Lettori fissi

lunedì 8 febbraio 2021



Qui di seguito trovate una mia lunga riflessione sulla fase politica e sulle scelte che ritengo debba imporre a Nuova Direzione a un anno dalla sua nascita. Ho deciso di pubblicarla anche su questa pagina (è già apparsa sul sito di Nuova Direzione e rilanciata sul mio profilo Facebook) a beneficio dei lettori del blog che non seguono il sito dell'associazione nè il mio profilo. 

Il progetto di Nuova Direzione è nato in un clima economico, politico e sociale caratterizzato dai seguenti fattori fondamentali:
1) il prolungarsi della crisi economica globale iniziata nel 2008, che ha visto un’Italia penalizzata da processi di deindustrializzazione, ataviche debolezze strutturali, tagli alla spesa pubblica e instabilità politica, incapace di recuperare i livelli pre crisi. Fra i maggiori sintomi di sofferenza del sistema Paese: elevati livelli di disoccupazione, con punte da record della disoccupazione giovanile; aumento vertiginoso dei livelli di disuguaglianza; aggravamento dello squilibrio fra regioni del Nord e del Sud; progressivo deterioramento dei servizi pubblici, penalizzati da tagli e privatizzazioni; processi di gentrificazione dei maggiori centri urbani e acuirsi delle contraddizioni con periferie e semiperiferie; difficoltà di gestione dei flussi migratori.
2) Le crescenti contraddizioni con l’Unione Europea, prodotto delle scelte politiche di quelle élite nazionali (di sinistra come di destra) che, a partire dagli anni Novanta, hanno costantemente utilizzato l’integrazione del Paese nel quadro delle regole economiche e istituzionali imposte dal processo di integrazione europea come vincolo esterno per giustificare politiche antipopolari (austerità, riforme delle pensioni e del lavoro, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, ecc.). Tessere fondamentali di tale processo sono stati l’autonomizzazione della Banca d’Italia dal sistema politico (con conseguente aggravamento del debito pubblico, provocato dalla necessità di ricorrere alla finanza privata); i reiterati tentativi di snaturare la Costituzione del 48 (riforma dell’articolo V, inserimento del vincolo di pareggio di bilancio, ecc.) giudicato “criptosocialista” dalle élite finanziarie internazionali; la progressiva dismissione degli interventi pubblici diretti in economia (i soli in grado di reggere la competizione sul mercato globale). In poche parole: la borghesia italiana si è dimostrata disposta ad accettare il ridimensionato del proprio ruolo nel concerto delle nazioni industriali pur di rafforzare il controllo interno sulle classi subalterne.
3) Il venir meno di una rappresentanza politica e sindacale degli interessi delle classi lavoratrici e dei settori impoveriti delle classi medie, dovuto alla svolta neoliberista delle tradizionali forze socialdemocratiche e al progressivo abbandono dell’impegno sui temi sociali da parte di sinistre radicali sempre più votate alla gestione di tematiche relative all’allargamento dei diritti civili e individuali.
4) Il trasferimento delle aspettative e del consenso elettorale degli strati popolari dalla sinistra a formazioni populiste di destra come la Lega o “di sinistra” come l’M5S, benché in questo caso si possa parlare di sinistra solo in ragione della presenza di una quota significativa di ex militanti delusi delle sinistre nelle file del Movimento, certo non per i suoi programmi politici, fumosi, moderati e inadatti a fronteggiare le sfide descritte nei punti precedenti.

In questo contesto, alla fuga di quadri ed elettori di sinistra verso l’M5S si è progressivamente affiancata una diaspora, meno numerosa e vistosa anche perché in larga misura sommersa, fatta di una galassia di piccole formazioni (associazioni, gruppi e micro organizzazioni) che condividevano l’idea della necessità di lottare per lo sganciamento del Paese dalla Ue e per la riconquista della sovranità nazionale (non come fine, bensì come mezzo per creare le premesse indispensabili alla riattivazione della lotta di classe e alla partecipazione popolare e democratica alle decisioni politiche) così come condividevano (anche se in minor misura) l’esigenza di rilanciare principi, valori e programmi politici di chiara matrice socialista. In questo senso l’opposizione all’Europa ordoliberale a guida franco-tedesca era considerata condizione indispensabile per la rinascita di un movimento popolare e socialista. A dare credibilità a tale progetto contribuiva il proliferare di esperienze populiste di sinistra in diversi Paesi del mondo, dall’America Latina (rivoluzioni bolivariane), agli Stati Uniti (la nascita di un’ala socialista dei Democratici guidata da Sanders), al rilancio del Labour guidato da Corbyn, alle esperienze di Podemos e France Insoumise nel Vecchio Continente. Questo fermento è parso trovare un momento di coagulo con il lancio del Manifesto per il patriottismo costituzionale, elaborato da un gruppo di compagni provenienti da diverse esperienze (Rinascita, Senso Comune, Network dei Socialisti, Programma 101 e altri) che si erano aggregati attorno al deputato di Leu Stefano Fassina. Rientrato nei ranghi Fassina ed esauritasi di fatto la sua iniziativa, una parte di coloro che avevano partecipato a quella esperienza hanno continuato a perseguire il progetto dando vita all’associazione Nuova Direzione, formalmente costituitasi nel corso di un’assemblea nazionale tenutasi nel gennaio 2020.

Le Tesi approvate in quell’occasione, frutto di un intenso lavoro di discussione ed elaborazione collettiva, hanno rappresentato un contributo teorico-politico largamente apprezzato anche al di fuori dei membri e dei simpatizzanti di ND. In particolare, al loro interno troviamo:
1) un’analisi dettagliata dei dispositivi istituzionali, economici e ideologici attraverso i quali l’Unione Europea è riuscita a costruire un contesto che consegna ai Paesi del blocco centrale la possibilità di sfruttare la forza lavoro qualificata e a basso costo dei Paesi del Sud e dell’Est europei, favorendo il rafforzamento del modello neomercantilista tedesco e facendo sì che queste regioni vengano declassate a mercati di sbocco e deprivate di autonome capacità e risorse competitive;
2) una profonda analisi critica del regime e dell’ideologia liberal liberista, che ne ricostruisce radici storiche e percorsi evolutivi, mettendo in luce come le sinistre tradizionali e i cosiddetti nuovi movimenti (ecologisti, femministe, pacifisti, ecc.) abbiano progressivamente assunto principi, valori e obiettivi politici tipicamente liberali;
3) un primo abbozzo di analisi delle profonde trasformazioni che la composizione di classe ha subito nel corso degli ultimi decenni: individualizzazione; frazionamento secondo linee generazionali, etniche e di genere; perdita di capacità organizzativa e contrattuale delle classi lavoratrici, ecc.
4) un’analisi del fenomeno populista come forma spuria della lotta di classe in questa fase di arretramento generale dei rapporti di forza delle classi subalterne, analisi che ne mette in luce i limiti e le contraddizioni riconoscendo tuttavia la necessità di fare i conti con queste modalità di espressione della rabbia popolare, di “attraversarle” per creare le condizioni dell’aggregazione di nuove strutture politiche e sindacali e di un nuovo blocco sociale antagonista; 5) l’identificazione di alcuni obiettivi prioritari da agitare, quali la lotta per la piena occupazione, la drastica opposizione all’autonomia regionale intesa come leva per ottenere un ulteriore aumento delle sperequazioni fra Nord e Sud del Paese, la nazionalizzazione integrale dei servizi di base (scuola, sanità, trasporti), il rafforzamento del welfare, l’abolizione delle riforme che hanno sconciato la Costituzione del 48, una drastica riconfigurazione delle alleanze internazionali, con attenzione prioritaria alle relazioni con i Paesi mediterranei e i Brics.

Tradurre in azione politica queste linee generali si è rivelato impossibile sia a causa della crisi pandemica scoppiata poco dopo l’assemblea, sia per il dispendio di tempo ed energie causato dallo scontro interno con un gruppo di compagni che hanno scelto di convergere con il progetto politico del senatore Paragone (su questo tornerò più avanti). La pandemia non è stata solo un ostacolo “meccanico” (impossibilità di riunirsi e discutere se non via piattaforme virtuali, impossibilità di indire – o di partecipare a-  eventi come riunioni, convegni, seminari, manifestazioni pubbliche, ecc.) allo sviluppo dell’attività politica del gruppo. La verità è che, sommandosi agli strascichi irrisolti della grande crisi del 2008, la pandemia ha provocato un accelerazione esponenziale di tutte le contraddizioni economiche, sociali e politiche del sistema globale, riconfigurando scenari politici, rapporti di forza fra classi, Stati e nazioni, protagonisti, ecc. Per cui non mi pare esagerato affermare che le analisi contenute nelle Tesi  e che ho sintetizzato poco sopra non richiedono solo aggiornamenti e approfondimenti ma, almeno sotto certi aspetti, un cambiamento di prospettiva. Non avendo modo di argomentare nei dettagli quanto appena sostenuto (anche perché ciò può essere fatto solo attraverso un nuovo sforzo di elaborazione collettiva) anticipo quelli che ritengo essere i nodi problematici fondamentali su cui ragionare.

a) Evoluzione dello scenario internazionale.  
Tanto la vittoria di quattro anni fa quanto la recente sconfitta di Trump sono un sintomo evidente della crisi di egemonia degli Stati Uniti. Il termine è da intendersi in senso gramsciano: crisi di egemonia non significa negare che gli Stati Uniti restino di gran lunga la prima potenza mondiale sul piano politico-militare, e anche – sia pure di stretta misura nei confronti della Cina – sul piano economico, benché in senso finanziario assai più che industriale; significa prendere atto della impossibilità, di mantenere il controllo assoluto sul resto del mondo (come dimostra l’incapacità di mantenere ordine nel “cortile di casa” latinoamericano, dove non sono riusciti a indurre un regime change in Venezuela e dove la piccola Bolivia ha rimesso al potere il governo socialista pochi mesi dopo un golpe militare).
Com’è noto, crisi di egemonia significa che il potere può essere conservato solo attraverso il puro dominio, ma nemmeno questa è impresa semplice, dopo l’esaurimento della spinta propulsiva del processo di globalizzazione. Infatti quest’ultimo, trainato dal processo di finanziarizzazione e dalla diffusione pervasiva delle nuove tecnologie digitali, era il frutto, assai più che di presunte “leggi” economiche, della volontà americana di dominio imperiale sul mondo unificato dal crollo dell’Urss, ma ha finito per ritorcersi contro chi l’aveva messo in moto, nella misura in cui ha generato le condizioni per la crescita di nuovi competitor economici, politici e militari (Cina e Russia su tutti, ma anche una serie di potenze regionali emergenti). I contraccolpi economico-sociali interni di questa eterogenesi dei fini sono stati devastanti; in particolare, l’impoverimento di larghe masse proletarie e di classe media ha generato una rabbia diffusa delle regioni più colpite (quelle interne del Paese) che hanno votato in massa per Trump in odio alle metropoli gentrificate e alla sinistra clintoniana che le aveva tradite, privilegiando gli interessi delle classi medie emergenti e di Wall Street (la sinistra populista e neo socialista di Sanders non ha potuto contrastare l’ascesa di Trump anche perché è rimasta intrappolata nel Partito Democratico).
Il progetto di Trump condensato nello slogan America First (disimpegno da vari teatri di guerra, rientro dei capitali investiti in Asia e altrove dalle multinazionali per rilanciare l’occupazione interna, freno all’immigrazione per ridurre la concorrenza nei confronti dei working poor autoctoni, ecc.) non è tuttavia riuscito a mantenere se non in minima parte le sue promesse elettorali, perché frenato dalla capacità di veto e interdizione del deep power degli apparati statali. Anche il suo tentativo di blandire Putin, per impedirne la convergenza con la Cina, è stato frustrato dalla lobby trasversale neocons che lo ha messo sotto accusa per il presunto appoggio elettorale russo. Ma il colpo di grazia è venuto soprattutto dalla crisi pandemica e dalla folle linea negazionista dell’amministrazione, pagata con centinaia di migliaia di vittime e con il tragico peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. Non meno pesanti gli effetti della nuova, virulenta ondata di conflitti razziali che ha visto Trump difendere le violenze dei poliziotti parafascisti. La somma di queste difficoltà oggettive ed errori soggettivi ha fatto sì che il blocco sociale populista che lo aveva premiato quattro anni si sfaldasse: una parte – soprattutto le classi lavoratrici – è rientrata nell’ovile democratico, lasciandosi convincere, con più validi argomenti della volta precedente, dalla sinistra di Sanders, mentre gli è rimasta la base socialmente più eterogenea e ideologizzata a destra che ha mostrato la sua faccia truce e folcloristica ad un tempo nell’assalto a Capitol Hill.

Quanto alla neopresidenza Biden, ha già chiaramente mostrato le proprie intenzioni: liquidate le velleità della sinistra interna (la scelta della squadra di governo è una vetrina politically correct di donne e appartenenti  alle minoranze etniche e sessuali ma non prevede alcun esponente delle sinistre) verrà riaffermato il primato dei settori finanziari, del resto mai seriamente scalfito da Trump, e high tech (che hanno manifestato il loro giubilo silenziando i profili del presidente uscente) sugli altri settori del capitale nazionale; verrà riannodato il filo rosso delle politiche economiche democratiche da Clinton a Obama e appoggiato senza riserve da Wall Street, ma soprattutto verrà perseguito con ben altra determinazione di Trump lo sforzo di mobilitare l’opinione pubblica contro il nemico esterno: la guerra fredda contro Cina, Russia e “stati canaglia” (Corea del Nord, Cuba, Venezuela, ecc.) è già partita in grande stile e verrà condotta sotto la bandiera dei diritti civili da esportare, ove necessario, con la forza delle armi. In sintesi: rottura del blocco sociale populista, normalizzazione del quadro istituzionale (con integrazione della sinistra nel fronte per la difesa della democrazia, che l’assalto a Capitol Hill consente di presentare come realmente a rischio), mobilitazione nazionalista contro il “pericolo giallo”.

Questo disegno non è tuttavia perseguibile se gli Stati Uniti non ottengono il pieno appoggio di tutti i loro tradizionali alleati, a partire dalla Ue, con la quale Trump aveva aperto diversi fronti di conflitto. Il problema è che l’Europa ha subito effetti non meno devastanti a causa del coronavirus, effetti aggravati da decenni di austerità, privatizzazioni tagli alla spesa e ai servizi pubblici: crollo verticale dell’occupazione e della produzione, decine di migliaia di vittime, servizi sanitari al collasso. Per fronteggiare l’emergenza è stato necessario compiere una brusca inversione di rotta rispetto al passato: allentare significativamente i vincoli di bilancio, erogare enormi quantità di denaro pubblico per impedire che decine di milioni di persone sprofondino in povertà assoluta, rivalutare il ruolo dello Stato come garante in ultima istanza della sicurezza e del benessere popolari. Ovviamente questa evoluzione è stata modulata in modo diverso da parte dei vari Stati membri ma qui ho solo lo spazio di valutare il caso italiano (del quale mi occuperò più avanti).

In generale è tuttavia possibile evidenziare alcuni tratti comuni che presentano significative analogie con lo scenario americano: anche in Europa il blocco sociale populista si è tendenzialmente sfaldato fra quegli strati (lavoratori garantiti, pensionati, dipendenti pubblici) che più beneficiano dell’assistenza pubblica e quelli (precari, disoccupati, finti autonomi, impiegati nella gig economy, artigiani, piccoli imprenditori, ecc.) che più soffrono per il lockdown e la perdita di reddito. Di conseguenza, anche in Europa i movimenti populisti e sovranisti di destra e di sinistra hanno subito un netto ridimensionamento: quelli di destra sono in parte rifluiti nel blocco liberale dominante (anche se e quando restano all’opposizione, vedi il caso della Lega di Salvini) o sono stati marginalizzati, mantenendo presa quasi esclusivamente sugli strati più colpiti e socialmente disgregati. Quanto ai populisti di sinistra, la loro parabola discendente – certificata dal calo dei consensi elettorali – era già iniziata prima della pandemia, a mano a mano che hanno scelto (come Podemos e France Insoumise) di allearsi con i tradizionali partiti di centro sinistra per “difendere la democrazia” dalla minaccia dei populismi di destra (sbrigativamente assimilati a un rigurgito di fascismo storico). Avendo perso, dopo le rappresentanze politiche tradizionali, anche questi nuovi “contenitori dell’ira” (per usare la definizione di Alessandro Visalli), e trovandosi ingabbiata dalla quasi impossibilità di esprimersi pubblicamente a causa dello stato di emergenza sanitario, la rabbia degli strati più marginalizzati si manifesta con scoppi episodici e ideologicamente caricaturali (complottisti, no Vax, ecc.) non troppo dissimili dalla variopinta umanità che ha dato l’assalto a Capitol Hill a Washington (e in cui si mescolano residui sia dei populismi di destra che di quelli di sinistra).

Il consolidamento sui generis dei tradizionali equilibri istituzionali (sui generis in quanto imposto a colpi di eccezioni alle regole “normali”) non risolve tuttavia le profonde contraddizioni scatenate dalla crisi pandemica: l’Europa – soprattutto dopo avere perso la “costola” inglese che le garantiva decisivi margini di manovra sul piano finanziario – non può permettersi, pena un drastico ridimensionamento del suo spazio e del suo ruolo geopolitici, di rientrare sotto l’ombrello protettivo degli Stati Uniti, soprattutto perché questi ultimi ne richiedono la partecipazione attiva alla guerra fredda antirussa e anticinese che comporterebbe pesantissime conseguenze in termini di scambi commerciali e investimenti. Sintomo evidente di queste contraddizioni interimperialistiche fra le due sponde dell’Atlantico, l’accordo con la Cina raggiunto in barba alla contrarietà americana, la scarsa propensione ad accettare il veto Usa sull’adozione del 5G targato Huawei, le velleità europea di ridimensionare la leadership del dollaro sui mercati finanziari globali, la crescente resistenza della Germania ad appoggiare crociate antirusse (è stata costretta obtorto collo a sostenere la rivoluzione colorata ucraina, ma ora non sembra disposta a sacrificare l’accordo sul gasdotto sull’altare della difesa dei diritti civili).

A questa ultra schematica rappresentazione dello scenario geopolitico mondiale (per approfondimenti vedi Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro, di imminente uscita presso Meltemi, con saggi di Formenti, Fagan, Galli, Visalli, Romano, Monereo, Somma, Zhok, Sciortino, Pagliani) manca ovviamente una sezione sulla Cina, che richiederebbe un’analisi ampia e approfondita sulla natura del sistema socioeconomico cinese (socialismo?, capitalismo di stato?, socialismo con mercato e lotta di classe?, ecc.), sulla cultura millenaria di quel Paese e sul modo peculiare con cui si è intrecciata con la cultura marxista, sulla natura e sulle prospettive dello scontro geopolitico con l’Occidente. Per tutti questi problemi rinvio a quanto ho scritto nei miei ultimi due libri e in una serie di articoli recenti. Qui mi limito ad affermare che qualsiasi sia il giudizio sulla natura del sistema cinese, è letteralmente demenziale descrivere il conflitto cino-americano come uno scontro simmetrico fra opposti imperialismi: 1) perché l’aggressore è senza ombra di dubbio l’America; 2) perché il tipo di investimenti occidentali nei Paesi in via di sviluppo (prevalentemente finanziari, finalizzati a perpetuare la dipendenza attraverso il meccanismo dei debiti sovrani, vincolato all’adozione di politiche filo occidentali e antisocialiste) è completamente diverso da quello degli investimenti cinesi (prevalentemente strutturali, con finanziamenti a condizioni favorevoli e non vincolati all’orientamento politico dei Paesi beneficiari, finalizzato allo sviluppo dei Paesi interessati, ecc.); 3) perché l’ascesa della Cina, soprattutto dal momento in cui la crescita ha abbandonato il modello mercantilista per scommettere sullo sviluppo del mercato interno è innegabilmente uno dei fattori (come riconosciuto anche da autori non sospetti di simpatie ideologiche per Pechino come David Harvey) in grado di accelerare e approfondire la crisi capitalistica globale. 

b) evoluzione dello scenario italiano (I)
Per comprendere le radici del disastro attuale occorre risalire indietro nel tempo. Il boom degli anni Sessanta fu quasi interamente ascrivibile a un modello di economia mista in cui la grande industria di Stato svolgeva un ruolo strategico con colossi come l’IRI e l’ENI assieme ad alcune imprese private atipiche, come l’Olivetti. Quel modello fu attaccato dall’interno e dall’esterno. Dall’esterno perché minacciava il dominio americano in alcuni settori sensibili (petrolio e informatica), al punto che esistono fondate ragioni per ritenere che le morti di Enrico Mattei e Adriano Olivetti siano state in realtà assassinii programmati dai servizi d’oltreoceano (quando Olivetti morì la sua impresa deteneva know how più avanzati di quelli delle concorrenti americane e si apprestava a cederli a russi e cinesi). Dall’interno perché il contributo di quelle imprese alla nascita di una via italiana al compromesso fordista fra capitale e lavoro (di cui il dialogo fra DC e PCI – conflittuale ma non antagonistico -rappresentò la proiezione politica) aveva contribuito al rafforzamento del potere contrattuale delle classi lavoratrici, per cui andava smantellato.

Il grande processo di ristrutturazione degli anni Settanta, innescato dalla crisi petrolifera, e la successiva controffensiva neoliberista degli anni Ottanta non furono tuttavia sufficienti a chiudere la partita, a dare il colpo di grazia furono piuttosto le scelte ispirate dai vari Carli, Ciampi, Andreatta, Prodi che portarono all’autonomizzazione della Banca d’Italia dal potere politico, e in una fase successiva, all’adesione al trattato di Maastricht e all’ingresso nell’area euro (tutti passaggi avvenuti con la benedizione delle sinistre socialdemocratiche – e di un partito post comunista già in libera uscita con il compromesso storico e poi definitivamente affrancato dalla caduta dell’Urss – nonché dei sindacati confederali). Allo  smantellamento dell’industria di Stato non ha tuttavia fatto seguito l’ascesa di grandi imprese private in grado di competere sul mercato internazionale, anche perché la borghesia italiana ha scelto di accettare un ruolo subalterno a livello europeo (e a maggior ragione a livello globale) pur di rafforzare il proprio dominio sulle classi lavoratrici. Quella scelta ha inferto ferite mortali a un sistema paese già penalizzato dalla cronica debolezza delle strutture statali (con la riforma dell’articolo V e il decentramento regionale quella debolezza diverrà vero e proprio sfascio, come certificato dall’attuale incapacità di gestire l’emergenza pandemica). Gli esiti sono noti: nanismo delle imprese (che si cercherà di far passare per un fattore positivo con le narrazioni sui distretti e con la retorica del “piccolo è bello”), terziarizzazione del lavoro (con prevalenza dei settori del turismo, del ristoro e dell’intrattenimento rispetto al terziario avanzato e innovativo), aggravamento dello squilibrio Nord/Sud; sfascio dei servizi pubblici (sanità, scuola, università, trasporti), degrado ambientale e territoriale, disoccupazione e sottooccupazione cronica (con la proliferazione di lavori precari, temporanei, finto autonomi, sottopagati, ecc.).

Questi processi in atto da quattro decenni hanno determinato radicali trasformazioni nella composizione di classe e nelle forme della rappresentanza politica. Per quanto riguarda il primo aspetto abbiamo avuto l’indebolimento numerico di una classe operaia sempre più frammentata, individualizzata e dispersa, a fronte dell’aumento ipertrofico di una classe media impegnata in una galassia di attività rifugio in assenza di concrete opportunità di occupazione e carriera (piccolo commercio, artigianato, microimprese per gli strati a bassa scolarizzazione; partite iva, consulenze, professioni “creative”, ecc. per gli strati più acculturati). Per quanto riguarda le seconde, Tangentopoli ha sancito la morte dei partiti tradizionali, travolti dalla corruzione ma che soprattutto si erano scavati la fossa favorendo l’indebolimento delle loro basi sociali, dopodiché Berlusconi ha inaugurato la stagione dei partiti personali fondati sulla mobilitazione di una massa composita di persone più sensibili alla comunicazione mediatica che ai programmi politici.

I movimenti spontanei di rivolta hanno a loro volta subito gli effetti di questo marasma sociale, culturale e politico, dando vita a esperienze interessanti ma territorialmente circoscritte, come le lotte in Val di Susa, al “cittadinismo” dei vari girotondi, indignati ecc. con base nella piccola e media borghesia urbana e privi di qualsiasi velleità antisistema (via ai corrotti, potere agli onesti), ad esplosioni episodiche di furia plebea come il movimento dei forconi, assai meno strutturati e dotati di consapevolezza politica rispetto a fenomeni di insorgenza popolare come il 15M spagnolo o i gilet gialli francesi. Finché non è apparso sulla scena politica l’M5S e qui siamo all’attualità che tocca da vicino le ragioni della nostra nascita e le scelte di fronte alle quali ci troviamo.

c) evoluzione dello scenario italiano (II)
Il secondo decennio del Duemila ha visto l’Italia assumere per la seconda volta – dopo gli anni Novanta e il partito azienda di Berlusconi – il ruolo di laboratorio sperimentale di nuove forme di aggregazione politica nell’era del tramonto della democrazia liberale. Fra il governo Monti – che ha definitivamente chiuso l’era berlusconiana – e l’incarico che Mattarella ha affidato a Draghi mentre scrivo queste pagine, due momenti in cui l’alta finanza internazionale ha assunto in prima persona (posto che Draghi riesca nell’impresa) il governo del Paese, commissariandone il sistema politico e sospendendo qualsiasi finzione di democrazia, abbiamo assistito all’ascesa, culminata con le elezioni del 2018 e la nascita del primo governo Conti, e alla fulminea caduta, coincisa con la fine del secondo governo Conti,  di un movimento populista bicefalo.
Da un lato la Lega di Matteo Salvini, il leader che è riuscito a dare dimensione nazionale a un partito nato per rappresentare gli interessi della piccola e media impresa settentrionale e più in generale dei settori di borghesia più penalizzati dal processo di globalizzazione; un partito “sovranista” a parole ma privo di qualsiasi reale volontà di sganciare l’Italia da Bruxelles (con cui spera tuttalpiù di contrattare vincoli meno stringenti), anche perché la sua base sociale è legata a triplo filo alle catene di subfornitura delle grandi imprese tedesche. Dall’altra quello strano ircocervo che è il Movimento 5Stelle. Un fenomeno nato come “contenitore dell’ira” popolare che si è coagulata attorno alla leadership del comico Beppe Grillo, il quale è riuscito, letteralmente, a “dare voce” alla frustrazione di un’ampia gamma di strati sociali inferociti dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”, ma che, pur nella sua breve vita, ha attraversato una tumultuosa serie di mutazioni.

Alla fase pionieristica dei Meetup (una rete di collettivi locali egemonizzati, dal punto di vista socioculturale, da esponenti delle nuove professioni emergenti – soprattutto nel settore delle nuove tecnologie – e dalla diaspora dei delusi delle sinistre tradizionali), caratterizzata dall’esaltazione della democrazia digitale (orizzontalismo, uno vale uno, ecc.), e dal rifiuto intransigente del professionismo politico, si è passati alla fase governista: incoraggiato dai successi ottenuti da alcuni clamorosi successi nelle elezioni amministrative di alcune grandi città, il movimento ha tentato l’assalto al cielo del governo nazionale. Nel frattempo era venuto aggregando un consenso sociale assai più ampio e trasversale rispetto alle origini (le analisi dei flussi elettorali ne hanno evidenziato il forte seguito fra gli strati operai e impiegatizi, fra le nuove forme di lavoro precario e finto autonomo, e fra le classi medie “riflessive”, con provenienze sia dall’elettorato di sinistra che di destra, ma con netta prevalenza del primo). Dal punto di vista programmatico l’M5S è parso un’incarnazione quasi da manuale delle tesi del massimo teorico del populismo, Ernesto Laclau: un aggregatore di domande assai diverse provenienti da settori sociali eterogenei nei confronti di un sistema incapace di dare risposte.

Quella che Laclau definisce una “catena equivalenziale”, alla quale è sempre mancata, tuttavia, la capacità di selezionare le domande egemoniche attorno a cui coagulare il tutto, infatti l’unico vero collante è stato la critica alla “casta” politica e l’unico vero “programma” quello di rimpiazzare una classe dirigente inetta e corrotta con figure oneste e selezionate da meccanismi di democrazia di base. Nessuna velleità antagonista nei confronti del sistema capitalistico, nessuna indicazione concreta su fini e mezzi in materia di lotta alla disuguaglianza, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, riequilibrio fra Nord e Sud, riforme dello Stato, se non discorsi generici e velleitari e qualche provvedimento assistenziale ad hoc. Con queste premesse era chiaro che la conquista del potere si sarebbe trasformata in una nemesi per un soggetto politico palesemente incapace di gestirlo. Già la caduta del primo governo Conte e il successivo abbraccio con il PD – forza dotata di ben altra esperienza e capacità di manovra e con idee chiarissime sugli interessi da difendere – lasciava intuire la rapidità con cui il movimento sarebbe andato incontro alla normalizzazione. Ma la crisi pandemica non gli ha neanche permesso di condurre a termine il processo di integrazione nelle élite del Paese: incalzato dai poteri forti, decisi a usare la crisi come occasione di affossamento di qualsiasi capacità di resistenza – ancorché debole e moderata – ai propri obiettivi, si è letteralmente dissolto, finendo vittima dell’imboscata tesagli da Renzi che ne ha decretato il definitivo sputtanamento (con il tragicomico spettacolo di una successione di compromessi e ritirate finalizzate al solo scopo di evitare le elezioni e il “licenziamento” della gran parte dei suoi parlamentari, contorsioni che non hanno impedito la catastrofe finale).    

Sulle prospettive di ND
Mi sono dilungato sulle peripezie dell’M5S perché, prima di spiegare come e perché gli scenari sopra descritti impongono a mio parere una ridefinizione dei nostri compiti rispetto a quelli indicati nell’assemblea fondativa, vorrei analizzare le cause della rottura che abbiamo vissuto con i compagni che hanno scelto di andare con Paragone. Il fatto è che, fin dall’inizio, anche se non ce lo siamo mai chiarito del tutto, la ragione di fondo per costituirci in gruppo politico, e non semplicemente in associazione politico culturale, non era tanto e solo la speranza della possibilità di aggregare le varie componenti della sinistra “sovranista” (impresa a dir poco ardua e che, in ogni caso, non garantirebbe il raggiungimento di una “massa critica” sufficiente a consentire un radicamento sui territori e una effettiva capacità di intervento politico) ma era l’aspettativa che la prevedibile crisi dell’M5S si potesse tradurre in una “liberazione” dello spazio politico che il Movimento aveva occupato sottraendolo a una sinistra integrata nelle élite liberali.

In assenza di questa eventualità, e date le nostre ridottissime dimensioni organizzative ogni velleità di svolgere una “vera” attività politica appariva illusoria. Alcuni compagni, non condividendo questa realistica presa d’atto dei nostri limiti strutturali, hanno creduto di riconoscere nel costituendo partito di Paragone, una prima opportunità di andare a occupare lo spazio politico liberato dalla crisi dell’M5S. Quando la maggioranza si è opposta a quella lettura, chi voleva comunque “andare a vedere” quella operazione si è appellato allo Statuto che contempla la possibilità di doppia appartenenza fatta salva la compatibilità con i principi e i valori di ND. Ma il punto era esattamente questo: quella di Paragone è apparsa da subito e inequivocabilmente una micro scissione da destra rispetto all’M5S: antisocialista, filo occidentale e coerentemente “sovranista” nel senso del primo Salvini, quindi incompatibile con i paletti fissati dalle Tesi fondative. Lo sviluppo del progetto Paragone non ha solo confermato tale giudizio, ha anche confermato che si è trattato di una esperienza marginale non in grado di ottenere un consenso significativo, se non di massa.

Da alcune recenti discussioni che sono avvenute al nostro interno a proposito della necessità di rafforzare e implementare la nostra struttura organizzativa e la nostra capacità di intervento ho la sensazione che il problema si stia ripresentando in forma abbastanza simile. Ora io non ho nessuna obiezione se i compagni avvertono l’esigenza, che comprendo benissimo, di svolgere attività politica attiva, ma quello che mi chiedo e vi chiedo è: ND è realmente in grado di impegnarsi in questo senso, ma soprattutto perché e con quali prospettive potrebbe/dovrebbe farlo in un contesto come quello che ho fin qui tentato di delineare? Per rispondere positivamente occorrerebbe essere convinti 1) che l’ipotesi di poterci inserire (se non egemonizzare/occupare obiettivo che credo nessuno possa seriamente prendere in considerazione) nello spazio eventualmente “liberato” dalla crisi dell’M5S sia ancora praticabile; 2) che sia parimenti ancora realistica e praticabile l’idea di “attraversare” – non il momento populista in astratto – bensì “questo” populismo così come si è concretamente evoluto nel nostro Paese per “estrarne” un potenziale antisistemico.

Ebbene la mia risposta a entrambe le domande è no, come cercherò di spiegare qui di seguito, per poi passare a valutare altri argomenti che suggeriscono a mio parere la necessità di ridefinire il nostro compito. I motivi del primo no mi paiono ovvi. Gli spazi politici non sono fogli di carta bianchi che si possano riempire immediatamente dopo avere cancellato quanto vi era scritto sopra. Se l’M5S ha potuto occupare in tempi relativamente rapidi il vuoto lasciato dalle sinistre è stato solo perché quel vuoto non si è aperto di colpo, ma era l’esito di un decennale processo di degrado di una cultura politica che è ugualmente riuscita a sopravvivere a lungo solo grazie all’inerzia e alla viscosità di fedeltà costruite su secoli di storia e di memorie trasmesse attraverso decine di generazioni. La memoria e la fedeltà sedimentate dall’M5S sono roba di qualche mese, se non di giorni (è l’altra faccia del populismo: quel che si ottiene rapidamente sparisce altrettanto rapidamente). Quello spazio è stato riempito “per disperazione”, per mancanza di alternative e ora che i disperati che ci hanno creduto (o che forse ci hanno solo voluto credere) avranno la sensazione che There is no alternative resterà vuoto a tempo indeterminato (vedi la catastrofe del dopo Tsipras in Grecia).

Ergo: l’idea di poter navigare nei rottami dellM5S per pescare un numero sufficiente di naufraghi da arruolare nel nostro progetto mi pare illusoria. Le ragioni del secondo no sono più complesse. Negli ultimi anni ho sostenuto che il populismo è la forma che la lotta di classe assume in questa epoca di disarticolazione delle classi subalterne. Ho anche sostenuto che una forza socialcomunista dovrebbe essere parte attiva dei movimenti populisti con caratteristiche progressive (o di sinistra, volendo usare questa connotazione ormai sempre meno caratterizzante) per agire come catalizzatore di un processo di aggregazione di un blocco sociale egemonizzato dalle classi subalterne. Ma se ho ragione nell’affermare (vedi gli scenari che ho tratteggiato in precedenza  ) che quei movimenti populisti hanno subito un rapido processo di normalizzazione e si sono disgregati in base ai confini che separano diversi strati di classe, allora il compito prioritario non è più la costruzione di un blocco sociale inteso come alleanza fra classi lavoratrici e classi medie, bensì (come ho scritto nel mio ultimo libro) la ri-costruzione dell’unità delle classi lavoratrici frammentate dall’offensiva liberal-liberista.

Il primo obiettivo può essere perseguito – sotto precise condizioni che in Italia a mio parere non si danno –  attraverso abili strategie di comunicazione, elaborate da un piccolo nucleo dotato di competenze culturali e teoriche in grado di influenzare o addirittura di dare vita a nuove correnti di opinione pubblica (è il modello cui si ispirava l’esperienza di Senso Comune e che trova oggi formulazione più sofisticata nella rivista “La Fionda”, ispirato dalle teorie di Laclau, dalla rivoluzione “cittadinista” di Correa in Ecuador  e da Podemos). Il secondo richiede la volontà/possibilità di compiere un capillare lavoro di penetrazione nei luoghi di lavoro, nelle scuole, sui territori, ecc. e mi pare evidente che noi non siamo attrezzati per questo. Questo vuol dire che intendo oppormi alle esigenze dei compagni che desiderano rimboccarsi le maniche per svolgere intervento politico attivo? Ovviamente no. Trovo per esempio giusta l’idea dei compagni che propongono di fare un seminario sui temi dello smart working e della gig economy (temi dirimenti per qualsiasi progetto di rifondare un sindacato di classe), ma il punto è: abbiamo la struttura e le forze per tradurre in azione concreta queste analisi? Non ha più senso che chi sente l’esigenza di intervenire su questi problemi lo faccia assieme alle organizzazioni sindacali di base esistenti?

Penso invece che, per composizione socioprofessionale e competenze teorico-culturali, il gruppo dirigente di ND farebbe cosa più utile impegnandosi ad approfondire gli interrogativi di fondo sollevati dai mutamenti di scenario che ho tentato di descrivere nella prima parte: ha ancora senso assumere come obiettivo prioritario, se non unico, l’uscita immediata dalla Ue, nel contesto di acutizzazione dei conflitti fra Usa e Ue e del ritorno della guerra fredda fra Occidente e Oriente? Quale ruolo per l’Italia in campo internazionale (Europa mediterranea, ripresa della battaglia contro la Nato, per la pace e per la collocazione nel campo dei Paesi non allineati)? E ancora: quali prospettive di evoluzione della crisi economica e istituzionale per il dopo pandemia? Di cosa parliamo quando accenniamo a un socialismo del secolo XXI (a partire dalla questione cruciale della definizione della natura socialista o meno della Cina)? Mi si potrà obiettare che è più urgente dare risposta qui e oggi alle sofferenze dei milioni di persone che stanno subendo il peso della pandemia. Non c’è dubbio, ma posto che le due cose non sono in alternativa, resto del parere che in questo momento ND svolgerebbe un ruolo più utile in quanto associazione politico culturale (penso a esempi come Marx 21 e Città Futura) piuttosto che come uno dei tanti micro gruppi che nutrono la velleità di agire come nucleo fondativo di un nuovo movimento, se non addirittura di un nuovo partito. Anche perché, per dirla con Gramsci, mi pare che la fase attuale sia tale per cui servono strumenti per affrontare una lunga e paziente guerra di posizione piuttosto che per una guerra di movimento.

venerdì 5 febbraio 2021


 DAL GRUPPO GRAMSCI ALL'AUTONOMIA OPERAIA:

UN PERCORSO TUTT'ALTRO CHE LINEARE (II)

Nella prima puntata Piero Pagliani ha già colto alcuni degli snodi essenziali che consentono di decodificare quel mix di elementi di continuità e di discontinuità che caratterizzò la transizione dal primo al secondo Rosso e la (parziale) confluenza dei militanti del Gruppo Gramsci nell’Autonomia. Credo valga tuttavia la pena di compiere un ulteriore sforzo di approfondimento, non tanto per soddisfare le curiosità storiografiche degli appassionati di quella convulsa stagione della lotta di classe (né tantomeno per appagare le smanie memorialistiche del sottoscritto, che di quella stagione fu uno dei tanti protagonisti), ma perché penso che molti dei problemi teorici e delle sfide politiche che ci troviamo oggi di fronte fossero già contenuti – almeno in nuce – in quegli eventi. 

Gli autori che hanno introdotto la pubblicazione della prima tranche dei materiali di “Rosso” su “Machina” richiamano giustamente l’attenzione sulle differenti scelte organizzative effettuate da Gruppo Gramsci e proto Autonomia per strutturare l’intervento politico in fabbrica. In effetti, i CPO (collettivi politici operai) e le Assemblee Autonome non rispecchiavano solo diverse opzioni “tecniche”. I primi erano concepiti come un’articolazione politica destinata a operare all’interno dei consigli dei delegati, la struttura sindacale di base subentrata alle vecchie Commissioni Interne per estendere la base di rappresentanza democratica al di là degli iscritti alle organizzazioni sindacali. Attribuendo a quelle inedite strutture sindacali un potenziale di auto organizzazione paragonabile (nei limiti dettati dai differenti contesti storici) ai consigli operai di inizio Novecento, il Gruppo Gramsci concepiva l’intervento al loro interno come un obiettivo prioritario di cui i CPO erano gli strumenti organizzativi (il modello era quello dell’intervento di fabbrica dell’Ordine Nuovo nel Biennio Rosso). Viceversa i compagni provenienti dall’esperienza di Potere Operaio avevano scelto come terreno elettivo d'intervento le Assemblee Autonome, in quanto totalmente indipendenti dai sindacati “ufficiali” (consideravano infatti i consigli dei delegati un espediente tattico della burocrazia sindacale per “intrappolare” la spontanea carica antagonistica delle lotte operaie).

In altre parole: da un lato, il modello teorico era il modo in cui Gramsci aveva concepito il rapporto fra momento politico e momento sindacale: non “cinghia di trasmissione” dall’alto verso il basso, ma egemonia del momento politico emergente dall’autonomo sviluppo di coscienza antagonista da parte delle avanguardie di fabbrica, attraverso un continuo scambio dialettico fra mondo della produzione e insieme dei rapporti politici e sociali. Dall’altro lato, una concezione che affondava le radici nell’analisi teorica inaugurata dai “Quaderni Rossi”, centrata sulla tesi secondo cui la nuova classe operaia, in ragione delle profonde trasformazioni che l’organizzazione del lavoro della grande fabbrica fordista aveva indotto nella sua composizione (non solo tecnica ma anche culturale) sarebbe stata in grado di sviluppare spontaneamente livelli di coscienza antagonista, senza dover ricorrere a mediazioni politiche né tanto meno sindacali.  La classe operaia non aveva più bisogno di un partito (o di qualsiasi altra organizzazione “esterna”) perché era lei stessa il partito. Malgrado queste differenze non di poco conto, la condivisione di concreti obiettivi di lotta ha favorito forme di collaborazione reciproca, fino allo scioglimento del Gruppo Gramsci che ha rimescolato le carte.  

Vale la pena di ricordare alcune caratteristiche del momento storico in cui maturò (nel dicembre del 1973) quello scioglimento, che seguiva di pochi mesi quello di Potere Operaio e anticipava di tre anni quello di Lotta Continua. I contratti del 1973 erano stati l’ultimo sussulto di vitalità di quell’operaio massa che, dai Quaderni Rossi all’inizio dei Settanta, aveva incarnato il paradigma teorico operaista. Dopodiché le lotte di fabbrica vennero progressivamente spegnendosi fino al tragico atto finale della marcia dei quarantamila quadri Fiat nel 1980. Crisi petrolifera, crisi fiscale dello Stato, decentramento produttivo e ristrutturazione tecnologica hanno disarticolato il corpo di classe, ma soprattutto hanno posto fine alla breve stagione dell’alleanza fra movimento operaio, movimento studentesco e “nuovi movimenti” nati dalla progressiva trasformazione socioculturale di quest’ultimo, generando la definitiva e irreversibile separazione fra “critica sociale” e “critica artistica” analizzata da Boltanski e Chiapello (su questo tornerò più avanti). 



Con l’allontanamento di Giovanni Arrighi dal gruppo di compagni che avevano partecipato  all’esperienza del Gruppo Gramsci, l’egemonia teorico culturale della componente proveniente da Potere Operaio (ala negriana) divenne pressoché assoluta. Del resto, come ha osservato Piero Pagliani nella prima puntata, il loro discorso teorico era di gran lunga quello più vicino all’ortodossia marxiana (da non confondersi con l’ortodossia marxista del PCI), nel senso che ha rappresentato il più argomentato e coerente tentativo di descrivere la totalità dei conflitti sociali e politici della tarda modernità a partire dalla relazione capitale/lavoro. Infatti, senza lasciarsi inculcare dubbi né indurre a ripensamenti dalla dispersione della fabbrica fordista, ha mantenuto la centralità di tale relazione “spostandola” dalla produzione alla riproduzione e alla circolazione, anticipando temi – come la finanziarizzazione, la terziarizzazione del lavoro, la colonizzazione dei  mondi vitali esterni al processo diretto di produzione di valore, ecc. – che la sociologia e l’economia accademiche avrebbero scoperto assai più tardi. Era un impianto teorico affascinante (“elegante” per usare un termine caro ai filosofi della scienza). Per inciso, anche chi scrive (benché si fosse allontanato da tempo dalla militanza attiva in Autonomia) vi apportò un contributo pubblicando un libro (Fine del valore d’uso, 1980) in cui analizzava la capacità di “cattura” del valore economico generato dai processi di riproduzione sociale da parte delle nuove tecnologie informatiche. Quell’impianto, neo o post operaista, rimasto sostanzialmente immutato fino ai nostri giorni, ha consentito di inventare una serie di soggetti (operaio sociale, knowledge workers, moltitudini, ecc.) che sono stati via via investiti del ruolo di sostituti dell’operaio massa come avanguardie della lotta antagonista contro il capitale, e come incarnazioni dell’autonoma capacità di autovalorizzazione della forza lavoro.

A questo punto, è venuto il momento di chiarire quale sia stato il contributo degli ex militanti del Gruppo Gramsci alla seconda fase della vita di “Rosso”. Malgrado il venir meno dell’apporto teorico di Arrighi, tale contributo fu infatti tutt’altro che trascurabile, né si ridusse a fornire “manovalanza” al progetto di Autonomia. La base di coloro che decisero di continuare l’esperienza di “Rosso” era prevalentemente studentesca e proletaria, ma con caratteristiche peculiari. In particolare: 1) la presenza del Gruppo nel movimento studentesco universitario si era venuta ridimensionando fino quasi a sparire, viceversa era cresciuta la componente degli studenti medi, per cui l’attenzione si era spostata dai temi della proletarizzazione della forza lavoro qualificata in formazione a quelli della lotta all’autoritarismo nella scuola, in famiglia e nella società, della liberazione sessuale e più in generale di quella dei costumi; 2) l’influenza del nascente movimento femminista era forte sia fra chi veniva da Potere Operaio sia fra coloro che venivano dal Gramsci, ma mentre le compagne di PO si concentravano sui temi del rapporto fra conflitto di classe e conflitto di genere (lotta per il salario al lavoro domestico ecc.), quelle del Gramsci erano più interessate ai temi dell’emancipazione individuale (il personale è politico) attraverso la pratica dell’autocoscienza; 3) la componente proletaria, parallelamente al rifluire delle lotte di fabbrica, si era progressivamente giovanilizzata arruolando ragazzi provenienti dall’Hinterland e dalle periferie che in fabbrica non erano mai stati, ne erano stati espulsi o preferivano non entrarci se non saltuariamente e per brevi periodi  (su questa componente lo slogan post operaista del “rifiuto del lavoro” esercitava ovviamente un forte appeal). 

Il mix appena descritto generava una cultura libertaria, insofferente nei confronti di qualsiasi relazione gerarchica e di ogni forma di rigido inquadramento organizzativo. La critica nei confronti dei partiti e dei sindacati tradizionali assumeva di conseguenza coloriture antropologiche, ancor prima che politiche. Le ideologie antistataliste e antipolitiche che sono divenute carattere distintivo dei movimenti post sessantottini affondano le radici in questa fase storica. Ovviamente, i ragazzi e le ragazze del Gramsci non erano un’eccezione da questo punto di vista: basti pensare ai raduni di massa nel corso dei festival del Parco Lambro organizzati dalla rivista "Re Nudo", versioni in salsa italiana di quella grande celebrazione dello “sballo” e dell’esibizione disinibita della sessualità che era stata Woodstock. La loro specificità consisteva piuttosto nel fatto che quella cultura si è sposata con le velleità “insurrezionaliste” provenienti dalla tradizione di Potere Operaio. Nobilitate dall’inquadramento in categorie teoriche come proletariato giovanile e operaio sociale, queste pulsioni ribelliste erano esaltate come la forma specifica del conflitto fra capitale e lavoro in un fase in cui lo sviluppo e lo sfruttamento capitalistici erano fuorusciti dalla fabbrica per investire il complesso delle relazioni sociali. Il capitalismo, si argomentava, aveva spinto lo sviluppo delle forze produttive a un livello tale da poter garantire a tutti di poter vivere senza scambiare il proprio tempo di vita con un salario miserabile (il rifiuto del “pauperismo” della cultura comunista tradizionale, incarnato in quegli anni dall’elogio berlingueriano dell’austerità, si esprimeva in assalti ai supermercati nel corso dei quali si preferiva asportare beni di lusso piuttosto che beni di prima necessità, o negli sfondamenti dei servizi d’ordine dei concerti al grido “la musica non si paga”).   



Naturalmente sarebbe errato sostenere che si trattasse di fenomeni marginali, dimenticando che hanno coinvolto centinaia di migliaia giovani donne e uomini. Basti pensare al movimento del 77 che però, non a caso, restò confinato a Bologna e Roma, mentre non ebbe seguito nei grandi centri industriali del Nord. Questo perché la frattura fra “critica sociale” e “critica artistica” a quel punto si era consumata: la classe operaia schiacciata dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica era fuori gioco e lo sarebbe rimasta fino ad oggi, mentre le classi medie sognavano un’improbabile insurrezione che, decenni dopo, assume tratti tragicomici, tragici per i costi umani in termini di morti, anni di carcere, vite stroncate dalle droghe, ecc., comici per la patetica disorganizzazione di minoranze lanciate allo sbaraglio contro l’apparato repressivo dello Stato, per tacere dei compiacimenti estetici a la beau geste di sapore dannunziano (<<Immediatamente sento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna>>. Copyright Toni Negri). 

Quei deliri avventuristi non si sono più ripetuti, anche perché, dopo l’ondata repressiva della fine dei Settanta, e soprattutto dopo la controrivoluzione liberista degli Ottanta, le “avanguardie” raccolte attorno a “Rosso” e altri gruppi hanno perso la capacità di mobilitare un blocco sociale che nel frattempo si era sfaldato: verso l’alto con la cooptazione dei militanti di origine medio borghese arruolati nelle imprese, nei media , nell’università e nelle istituzioni con il compito di “tradurre” il linguaggio dei movimenti nel lessico politicamente corretto delle élite liberali “progressiste” (vedi ancora Boltanski e Chiapello), verso il basso con l’integrazione dei militanti di estrazione proletaria o piccolo borghese nelle nuove filiere del valore del capitale post fordista. Eppure la grande narrazione post operaista, trasferitasi nei campus universitari di mezzo mondo e indossate le vesti paludate della italian theory, non ha cessato di inseguire le sue chimere. Chimere che, come già detto, sono il frutto di un paradossale eccesso di ortodossia, dell’assoluta fedeltà a categorie marxiane come general intellect, sviluppo delle forze produttive quale premessa della transizione al comunismo, ma soprattutto al concetto di tendenza, una categoria che legge l’intero sviluppo storico come un processo lineare, necessario e immanente al rapporto sociale e al modo di produzione capitalistici e che, nei suoi esiti più paradossali (ma coerenti) annuncia l’avvento del “comunismo del capitale”, una sorta di auto-conversione hegeliana del capitalismo nel suo contrario. Per citare Pagliani a mo’ di conclusione: <<lasciare in secondo o terzo piano le correlazioni tra la natura sociale del capitalismo e la sua natura fisica e geografica, e quindi trascurare l'importanza dei rapporti tra sistemi contrapposti di potere e di governo del territorio (e delle sue risorse, per altro finite), come gli Stati, ignorare l’analisi dell’intrinseca necessità per il capitalismo dello sviluppo ineguale con la conseguente contrapposizione tra i diversi centri di potere territoriale, tutte queste mancanze riducono la visuale, bloccano il cammino e spesso fanno prendere abbagli>>.  


 








 


domenica 31 gennaio 2021


 DAL GRUPPO GRAMSCI ALL'AUTONOMIA OPERAIA: UN PERCORSO TUTT'ALTRO CHE LINEARE (I)

di Piero Pagliani 

Introducendo la pubblicazione della prima delle tre sezioni di archivio della rivista "Rosso" sul sito Machina https://www.machina-deriveapprodi.com/post/rosso-quindicinale-del-gruppo-gramsci, Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita cercano di spiegare come mai la più nota rivista dell'Autonomia non sia nata dal filone "classico" dell'operaismo che si è dipanato da "Quaderni Rossi" a "Contropiano", bensì da un'altra componente "eretica" delle sinistre radicali, vale a dire dal Gruppo Gramsci, nato dalla confluenza di due scissioni, la prima dai gruppi dell'area marxista leninista "ortodossa", la seconda dal Movimento studentesco milanese. La presentazione sopra citata, pur fornendo alcuni elementi utili per ricostruire quella originale esperienza storica presenta - dal punto di vista di chi, come chi scrive, ne ha vissuto in prima persona la fase iniziale -  due limiti di fondo: in primo luogo, si tratta di una versione troppo "continuista" del passaggio dalla prima alla seconda versione di Rosso, laddove le differenze sia teoriche sia pratico organizzative fra Gruppo Gramsci e Autonomia furono non di poco conto (non a caso solo una parte di chi aveva militato nel Gramsci confluì in Autonomia), inoltre manca un'adeguata riflessione sulle contraddizioni e sui limiti soggettivi che contribuirono - non meno delle condizioni oggettive create dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica, oltre che dal riflusso delle lotte operaie e dalla repressione di Stato - al tragico epilogo della storia dell'Autonomia. A questi due punti il blog dedicherà due interventi: qui di seguito potete leggere il primo, di Piero Pagliani, ne seguirà un secondo del sottoscritto. (Carlo Formenti) 

Giustamente la prefazione di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita alla raccolta del quindicinale “Rosso”, sottolinea il paradosso che la «più celebre rivista dell’Autonomia [operaia]» non era il frutto della tradizione operaista italiana che faceva capo a “Quaderni rossi” o a “Contropiano”, ma nasceva da una particolarissima esperienza politica, quella del Gruppo Gramsci,   a cui avevano dato vita “transfughi” dal marxismo-leninismo dogmatico italiano e del Movimento Studentesco milanese. In realtà il paradosso si risolve se si considera che il Gruppo Gramsci originario non si travasò nella sua interezza nell'Autonomia. In particolare, questo passaggio non fu compiuto da alcuni dei suoi esponenti di spicco, tra i quali vanno citati Romano Madera, Giovanni Arrighi e Carlo Formenti (Arrighi si allontanò fra fine 73 inizio 74, Madera e Formenti non molto tempo dopo) Per capire la distanza tra l'operaismo, o meglio il tardo operaismo, che muoveva l'Autonomia e animava “Rosso” e l'elaborazione teorica e politica dei militanti appena citati, occorre immergersi, scontando brevità e schematismi, nel crogiolo da cui uscirono quelle esperienze.

Seguendo Boltanski e Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo. Mimesis, 2014), possiamo in prima istanza classificare il Sessantotto studentesco nella categoria di “bohème” ovvero di “critica artistica al capitalismo”. A dispetto del nome, la critica artistica ha sempre avuto delle motivazioni materiali. Nel nostro caso il fermento studentesco e giovanile era esploso sul crinale tra il “ventennio d'oro” di sviluppo capitalistico occidentale degli anni Cinquanta e Sessanta e l'inizio della crisi del sistema egemonico statunitense che aveva favorito quel ventennio di sviluppo materiale, che in Italia aveva preso il nome di “boom economico” e che si era imposto con la vittoria alleata nella Seconda Guerra Mondiale. Crisi tuttora in corso. Insomma, si ereditavano promesse e possibilità mentre si sperimentavano le prime chiusure e le prime difficoltà. In relazione agli studenti, il Movimento Studentesco della Statale di Milano classificava questa congiuntura col concetto di “proletarizzazione dei ceti medi”.

Questa crisi, maturata alla fine degli anni Sessanta, si conclamò col Nixon shock, cioè la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro del Ferragosto del 1971, dopo il quale nel giro di meno di un decennio il sistema fordista-keynesiano sviluppatosi per e nella ricostruzione postbellica dei singoli Stati e del mercato mondiale dovette cedere, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, alla triade liberalizzazione-globalizzazione-finanziarizzazione. Su questo crinale tra sviluppo e crisi la bohème sessantottina cercò di saldarsi a un movimento operaio in grande fermento, forte sui luoghi di lavoro perché sospinto dallo sviluppo precedente e forte politicamente perché organizzato materialmente e ideologicamente dalla straordinaria esperienza  comunista e socialista. Ma la fusione tra le istanze studentesche e quelle operaie avvenne solo molto parzialmente nella realtà, mentre occupò il proscenio soprattutto nelle teorie rivoluzionarie di alcune tendenze della sinistra extraparlamentare. Tra esse, in Italia, l’operaismo a mio avviso costituì l’unica possibile lettura moderna dell’ortodossia marxista. Era, in altre parole, la forma più alta che la classicità marxista riuscì ad esprimere in quel periodo di profonda transizione. Una lettura quindi al contempo moderna e ortodossa. Moderna perché registrava, a volte efficacemente, le trasformazioni della società e della “composizione di classe” dovute al passaggio storico sopra accennato e perché alcuni suoi esponenti intuirono con precisione l’incedere della finanziarizzazione nel processo di accumulazione[1]. Ortodossa perché inseriva i risultati di quelle analisi in schemi esclusivamente legati alla contrapposizione capitale-lavoro. Ma al di là del fatto che il pensiero di Marx non si presta in realtà a un’ortodossia, un solo ingrediente non è sufficiente a spiegare la crisi e le sue dinamiche. Nemmeno un ingrediente centrale come la natura di classe del rapporto sociale capitalistico e del modo di produzione costruito su di esso. 

Se è vero, e io ne sono convinto, che la crisi sistemica affonda effettivamente le sue radici nella natura di classe del rapporto sociale e del modo di produzione capitalistici, tuttavia, lasciare in secondo o terzo piano le correlazioni tra la natura sociale del capitalismo e la sua natura fisica e geografica, e quindi trascurare l'importanza dei rapporti tra sistemi contrapposti di potere e di governo del territorio (e delle sue risorse, per altro finite), come gli Stati, ignorare l’analisi dell’intrinseca necessità per il capitalismo dello sviluppo ineguale con la conseguente contrapposizione tra i diversi centri di potere territoriale, tutte queste mancanze riducono la visuale, bloccano il cammino e spesso fanno prendere abbagli. E' qui che possiamo individuare la distanza tra l'analisi della crisi in Arrighi, basata su una complessa elaborazione di tutti gli ingredienti appena elencati, e la visione operaista, incentrata sul rapporto capitale-lavoro e sul tentativo di identificare il soggetto rivoluzionario nei meandri delle radicali trasformazioni delle società capitalistiche. Come accennato, il pensiero operaista si era reso conto con un anticipo sorprendente sul resto dei teorici di sinistra che il capitalismo occidentale stava scivolando sempre più profondamente nella finanziarizzazione. Lo aveva fatto spesso con lucidità, ma aveva riportato questo fenomeno all'assunto costitutivo dell'operaismo stesso: la finanziarizzazione era la risposta del capitale alla crescente pressione della classe operaia e richiedeva l’individuazione delle nuove modalità di composizione e di autorganizzazione della classe che avrebbe fatto superare la crisi con la rottura anticapitalistica. 


Il soggetto rivoluzionario in questa ricerca sarebbe stato identificato prima nell'operaio massa, poi nell'operaio sociale, infine nelle moltitudini desideranti. Una trasformazione coerente con la lettura delle trasformazioni del capitalismo: inizialmente quello delle concentrazioni multinazionali e dell’organizzazione gerarchica fordista, poi quello diffuso del “piccolo è bello”, delle delocalizzazioni e dell’organizzazione “a rete”, più in là quello della New Economy, vista come segnale di una nuova “società della conoscenza” permessa dall’internettizzazione globale e non come enorme bolla borsistica, quello della globalizzazione, vista come realizzazione delle “profezie” di Marx e non come un altro nome per “egemonia degli Stati Uniti”, come dichiarato senza peli sulla lingua da Henry Kissinger[2] e quello della finanziarizzazione, interpretata come “capitalismo immateriale”, ovvero come una nuova fase del capitalismo e non come sbocco obbligato della sovraccumulazione. Se paragoniamo queste analisi con quelle di Giovanni Arrighi che affondano nella Storia, nel tentativo di capire ciò che persiste e ciò che muta nel suo divenire, nel connettere elementi di natura diversa (geografia, organizzazioni d'impresa, organizzazioni statali, organizzazioni sociali, tecnologie, risorse, modalità di pensiero, eccetera) possiamo dire che l’analisi operaista è stata una raffinata analisi del concetto di capitale non delle società capitalistiche realmente esistenti. Un’analisi in cui spesso una bohème  accademica radicale rappresentava il mondo e se stessa. Similmente, la riflessione di Romano Madera sulla possibilità stessa dell'esserci di un soggetto rivoluzionario depositario della capacità di negare la negazione, di ribaltare il ribaltamento della reificazione (si veda il suo Identità e feticismo, Moizzi, 1977) si svolgeva su un piano molto differente dall'adattamento sociologico del soggetto alle successive condizioni e trasformazioni del capitalismo. L'affascinante moderna ortodossia marxista dell'Operaismo ha ostacolato la comprensione delle nuove modalità di composizione di classe e delle loro conseguenze politiche in un'epoca, quella odierna, dove in basso si è dissolto, almeno in Occidente, il Quarto Stato e non si è ancora ricostituito un nuovo Terzo Stato laddove, in alto, il progredire tecnologico del capitalismo sta andando di pari passo al suo regredire a forme di neo-signoria. Difficoltà che non permette di comprendere oggi, ad esempio, la “variante populista” (Formenti).  

Nel “Rosso” post Gruppo Gramsci finirono per sovrapporsi due dimensioni politiche, analitiche ed esistenziali molto differenti una dall'altra: la controcultura tipica della bohème (in cui emergevano i rapporti di genere e interpersonali in senso ampio) e gli schemi marxisti più ortodossi. Un esito interessante, in sé, e non sorprendente: in fin dei conti era la post-modernità che agiva sulla classicità rivoluzionaria. L'esito veramente sorprendente si è visto solo molto più in là, dopo la Belle Époque reaganiana-clintoniana quando la correttezza politica ha decisamente preso il posto della correttezza sociale nascondendo/giustificando la lotta di classe dall'alto e la ripresa delle aggressioni imperialistiche. Un esito non previsto né da chi seguì “Rosso” dopo il 1973, né da noi che ce ne allontanammo. Tuttavia un esito che da qualcuno era stato previsto: Pier Paolo Pasolini. Più precisamente non era una profezia, ma la consapevolezza di un metodo che Pasolini, mentre intorno a “Rosso” ci si aggregava e ci si divideva, vedeva già all'opera: «Il ciclo è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria» [3].

[1] Mi riferisco specialmente al “gruppo sulla moneta” raccolto attorno alla rivista “Primo Maggio” il cui lavoro in un certo senso era stato inaugurato da Sergio Bologna con Moneta e crisi: Marx corrispondente della “New York Daily Tribune”, 1856-57. “Primo Maggio”, n. 1, settembre 1973, pp. 1-15. Ampliato in S. Bologna, P. Carpignano e A. Negri, Crisi e organizzazione operaia. Feltrinelli, Milano, 1974. Ancora di interesse sono i “Saggi sulla moneta” nel Quaderno di Primo Maggio N. 2.
[2] Si veda Impero di Michael Hardt e Antonio Negri. Impero, era stato scritto quasi contemporaneamente a Il lungo XX secolo e mentre quest'ultimo metteva in guardia, in piena ubriacatura da globalizzazione e new economy, dalla prossime sequenze di crisi economiche e di guerre, il primo descriveva un mondo ormai appiattito e privo di stati-nazione, una condizione concettualmente teorizzata da Gilles Deleuze e Felix Guattari col termine “spazio liscio” in Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (Castelvecchi, 1997). 
[3] Pier Paolo Pasolini, Il “discorso” dei capelli. In Scritti corsari, Garzanti, 1975, pag. 13.

sabato 30 gennaio 2021


QUALCHE RIFLESSIONE SULLA CRISI DI GOVERNO

In attesa di elementi che mi consentano di ragionare più a fondo su una crisi di governo che ha radici assai più lontane e profonde di quelle che ci restituisce il chiacchiericcio mediatico delle ultime settimane, anticipo qui di seguito le impressioni a caldo che ho pubblicato sul mio profilo Facebook  

La parabola dell'ineffabile Renzi giunge a compimento con l'incarico "esplorativo" a Fico, da lui caldeggiato, che segue di pochi giorni il suo viaggio in Arabia Saudita, nel corso del quale il nostro ha manifestato in tutto il suo splendore lo spirito reazionario, forcaiolo e antipopolare che ispira lui e la sua banda di sgherri. Come ha fatto, mi chiedo, questo figuro, che dopo essere assurto a liquidatore delle residue (ancorché pallidissime) tracce di sinistra nel PD, dopo avere incassato il corale NO del popolo italiano al tentativo di dare il colpo di grazia alla Costituzione del 48 (già martoriata dalla riforma del titolo V, dall'inserimento dell'81, ecc.), è precipitato a livelli di consenso che in caso di elezioni lo spazzerebbero via dal Parlamento, come ha fatto, ripeto, a pilotare la crisi in modo che se ne possa venire fuori solo: a) con un accordo che ne accolga tutte le istanze programmatiche (sì al MES, basta con l'assistenzialismo, via ai licenziamenti, "riapertura" del Paese a prescindere da quante decine di migliaia di morti costerà, visto che la famosa "salvezza" dei vaccini è di là da venire - anche perché quelli anglo-americani arrivano a sgoccioli e a quelli russi e cinesi è vietato anche solo accennare), b) con un governo istituzionale o "tecnico" che farà ancora peggio.

Bé, rispondere non è poi così difficile per chi abbia osservato con attenzione: 1) la tambureggiante campagna di stampa che negli ultimi tempi ne ha appoggiato il ruolo di liquidatore nei confronti d'un governo confusionario e pasticcione, ma soprattutto indigesto alle élite borghesi per le sue pur modeste, residuali velleità "populiste" e "stataliste", 2) la crescente insofferenza del PD, costretto a convivere con un alleato sovradimensionato in termini di numeri parlamentari ma non liquidabile attraverso il ricorso alle urne (in quanto ciò sarebbe non meno pericoloso per lo stesso PD) per cui si è preferito usare Renzi come guastatore (forse sottovalutandone la verve avventurista); 3) la progressiva liquefazione di un M5S ormai ridotto a un manipolo di peones senza visione né principi, disposti a giocarsi anche la mamma pur di tenere il proprio posteriore incollato agli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama. Al solerte Mastella è spettato solo il ruolo notarile (il personaggio non è in grado di giocarne altri) di prendere atto del piano ed eseguirlo in automatico.

Ciò detto, restano gli imprevisti di una situazione talmente caotica che non è da escludere la sia pur remota possibilità che si debba andare alle elezioni; resta la sofferenza di un Paese in ginocchio che paga il prezzo dello smantellamento del sistema sanitario operato da TUTTI i governi precedenti, senza distinzioni ideologiche, della de industrializzazione, dei tagli a salari, pensioni e welfare, della precarizzazione del lavoro; un Paese in cui la rabbia diffusa non può trovare espressione sia perché fatta di bisogni e interessi diversi, a seconda degli strati sociali e generazionali di appartenenza, e di forze politiche e sindacali che abbiano forza, capacità e voglia sufficienti per organizzarla. Restano, infine, i dubbi su certi serpeggianti segnali che lampeggiano sulle pagine dei grandi media e che ho segnalato nei giorni scorsi: gli stessi opinionisti ed esperti che per anni hanno attaccato a testa basta sovranisti e populisti per le loro reticenze ad adeguarsi alle direttive della Ue, improvvisamente cominciano a manifestare perplessità nei confronti di un'Europa che sembra prendere distanza dal dominus atlantico (firma di accordi con la CIna e con la Russia senza attendere il beneplacito Usa, tentativi di mettere in discussione l'egemonia del dollaro, ecc.).

Viene da pensare che, data per conclusa l'ondata populista con la liquidazione di Trump, e preso atto che l'Amministrazione Biden si appresta ad alzare il livello di scontro con Cina e Russia (linea poco gradita alla Germania che guida la Ue), una fazione dei poteri forti nostrani voglia scommettere su un ruolo dell'Italia che la veda agire da cavallo di Troia filoamericano per rafforzare dall'interno la pressione esterna che gli Stati Uniti eserciteranno sull'Europa per costringerla ad allinearsi sugli obiettivi della nuova guerra fredda. Se le cose stanno così, primo compito di una ipotetica sinistra da ricostruire sarebbe rilanciare con forza la parola d'ordine di rompere il quadro di alleanze che ha impedito a questo Paese di compiere qualsiasi reale passo avanti sulla via del progresso sociale e politico dalla fine dell'ultima guerra. mondiale

martedì 26 gennaio 2021


     I DANNATI DEL CLIC

Lavoro digitale e nuove forme di sfruttamento


Il ruolo delle tecnologie digitali nella progettazione di nuove forme di sfruttamento delle classi lavoratrici, è al centro di un incontro organizzato dalla CGIL per martedì 2 febbraio https://www.centroriformastato.it/non-solo-rider-le-antiche-nuove-forme-di-sfruttamento-di-chi-lavora-per-e-con-le-piattaforme-digitali-5/. Negli ultimi anni, il tema è stato affrontato da diverse ricerche: dal libro di Riccardo Staglianò, Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri  (Einaudi 2018) al più recente Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo (Feltrinelli 2020), di Antonio Casilli, il quale parteciperà all’incontro di cui sopra. Quel “tutti” che accomuna i due sottotitoli (“ci rende tutti più poveri”, “perché lavoriamo tutti”), sembra suggerire che gli autori credano di riconoscere, in queste nuove forme di sfruttamento, un tratto generalizzabile, universale dell’attuale fase di sviluppo capitalistico. Nel testo che segue mi propongo di problematizzare questa tesi. Ma prima è opportuno sintetizzare il contributo dei due libri alla comprensione di una serie di fenomeni che stanno mettendo in discussione alcuni concetti di base della sociologia del lavoro, dalla relazione fra tecnologia e occupazione all’idea stessa di lavoro.    

Sulla questione della disoccupazione tecnologica Staglianò (cfr. la recensione che Alessandro Visalli gli ha dedicato http://tempofertile.blogspot.com/2018/10/riccardo-stagliano-lavoretti.html?q=gig+economy) resta nel solco della tradizione marxista: l’odierna tecnologia “ruba” il lavoro, come ha fatto fin dalla prima rivoluzione industriale, e lo fa non tanto e non solo per ragioni “oggettive” – cioè come effetto collaterale di un inevitabile quanto irreversibile “progresso” tecnico-scientifico – ma anche e soprattutto perché è lo strumento principale grazie al quale il capitale contiene il costo del lavoro quando questo accumula rapporti di forza tali da sfidare il profitto. La tecnologia serve cioè a creare un “esercito di riserva”.  Uber è citato come esempio paradigmatico di tale logica: il colosso che ha “liberalizzato” il servizio dei taxi, distruggendo un  settore caratterizzato da un elevato tasso di regolazione del lavoro (paragonabile a quello di certe corporazioni medievali) ha creato un mercato della forza lavoro in cui, a fronte di un milione e mezzo di autisti nominalmente autonomi, troviamo solo 12.000 dipendenti diretti.    


La posizione di Casilli è più eretica, nel senso che questo autore contesta la retorica della “fine del lavoro” generata dal processo di sostituzione tecnologica, in base alla quale basterebbe rimpiazzare alcune mansioni perché scompaiono interi mestieri. Per valutare realisticamente l’impatto delle intelligenze artificiali, scrive, occorrerebbe prendere seriamente in considerazione gli indicatori economici e statistici (giusto, ma visto che ciò non viene fatto nemmeno nel suo lavoro, permane il rischio che certe valutazioni siano basate sul partito preso, più che sull’analisi empirica; per esempio: dopo essersi chiesto quante siano nel mondo “le piccole api onerose della IA”, Casilli risponde: “non si sa, sicuramente milioni”. Quanti? Uno, dieci, cento, di più?).  Ma il suo argomento forte è il seguente: “anche gli impieghi a più alto rischio di automazione contengono spesso una quantità di mansioni che non possono essere automatizzate”. L’automazione totale è e resterà un mito perché, per il capitale (e qui il suo punto di vista converge con quello di Staglianò), l’automazione è innanzi tutto uno strumento per disciplinare il lavoro, ed è per questo motivo che quella piena e definitiva viene costantemente rinviata a un futuro imprecisato.   

Sia Staglianò che Casilli concentrano poi l’attenzione sulla massa di lavoro sottopagato, altamente usurante, che viene compiuto “dietro le quinte” di un processo produttivo che utenti e consumatori immaginano interamente automatizzato. La verità è invece che gran parte del lavoro non viene effettuato da software e Bot dotati di mirabolanti quote di “intelligenza artificiale”, bensì da normali intelligenze umane. Né le intelligenze artificiali coinvolte nel processo hanno alcunché da spartire con le mitiche intelligenze artificiali “forti”, di cui personaggi come Kurzweil predicano l’imminente avvento: si tratta piuttosto di intelligenze artificiali “deboli”, composte da applicazioni che aiutano a gestire l’informazione, ottimizzare contenuti, prendere decisioni e che non sarebbero in grado di funzionare senza il supporto del lavoro umano. 

Veniamo ora alla descrizione di questo cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”, e agli argomenti con cui si sostiene che la controparte di questa nuova incarnazione del rapporto di capitale non è un insieme eterogeneo di figure sociali bensì una inedita e ben precisa tipologia di forza lavoro, accomunata da molte caratteristiche se non del tutto omogenea, che Casilli definisce digital labor. Il punto da cui partire è il fatto che le piattaforme non operano come le industrie che sostituiscono e distruggono, non comprano cioè forza lavoro né mezzi di produzione, bensì erogano un servizio, di cui formalmente non dispongono, agendo come se potessero disporne, per cui accettano prenotazioni di determinati prodotti e servizi che poi “mettono all’asta” su Internet. Attraverso la messa in contatto e la generalizzazione del modello dell’asta viene “estratto” (tornerò più avanti su questo termine) tutto il valore che in precedenza veniva catturato dallo strato intermedio di quei saperi esperti e di quelle pratiche organizzate che hanno guidato la differenziazione progressiva della modernità a partire dal milleseicento ad oggi (questa la definizione di Staglianò). Ma vediamo come si articola questo modello.

Uno. Piattaforme on demand. L’abbinamento fra clienti e lavoratori si opera attraverso la app ma le prestazioni sono dal vivo. Il caso di scuola è Uber: questa azienda è un network digitale in cui si incontrano passeggeri e conducenti nei confronti dei quali Uber agisce da intermediario. Tuttavia la percentuale che trattiene sulle prestazioni degli autisti come compenso per tale funzione non è il core business, il quale si annida piuttosto nel meccanismo  reputazionale fondato sui punteggi che conducenti e passeggeri si attribuiscono reciprocamente. L’algoritmo di Uber opera come strumento per incentivare gli uni e gli altri a svolgere quel lavoro di produzione d’informazione che è la vera base del business (per inciso, Casilli riprende qui il discorso contro il mito dell’automazione: le “macchine senza conducente”, di cui si favoleggia per un prossimo futuro, saranno in realtà veicoli in cui toccherà al passeggero svolgere il ruolo del “vero” conducente, nella misura in cui dovrà  risolvere tutti i problemi che il veicolo non sarà in grado di gestire autonomamente).

Due. Microlavoro, ovvero human based computation. Si tratta di pratiche che consistono nel delegare agli esseri umani operazioni che le macchine non sono in grado di eseguire da sole . Il caso di scuola qui è la piattaforma Mechanical Turk di Amazon che “appalta” queste operazioni a una miriade di persone sparse in tutto il mondo (riferendosi a queste moltitudini –  ovviamente non solo a quelle gestite da Amazon - Casilli sostiene che si tratterebbe di almeno quaranta, ma forse addirittura centinaia di milioni di lavoratori, giustificando questa approssimazione – che fa il paio con quel “sicuramente milioni” di cui sopra – con la difficoltà di reperire dati attendibili).  Amazon sfuma il suo ruolo di intermediario presentandosi come un “ecosistema” dove clienti e lavoratori entrano in contatto in maniera per così dire spontanea. Casilli sottolinea inoltre che le interfacce delle app sono ludiche, per evitare che gli utenti abbiano l’impressione di svolgere missioni impegnative o faticose, e aggiunge che simili meccanismi ludici assumono sovente forma agonistica per stimolare la produttività. 

Tre. Lavoro sociale in rete. Il caso di scuola è in questo caso Facebook. Si potrebbe dire che questo modello rappresenta una evoluzione avanzata del marxiano “lavoro del consumatore”: la partecipazione degli utenti dei social come Facebook (costruzione di comunità, creazione, produzione e condivisione di contenuti, generazione massiva di big data traducibili in profilazioni di mercato, comunicazione pubblicitaria, ecc.) consiste in una serie di mansioni assimilate al tempo libero, alla creatività e alla socialità. Ma la logica del capitalismo delle piattaforme digitali, argomenta Casilli, fa sì che il contributo del consumatore-utente non sia più solo complementare rispetto al lavoro formale, ma si trasformi nella pietra angolare di un intero edificio produttivo. A chi obietta che se si svolgono attività in ci si diverte non le si possono definire lavoro (1), Casilli replica che gli utenti dei social si trovano sullo stesso piano degli “operai del clic” (quelli delle piattaforme on demand e del microlavoro) nella misura in cui, al pari di loro, contribuiscono alla costruzione dei sistemi intelligenti, sono cioè integrati in un processo nel quale non sono le macchine a fare il lavoro degli esseri umani, bensì sono gli esseri umani che vengono indotti a svolgere il “digital labor” per conto della macchine, accompagnandole, imitandole, addestrandole. 


È sufficiente il fatto di svolgere un’attività spezzettata e "datificata” che serve ad addestrare i sistemi automatici, per inquadrare in una categoria unitaria un coacervo di esperienze in cui si mescolano lavoro atipico, lavoro indipendente, lavoro a cottimo microremunerato, hobby professionalizzati, passatempi monetizzati, un continuum, scrive Casilli, fatto di attività non remunerate, attività sottopagate e attività remunerate in modo flessibile? L’operazione a me pare azzardata, nella misura in cui è fondata su un’astrazione logica che difficilmente può essere identificata con il concetto marxiano di “astrazione concreta”. Ma se Casilli se la può permettere è perché il suo approccio si colloca esplicitamente nella cornice della cosiddetta italian theory (fuor di lessico accademico: delle teorie post operaiste). Il che significa che tutti i “buchi” e le contraddizioni del suo discorso possono essere sanati ricorrendo al concetto di tendenza

Prima di discutere l’infondatezza di tale concetto, ritengo tuttavia doveroso riconoscere che Casilli, pur ispirandosi al paradigma post operaista, ne critica alcuni aspetti indifendibili. A partire dall’idiozia del cosiddetto “lavoro immateriale”, che ci è stata propinata in tutte le salse negli ultimi decenni: il digital labor, scrive Casilli, non è più immateriale del lavoro di un avvocato o di un operaio, nel senso che questi lavoratori si confrontano con questioni concrete e con mansioni che richiedono la partecipazione del corpo, dei sensi, delle dita (qui il digitale va inteso nel senso letterale delle dita che manovrano il mouse). Del resto, aggiunge, senza riferirsi alla dimensione materiale che si cela dietro un’economia che si spaccia per “immateriale”, diventa impossibile cogliere la dimensione dello sfruttamento (2) ad essa strettamente associata (giustamente Casilli estende la critica alle profezie postoperaiste che, mistificando la categoria marxiana del general intellect, si sono associate “da sinistra” alle profezie degli imbonitori tecnoentusiasti della “fine del lavoro”). 

Ma torniamo al concetto di tendenza, che ha avuto la sua prima formulazione nelle teorie del primo operaismo (quello dei “Quaderni Rossi” per intenderci) il quale accusava i marxisti dogmatici di essere ancorati a una visione anacronistica del processo produttivo (e di conseguenza alla valorizzazione politica di una composizione di classe basata sull’operaio professionale). La transizione al modo di produzione fordista configurava una composizione di classe inedita, in cui il potenziale antagonista transitava dall’operaio professionale all’operaio massa, cioè agli addetti alle mansioni ripetitive e dequalificate della catena di montaggio. Esauritosi il ciclo fordista il paradigma si è perpetuato proponendo una lunga serie di poli oppositivi: economia postfordista/operaio sociale (poi moltitudine); economia della conoscenza/knowledge workers, ecc. Questi slittamenti progressivi seguono appunto il filo rosso della tendenza, intesa come la forma “più avanzata” che la contraddizione fra capitale e lavoro viene via via assumendo. La tendenza è concepita come un processo monodirezionale e irreversibile, mosso da una necessità immanente che è quasi esclusivamente identificata con l’evoluzione delle tecnologie produttive, non  solo macchine ma anche modelli organizzativi - evoluzione che è a sua volta il prodotto della lotta fra forza lavoro e capitale. 

Questo schema non prevede eccezioni né contro tendenze, così come ne restano escluse o quasi le variabili politiche, culturali e sociali in senso più ampio (antropologiche). L’idea di fondo è che la tendenza agisca come un fattore soverchiante che sovradetermina tutti gli altri. Ecco perché Casilli può giocare con i numeri attribuendo importanza relativa al fatto se i suoi operai del clic rappresentino una quota più o meno ampia della forza lavoro totale: è sufficiente, per esempio, estendere la filiera agli operai della Foxconn (oggetto di un selvaggio sfruttamento neofordista) per considerali parte integrante del modello. In poche parole: il conflitto fra capitalismo delle piattaforme (considerato la punta più avanzata dello sviluppo capitalistico anche se i dati ci dicono che il peso economico reale di questa industria è assai più limitato di quanto non lasci intendere il suo prestigio virtuale) e digital labor (anche se la percentuale di questi lavoratori sul totale della forza lavoro è relativamente bassa) diventa la tendenza principale in grado di sovradeterminare l’insieme degli altri conflitti economici, politici e sociali (3). 

In questo modo Casilli – al pari di tutti quelli che adottano un punto di vista analogo – non è più in grado di relativizzare il suo contributo, inquadrandolo in un contesto analitico più ampio. Non avendo intenzione di allargare troppo il discorso, mi limito a fare qui di seguito alcuni esempi di ciò che intendo: 1) tende a sposare la tesi di Manuel Castells, secondo cui la logica dei flussi sarebbe inevitabilmente destinata a prevalere sulla logica dei luoghi, e questo proprio nel momento storico che vede una crisi radicale della globalizzazione e un prepotente ritorno del conflitto interimperialistico fra grandi Stati; 2) il fatto che la maggioranza degli operai del clic siano disperati che sgobbano per pochi centesimi a operazione in Asia e Africa, lo induce ad ammettere che la geografia globale è oggi persino più ineguale che nella seconda metà del Novecento ma, al tempo stesso, la necessità di descrivere un mondo omologato sotto un unico paradigma (4), fa sì che neghi l’evidenza della natura neocoloniale del rapporto fra Nord e Sud del mondo (ampiamente dimostrata da autori come Samir Amin); 3) gli sfugge il fatto che quello che chiama capitalismo delle piattaforme non è altro che un epifenomeno del più ampio processo di finanziarizzazione dell’economia, cui queste tecnologie certamente contribuiscono, ma rispetto al quale rappresentano un effetto collaterale; 4) incontra serie difficoltà a conciliare il fatto che i lavoratori del clic faticano a concepirsi come lavoratori con la loro collocazione in una posizione “oggettivamente” avanzata nel contesto delle contraddizioni sistemiche (5). 

Mi tocca infine fare – come anticipato in precedenza – un breve inciso sul concetto di “estrazione” di valore. Le analisi di Marx ed Engels sul processo di accumulazione primitiva; la teoria leninista dell’imperialismo; quelle di Baran e Sweezy sul capitale monopolistico; quelle della “banda dei quattro” (Wallerstein, Arrighi, Samir Amin e Gunder Frank) sullo sviluppo del sottosviluppo, per tacere del concetto di accumulazione per espropriazione di David Harvey, sono tutti contributi che dimostrano come l’estrazione di valore sia un elemento consustanziale alla storia del capitalismo, alla cui comprensione il fenomeno del cosiddetto capitalismo delle piattaforme aggiunge relativamente poco, se non per il fatto che rappresenta una delle tattiche dilatorie - quelle che Wolfgang Streeck riunisce sotto lo slogan “guadagnare tempo” - (6) del capitalismo finanziarizzato per far fronte alla caduta del saggio di profitto.

Concludo con un breve accenno alla pars costruens dei libri di Staglianò e Casilli. Staglianò, che come sopra ricordato resta ancorato allo scenario della disoccupazione tecnologica, ripropone il rimedio del reddito di base, rispetto al quale mi limito qui a riproporre le perplessità che Alessandro Visalli avanza nella recensione citata in apertura: <<E’ vero che il capitalismo (…) non riesce a garantire un adeguato reddito da lavoro a tutti, e quindi dissemina scarti e “inutili”. Ma il solo reddito garantito, in particolare quando soggetto a pensati condizionalità, rischia di portare con sé una ineliminabile dimensione disciplinare>>. Viceversa Casilli ha il merito di mettere in luce l’oggettiva difficoltà di costruire una cornice politico-sindacale unitaria in cui far confluire gli interessi di questi soggetti, oltre a dimostrare l’insensatezza di alcune delle soluzioni proposte. In particolare, critica l’idea secondo cui, dal momento che siamo di fronte a un tipo di potere che si basa su una sottomissione convenzionale, quest’ultima si ridurrebbe a una sorta di “superstizione” destinata a svanire nel momento in cui si cessa di credervi. Non so se si riferisca qui a certe idiozie post operaiste, ma è certo che la critica vi si adatta alla perfezione: avete presente la tesi secondo cui i knowledge workers, dato che sono ormai in grado di gestire autonomamente un processo produttivo compiutamente socializzato, basta “si sveglino” dall’illusione della necessità del comando capitalistico per rendere possibile la transizione diretta al comunismo? In realtà, scrive Casilli, la produzione di informazione non si basa su incentivi alla “sottomissione volontaria” bensì sull’induzione di “una scelta volontaria obbligatoria”: si adottano comportamenti che producono informazioni come se questa fosse una nostra scelta. 

Su altre utopie, come ripensare il rapporto fra utente lavoratore e infrastrutture di raccolta e trattamento dati inquadrandolo nella logica dei beni comuni, sviluppare nuove modalità di condivisione delle risorse, dare vita a un cooperativismo delle piattaforme in grado di <<usare la piattaformizzazione contro se stessa>>(!?) Casilli non si pronuncia con altrettanta chiarezza critica. Personalmente resto dell’idea che non esistano alternative a un faticoso sforzo di sindacalizzazione di questi soggetti che, dato il loro alto livello di stratificazione e dispersione, dovrebbe assumere – come ho argomentato nel post precedente, dedicato alla nascita della sezione italiana della Tech Workers Coalition, la forma di una sorta di sindacalismo sociale capace di aggregare trasversalmente figure diverse.      

NOTE
(1) La stessa obiezione che mi fu rivolta dopo la pubblicazione di Felici e sfruttati (Egea 2011), libro in cui definivo lavoro gratuito l’attività degli utenti dei social.

(2) Un altro aspetto che consente di parlare di sfruttamento in relazione a questo tipo di attività è l’esistenza di pratiche che già anni fa (cfr. nota precedente) definivo “taylorismo digitale”, riferendomi all’uso delle informazioni raccolte attraverso i vari tipi di piattaforme per ottimizzare non solo il tempo di lavoro ma anche il tempo di vita degli utenti. Casilli approfondisce il concetto scrivendo che, mentre gli operai del taylorismo classico subivano la macchina come mezzo di produzione, gli operai del clic costituiscono essi stessi gli ingranaggi della macchina che mira a sostituirli (ingranaggi che possono a loro volta sfruttare le condizioni generate da decenni di esternalizzazione e parcellizzazione del lavoro).

(3) Non si tratta di negare che le pratiche di sfruttamento sperimentate in questo settore possano essere “esportate” in altri settori di maggior peso strategico. Ma ciò non implica che il capitalismo delle piattaforme rappresenti ormai il capitalismo tout court

(4) In un post precedente ho parlato di “terrapiattismo”, a proposito della tendenza a cancellare le differenze radicali fra sistemi. Casilli, per esempio, sembra dare per scontato che la Cina non faccia eccezione rispetto alla “tendenza” globale (in merito cita il funzionamento delle grandi piattaforme digitali “made in China”), per cui gli sfugge come il conflitto fra Stati Uniti e Cina incarni il persistere di quella dialettica fra potere dei flussi e potere dei luoghi che lui ritiene ormai risolto a favore del primo. Ma le cose, come dimostra la liquidazione del boss del commercio online Jack Ma, il quale usava la sua impresa come cavallo di Troia delle logiche di finanziarizzazione, sono assai più complicate. 

(5) Mi pare di poter aggiungere che nel libro di Casilli manca un’analisi convincente della stratificazione interna di questa forza lavoro: quali strati – e in base a quali criteri – possono essere definiti come proletari digitali e quali come alleati del capitale?

(6) Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013.
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mercoledì 20 gennaio 2021


 

    DALLA IBM ALLA GIG ECONOMY

Tutti i modi per dividere i lavoratori 

Nei primi anni Settanta, dopo un’esperienza di lotta sindacale nella multinazionale americana di cui ero dipendente (la 3M Minnesota), mi fu offerta la possibilità di divenire funzionario dei metalmeccanici, con l’incarico di seguire i settori a prevalente composizione tecnico impiegatizia. Per un giovane (23 anni), era una incredibile opportunità, sia di fare nuove esperienze, sia di valutare il potenziale conflittuale degli strati medio alti della classe lavoratrice che, in quegli anni (sull’onda delle lotte studentesche e operaie del 68/69), sembrava in crescita. Quindi, dopo qualche  esitazione dettata da scrupoli ideologici (militavo nel Gruppo Gramsci, una delle formazioni della sinistra extraparlamentare duramente critiche nei confronti delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio) decisi di accettare. I compagni di organizzazione condivisero la mia scelta, anche perché la proposta veniva dalla FIM di Milano che, a quei tempi, rappresentava – malgrado l’affiliazione confederale alla CISL - la punta più avanzata del movimento sindacale “ufficiale”, tanto sul piano rivendicativo (aumenti uguali per tutti) quanto sul piano organizzativo (appoggio all’organizzazione operaia di base fondata sui delegati di reparto - Quam mutatus ab illo !). 
Seguirono tre anni di preziose esperienze di lotta (sia pure soggette ai limiti di uno di strato di classe restio, per mentalità e cultura, a condividere le velleità antagoniste dell’operaio comune) che mi consentirono di allungare lo sguardo verso quell’imminente futuro di ristrutturazioni tecnico-organizzative che – assieme ai processi di finanziarizzazione e delocalizzazione produttiva – avrebbero consentito al capitale di sbaragliare il nemico di classe. In particolare, fu in tal senso decisiva la possibilità di studiare i modelli  di organizzazione del lavoro, di gestione del personale e di politiche commerciali di un colosso come la IBM, allora dominatore incontrastato del mercato mondiale dell’informatica. Non appena fui in grado (grazie a una serie di documenti interni messi a disposizione da alcuni dipendenti) di analizzare le politiche aziendali del Moloch, rimasi affascinato e terrorizzato al tempo stesso dalla maligna genialità di certe strategie. L’IBM anticipava infatti di trent’anni politiche che oggi, dopo l’esplosione di Internet e  della New Economy, appaiono scontate. 
Mi limito qui a elencare le più significative: l’impresa contava allora più 300.000 dipendenti in decine di filiali sparse per il mondo e interconnesse attraverso un’efficiente rete interna; molte di queste filiali erano “doppioni” che sfruttavano solo una parte della loro capacità produttiva, ma che erano pronte a riempire gli eventuali “buchi” causati dal fatto che una qualche filiale gemella fosse bloccata da scioperi, guerre, rivoluzioni o catastrofi naturali. Tutte le nostre rivendicazioni (mutuate sul modello di quelle della forza lavoro fordista) ottenevano l’appoggio - moderato – dei soli strati inferiori (perforatrici, segretarie, magazzinieri, addetti all’assistenza clienti, ecc.) della forza lavoro, mentre venivano snobbate dalla “pancia” (maggioritaria) degli strati medio alti (manager esclusi), fatta di analisti dei sistemi, programmatori, ingegneri, venditori, amministrativi, addetti alla comunicazione e al marketing, ecc. Una massa letteralmente “nebulizzata” in una serie di posizioni (salariali e di carriera) altamente individualizzate, che rispecchiavano un “punteggio” fondato su un’ampia gamma di parametri (adesione agli obiettivi aziendali, spirito cooperativo, flessibilità, rispetto delle gerarchie, ecc.). Questa sofisticata architettura nascondeva il bastone del comando sotto una panoplia di carote in cui i fattori di “riconoscimento” prevalevano sugli incentivi materiali. In questo modo ogni dipendente poteva illudersi di occupare una posizione singolare nell’organigramma aziendale e di svolgere, in relativa autonomia, un ruolo importante, oltre che creativo e appagante, per la comunità (anche se suscitò un certo clamore un documento redatto dal sindacato interno in cui si mostrava come dietro questa “individualizzazione” si celasse la realtà di un inquadramento rigido e predeterminato, e il sistematico intento di mettere in competizione i lavoratori, sia come singoli, sia come gruppi professionali). 
Ma quello che più mi impressionò fu la politica commerciale. La IBM non vendeva computer, vendeva un modello organizzativo. Non solo perché i proventi derivanti dalla consulenza ai clienti (a partire dalla manutenzione e implementazione del software) rappresentavano una quota significativa dei profitti, ma anche e soprattutto perché le imprese che acquistavano i prodotti IBM finivano per adottarne le strategie, i valori, la “filosofia”, tanto sul piano degli organigrammi interni, quanto su quello delle politiche commerciali. In questo modo, la IBM contribuì notevolmente a creare quell’ambiente produttivo, sociale e culturale che, nei decenni successivi, avrebbe favorito i processi di delocalizzazione, terziarizzazione del lavoro, “smaterializzazione” del prodotto, ecc. Modelli che le ondate successive della rivoluzione digitale, a partire dall’esplosione del Web, avrebbero perfezionato e generalizzato (ridimensionando il ruolo dei giganti dell’hardware come IBM a favore di quelli del software, come Microsoft, del design industriale, come Apple, dei motori di ricerca, come Google, dell’e.commerce come Amazon e dei social, come Facebook).
Fino alla fine dei Settanta (e ben oltre), la consapevolezza dell’impatto che le nuove tecnologie avrebbero avuto sull’organizzazione del lavoro, sulla composizione di classe e sui livelli di combattività della classe lavoratrice rimase tuttavia piuttosto scarsa. Tanto che un mio libretto (Fine del valore d’uso) uscito da Feltrinelli nel 1980, nel quale prevedevo un radicale ridimensionamento del peso delle tute blu a fronte della crescita esponenziale del lavoro terziario nelle grandi imprese dei centri metropolitani, mentre la produzione materiale si sarebbe spostata verso le aree periferiche a basso costo del lavoro (processo reso possibile dalle tecnologie informatiche che consentono appunto di decentrare le mansioni esecutive concentrando le funzioni di controllo, progettazione e comando), fu accolto con scherno (e adesso ci vengono a raccontare che la classe operaia sta per sparire, scrisse un recensore di cui non ricordo il nome sulle pagine del Manifesto). 
Del resto, l’interesse delle sinistre, a fronte del riflusso delle lotte operaie culminato con la marcia dei quarantamila quadri Fiat del 1980, si era ormai allontanato dal mondo della produzione, spostandosi sui ceti medi emergenti (da parte dei socialdemocratici), oppure (da parte delle sinistre radicali) sul cosiddetto “operaio sociale” – un mix di strati giovanili, marginali e periferici che scaricavano rabbia e frustrazione in scontri violenti con le forze dell’ordine e coltivavano velleitari progetti insurrezionali – mentre veniva progressivamente affermandosi il mito del lavoro autonomo, visto non come un ripiego di fronte all’espulsione di forza lavoro causata dalla ristrutturazione tecnologica, bensì come “libera scelta”, rifiuto dell’alienazione e della subordinazione gerarchica legate al lavoro dipendente nelle grandi fabbriche (mito che, non molto dopo, sarebbe tornato utile alle élite neoliberali per alimentare l’ideologia dell’imprenditore di se stesso). 
Con la rivoluzione digitale e gli anni Novanta abbiamo assistito a un potente ritorno di attenzione sul rapporto fra innovazione tecnologica e lotta di classe. Purtroppo nella gran parte dei casi questa attenzione è coincisa con l’esaltazione acritica del presunto potenziale emancipativo delle nuove tecnologie. Prima vennero i miti della cultura hacker che, mentre creava la cassetta degli attrezzi che sarebbe servita ai vari Bill Gates, Steve Jobs, Sergej Brin, Jeff Bezos, Zuckerberg e soci per costruire in tempi brevissimi i loro imperi monopolistici, alimentava i sogni sull’imminente avvento di una società democratica, “orizzontale”, fondata su una rete di libere comunità autogestite, cosmopolite, emancipate dai vincoli del potere politico e delle sue regole (ma senza mettere in discussione le basi del sistema capitalista: l’iniziativa privata e il libero mercato restavano dogmi indiscussi, per cui questa ideologia è stata giustamente definita come una sorta di anarco-capitalismo). A seguire è subentrata la versione post operaista del sogno hacker:  i lavoratori della conoscenza (le classi creative in altre versioni) vennero battezzati come la nuova avanguardia rivoluzionaria, pronta a raccogliere il testimone delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta. Queste teorie, incapaci di analisi critica nei confronti del contenuto di classe della tecnica in generale e delle tecnologie digitali in particolare (il rapido progresso tecnologico vi veniva descritto come un fattore sostanzialmente “neutro”, senza mettere in conto i condizionamenti economici, sociali e culturali che ne sovradeterminano percorsi e sviluppi, dogmaticamente assimilato al marxiano sviluppo delle forze produttive quale presupposto necessario – ma non sufficiente, se avessero assimilato il pensiero del maestro – del balzo evolutivo verso un superiore livello di civiltà), hanno partorito un’utopia che attribuisce ai knowledge workers non solo le competenze, ma anche la consapevolezza di possederle e la volontà di sfruttarle per sottrarre al comando capitalistico il controllo sulla produzione e sulla riproduzione sociali, controllo destinato a passare nelle mani delle loro comunità autonome senza dover transitare da perigliosi assalti al potere politico (destinato a dissolversi assieme a quello della classe capitalista: Stato e mercato aboliti in un colpo solo!).
Alla fine del primo decennio del Duemila tutte queste utopie erano state spazzate via da due crisi (prima quella dei titoli tecnologici poi quella generale) che hanno accelerato esponenzialmente il processo di concentrazione monopolistica dei settori high tech, spegnendo, nel contempo, le aspettative in merito al presunto potenziale emancipativo e democratizzante della Rete. In un libro del 2011 (Felici e sfruttati, Egea) ho cercato di descrivere le molteplici modalità di attacco ai rapporti di forza delle classi lavoratrici rese possibili dalla pervasiva colonizzazione dell’ambiente digitale nei confronti della totalità delle relazioni sociali, politiche ed economiche. La vera novità rispetto alla filosofia IBM sopra descritta, consiste infatti nel fatto che non si tratta più di modellare solo o principalmente organizzazioni aziendali e relazioni industriali, bensì di ridisegnare ritmi e stili di vita, identità individuali e collettive, bisogni, desideri e aspirazioni, rapporto fra tempo libero e tempo di lavoro, ecc. Fra le altre cose, tentavo di mettere in luce: la messa al lavoro degli utenti-consumatori, mobilitati per generare la valanga dei big data (materia prima dei modelli di business delle Internet Company) in cambio dell’illusione di poter accedere a illimitate e gratuite occasioni di riconoscimento e autogratificazione (di qui il titolo felici e sfruttati); la separazione fra uno strato privilegiato di tecnici e la massa  della forza lavoro, con i primi deputati (come gli ingegneri tempi e metodi d’antan) a organizzare il tempo di vita e di lavoro (sempre meno reciprocamente distinguibili) dei secondi per esaltarne la produttività (una sorta di taylorismo digitale); una individualizzazione ancora più spinta dei lavoratori attraverso la creazione di complesse catene del valore che scendono fino agli schiavi della gig economy (autisti Uber, runner delle società di Delivery, addetti ai call center ecc.). Il tutto senza che non esista più, apparentemente, alcuna possibilità di attivare relazioni indipendenti e dirette fra le disiecta membra di questo corpo di classe, ormai riconoscibile come tale solo dai centri di comando che ne coordinano dall’alto e da fuori le interazioni. 

Eppure qualcosa – sia pure faticosamente – sembra si stia muovendo per tentare una ricomposizione degli interessi di classe. In un’intervista a “Città Futura”  https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/tech-workers-coalition-%e2%80%93-sezione-italiana un portavoce dell’appena nata sezione italiana della Tech Workers Coalition (un movimento sindacale internazionale dei lavoratori del settore tecnologico nato cinque anni fa) dichiara: <<Twc agisce per unificare le rivendicazioni di lavoratrici e lavoratori di settori molto differenti, si cerca di tendere quel filo rosso che unisce due sistemi: il primo è quello che oso chiamare “filiera tecnologica”, composta sia da quelli che partecipano direttamente alla produzione di tecnologia, come programmatrici, ingeneri, sistemiste, analisti, grafici (…) sia da chi vi partecipa indirettamente, come magazzinieri, personale di cucina, personale di servizio, minatori del silicio, ecc. Il secondo si riferisce invece a tutti quelli che utilizzano ciò che viene generato dal settore ICT, ai lavoratori che si trovano alla fine della catena di produzione, coloro che sono passati da usare uno strumento tecnologico per produrre, o addirittura emanciparsi, e che ora ne sono succubi, come rider, operatrici di call center e tutte le altre figure della gig economy>>. 
Mi sembra una buona notizia, perché a prescindere dal successo (che spero significativo) di questa difficile impresa, credo si tratti di un segnale che va nella giusta direzione. A mano a mano che le vecchie strutture sindacali dimostrano la loro scarsa capacità (per tacere della volontà) di adattarsi alle mutazioni della composizione della forza lavoro per meglio promuoverne gli interessi, occorre infatti inventare qualcosa di radicalmente nuovo (o forse di antico, visto che certe nuove esperienze associative somigliano a quelle dei primordi del movimento operaio, quando le aggregazioni per settore produttivo erano ancora di là da venire e le organizzazioni cooperative e mutualistiche tentavano di aggregare i frammenti dispersi di un proletariato in formazione). Tempo fa si era parlato di “sindacato sociale”. Personalmente credo piuttosto che la logica debba essere quella di costruire, per dirla con Gramsci, una sorta di blocco sociale. Con la differenza che con questo concetto Gramsci alludeva alla costruzione di alleanze di classe sotto l’egemonia del proletariato e del suo partito, mentre oggi, in assenza di un partito e in presenza di una classe profondamente frammentata, credo che costruire il blocco sociale voglia dire – assai prima che ragionare di alleanze fra classi, che mi pare compito di una fase ben più avanzata dell’attuale – in primo luogo ri-costruire l’unità di classe. Progetti come quello della Twc possono rappresentare un primo passo in tale direzione. Senza dimenticare che occorrerà poi saldare spezzoni assai più ampi, dai dipendenti pubblici ai settori industriali meno direttamente coinvolti dall’high tech, all’enorme massa dei servizi “arretrati” (turismo, intrattenimento, ristorazione, servizi di cura alle persone, ecc.). Il tutto tentando nel contempo di rompere le barriere generazionali, etniche, di genere, ecc. che il neoliberalismo sta sfruttando con grande maestria. Ma qui il discorso travalica l’ambito sindacale e rinvia al compito di ricostruire un partito di massa dei lavoratori.  
  

    
 


                  

NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO A mò d’introduzione Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) ...

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