Lettori fissi

venerdì 7 gennaio 2022

CUBA AL BIVIO

Un libro a più voci sulla crisi cubana



Cuba 11J. Protestas, respuestas, desafíos, curato da Julio Carranza Valdés, Manuel Monereo Pérez e Francisco Lopez Segrera ed editato dalla ELAG (Escuela de Estudios Latinoamericanos y Globales) e dalla rivista argentina Pagina 12 è un libro (uscito nel dicembre scorso) che prende spunto dalle manifestazioni di protesta che si sono svolte in alcuni quartieri dell’Avana e in altre città cubane l’estate scorsa, per analizzare le difficoltà che il Paese socialista caraibico si trova a fronteggiare a causa della crisi pandemica e del concomitante inasprimento del bloqueo imposto dall’amministrazione degli Stati Uniti (voluto da Donald Trump e confermato dal neopresidente democratico Joe Biden). Il libro si articola in 16 capitoletti firmati da altrettanti autori (economisti, sociologi, politologi ed esponenti di altre discipline) ed è dedicato ad uno di essi, il sociologo e storico della Rivoluzione cubana Juan Valdés Paz, venuto a mancare lo scorso ottobre. In appendice il testo di un discorso tenuto dal Presidente Miguel Diaz Canel il 18 luglio 2021 e alcune interviste a intellettuali ed artisti, nonché a giovani studenti che hanno partecipato alle proteste. 

I punti di vista espressi dagli autori nei sedici testi raccolti nel volume sono articolati e differenziati, per cui è praticamente impossibile riassumere il contenuto del libro. Ho quindi deciso di non stendere un banale elenco delle varie posizioni, bensì di concentrare l’attenzione sui sei contributi che mi sono parsi più stimolanti, raggruppando i temi che vi sono trattati in tre aree: (1) ricostruzione degli adempimenti del regime nei primi trent’anni di vita e delle cause che, a partire dagli anni Novanta, rischiano di metterli a rischio; e valutazione di quali riforme economiche (2) e  politiche (3) potrebbero consentire di superare la crisi.  

In diversi interventi (vedi, in particolare, Valdés Paz e Carlos Eduardo Martins) si sottolineano gli eccezionali risultati ottenuti da un piccolo Paese dotato di risorse limitate e sottoposto a uno spietato assedio politico ed economico, che dura ormai da più di mezzo secolo, da parte della superpotenza Usa (i motivi di tanto accanimento sono ben spiegati da Manolo Monereo: in primo luogo, Cuba è un pessimo esempio, la cui mera esistenza testimonia la possibilità di una ribellione vittoriosa all’egemonia nordamericana, e lo spostamento a sinistra di molti governi del subcontinente, che oggi conosce un ulteriore rilancio malgrado i tentativi di reprimerlo, rende tale esempio ancora più intollerabile; inoltre agli Stati Uniti serve urgentemente una vittoria politica che esorcizzi gli inequivocabili segnali del suo lento ma inesorabile declino). 


Due manifestanti contro il governo



Tornando all’elenco dei successi: lo stato cubano, ricorda Valdés Paz, è riuscito ad esaudire gran parte delle domande sociali e delle necessità basiche della grande maggioranza della popolazione. Le sue realizzazioni nei campi sanitario, educativo e della sicurezza sociale, rincara Eduardo Martins, non  hanno eguali in nessuno degli altri Paesi del subcontinente. A rendere possibile questo miracolo ha contribuito in larga misura l’interscambio con l’Unione Sovietica e gli altri Paesi del campo socialista, che ha garantito il mantenimento di un certo livello di sviluppo nei primi decenni di vita del regime, benché il flusso migratorio verso gli Stati Uniti di numerosi appartenenti alle classi medie – fra cui molti tecnici qualificati – abbia depauperato la nazione di buona parte del suo capitale di conoscenze. La caduta del blocco socialista dell’Est Europa ha avuto un impatto devastante sul sistema economico cubano, che nei primi anni Novanta ha visto crollare della metà il Pil. Dopo le proteste del 1994, il governo ha reagito varando il Periodo Speciale, consistente in una serie di riforme, fra le quali una limitata apertura all’ingresso di capitale straniero, la creazione di imprese miste e cooperative, la possibilità di attivare forme di autoimpiego (associate in particolare al settore turistico e all’attivazione del regime della doppia moneta). Proprio il boom turistico, unitamente alla esportazione di personale sanitario in vari Paesi in via di sviluppo (resa possibile dei grandi investimenti effettuati nel settore), e agli aiuti del governo venezuelano dopo l’ascesa al potere di Hugo Chavez, avevano consentito di recuperare, benché parzialmente, il terreno perso per il venir meno dell’interscambio con i Paesi dell’Est Europa.  

Quali le cause dell’inversione di questa lenta ripresa? Quasi tutti gli interventi concordano nell’indicare tre fattori: l’inasprimento del bloqueo economico e finanziario americano deciso da Trump e ratificato da Biden (che prevede, fra le altre cose, il blocco delle rimesse da parte degli emigrati), l’impatto della pandemia (devastante soprattutto per il crollo del flusso turistico che, come appena ricordato, era stato uno dei motori più importanti della ripresa), infine i ritardi governativi nell’implementazione delle riforme economiche. Tuttavia gli autori si differenziano rispetto al diverso peso attribuito a ciascuno di tali fattori.  

Alcuni pongono l’accento soprattutto sull’aggressione esterna, come Luis Pérez Jr., il quale mette in luce come la declassificazione di documenti secretati dall’amministrazione americana abbia ampiamente confermato l’enorme, sistematico e continuativo impegno profuso da quest’ultima per promuovere un cambio di regime a Cuba. Non mancano tuttavia le critiche – anche dure - nei confronti del regime per avere sottovalutato lo scontento di ampi strati popolari e l’urgenza di affrontarlo accelerando le riforme  (Julio Carranza attribuisce questi errori di valutazione e questi ritardi anche al venire meno della leadership storica e all’avvento di una nuova generazione di dirigenti dotati di minori capacità, ma soprattutto di minore autorevolezza). 

In alcuni casi le critiche si spingono ad accusare ingenerosamente il governo di utilizzare l’argomento del bloqueo come una “scusa” per giustificare le proprie manchevolezze. In generale, tuttavia, ci si limita a mettere in luce come il deterioramento della situazione sociale nei barrios più poveri sia tale da giustificare le proteste: crescente difficoltà di ottenere alimenti e medicinali essenziali, frequenti interruzioni nell’erogazione di luce e acqua; diffusa percezione di una certa inefficienza nella gestione della pandemia (che alcuni addebitano a strategie comunicative sbagliate, più che a reali errori gestionali). Juan Valdés Paz aggiunge che questo scollamento fra stato/partito e società civile è in larga misura addebitabile ai radicali mutamenti che la società cubana ha subito a partire dagli anni Ottanta. La composizione di classe è cambiata a causa dell’ascesa di alcuni strati del settore contadino e di borghesia mercantile urbana, oltre che alla nascita di un settore di lavoro autonomo (cuentapropistas). Processi che hanno alimentato la crescita delle disuguaglianze a danno dei settori poveri e marginali e l’emergenza di una nuova classe media “riflessiva”. Valdés Paz mette inoltre l’accento sul conflitto generazionale: a Cuba convivono oggi sette generazioni, di cui le ultime tre non hanno vissuto la fase epica ed espansiva del processo rivoluzionario, ma solo l’esperienza di una successione di crisi economiche. A proposito di questo fattore generazionale, praticamente tutti insistono sul ruolo dei social network: nel 2019 il 63% della popolazione aveva già la possibilità di accedere a Internet, il che – assieme ai contatti con  i milioni di turisti occidentali - ha favorito la penetrazione di idee, modelli culturali e stili di comportamento dall’estero (in primo luogo dagli Stati Uniti). Il tutto con un impatto a dir poco ambivalente perché, se da un lato ciò ha ampliato lo spazio potenziale di partecipazione democratica, dall’altro ha operato come canale di una propaganda sovversiva finanziata dall’esterno del Paese.    


Il Presidente Miguel Diaz Canel con Raoul Castro



Sulle questioni della composizione di classe e dei conflitti generazionali ritornerò in sede di commento conclusivo. Prima è il caso di descrivere quali sono le riforme economiche e politiche che, secondo la maggioranza degli autori, il governo cubano dovrebbe realizzare per salvare la sovranità e l’indipendenza del Paese mantenendo, nel contempo, il carattere socialista del sistema. Julio Carranza affronta di petto il dilemma che Cuba si trova a dover affrontare: da un lato è evidente che, nel momento in cui si imbocca la via della privatizzazione di una parte dell’economia, occorre essere consapevoli del fatto che il fine dell’impresa privata, a prescindere dal suo tasso di “responsabilità sociale”, è e resta il profitto, e che solo perseguendo tale finalità essa può promuovere la crescita e l’occupazione, il che comporta inevitabilmente l’aumento e la concentrazione della proprietà e della ricchezza, in contraddizione con la natura socialista del sistema; dall’altro lato questa crescita, che può essere ottenuta solo diversificando le forme di proprietà e le regole di gestione delle imprese pubbliche, può convivere con il socialismo solo garantendo un’equa distribuzione della ricchezza così creata. Per realizzare la quadratura del cerchio Carranza, al pari di quasi tutti gli altri autori, si inspira esplicitamente al modello cinese e vietnamita, due esperienze che hanno dimostrato nei fatti come ciò che definisce una società socialista non è l’eliminazione del mercato, né l’eliminazione totale della proprietà privata sui mezzi di produzione (via a lungo perseguita dal regime cubano sulle tracce dell’esperienza sovietica) bensì il mantenimento del controllo e dell’egemonia politici sul capitale. Come imboccare questa strada? Promuovendo nuove forme di investimento condivise fra stato e settore privato e cooperativo, limitando gli investimenti privati – soprattutto se esteri - nei settori considerati strategici, offrendo maggiore autonomia alle imprese di stato in un contesto di mercato regolato (adottando cioè forme di pianificazione più flessibili e mantenendo elevati livelli di centralizzazione solo nei settori prioritari), risolvendo infine i problemi di equilibrio finanziario legati alla recente decisione di liquidare il doppio regime monetario. Il tutto dovrebbe consentire di generare e ridistribuire più risorse e aumentare i salari garantendo i livelli più elevati possibili di uguaglianza (quel “possibili” è una chiara allusione all’aumento delle disuguaglianze generato dalle riforme cinesi, sia pure in un contesto di eliminazione della povertà per centinaia di milioni di persone). Ovviamente si ribadisce che va mantenuto l’accesso universale gratuito  a salute, educazione e sicurezza sociale e, sempre se possibile, ampliato il welfare attraverso nuove politiche sociali più focalizzate. 

Non ho qui lo spazio, né conosco abbastanza la realtà cubana, per giudicare in che misura queste riforme possano essere realizzate. Mi limito ad osservare che il modello sino-vietnamita si riferisce a due Paesi che dispongono di estensioni geografiche e popolazioni immensamente superiori a quelle cubane (oltre che di risorse naturali non meno superiori) né devono fare i conti con il bloqueo da parte di un nemico poderoso e incombente come quello nordamericano. Del resto penso che anche chi le propone non ignori queste differenze, visto che in quasi tutti gli interventi si insite sulla necessità di riconfigurare la collocazione di Cuba nell’attuale contesto geopolitico mondiale, il che – tenuto conto del venir meno dell’aiuto da parte di un governo venezuelano che si dibatte in difficoltà non meno gravi – non può significare altro che auspicare un massiccio apporto finanziario, tecnologico e scientifico da parte della Cina. Al tempo stesso, mi viene da pensare che i ritardi rimproverati alla nuova dirigenza dello stato/partito nel mettere in pratica le riforme approvate negli ultimi anni, che andavano già nelle direzioni appena descritte, possano essere dovuti alle difficoltà obiettive generate dalla situazione nazionale e internazionale più che, o almeno non solo, all’incapacità della classe dirigente. 


La contromanifestazione organizzata dal governo



Con quest’ultima considerazione ho introdotto il tema delle riforme politiche, che vengono invocate con non minore veemenza di quelle economiche e che, a mio avviso, appaiono spesso in contraddizione con l’intento di preservare il carattere socialista del sistema. Qui scatta infatti un coro di richieste di libertà di espressione per le opposizioni, di rispetto dei diritti umani e di ampliamento dei diritti individuali, di critiche all’ideologia “statalista” e di superamento della “dittatura del proletariato” (termine che, per chi conosca la realtà politica cubana, suona francamente eccessivo) aprendo a forme di democrazia partecipativa e rappresentativa. Stento a credere che chi avanza tali proposte, assieme a quelle di riforme in salsa cinese, ignori che gli straordinari successi cinesi in campo economico, scientifico e tecnologico siano stati realizzati non malgrado bensì in ragione del mantenimento di un ferreo controllo politico dello stato/partito sull’economia e sulla società. Se il Partito Comunista Cinese, dopo avere promosso le riforme del 1978, che avevano enormemente ampliato il campo dell’iniziativa privata (anche da parte dei capitali stranieri), favorendo la crescita di una potente neoborghesia e di nuovi strati di classe media ad essa collegati, avesse anche consentito che il potere economico accumulato da tali forze si traducesse in potere politico, se non ne avesse stroncato sul nascere le ambizioni politiche (fomentate e alimentate dall’esterno) come si è fatto negli anni Ottanta e più recentemente a Hong Kong, oggi in Cina il socialismo non  esisterebbe più. Affermare, come Carranza, “che il socialismo del futuro sarà democratico o non sarà” significa di fatto affermare, ne sia egli o no consapevole, che non sarà, soprattutto se questa filosofia dovesse imporsi in un sistema debole e assediato come quello cubano. Soprattutto perché questa tesi si fonda, come sembra di poter evincere da alcuni passaggi, sul fatto che il peso egemonico dei dogmi occidentali su democrazia, diritti umani e libertà individuali è ormai irresistibile e si è imposto nelle nuove generazioni che se ne abbeverano attraverso i social. 

Una lucida confutazione di questo atteggiamento l’ho purtroppo trovata quasi solo nell’articolo di Manolo Monereo il quale, dopo avere ammesso l’esistenza di fattori di crisi reali, che alimentano un  discorso politico diffuso negli strati giovanili e veicolato dai social, scrive: tutti vorrebbero avere una democrazia con diritti sociali sul modello nordeuropeo, ma dovrebbero domandarsi quale democrazia, quali diritti, quale libertà per la maggioranza verrebbero loro consentite, una volta ricaduti sotto il dominio statunitense. Nessun discorso su democrazia e diritti umani può oggi prescindere dal fatto che si tratta in primo luogo di un’arma di guerra propagandistica contro Cina e Russia, finalizzata a conseguire un allineamento totale dell’Occidente (e dei Paesi sotto la sua sfera d’influenza) nella nuova guerra fredda. Accettare che questa democrazia è la democrazia sans phrase è una posizione “che si paga con sconfitte politiche e snaturalizzazioni strategiche e programmatiche”. È pur vero, aggiunge, che convertire in strumento di guerra democrazia e diritti umani è oggi meno facile che in passato, dal momento che la degradazione delle democrazie “reali” è sotto gli occhi di tutti. Per riuscirci, occorre stabilire un controllo totale sugli strumenti di informazione e comunicazione, a partire da quella rete che è decisiva per manipolare gli strati giovanili, ecco perché gli intellettuali sono molto importanti, ed ecco perché la scuola e le università, oltre ai media, sono al centro di questa battaglia politico culturale per l’egemonia. 

Parto da quest’ultimo spunto per formulare alcune considerazioni conclusive. Una delle cose che mi ha colpito di più nel libro è il fatto che, mentre si insiste sul fatto che il prezzo più alto della crisi viene pagato dagli strati sociali più poveri, il punto di vista di questi strati è del tutto assente: a essere intervistati nell’appendice, per esempio, sono membri delle élite cubane, intellettuali e studenti delle classi medie, presumibilmente esponenti  di quei nuovi strati emergenti di cui parla Valdés Paz. Dagli interventi emergono chiaramente le ragioni di insoddisfazione del “popolo minuto”, ma non è chiaro in che misura quest’ultimo abbia partecipato alle manifestazioni di protesta o alle successive contromanifestazioni organizzate dal governo (che alcuni autori criticano per avere contribuito a “polarizzare” il conflitto). Tornando agli eventi di Piazza Tienanmen, è noto che in quel momento esistevano forti motivi di scontento anche nella classe operaia cinese, la quale tuttavia non si è per nulla accodata alle richieste di fuoriuscita dal socialismo di studenti e intellettuali “dissidenti” (esprimendo semmai nostalgia per l’egualitarismo maoista). Lo stato/partito comunista ha potuto riassorbire quello scontento e riconquistare il consenso delle larghe masse, solo dopo avere stroncato le ambizioni di egemonia politica degli strati neoborghesi, i quali volevano assumere il controllo delle riforme, indirizzandole in senso esplicitamente neoliberista. Non mi azzardo ad affermare che possa essere fatto un discorso analogo per la situazione cubana, tuttavia mi pare il caso di tenere conto dell’esperienza di altri Paesi latinoamericani – penso in particolare a Venezuela, Ecuador e Bolivia – dove l’opposizione ai governi postneoliberisti – che ne ha messo a rischio la tenuta - è venuta appunto dalle classi medie urbane e ha visto la saldatura fra forze esplicitamente antisocialiste e minoranze antistataliste “di sinistra”. Ciò non significa affatto ignorare gli errori, le inefficienze, i ritardi che possono essere stati commessi dal regime cubano, che trovano giustificazione parziale, anche se non assolutoria, nelle difficoltà obiettive che ha dovuto e deve affrontare. Ed è vero, come scrive Manolo Monereo, che le rivoluzioni sono eventi eccezionali che non possono durare in eterno, ma devono mantenersi nel tempo con riforme capaci di generare cambiamenti sostanziali generando un nuovo consenso politico e culturale; ma è altrettanto vero che nell’attuale fase di feroce scontro globale fra imperialismo occidentale e Paesi che cercano di sottrarsi al suo dominio, la capacità di imboccare la via delle riforme senza cedere sui principi ideologici fondamentali è determinante: basta poco per gettare il via il bambino con l’acqua sporca, come hanno dovuto imparare a loro spese i popoli dell’ex Unione Sovietica. Concludo dicendo che, a mio avviso, quanto più una situazione di crisi è grave, tanto più è regola salutare dubitare sulle prese di posizione degli intellettuali, e questo perché, come ricorda Monereo, è in primo luogo fra le loro fila, nelle redazioni e nelle università, che il nemico di classe cerca i canali per diffondere i suoi ideali e il suo immaginario.  

      


        

sabato 25 dicembre 2021

COMPOSIZIONE SOCIOECONOMICA E COMPOSIZIONE SOCIOPOLITICA 
QUESTIONI DI METODO

di Carlo Formenti


Rilancio su queste pagine l'articolo che ho scritto per gli amici della rivista "Cumpanis", con il quale ho inaugurato la discussione lanciata sulla stessa testata da Alessandro Testa con un intervento https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/21760-alessandro-testa-l-essenza-per-le-fondamenta.html   sul tema della composizione di classe nel tardocapitalismo


Provo a rilanciare gli  stimoli che ci ha offerto Alessandro Testa con il suo articolo sul tema  della composizione di classe.  In questo intervento mi concentrerò soprattutto su alcune questioni di metodo che, a mio avviso, sono  imprescindibili per dire qualcosa di sensato sull’argomento in questione. Testa parte dalla constatazione di un dato di fatto: l’evoluzione del modo di produzione capitalistico dai tempi di Marx a oggi è stata tale che il modello “classico”, fondato sull’opposizione bipolare capitale-lavoro non è più una chiave interpretativa sufficiente: il secondo fattore del binomio ha subito tali e tante trasformazioni (il che vale anche per il primo fattore, ma identificare le classi dominanti resta relativamente più facile) che solo un’accurata indagine scientifica può aiutarci a darne un’adeguata rappresentazione “oggettiva” (il significato delle virgolette si capirà più avanti). Dopodiché aggiunge che, a rendere ulteriormente difficile l’impresa, contribuisce il fatto che l’apparato scientifico che potrebbe realizzarla – fondi, ricercatori, istituti universitari, ecc. – è totalmente controllato da élite economiche, politiche e accademiche che non hanno alcun interesse a promuoverla (anzi hanno interesse a impedire che ciò avvenga, o a indirizzare la ricerca verso falsi obiettivi). Posto che l’osservazione è corretta, mi viene da osservare che, per quanto utile, il contributo di analisi empirica che ci potrebbe arrivare dalla ricerca accademica, qualora potessimo disporne, potrebbe integrare ma non rimpiazzare l’analisi teorica di una forza politica anticapitalista di orientamento marxista-leninista. 

Sono convinto che uno degli errori più gravi del marxismo dogmatico e accademico sia stato quello di attribuire alle scienze sociali borghesi pari dignità rispetto alle scienze naturali, e ciò in particolare in campo economico, al punto che molti intellettuali marxisti – o sedicenti tali – hanno finito per convertirsi in altrettanti esperti di economia politica, dimenticando che l’intento di Marx non era fondare una nuova economia politica, bensì gettare le fondamenta di una critica dell’economia politica, scoprire, cioè, non le leggi dell’economia capitalistica, bensì le “leggi” della lotta di classe. Le virgolette sono d’obbligo per i motivi chiaritici dal più grande filosofo marxista del Novecento, Gyorgy Lukács: per Marx, scrive Lukács, l’unica vera scienza (s’intende sociale) è la storia, le cui “leggi” non possono essere indagate in astratto, a priori, ma solo post festum, a posteriori, ricostruendo - attraverso un’analisi concreta della situazione concreta - le catene causali che hanno indirizzato un determinato processo storico. Ecco perché penso che il vero ostacolo che oggi rende arduo realizzare un’analisi soddisfacente della composizione di classe non è tanto lo stato in cui versano le scienze sociali accademiche, quanto l’assenza di un partito di classe forte, numeroso e sufficientemente ramificato in tutte le parti della società per poter condurre in prima persona le indispensabili inchieste sul campo. 

Quanto appena affermato non può né deve impedire di abbozzare alcune prime riflessioni di metodo da cui partire per dissodare il terreno in vista di successivi approfondimenti. È quanto ha fatto Alessandro Testa attraverso una sorta di percorso circolare che parte dalla - e ritorna alla - affermazione di principio secondo cui appartiene alla classe proletaria: 1) chi vive esclusivamente della vendita della propria forza lavoro, 2) chi, oltre a vivere della vendita della propria forza lavoro, non è in grado di determinarne il prezzo (le star dello sport e dello spettacolo, per esempio, vendono la loro forza lavoro ma sono in grado – chi più chi meno - di determinarne il prezzo). Vediamo le stazioni attraversate dal percorso circolare di cui sopra. 

In primo luogo, Testa si chiede come classificare quei soggetti che, oltre a percepire un reddito da lavoro più o meno corrispondente al costo della propria riproduzione, godono di una piccola rendita aggiuntiva (come l’affitto di un appartamento ereditato o acquistato con i propri risparmi, o un certo numero di buoni del tesoro). La sua risposta è che ciò non è sufficiente (ovviamente a condizione che la rendita in questione non superi una certa dimensione) per negare a tali soggetti lo status di proletari. Sono d’accordo, ma con una precisazione. Thomas Piketty, nelle sue analisi che dividono la popolazione per percentili di reddito e non per classi sociali, ci dice che negli Stati Uniti e in Europa, a parte l’esigua minoranza di super ricchi che concentrano nelle proprie mani gran parte delle risorse, esiste una quota fra il 30% e il 40% di cittadini che riescono a intercettare rendite sufficienti a garantire un livello di vita medio alto, decisamente superiore a quello che potrebbero permettersi con il solo reddito da lavoro. Di per sé questo dato non inficia la tesi di Testa: ci dice semplicemente che i rentier che possiamo definire come appartenenti alle classi medio alte sono – almeno qui in Occidente - di numero pari, se non superiore, a quello dei proletari che usufruiscono di piccole rendite. Ma la questione non è meramente quantitativa: infatti occorre tenere conto anche del peso psico-antropologico che anche minime quote di proprietà immobiliare e mobiliare giocano nell’inibire l’autopercezione di sé come appartenenti alla classe proletaria (più volte è stata richiamata l’attenzione sul ruolo che l’alta percentuale di italiani che vivono in un’abitazione di proprietà ha giocato nello smussare il potenziale combattivo delle classi subalterne del nostro Paese). Cominciamo così a capire perché ho messo quelle virgolette sull’appartenenza al proletariato come dato “oggettivo”. Ma andiamo avanti.  

Sul secondo criterio introdotto da Testa non mi dilungo perché mi pare incontestabile: la proprietà o meno dei propri mezzi di produzione vale come elemento discriminante solo ove si parli di mezzi di produzione di massa. Nessuno può pensare che lo status sociale del rider è definito dal fatto che la bici o il motorino con cui va in giro sono suoi (quando lo sono, perché non sempre è così). Analoghe considerazioni valgono per altre due questioni affrontate da Testa: il lavoro autonomo non è di per sé un criterio significativo, dal momento che la quota di lavoro fintamente autonomo (vedi gli autisti di Uber e quasi tutte le attività classificabili nell’ambito della cosiddetta gig economy) è in costante crescita in quanto consente alle imprese di sfruttare forza lavoro a cui non deve versare contributi, retribuire i giorni di malattia e ferie, pagare liquidazioni ecc. Idem per quei piccoli o piccolissimi (come gli ambulanti) esercenti che, in molti casi, hanno avviato tali attività dopo essere stati espulsi dal mercato del lavoro dipendente.       

Più intrigante la questione dei quadri intermedi d’impresa, in quanto si tratta di un altro caso in cui identità di classe “oggettiva” e percezione soggettiva della stessa possono divergere (e nella maggioranza dei casi è così). Di questo ho discusso in vari lavori nei quali ho polemizzato con le tesi post operaiste in merito al presunto ruolo di avanguardia dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”. Com’è noto, gli autori in questione, sostengono che la rivoluzione digitale ha creato un nuovo strato di lavoratori che presentano una elevata propensione alla cooperazione reciproca e all’autonomia nei confronti del comando capitalistico. Questa “classe hacker” disporrebbe di un habitus mentale, oltre che delle competenze e delle capacità necessarie ad assumere il controllo diretto della produzione sociale, appropriandosi del general intellect ed emancipandosi in tal modo dal potere del capitale. Se questi sogni hanno avuto una qualche giustificazione nella fase arrembante delle startup californiane (cioè negli anni Novanta), la crisi dei primi anni Duemila e il conseguente rapido processo di concentrazione monopolistica delle Internet Company li hanno impietosamente spazzati via. Oggi la stragrande maggioranza dei lavoratori di tale settore (programmatori, sviluppatori, web designer, ecc.) sia che operino come autonomi (dispersi in catene di subfornitura caratterizzate da alti tassi di sfruttamento e di feroce competizione fra poveri) sia come dipendenti dei colossi del settore high tech, sono a tutti gli effetti operai come gli altri (cioè non dotati di alti livelli di comprensione del processo produttivo totale in cui operano come piccoli ingranaggi individuali). Viceversa le minoranze di quadri inseriti in grandi imprese come Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft ecc. sono a tutti gli effetti funzionari del capitale il cui ruolo fondamentale consiste – similmente a quello degli ingegneri analisti dei sistemi nell’era taylorista – nello sviluppare modelli di governo, controllo e comando non solo sugli altri dipendenti d’impresa, ma anche sulle reti di forza lavoro fintamente autonoma (vedi gli algoritmi che controllano il lavoro dei rider), dei consumatori e più in generale dell’insieme dei rapporti sociali. Oggettivamente sono proletari, soggettivamente no. 

Testa inserisce poi un altro elemento di riflessione che consiste nel mettere l’appartenenza di classe in relazione alla posizione occupata all’interno del processo di creazione di plusvalore. Tema che implica altre questioni, come le distinzioni fra lavoro produttivo e improduttivo, manuale e intellettuale, materiale e immateriale, servizi e produzione, creazione e realizzazione del valore, ecc. Questioni intricatissime già ai tempi di Marx (basti pensare al Capitolo VI inedito e al Secondo e Terzo libro del Capitale) ma che appaiono oggi ancora più complicate dall’elevatissimo livello di integrazione raggiunto fra i vari spezzoni delle catene del valore (ricerca e sviluppo, progettazione, produzione materiale e immateriale, distribuzione e commercializzazione, logistica ecc.) reso possibile dalle nuove tecnologie, per tacere dell’impatto dei processi di finanziarizzazione su tutto ciò. Non avendo le competenze per addentrarmi in una discussione in merito alla possibilità di attualizzare la legge del valore lavoro nell’attuale contesto socioeconomico, mi limito ad offrire alcuni spunti.

Parto dal binomio lavoro produttivo-improduttivo. Come notavo già decenni fa , in campo marxista la questione è inquinata da alcune rozze impostazioni (che Marx avrebbe definito materialismo volgare) fondate su una sorta di pregiudizio “morale”, in ragione del quale viene considerato produttivo esclusivamente il lavoro manuale. Nel Capitolo VI inedito Marx sgombra il campo da queste idee: è produttivo il lavoro che genera plusvalore per il capitalista che lo sfrutta, senza alcuna distinzione relativa al tipo di attività svolta. Di più: a mano a mano che la produzione diviene sempre più complessa e integrata, che cresce il livello di cooperazione fra tutte le operazioni di una fabbrica sempre più socializzata, l’attributo di lavoro produttivo va riconosciuto al lavoratore collettivo che la mette in funzione. Fra le altre cose, ciò rende difficile tracciare un netto confine tra produzione e servizi, come nota Testa: “progettare un prodotto, progettare un processo, mettere fisicamente a disposizione un prodotto attraverso una rete logistica globale e fortemente automatizzata sono ormai divenuti elementi strutturali della creazione di valore, elementi senza i quali produrre un telefonino o persino un bullone diviene totalmente inutile ed insensato”. 


Attenzione: quanto appena detto non impedisce che, in una società socialista, il criterio possa mutare radicalmente, nella misura in cui la produttività del lavoro è qui commisurata alla sua utilità sociale, per cui attività come il marketing, la pubblicità, ecc. che per il capitalista sono produttive, divengono improduttive in un mondo socialista. Anche fra lavoratori dei settori pubblici e privati è difficile tracciare nette distinzioni: mentre è interesse dell’ideologia neo liberale accusare in blocco di improduttività il lavoro del settore pubblico (per giustificare i tagli alla spesa e ridurre lo spazio di intervento dello Stato in economia), è chiaro che molti lavori pubblici (non solo nel settore delle infrastrutture) sono indispensabili per il funzionamento della macchina economica, e che anche i criteri di queste distinzioni varieranno nella transizione dal capitalismo al socialismo. Sorvolo invece sul demenziale tentativo di certi teorici post operaisti di invertire la gerarchia fra lavoro materiale e immateriale, rovesciando specularmente il punto di vista materialista volgare cui accennavo poco fa – tentativo che ho criticato in precedenti lavori ai quali rinvio. 


Per tirare le fila di questa prima parte di ragionamento, richiamo brevemente un altro aspetto di cui mi sono occupato negli ultimi anni. Marx aveva intuito già ai suoi tempi che il capitale è in grado di sfruttare vari tipi di “lavoro del consumatore”. Questo fattore si è oggi dilatato a dismisura: basti pensare al fatto che tutti noi, per il solo fatto di connetterci ai social media, produciamo sistematicamente una enorme massa di dati e informazioni (non solo sotto forma di testi, immagini ecc. ma anche e soprattutto di dati sensibili sui nostri comportamenti, fedi politiche e religiose, tendenze sessuali, ecc.) che sono la materia prima, o meglio i semilavorati, del modello di business delle Internet Company che estraggono valore da questo materiale di cui si appropriano gratuitamente. Mi è stato obiettato che queste attività in quanto “libere” volontarie, non finalizzate a generare un reddito e fonte di gratificazione per coloro che le compiono non possono essere classificate come economiche. In un libro ironicamente intitolato “Felici e sfruttati” ho replicato a tale osservazione scrivendo che questo loro carattere “ludico” non inficia l’esistenza di una relazione di appropriazione gratuita di risorse che generano valore economico per chi le sfrutta (per inciso: la quantità di lavoro che non solo le piattaforme digitali, ma anche banche, compagnie aeree, portali commerciali ecc. delegano ai propri utenti è in continua crescita, consentendo alle aziende di alleggerirsi di numerose operazioni che, altrimenti, dovrebbero essere svolte da forza lavoro retribuita). È tuttavia chiaro che ciò non basta per definire come appartenenti al proletariato tutti quelli che in questo modo contribuiscono ad alimentare la catena del valore. 


Non resta dunque che attenersi al criterio generalissimo evocato in apertura: appartiene alla classe proletaria chi vive della vendita della propria forza lavoro e non è in grado di determinarne il prezzo? Sì, ma avendo ben presente che, non appena si scende al di sotto di questo livello di astrazione e ci si addentra nei meandri del mondo della produzione tipico dell’attuale fase di sviluppo capitalistico, l’impresa di definire chi appartiene “oggettivamente” alla classe si fa progressivamente più complicato. Ma soprattutto: definire l’insieme di coloro che appartengono a quella che Marx definisce “classe in sé”, non equivale a definire l’insieme di coloro che costituiscono la “classe per sé”, cioè l’insieme dei soggetti che una forza politica rivoluzionaria dovrebbe di volta in volta assumere come propri interlocutori privilegiati. Questo compito, come cercherò di argomentare nella seconda parte di questo intervento, attiene a un’analisi di tipo sociopolitico piuttosto che socioeconomico, cioè a un’analisi che antepone il punto di vista storico, l’analisi concreta della situazione concreta – il metodo di Gramsci, Lenin e Mao – alla contemplazione del cielo dell’astrazione. 


Un primo passo da fare, per imboccare la via appena indicata, consiste nell’introdurre nel nostro ragionamento la dimensione spaziale, geografica e geopolitica del conflitto di classe. Già dopo la rivoluzione del 1917 non era più possibile essere marxisti senza essere leninisti, oggi ciò è ancora più evidente. È grazie all’analisi leninista dell’imperialismo che l’elemento geopolitico ha fatto il suo prepotente ingresso nella teoria marxista. Marx ed Engels avevano assunto a modello il capitalismo ottocentesco inglese, e pensavano che tale modello si sarebbe gradualmente esteso al resto dell’Europa e, se non fosse stato rovesciato da una rivoluzione proletaria, al mondo intero. Tipico, in tal senso, il giudizio sul ruolo progressivo dell’imperialismo britannico in India - giudizio giustificato dal fatto che, ad onta dei suoi mostruosi costi umani, la colonizzazione avrebbe accelerato la trasformazione dell’India da nazione semifeudale a moderna nazione borghese, ingrossando le fila del proletariato mondiale. Viceversa Lenin, avendo potuto osservare la transizione del capitalismo alla sua fase monopolistica, e il ruolo strategico che il colonialismo veniva assumendo nel processo di riproduzione allargata del capitale monopolistico metropolitano, fu in grado di cogliere la contraddizione per cui l’espansione metropolitana non solo non avrebbe innescato lo sviluppo capitalistico delle periferie, ma le avrebbe mantenute in uno stato di arretratezza economica, sociale e culturale, funzionale al dominio del centro. Di qui la geniale intuizione in merito alla natura rivoluzionaria della lotta di liberazione nazionale dei popoli coloniali, e alla necessità di concepirla come parte integrante della lotta di classe contro il capitalismo.


Questa consapevolezza è divenuta patrimonio teorico-politico del regime sovietico - inspirandone la politica internazionale - perlomeno fino agli anni Cinquanta del Novecento. Un patrimonio che è stato ulteriormente arricchito da quella generazione di teorici marxisti che, nel secondo dopoguerra, hanno dato vita alla cosiddetta “scuola della dipendenza”. Viceversa, dopo il completamento del processo di decolonizzazione negli anni Settanta, la quasi totalità del movimento marxista occidentale - come denunciato da Domenico Losurdo nei suoi lavori - ha dato per scontato che ormai la questione nazionale avesse perso la caratteristica di parte integrante della lotta di classe a livello mondiale per cui, distolta l’attenzione dallo scontro fra Paesi del Nord e del Sud del mondo, si è regrediti su una posizione che vedeva come unico scenario della lotta di classe lo scontro fra borghesia e proletariato all’interno di ogni singolo Paese (oltre a predicare una fideistica aspettativa in una rivoluzione mondiale fondata su un modello che contrappone un ipotetico proletariato mondiale a una, forse meno ipotetica ma non meno astratta, borghesia mondiale).  


Gli effetti di questa rimozione della dimensione spaziale, geografica, geopolitica della lotta di classe sono stati devastanti: liquidazione di ogni istanza patriottica come di ogni rivendicazione di sovranità popolare-nazionale in quanto espressione di ideologie “di destra” (con buona pace dello slogan patria o muerte, lanciato da quasi tutte le rivoluzioni latinoamericane); allineamento con le politiche imperialiste di Stati Uniti ed Europa che violano il principio di non interferenza negli affari interni di altri Paesi in nome dell’esportazione della democrazia occidentale e della tutela di presunti “diritti universali dell’uomo” (basti pensare a come Antonio Negri, in Impero , arrivi a negare l’esistenza stessa di una politica imperiale americana, dando per acquisita l’unificazione politica del mondo e  declassando a “operazioni di polizia” i conflitti Nord-Sud); limitazione della opposizione alle politiche ordoliberiste della Unione Europea a trazione tedesca a un blando europeismo critico, che ignora le conseguenze della deindustrializzazione dell’Italia e della sua integrazione in posizione subordinata in filiere controllate dall’estero (per tacere dello smantellamento delle industrie pubbliche, dei tagli alla spesa sociale, ai salari e alle pensioni, ecc.) sulle condizioni di vita e di lavoro del proletariato italiano. 


Credo infine che l’effetto più grave di questa chiusura dell’orizzonte politico-culturale delle sinistre occidentali nel cerchio di un ottuso e autoreferenziale eurocentrismo consista nell’incapacità di porsi il seguente interrogativo: perché le uniche rivoluzioni socialiste riuscite non sono avvenute in Paesi industrialmente avanzati (laddove, secondo la dogmatica kautskyana della II Internazionale, sarebbero dovute avvenire nei punti più alti di sviluppo delle forze produttive), bensì in Paesi economicamente “arretrati” (negli anelli più deboli della catena, secondo la formula “eretica” di Lenin)? E ancora (ed a mio avviso è questo l’interrogativo più importante ai fini della nostra discussione su composizione di classe e lotta per il socialismo): perché ne sono state protagoniste le larghe masse contadine, assieme ad esigui nuclei di classe operaia in formazione e a sezioni della piccola borghesia urbana? Per dare una risposta, dobbiamo tornare alle questioni di metodo introdotte in precedenza. 


Nell’ultimo decennio di vita, Marx assunse posizioni che appaiono oggi quanto meno scomode per i suoi esegeti dogmatici e dottrinari. In primo luogo, commentando la recensione che il traduttore russo del Capitale aveva dedicato alla sua opera fondamentale, scrisse ironicamente che costui gli aveva fatto allo stesso tempo troppo onore e troppo torto, scambiando il suo lavoro per un tentativo di descrivere le leggi universali di sviluppo della storia. Questo perché, dal suo punto di vista, non esiste alcuna necessità immanente che governi come una ferrea legge di sviluppo il cammino della storia, bensì un avanzare complesso e contraddittorio della stessa, che può essere compreso solo attraverso l’analisi dei  contesti concreti - spesso contingenti – che di volta in volta ne determinano l’esito. Ciò significa, fra le altre cose, che Marx non ha mai teorizzato l’esistenza di una successione necessaria di fasi (schiavismo, feudalesimo, capitalismo) che tutte le società dovrebbero necessariamente attraversare. Tanto è vero che, nella famosa lettera a Vera Zasulic , arrivò ad ammettere che, in determinate circostanze nazionali e internazionali, la comunità contadina originaria russa, l’ obščina, avrebbe potuto funzionare come il nucleo di un balzo diretto al socialismo, senza passare sotto le forche caudine di una fase borghese-capitalistica. 

Questa straordinaria elasticità mentale ha inspirato quei teorici marxisti latinoamericani  che hanno criticato la tesi comune a molti partiti comunisti del subcontinente, secondo cui le masse contadine di origine india, organizzate in comunità definibili come forme di comunismo primitivo, avrebbero potuto divenire parte attiva in un fronte rivoluzionario anticapitalista solo dopo essere passati attraverso la fase della piccola proprietà di tipo borghese. Una visione miope, incapace di cogliere la profonda differenza fra il feudalesimo europeo e il comunitarismo contadino latinoamericano, e quindi di sfruttare il potenziale rivoluzionario di quest’ultimo. Ragionando sulla rivoluzione boliviana, e sul ruolo strategico svoltovi dalle comunità campesindie l’ex vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera ha dato un  contributo importante all’allargamento del concetto di classe antagonista, estendendolo a quelle forme comunitarie che, ove costrette a lottare contro i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, possono acquisire una visione del mondo che implica un comunitarismo più ampio e universalizzante di quello originario (il modello del socialismo del secolo XXI emerso dalle rivoluzioni bolivariane è non a caso una proiezione del buen vivir, cioè del modello socialista originario delle comunità andine).  Questa “etnicizzazione” dello scontro di classe ha fra l’altro fatto sì che gli organismi di democrazia diretta e partecipativa, tipiche delle comunità andine tradizionali, abbiano svolto un ruolo centrale nell’aggregazione del blocco sociale rivoluzionario. 


Ancora più densa di insegnamenti, sotto questo aspetto, si presenta la rivoluzione cinese, della quale le masse contadine sono state di gran lunga il protagonista principale, laddove la classe operaia cinese - numericamente inferiore all’1% della popolazione all’inizio del processo rivoluzionario – appare tutt’oggi  minoritaria, malgrado i giganteschi processi di industrializzazione e di inurbazione che il Paese ha vissuto negli ultimi decenni (basti dire che gli operai sono poco più del 13% degli attuali iscritti al PCC, superati da tecnici, lavoratori del terziario e dei servizi, mentre i contadini, pur ridimensionati,  sono ancora maggioranza relativa). Ciò significa che dobbiamo rimpiazzare il proletariato in quanto soggetto privilegiato di un processo di trasformazione socialista? Evidentemente no, ma certamente significa: 1) che dobbiamo ridefinirne e estenderne i confini (vedi gli spunti contenuti nella prima parte); 2) che dobbiamo immaginare la costruzione di un blocco sociale rivoluzionario non nei termini di una rete di alleanze tattiche, strumentali, bensì come integrazione di una serie di soggetti sociali in un popolo unito da un comune progetto politico anticapitalista, un blocco in cui non necessariamente la classe operaia deve rappresentare, in ogni e qualsiasi concreta contingenza storica, l’avanguardia; 3) che occorre riproporre in tutta la sua pregnanza la distinzione marxiana fra classe in sé e classe per sé, nonché la concezione leninista del partito quale unica organizzazione politica in grado di incarnare gli interessi generali (e non meramente corporativi) della classe per sé, al di là della composizione statistica del partito stesso e del corpo sociale in cui esso si trova di volta in volta a operare. 


Che altro aggiungere? Sull’atteggiamento delle sinistre occidentali che, di fronte alle rivoluzioni “eretiche” avvenute al di fuori del loro universo storico, geografico e culturale, reagiscono negandone il carattere socialista e parlando di capitalismo di stato e autoritarismo, ho già scritto altrove e non intendo qui ritornare sul tema. Chiudo perciò riassumendo le osservazioni di metodo fin qui svolte e aggiungendo quali obiettivi dovrebbero a mio avviso  suggerire a una forza rivoluzionaria. Credo che tutto quanto ho sostenuto possa essere sintetizzato in due tesi di fondo. La prima consiste nell’affermare che la ridefinizione-aggiornamento del concetto di classe in sé alla luce dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico, mentre è decisiva ai fini della comprensione delle nuove modalità di sfruttamento della forza lavoro, non offre indicazioni immediate sull’identità della classe per sé. Detto altrimenti: composizione di classe socioeconomica e sociopolitica non coincidono necessariamente, e i soggetti in grado di elevarsi dalla lotta economica alla lotta politica sono riconoscibili solo analizzando, di volta in volta, la composizione sociopolitica. La seconda tesi rinvia alla necessità di inquadrare il conflitto di classe nel contesto mondiale, declinandolo come conflitto fra nazioni dominanti e nazioni dominate, il che implica rilanciare e aggiornare le teorie leniniste sull’imperialismo. 


Queste tesi si integrano e influenzano reciprocamente, come l’esperienza delle rivoluzioni socialiste avvenute nei Paesi periferici e semiperiferici ampiamente dimostra. Queste esperienze si sono infatti avvalse di due poderose leve storiche: la volontà di riscatto nazionale dei popoli asserviti, oppressi e sfruttati dalle potenze imperialiste occidentali, e la volontà di resistenza alla penetrazione dei rapporti di produzione capitalistici da parte di larghe masse contadine che, perlopiù, non erano passate attraverso una fase feudale di tipo occidentale, per cui conservavano consistenti memorie di culture comunitarie e relazioni economiche di natura precapitalistica. Queste due leve hanno assunto il carattere di lotta anticapitalista laddove il processo rivoluzionario ha potuto contare su partiti marxisti-leninisti radicati in minoranze sociali di operai e intellettuali piccolo borghesi. Partiti che hanno conquistato l’egemonia convincendo le larghe masse popolari che solo il socialismo poteva realizzarne le speranze di indipendenza nazionale e di libertà dallo sfruttamento imperialistico. 


Le due tesi sopra enunciate valgono anche nei Paesi che appartengono ai centri capitalisti metropolitani? Sì, ma con gli opportuni adeguamenti. Partiamo dalla prima: nel contesto occidentale, la disarticolazione del proletariato in frammenti separati da confini generazionali, di genere, regionali, di status economico e contrattuale, ecc. dovuta a decenni di ristrutturazione tecnologica, finanziarizzazione, decentramento produttivo, nonché di progressiva perdita di rappresentanza sindacale e politica, ha raggiunto livelli tali per cui il compito prioritario di un partito comunista consiste nel ri-costruire l’unità di classe. In un certo senso si potrebbe dire che, data l’attuale debolezza del movimento comunista, ricostruire il partito di classe e ricostruire la classe sono parte di un unico processo. Da quanto sostenuto in precedenza deriva che l’analisi della composizione socioeconomica, della classe in sé è, sotto tale aspetto, meno rilevante dell’analisi della composizione sociopolitica, il che, detto in parole povere, significa che l’attenzione e le energie vanno indirizzate in primo luogo nell’individuazione degli “anelli deboli” di questa nuova nebulosa del lavoro (cioè quei settori sociali che, per cause non definibili a priori, manifestano maggiore spirito combattivo), nell’organizzarli e nel convertirli in avanguardia rivoluzionaria. Anche il compito di allargare l’egemonia di tale avanguardia su un più ampio blocco sociale assume carattere inedito: non si tratta tanto – almeno in una prima fase - di costruire alleanze con altre classi sociali, ma di proseguire e rafforzare il processo di ri-costruzione della classe proletaria. Da questo punto di vista, esiste una qualche analogia con quanto sostenuto dal filosofo argentino Ernesto Laclau, laddove parla di “costruzione di un popolo”, riferendosi alla capacità di saldare una serie di rivendicazioni eterogenee in un’unica “catena equivalenziale”. Con la differenza che, per chi vuole mantenere un punto di vista classista, i confini del popolo in questione non possono essere estesi indefinitamente (vedi il discorso sull’integrazione nel blocco dominante di un ampio strato di quadri e rentier, accennato nella prima parte).  


Quanto alla seconda tesi, relativa al conflitto geopolitico come conflitto di classe, è chiaro che da noi pesa meno di quanto abbia pesato nelle rivoluzioni dei Paesi ex coloniali, ma la sua importanza è tutt’altro che irrilevante. Basti pensare alle contraddizioni che l’integrazione dell’Italia nella Ue ha generato per il nostro Paese: smantellamento dell’industria di Stato, tagli drammatici al welfare e alla spesa pubblica, de industrializzazione, aumento della disoccupazione, annullamento dei diritti del lavoro, crescenti disuguaglianze e aggravamento delle differenze fra Nord e Sud, fra regioni ricche e regioni povere. Insomma: il conflitto di classe si inscrive potentemente nello spazio, sia all’interno che verso l’esterno dei confini nazionali. All’interno lo vediamo, fra le altre cose, con i processi di gentrificazione dei centri delle grandi città, e con la conseguente espulsione delle classi lavoratrici verso le periferie, e ancor più lo vediamo con la desertificazione produttiva, sociale e culturale del Meridione che va ad accrescere le fila di quello che Nicola Zitara chiamava “proletariato esterno”. Nei rapporti con l’esterno lo vediamo con la rabbia popolare generata dalle politiche economiche imposte dai principi ordoliberali dell’Europa a trazione tedesca. Una rabbia che si estende a settori di piccola e media imprenditoria e gonfia le vele dei populismi di destra, il che dovrebbe farci capire – con buona pace delle sinistre cosmopolite – come il tema della sovranità nazionale e popolare non sia appannaggio esclusivo delle rivoluzioni cinese, vietnamita e cubana ma possa giocare un ruolo strategico anche in Paesi come il nostro.

 




 

domenica 21 novembre 2021

PREFAZIONE
AL VOLUME I DELLE OPERE DI COSTANZO PREVE

di Carlo Formenti









In questa Prefazione mi occuperò del primo dei testi riuniti in questo volume, (Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale. Considerazioni politiche e filosofiche). Nella parte iniziale di tale testo leggiamo la seguente citazione: “Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico”. Il brano è tratto da un articolo del filosofo francese di destra Alain de Benoist. Una scelta che appartiene al repertorio di gesti provocatori che ha caratterizzato l’ultima stagione produttiva di Costanzo Preve. 


Non ho mai avuto modo di conoscere Preve di persona, né di parlargli. L’unico rapporto che ho avuto con lui è stato nelle vesti di caporedattore del mensile “Alfabeta”(ruolo che ho svolto negli anni Ottanta), quando Preve ci venne proposto come collaboratore da Francesco Leonetti. Non sono quindi in grado di stabilire se le provocazioni in  questione nascessero dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase di decomposizione sul piano politico, ideologico e filosofico (per cui Preve gioiva malignamente nell’evidenziare che, per leggere certe verità, si era ormai costretti a rivolgersi altrove), oppure se – almeno nel caso in questione – il fatto di potersi rispecchiare in una serie di affermazioni che riteneva condivisibili prevalesse sull’appartenenza ideologica del loro autore. 


Sciogliere questo dubbio mi sembra francamente secondario rispetto a un dato di fatto: i detrattori di Preve si sono concentrati esclusivamente sulla fonte della citazione, ignorandone completamente il contenuto (per tacere del modo in cui Preve lo interpreta e approfondisce). Per usare una metafora un po’ scontata: si sono precipitati ad azzannare il dito per distogliere l’attenzione dalla luna che il dito indicava. Si tratta dello stesso atteggiamento che la maggior parte degli intellettuali “di sinistra” hanno assunto nei confronti di una serie di “eretici” come Jean-Claude Michéa, Hosea Jaffe, Domenico Losurdo e altri, accomunati dal “peccato” di avere preso le distanze dalla via social liberale imboccata dal marxismo occidentale, caratterizzata, in particolare, dalla demonizzazione del socialismo reale e dall’esaltazione del sistema liberal democratico. Tuttavia, va preso atto che, fra tutti questi autori “messi all’indice”, Preve è senza ombra di dubbio quello che ha subito un  vero e proprio linciaggio, un autodafé che è riuscito a cancellare quasi del tutto il suo contributo alla comprensione della drammatica epoca di passaggio che il mondo vive in questo inizio di secolo.  


Prima di entrare nel merito del modo in cui Preve sviluppa il tema di De Benoist, vale la pena di citare un episodio che lui stesso ci racconta: un suo vecchio amico “di sinistra” gli aveva fatto notare che il concetto di nemico principale è il parto di un filosofo come Carl Schmitt, per cui è inequivocabilmente “di destra”. Ammesso che Il contributo di un genio come Schmitt, al pensiero geopolitico contemporaneo, possa essere liquidato con questa etichetta, Preve ha buon gioco nel ribattere che Schmitt non è l’inventore di un concetto che appare più  appropriatamente riferibile ad autori come Marx, Lenin e Mao (nomi “proibiti” che, alle orecchie del suo amico “di sinistra”, dovevano suonare non meno “sinistri” – mi si perdoni lo scontato gioco di parole – di quello di Schmitt).

Ma passiamo alle definizioni dei quattro nemici principali. Nel trattare il nemico principale sul piano economico, Preve preferisce sostituire il termine modo di produzione capitalistico al termine capitalismo, in quanto il primo consente di calare la determinazione del concetto astratto di capitalismo nella pluralità delle società capitalistiche concrete, ma soprattutto preferisce concentrare l’attenzione sul termine società di mercato, in quanto economia di mercato è definizione troppo generica, dal momento che lo scambio mercantile è una prassi che può convivere tranquillamente con formazioni sociali precapitalistiche ma anche (e sulle implicazioni di questa osservazione dovremo tornare con attenzione nel finale) con formazioni sociali postcapitalistiche. Viceversa il modo di produzione capitalistico è una società di mercato nel senso che, diversamente da tutte le formazioni sociali che la hanno preceduta, fa dello scambio mercantile “il fattore coattivo di tutti i rapporti sociali” (Cfr. C. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974). Una centralità ossessiva e fondante che, con l’avvento della globalizzazione neoliberale, attinge livelli tali da caratterizzare appunto la società di mercato quale “nemico globale e complessivo del Genere Umano in quanto tale”. 


Vediamo ora alla definizione del nemico principale in politica, vale a dire quel liberalismo che secondo Preve è, con la società capitalistica di mercato, uno dei due volti inscindibili di un’unica forma oligarchica di dominio. Qui Preve compie due mosse. La prima, destinata ad aggravare la sua posizione di fronte al tribunale delle sinistre convertite al verbo social liberale (il riferimento a Norberto Bobbio non è casuale), consiste nel prendere le distanze da chi insiste nell’indicare quale nemico assoluto (anzi come il Male Assoluto) il Fascismo anche dopo che – a partire dal 1945 – questo regime è irreversibilmente tramontato, per non più ripresentarsi nelle sue forme classiche. L’antifascismo senza fascismi, argomenta Preve, è sintomo del fatto che il liberalismo, di destra centro e sinistra, nella misura in cui dispone esclusivamente della ricchezza privata quale unico criterio di riconoscimento sociale, necessita “di una serie di ideologie di legittimazione etica integrativa”, la principale delle quali è appunto l’esaltazione degli “immortali valori dell’antifascismo”. La seconda mossa chiama invece in causa tre diverse assunzioni dell’individualismo come peccato mortale dell’anima liberale. La prima appartiene a Michéa, laddove questi ripropone la sentenza di Marx secondo cui l’uguaglianza formale e astratta finisce inevitabilmente per accrescere le disuguaglianze reali e rafforzare il dominio di classe. La seconda chiama in causa la definizione di Castoriadis, che nel liberalismo riconosce le stigmate del disincanto come valore, del narcisismo come profilo antropologico e del nichilismo come nuova metafisica di fondazione. La terza rinvia al detto di Mo Ti (antico filosofo cinese) che recita: “in una società in cui ognuno considera di fatto valido il proprio criterio di giudizio e disapprova quello degli altri, la conseguenza è che i più forti si rifiuteranno di aiutare i più bisognosi, ed i più ricchi si rifiuteranno di dividere le loro ricchezze”.



Costanzo Preve




Quanto al nemico principale sul piano sociale, la borghesia, il discorso di Preve si discosta dal concetto marxiano di borghesia come insieme dei proprietari privati dei mezzi di produzione (per inciso: qui il discorso andrebbe allargato a una disamina dei limiti dello scheletrico schema bipolare borghesia/proletariato della sociologia marxiana, ma è un compito che esula dagli obiettivi di questo testo). In primo luogo perché osserva che il processo di produzione capitalistico può essere messo in moto da soggetti non-borghesi. Una verità empirica che la realtà sociale contemporanea consente di verificare oltre ogni dubbio, per cui oggi il termine più corretto da adottare sarebbe “oligarchie capitalistiche”. Inoltre perché (e qui il ragionamento si fa più sottile) la borghesia “classica” era portatrice di una “coscienza infelice” che induceva le sue menti più brillanti (a partire dallo stesso Marx) a criticare/rinnegare il proprio ruolo storico. Coscienza infelice di cui oggi non rimane traccia alcuna se non nella patetica figura (tipica del militante della sinistra postmoderna) di quelle “anime belle” che “trasformano l’impotenza in supremo valore morale”. 


Anima bella che, ovviamente, si tiene accuratamente lontana da una disciplina sporca e triviale – dedita com’è all’analisi dei rapporti di forza fra nazioni, popoli e culture – come la geopolitica. Quanto ai motivi per cui Preve concorda con de Benoist nell’indicare negli Stati Uniti il nemico principale in geopolitica, mi limito qui a citare la sua argomentazione: 


“E siccome questa superpotenza, oggi, è anche il supremo garante strategico-militare del capitalismo (1), della società di mercato (2), del liberalismo politico (3), della teologia interventistica dei diritti umani (4), della nuova religione olocaustica del complesso di colpa interminabile dell’umanità (5), della sottomissione dell’Europa costretta alla cosiddetta ‘posizione del missionario’ (6), della proliferazione di basi militari atomiche in tutto il mondo (7), del modello culturale televisivo del rimbecillimento antropologico universale (8), della secolarizzazione del presunto mandato messianico assegnato da Dio ad una nazione protestante eletta (9), più altre determinazioni che qui non riporto per brevità, ne consegue che non il popolo americano, non la nazione americana, ma soltanto la superpotenza geopolitica imperiale americana è il nemico principale.”


Esaurito il ragionamento sul concetto di nemico principale e sulla sua applicazione ai differenti contesti economico, politico, sociale e geopolitico, è giunto il momento di affrontare una serie di argomenti che, in parte si dipanano parallelamente, in parte attraversano il tema principale fin qui esaminato, e che, almeno a mio avviso, appaiono ancora più interessanti. Mi riferisco: 1) ad alcuni spunti critici nei confronti dello stesso pensiero di Marx; 2) alla problematica traducibilità della identità di classe in azione politica; 3) al giudizio storico sul socialismo reale. 


Un altro dei motivi per cui Preve irritava profondamente i soloni del marxismo accademico era il fatto che si permetteva di “fare le pulci” al maestro. Nel testo di cui stiamo parlando questo “vizio” emerge soprattutto in tre circostanze. In primo luogo, Preve respinge con orrore l’idea del comunismo come fine della storia, intesa come fine del conflitto sociale, e quindi come fine della politica. La formula “da a ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, che Marx incastona in una visione irenica che dipinge un futuro in cui la politica dovrebbe dissolversi in amministrazione “naturale” della cose, piace molto alla sinistra postmoderna e “antipolitica” dei giorni nostri, ma fa venire i brividi a Preve, il quale non crede in una utopistica ricomposizione di tutti i conflitti fra interessi collettivi. Un miraggio che rischia di coincidere con i sogni individualistici della cultura liberale (da Saint-Simon a Fukuyama).


La seconda presa di distanza critica è l’esito del rifiuto di Preve di accettare la separazione fra storia del pensiero politico e storia del pensiero economico moderni. Per Preve il modo di produzione capitalistico coincide in tutto e per tutto con ciò che chiamiamo modernità, per cui il tentativo di salvare il contenuto emancipativo della modernità, qualificandola come “il solo aspetto culturale specifico della legittimazione simbolica del modo di produzione capitalistico” può avere quale unico risultato l’esaltazione di quella “divinità idolatrica chiamata Progresso”. Del resto Marx, argomenta Preve, non è esente dalla fascinazione da parte di questa divinità. Prova ne sia (e siamo alla terza critica) il fatto che la sua opera si presta a un uso capitalistico laddove riconosce il carattere “progressivo” dei rapporti capitalistici nella misura in cui soppiantano i precedenti rapporti schiavistici e feudali. “Personalmente, scrive Preve, non sono un ammiratore incondizionato di questo aspetto borghese-progressivo del pensiero di Marx, ed anzi lo considero uno dei punti più deboli e datati del suo pensiero. Ma non è questo il problema. Il fatto è che Marx non ha chiarito bene quale sia il criterio che permette di stabilire quando questa funzione progressiva cessa, e quando comincerebbe invece la funzione regressiva. Per essere più precisi, Marx ha bensì fornito un criterio di giudizio, ma l’ha fornito errato, individuandolo nel momento storico dell’insorgenza dell’incapacità di sviluppare ulteriormente le forze produttive, con conseguente stagnazione, parassitismo, eccetera. Insomma, il capitalismo diventerebbe “reazionario” soltanto quando non è più in grado di sviluppare le forze produttive ed i capitalisti da imprenditori creativi diventano percettori oziosi di rendite, tipo i signori feudali. Ora, mi sembra chiaro che questo volenteroso criterio è del tutto errato. Il capitalismo continua a produrre imprenditori di valore ed a sviluppare in modo vertiginoso le forze produttive. Ed allora non può essere questo il criterio giusto. Il criterio deve tornare ad essere pienamente filosofico, e cioè “umanistico”, e deve essere individuato nel modello di illimitatezza della produzione capitalistica complessiva e nell’imbarbarimento sociale ed antropologico delle forme di vita capitalistiche.” 


È pur vero che il capitalismo finanziarizzato e globalizzato di oggi presenta evidenti caratteristiche parassitarie, ma ciò nulla toglie all’argomentazione di Preve, nella misura in cui non ha minimamente indebolito la capacità del capitale di esercitare la propria egemonia nei confronti dei soggetti che dovrebbero rovesciarlo. Così abbiamo introdotto il nodo della problematica traducibilità dell’identità di classe in coscienza politica rivoluzionaria. Il guaio è, argomenta Preve, che la borghesia (che oggi veste i panni delle oligarchie capitalistiche) è una signora classe, assai più coesa e abile del volonteroso e confuso proletariato (della cui attuale composizione Preve non si occupa, ma non è quanto possiamo pretendere dal suo approccio, filosofico più che sociologico). E a confonderlo ancora di più contribuiscono quegli intellettuali “di sinistra” che si impegnano a descrivere il secolo delle rivoluzioni proletarie come un museo degli orrori, che demonizzano il Novecento per “prevenire la malaugurata ipotesi che le classi subalterne ci possano riprovare”. Dopodiché l’ostacolo principale resta quello ben individuato da Lenin, vale a dire l’incapacità delle classi subalterne, serrate nella morsa di un sapere limitato alla “particolarità e prossimità diretta”, di comprendere i meccanismi della riproduzione politica, economica e geopolitica della società in generale. Incapacità che solo la teoria leninista del partito è riuscita a riscattare (anche qui andrebbe rimarcata l’assenza di una riflessione su come potrebbe configurarsi quella forma partito oggi, ma valgono le stesse attenuanti citate poco sopra rispetto all’assenza di un’analisi dell’attuale composizione di classe). 


Preve non si limita però a difendere il Novecento dall’accusa di essere stato il secolo degli orrori che gli viene rivolta da destra: difende anche l’esperienza del comunismo novecentesco dalle denigrazioni che gli arrivano dagli esponenti del settarismo di sinistra (fra i quali cita Bettelheim e Bordiga). Quell’esperienza, afferma, va rivendicata come “un esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico, anche se ovviamente deformata da rapine burocratiche di vario tipo”. Si è trattato di un gigantesco esperimento di ingegneria sociale che, ad un certo punto, “è finito con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche”. Naturalmente questo giudizio meriterebbe volumi di approfondimento, per cui mi limito a dire che, ammesso e non concesso lo si possa condividere, fatico a capire l’ingenerosità con cui Preve liquida quell’altro gigantesco esperimento sociale che è la rivoluzione cinese, rifiutandosi di prendere atto del fatto che, in questo caso, al contrario di quello sovietico, l’esperimento continua e ha prodotto – invece del disastro russo – la straordinaria ascesa della Cina al rango di grande potenza mondiale in grado di confrontarsi da pari a pari con il “nemico principale” statunitense. Preve sembra mettere la svolta post maoista del 1978 sullo stesso piano della restaurazione post sovietica, arrivando a liquidare l’attuale regime cinese con la sprezzante definizione di “capitalismo confuciano”. 


Volendo essere generosi, questo giudizio può essere attribuito a scarsa conoscenza, nel senso che evidentemente Preve ignorava o sottovalutava le argomentazioni di autori come Giovanni Arrighi e Samir Amin, che descrivono la Cina come un sistema socialista con presenza di mercato e con conflitti di classe che potrebbero condurlo sia verso una restaurazione capitalistica sia verso una più avanzata forma di socialismo. Per inciso, le argomentazioni di Arrighi si riferiscono esattamente a quella distinzione fra economia di mercato e società di mercato che, come si è visto, lo stesso Preve considera dirimente. In particolare Arrighi ed altri sottolineano come il permanere del controllo statale sui settori produttivi strategici e sulle banche, di uno sviluppato sistema di servizi pubblici, e di una politica estera difficilmente definibile come imperialistica, inducono a prendere atto che, finché il potere politico mantiene il controllo sull’economia, si può aggiungere mercato a volontà senza che il sistema possa essere definito capitalista. Se a questo aggiungiamo lo straordinario risultato di avere ridotto in vent’anni il numero dei cittadini in condizioni di povertà da più di ottocento a quattordici milioni, di avere mantenuto i livelli di occupazione anche nel momento in cui la crisi li aggrediva duramente nei paesi capitalisti occidentali e di avere pilotato l’economia del Paese da un modello mercantilista fondato sui bassi salari a un modello autocentrato proprio grazie ad un aumento consistente e generalizzato delle retribuzioni è evidente che il “miracolo” cinese, più che a una conversione del Partito e dello Stato ai principi e ai valori del liberismo, sembra da attribuirsi al permanere di consistenti elementi di socialismo. A volere essere meno generosi, non escluderei invece che Preve possa essere rimasto intrappolato da quella visione eurocentrica criticata da autori come Jaffe e Losurdo, che lo ha reso cieco alla specificità storica e geografica di un immenso Paese con millenni di storia alle spalle, fattori che non possono non condizionare il giudizio su un esperimento che i suoi attuali leader, in coerenza con la concezione del tempo tipica delle tradizioni culturali del loro Paese, descrivono come un processo secolare, caratterizzato da avanzate e ritirate. Prima di definire il “socialismo in stile cinese” come una banale formula ideologica escogitata per legittimare un processo di restaurazione capitalistica, sarebbe il caso di capire in che misura la stessa tradizione confuciana, oltre alla cultura anti individualista di quel popolo possano contribuire, quanto e più dell’adozione di una visione marxista del mondo e della storia, a tenere la Cina al riparo da tentazioni “progressiste” (nel senso negativo che Preve attribuiva al termine). Sono tuttavia convinto che, di fronte agli argomenti che ho qui addotto, il nostro sarebbe stato disponibile a rettificare il proprio giudizio. 



     


     

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