è stata il complemento di questo processo”, aggiunge Arrighi poche righe sotto, e alla pagina successiva scrive: “la concorrenza interstatale è stata una componente decisiva in ciascuna fase di espansione finanziaria e un fattore fondamentale nella formazione di questi blocchi di agenti governativi e imprenditoriali che hanno guidato l’economia-mondo capitalistica attraverso le sue successive fasi di espansione” (33).


Per non dilungarmi eccessivamente, evito di entrare nel merito dell’alternanza di cicli egemonici (Genova, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti) che Braudel e Arrighi considerano il modo in cui l’economia mondo si è sviluppata negli ultimi cinque secoli, né discuterò la tesi secondo cui le fasi di finanziarizzazione marcano le crisi di passaggio da un ciclo egemonico all’altro, né tantomeno metterò a confronto il pensiero di Braudel e Arrighi in merito alla previsione sul modo in cui potrà risolversi la crisi dell’ultimo di questi cicli, egemonizzato dagli Stati Uniti (ricordo solo che Braudel non offre risposte chiare, mentre Arrighi ha prima ragionato sull’emergenza dell’area asiatica, per poi concentrarsi sulla Cina).Siamo così arrivati alla fine di questo lungo percorso in cinque tappe attraverso il II e III Libro del Capitale, e attraverso il pensiero di alcuni autori che si sono cimentati con le questioni sollevate da questa monumentale opera. Chi si fosse aspettato una conclusione deve rassegnarsi: l’intento di questo lavoro, come ho chiarito sin dall’inizio, era stilare un elenco di quelli che ritengo i principali nodi problematici che Marx ci ha lasciato in eredità, e di indicare alcune direzioni di ricerca per affrontarli e approfondirli. Immaginare di estrarne una “sintesi” sarebbe folle, dal momento che vorrebbe dire pensare di riscrivere un Capitale dei giorni nostri, impresa assai al di là delle mie capacità (e penso di quelle di chiunque altro).



Note


(1) L’intera teorizzazione operaista in merito alla possibilità di rovesciare il modo di produzione capitalistico a partire dalla fabbrica, invece che dal rapporto complessivo fra tutte le classi sociali (cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi 1966), si fonda sulla capacità delle lotte dell’operaio massa di interrompere il ciclo produttivo della grande fabbrica fordista.


(2) Un altro modo in cui si è realizzato tale risultato, è stato quello reso possibile dalla cosiddetta Walmart Economy, vale a dire dall’importazione massiccia di prodotti cinesi a buon mercato (distribuiti dalla catena commerciale Walmart) che hanno consentito di abbassare drasticamente i costi di riproduzione della forza-lavoro americana.


(3) Vedi, fra gli altri, G. Myrdal, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano 1959. Un secolo dopo Marx, Baran e Sweezy lamenteranno il fatto che le intuizioni marxiane sul tema dello scambio ineguale fra centri e periferie e sul rapporto sviluppo/sottosviluppo siano rimaste episodiche, mentre la sua attenzione si è concentrata quasi esclusivamente sul mondo capitalistico sviluppato.


(4) A questa citazione segue un passaggio già citato in precedenza: “Una volta di più, non si tratta che della separazione, ma alla seconda potenza, delle condizioni di lavoro di produttori, ai quali questi più piccoli capitalisti appartengono perché in essi il lavoro personale recita ancora una sua parte”.


(5) R. Luxemburg, L'accumulazione del capitale e Anticritica, (Introduzione di Paul Sweezy, Traduzione di Bruno Maffi), Einaudi, Torino 1960.


(6) Op. cit.,p. 478.


(7) Ivi, p. 479.


(8) Cfr. A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21 Century, Routledge, London 2022.


(9) Vedi, in particolare, C. Robinson, Black Marxism, Alegre 2023.


(10) Cfr. F. Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino, Bologna 1977.


(11) Op. cit., p. 474.


(12) Ivi, p. 468.


(13) Ivi, p. 475.


(14) Ivi, p. 480.


(15) Ivi, p. 481.


(16) P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968, p. 46.


(17) Ivi, p. 97.


(18) Ivi, pp. 107 e segg.


(19) Ibidem.


(20) Ibidem.


(21) Ibidem.


(22) Ivi, p. 119.


(23) Vedi, fra gli altri testi, i saggi suoi e di Engels raccolti nel volume India, Cina, Russia, il Saggiatore, Milano 1960.


(24) Il capitale monopolistico, cit., pp. 151, 152.


(25) Ivi, p. 177.


(26) Mi riferisco in particolare alle critiche che Harvey ha rivolto al libro di Prabhat e Utsa Patnaik, Una teoria dell’imperialismo (Meltemi) negando che il rapporto fra Gran Bretagna e India sia classificabile come un caso di tipico di imperialismo.


(27) Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(28) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.


(29) Cfr. F. Braudel, La dinamica del capitalismo, cit.


(30) Ivi, p. 57.


(31) Questo brano, con qualche minima differenza di traduzione, si trova alle pagine 942 e 943 (Libro I) dell’edizione del Capitale che sto utilizzando qui (UTET 1974, Traduzione di Bruno Maffi).


(32) G. Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano  1996, p. 30.


(33) Ibidem, p. 31.

 ERRATA CORRIGE IL NOME DI LORETTA NAPOLEONI, AUTRICE DI "TECNOCAPITALISMO", IL LIBRO CHE HO RECENSITO NELL'ULTIMO POST ASSIEM...

più letti