CUBA AL BIVIO
Un libro a più voci sulla crisi cubana
Cuba 11J. Protestas, respuestas, desafíos, curato da Julio Carranza Valdés, Manuel Monereo Pérez e Francisco Lopez Segrera ed editato dalla ELAG (Escuela de Estudios Latinoamericanos y Globales) e dalla rivista argentina Pagina 12 è un libro (uscito nel dicembre scorso) che prende spunto dalle manifestazioni di protesta che si sono svolte in alcuni quartieri dell’Avana e in altre città cubane l’estate scorsa, per analizzare le difficoltà che il Paese socialista caraibico si trova a fronteggiare a causa della crisi pandemica e del concomitante inasprimento del bloqueo imposto dall’amministrazione degli Stati Uniti (voluto da Donald Trump e confermato dal neopresidente democratico Joe Biden). Il libro si articola in 16 capitoletti firmati da altrettanti autori (economisti, sociologi, politologi ed esponenti di altre discipline) ed è dedicato ad uno di essi, il sociologo e storico della Rivoluzione cubana Juan Valdés Paz, venuto a mancare lo scorso ottobre. In appendice il testo di un discorso tenuto dal Presidente Miguel Diaz Canel il 18 luglio 2021 e alcune interviste a intellettuali ed artisti, nonché a giovani studenti che hanno partecipato alle proteste.
I punti di vista espressi dagli autori nei sedici testi raccolti nel volume sono articolati e differenziati, per cui è praticamente impossibile riassumere il contenuto del libro. Ho quindi deciso di non stendere un banale elenco delle varie posizioni, bensì di concentrare l’attenzione sui sei contributi che mi sono parsi più stimolanti, raggruppando i temi che vi sono trattati in tre aree: (1) ricostruzione degli adempimenti del regime nei primi trent’anni di vita e delle cause che, a partire dagli anni Novanta, rischiano di metterli a rischio; e valutazione di quali riforme economiche (2) e politiche (3) potrebbero consentire di superare la crisi.
In diversi interventi (vedi, in particolare, Valdés Paz e Carlos Eduardo Martins) si sottolineano gli eccezionali risultati ottenuti da un piccolo Paese dotato di risorse limitate e sottoposto a uno spietato assedio politico ed economico, che dura ormai da più di mezzo secolo, da parte della superpotenza Usa (i motivi di tanto accanimento sono ben spiegati da Manolo Monereo: in primo luogo, Cuba è un pessimo esempio, la cui mera esistenza testimonia la possibilità di una ribellione vittoriosa all’egemonia nordamericana, e lo spostamento a sinistra di molti governi del subcontinente, che oggi conosce un ulteriore rilancio malgrado i tentativi di reprimerlo, rende tale esempio ancora più intollerabile; inoltre agli Stati Uniti serve urgentemente una vittoria politica che esorcizzi gli inequivocabili segnali del suo lento ma inesorabile declino).
Due manifestanti contro il governo |
Tornando all’elenco dei successi: lo stato cubano, ricorda Valdés Paz, è riuscito ad esaudire gran parte delle domande sociali e delle necessità basiche della grande maggioranza della popolazione. Le sue realizzazioni nei campi sanitario, educativo e della sicurezza sociale, rincara Eduardo Martins, non hanno eguali in nessuno degli altri Paesi del subcontinente. A rendere possibile questo miracolo ha contribuito in larga misura l’interscambio con l’Unione Sovietica e gli altri Paesi del campo socialista, che ha garantito il mantenimento di un certo livello di sviluppo nei primi decenni di vita del regime, benché il flusso migratorio verso gli Stati Uniti di numerosi appartenenti alle classi medie – fra cui molti tecnici qualificati – abbia depauperato la nazione di buona parte del suo capitale di conoscenze. La caduta del blocco socialista dell’Est Europa ha avuto un impatto devastante sul sistema economico cubano, che nei primi anni Novanta ha visto crollare della metà il Pil. Dopo le proteste del 1994, il governo ha reagito varando il Periodo Speciale, consistente in una serie di riforme, fra le quali una limitata apertura all’ingresso di capitale straniero, la creazione di imprese miste e cooperative, la possibilità di attivare forme di autoimpiego (associate in particolare al settore turistico e all’attivazione del regime della doppia moneta). Proprio il boom turistico, unitamente alla esportazione di personale sanitario in vari Paesi in via di sviluppo (resa possibile dei grandi investimenti effettuati nel settore), e agli aiuti del governo venezuelano dopo l’ascesa al potere di Hugo Chavez, avevano consentito di recuperare, benché parzialmente, il terreno perso per il venir meno dell’interscambio con i Paesi dell’Est Europa.
Quali le cause dell’inversione di questa lenta ripresa? Quasi tutti gli interventi concordano nell’indicare tre fattori: l’inasprimento del bloqueo economico e finanziario americano deciso da Trump e ratificato da Biden (che prevede, fra le altre cose, il blocco delle rimesse da parte degli emigrati), l’impatto della pandemia (devastante soprattutto per il crollo del flusso turistico che, come appena ricordato, era stato uno dei motori più importanti della ripresa), infine i ritardi governativi nell’implementazione delle riforme economiche. Tuttavia gli autori si differenziano rispetto al diverso peso attribuito a ciascuno di tali fattori.
Alcuni pongono l’accento soprattutto sull’aggressione esterna, come Luis Pérez Jr., il quale mette in luce come la declassificazione di documenti secretati dall’amministrazione americana abbia ampiamente confermato l’enorme, sistematico e continuativo impegno profuso da quest’ultima per promuovere un cambio di regime a Cuba. Non mancano tuttavia le critiche – anche dure - nei confronti del regime per avere sottovalutato lo scontento di ampi strati popolari e l’urgenza di affrontarlo accelerando le riforme (Julio Carranza attribuisce questi errori di valutazione e questi ritardi anche al venire meno della leadership storica e all’avvento di una nuova generazione di dirigenti dotati di minori capacità, ma soprattutto di minore autorevolezza).
In alcuni casi le critiche si spingono ad accusare ingenerosamente il governo di utilizzare l’argomento del bloqueo come una “scusa” per giustificare le proprie manchevolezze. In generale, tuttavia, ci si limita a mettere in luce come il deterioramento della situazione sociale nei barrios più poveri sia tale da giustificare le proteste: crescente difficoltà di ottenere alimenti e medicinali essenziali, frequenti interruzioni nell’erogazione di luce e acqua; diffusa percezione di una certa inefficienza nella gestione della pandemia (che alcuni addebitano a strategie comunicative sbagliate, più che a reali errori gestionali). Juan Valdés Paz aggiunge che questo scollamento fra stato/partito e società civile è in larga misura addebitabile ai radicali mutamenti che la società cubana ha subito a partire dagli anni Ottanta. La composizione di classe è cambiata a causa dell’ascesa di alcuni strati del settore contadino e di borghesia mercantile urbana, oltre che alla nascita di un settore di lavoro autonomo (cuentapropistas). Processi che hanno alimentato la crescita delle disuguaglianze a danno dei settori poveri e marginali e l’emergenza di una nuova classe media “riflessiva”. Valdés Paz mette inoltre l’accento sul conflitto generazionale: a Cuba convivono oggi sette generazioni, di cui le ultime tre non hanno vissuto la fase epica ed espansiva del processo rivoluzionario, ma solo l’esperienza di una successione di crisi economiche. A proposito di questo fattore generazionale, praticamente tutti insistono sul ruolo dei social network: nel 2019 il 63% della popolazione aveva già la possibilità di accedere a Internet, il che – assieme ai contatti con i milioni di turisti occidentali - ha favorito la penetrazione di idee, modelli culturali e stili di comportamento dall’estero (in primo luogo dagli Stati Uniti). Il tutto con un impatto a dir poco ambivalente perché, se da un lato ciò ha ampliato lo spazio potenziale di partecipazione democratica, dall’altro ha operato come canale di una propaganda sovversiva finanziata dall’esterno del Paese.
Il Presidente Miguel Diaz Canel con Raoul Castro |
Sulle questioni della composizione di classe e dei conflitti generazionali ritornerò in sede di commento conclusivo. Prima è il caso di descrivere quali sono le riforme economiche e politiche che, secondo la maggioranza degli autori, il governo cubano dovrebbe realizzare per salvare la sovranità e l’indipendenza del Paese mantenendo, nel contempo, il carattere socialista del sistema. Julio Carranza affronta di petto il dilemma che Cuba si trova a dover affrontare: da un lato è evidente che, nel momento in cui si imbocca la via della privatizzazione di una parte dell’economia, occorre essere consapevoli del fatto che il fine dell’impresa privata, a prescindere dal suo tasso di “responsabilità sociale”, è e resta il profitto, e che solo perseguendo tale finalità essa può promuovere la crescita e l’occupazione, il che comporta inevitabilmente l’aumento e la concentrazione della proprietà e della ricchezza, in contraddizione con la natura socialista del sistema; dall’altro lato questa crescita, che può essere ottenuta solo diversificando le forme di proprietà e le regole di gestione delle imprese pubbliche, può convivere con il socialismo solo garantendo un’equa distribuzione della ricchezza così creata. Per realizzare la quadratura del cerchio Carranza, al pari di quasi tutti gli altri autori, si inspira esplicitamente al modello cinese e vietnamita, due esperienze che hanno dimostrato nei fatti come ciò che definisce una società socialista non è l’eliminazione del mercato, né l’eliminazione totale della proprietà privata sui mezzi di produzione (via a lungo perseguita dal regime cubano sulle tracce dell’esperienza sovietica) bensì il mantenimento del controllo e dell’egemonia politici sul capitale. Come imboccare questa strada? Promuovendo nuove forme di investimento condivise fra stato e settore privato e cooperativo, limitando gli investimenti privati – soprattutto se esteri - nei settori considerati strategici, offrendo maggiore autonomia alle imprese di stato in un contesto di mercato regolato (adottando cioè forme di pianificazione più flessibili e mantenendo elevati livelli di centralizzazione solo nei settori prioritari), risolvendo infine i problemi di equilibrio finanziario legati alla recente decisione di liquidare il doppio regime monetario. Il tutto dovrebbe consentire di generare e ridistribuire più risorse e aumentare i salari garantendo i livelli più elevati possibili di uguaglianza (quel “possibili” è una chiara allusione all’aumento delle disuguaglianze generato dalle riforme cinesi, sia pure in un contesto di eliminazione della povertà per centinaia di milioni di persone). Ovviamente si ribadisce che va mantenuto l’accesso universale gratuito a salute, educazione e sicurezza sociale e, sempre se possibile, ampliato il welfare attraverso nuove politiche sociali più focalizzate.
Non ho qui lo spazio, né conosco abbastanza la realtà cubana, per giudicare in che misura queste riforme possano essere realizzate. Mi limito ad osservare che il modello sino-vietnamita si riferisce a due Paesi che dispongono di estensioni geografiche e popolazioni immensamente superiori a quelle cubane (oltre che di risorse naturali non meno superiori) né devono fare i conti con il bloqueo da parte di un nemico poderoso e incombente come quello nordamericano. Del resto penso che anche chi le propone non ignori queste differenze, visto che in quasi tutti gli interventi si insite sulla necessità di riconfigurare la collocazione di Cuba nell’attuale contesto geopolitico mondiale, il che – tenuto conto del venir meno dell’aiuto da parte di un governo venezuelano che si dibatte in difficoltà non meno gravi – non può significare altro che auspicare un massiccio apporto finanziario, tecnologico e scientifico da parte della Cina. Al tempo stesso, mi viene da pensare che i ritardi rimproverati alla nuova dirigenza dello stato/partito nel mettere in pratica le riforme approvate negli ultimi anni, che andavano già nelle direzioni appena descritte, possano essere dovuti alle difficoltà obiettive generate dalla situazione nazionale e internazionale più che, o almeno non solo, all’incapacità della classe dirigente.
La contromanifestazione organizzata dal governo |
Con quest’ultima considerazione ho introdotto il tema delle riforme politiche, che vengono invocate con non minore veemenza di quelle economiche e che, a mio avviso, appaiono spesso in contraddizione con l’intento di preservare il carattere socialista del sistema. Qui scatta infatti un coro di richieste di libertà di espressione per le opposizioni, di rispetto dei diritti umani e di ampliamento dei diritti individuali, di critiche all’ideologia “statalista” e di superamento della “dittatura del proletariato” (termine che, per chi conosca la realtà politica cubana, suona francamente eccessivo) aprendo a forme di democrazia partecipativa e rappresentativa. Stento a credere che chi avanza tali proposte, assieme a quelle di riforme in salsa cinese, ignori che gli straordinari successi cinesi in campo economico, scientifico e tecnologico siano stati realizzati non malgrado bensì in ragione del mantenimento di un ferreo controllo politico dello stato/partito sull’economia e sulla società. Se il Partito Comunista Cinese, dopo avere promosso le riforme del 1978, che avevano enormemente ampliato il campo dell’iniziativa privata (anche da parte dei capitali stranieri), favorendo la crescita di una potente neoborghesia e di nuovi strati di classe media ad essa collegati, avesse anche consentito che il potere economico accumulato da tali forze si traducesse in potere politico, se non ne avesse stroncato sul nascere le ambizioni politiche (fomentate e alimentate dall’esterno) come si è fatto negli anni Ottanta e più recentemente a Hong Kong, oggi in Cina il socialismo non esisterebbe più. Affermare, come Carranza, “che il socialismo del futuro sarà democratico o non sarà” significa di fatto affermare, ne sia egli o no consapevole, che non sarà, soprattutto se questa filosofia dovesse imporsi in un sistema debole e assediato come quello cubano. Soprattutto perché questa tesi si fonda, come sembra di poter evincere da alcuni passaggi, sul fatto che il peso egemonico dei dogmi occidentali su democrazia, diritti umani e libertà individuali è ormai irresistibile e si è imposto nelle nuove generazioni che se ne abbeverano attraverso i social.
Una lucida confutazione di questo atteggiamento l’ho purtroppo trovata quasi solo nell’articolo di Manolo Monereo il quale, dopo avere ammesso l’esistenza di fattori di crisi reali, che alimentano un discorso politico diffuso negli strati giovanili e veicolato dai social, scrive: tutti vorrebbero avere una democrazia con diritti sociali sul modello nordeuropeo, ma dovrebbero domandarsi quale democrazia, quali diritti, quale libertà per la maggioranza verrebbero loro consentite, una volta ricaduti sotto il dominio statunitense. Nessun discorso su democrazia e diritti umani può oggi prescindere dal fatto che si tratta in primo luogo di un’arma di guerra propagandistica contro Cina e Russia, finalizzata a conseguire un allineamento totale dell’Occidente (e dei Paesi sotto la sua sfera d’influenza) nella nuova guerra fredda. Accettare che questa democrazia è la democrazia sans phrase è una posizione “che si paga con sconfitte politiche e snaturalizzazioni strategiche e programmatiche”. È pur vero, aggiunge, che convertire in strumento di guerra democrazia e diritti umani è oggi meno facile che in passato, dal momento che la degradazione delle democrazie “reali” è sotto gli occhi di tutti. Per riuscirci, occorre stabilire un controllo totale sugli strumenti di informazione e comunicazione, a partire da quella rete che è decisiva per manipolare gli strati giovanili, ecco perché gli intellettuali sono molto importanti, ed ecco perché la scuola e le università, oltre ai media, sono al centro di questa battaglia politico culturale per l’egemonia.
Parto da quest’ultimo spunto per formulare alcune considerazioni conclusive. Una delle cose che mi ha colpito di più nel libro è il fatto che, mentre si insiste sul fatto che il prezzo più alto della crisi viene pagato dagli strati sociali più poveri, il punto di vista di questi strati è del tutto assente: a essere intervistati nell’appendice, per esempio, sono membri delle élite cubane, intellettuali e studenti delle classi medie, presumibilmente esponenti di quei nuovi strati emergenti di cui parla Valdés Paz. Dagli interventi emergono chiaramente le ragioni di insoddisfazione del “popolo minuto”, ma non è chiaro in che misura quest’ultimo abbia partecipato alle manifestazioni di protesta o alle successive contromanifestazioni organizzate dal governo (che alcuni autori criticano per avere contribuito a “polarizzare” il conflitto). Tornando agli eventi di Piazza Tienanmen, è noto che in quel momento esistevano forti motivi di scontento anche nella classe operaia cinese, la quale tuttavia non si è per nulla accodata alle richieste di fuoriuscita dal socialismo di studenti e intellettuali “dissidenti” (esprimendo semmai nostalgia per l’egualitarismo maoista). Lo stato/partito comunista ha potuto riassorbire quello scontento e riconquistare il consenso delle larghe masse, solo dopo avere stroncato le ambizioni di egemonia politica degli strati neoborghesi, i quali volevano assumere il controllo delle riforme, indirizzandole in senso esplicitamente neoliberista. Non mi azzardo ad affermare che possa essere fatto un discorso analogo per la situazione cubana, tuttavia mi pare il caso di tenere conto dell’esperienza di altri Paesi latinoamericani – penso in particolare a Venezuela, Ecuador e Bolivia – dove l’opposizione ai governi postneoliberisti – che ne ha messo a rischio la tenuta - è venuta appunto dalle classi medie urbane e ha visto la saldatura fra forze esplicitamente antisocialiste e minoranze antistataliste “di sinistra”. Ciò non significa affatto ignorare gli errori, le inefficienze, i ritardi che possono essere stati commessi dal regime cubano, che trovano giustificazione parziale, anche se non assolutoria, nelle difficoltà obiettive che ha dovuto e deve affrontare. Ed è vero, come scrive Manolo Monereo, che le rivoluzioni sono eventi eccezionali che non possono durare in eterno, ma devono mantenersi nel tempo con riforme capaci di generare cambiamenti sostanziali generando un nuovo consenso politico e culturale; ma è altrettanto vero che nell’attuale fase di feroce scontro globale fra imperialismo occidentale e Paesi che cercano di sottrarsi al suo dominio, la capacità di imboccare la via delle riforme senza cedere sui principi ideologici fondamentali è determinante: basta poco per gettare il via il bambino con l’acqua sporca, come hanno dovuto imparare a loro spese i popoli dell’ex Unione Sovietica. Concludo dicendo che, a mio avviso, quanto più una situazione di crisi è grave, tanto più è regola salutare dubitare sulle prese di posizione degli intellettuali, e questo perché, come ricorda Monereo, è in primo luogo fra le loro fila, nelle redazioni e nelle università, che il nemico di classe cerca i canali per diffondere i suoi ideali e il suo immaginario.