IL CALCIO SENZ'ANIMA AI TEMPI DELLA FINANZIARIZZAZIONE
“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. E’ rito nel fondo anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci” (Pier Paolo Pasolini). Possiamo ancora condividere tali parole in questi tempi di finanziarizzazione del gioco più popolare del mondo? La natura rituale degli eventi che si celebrano settimanalmente (oggi più spesso bisettimanalmente) negli stadi di tutto il mondo è tuttora innegabile (anche se la partecipazione di massa al rito, pur maggiore di quanto non fosse ai tempi del poeta, si è in larga misura trasferita dalle gradinate alle poltrone davanti allo schermo tv), ma sul loro carattere "sacro" è lecito nutrire più di un dubbio.
A sinistra esiste una lunga tradizione di condanna dell'uso della passione sportiva come espediente per distogliere l'attenzione dai veri problemi che affliggono la gente (vedi la famosa canzone che addebita all'euforia per la vittoria di Bartali al Tour de France la responsabilità di avere neutralizzato la rabbia popolare per l'attentato a Togliatti). Un approccio che evoca la strategia di imperatori e patrizi romani che tenevano buona la plebe con l'offerta di "panem et circenses". Resta il fatto che molti militanti non hanno rinunciato al proprio amore per il Milan negli anni in cui la squadra mieteva successi grazie ai quattrini del pur odiato Silvio Berlusconi. Insomma: il tifo prevale non solo sulla ragione ma persino sulla passione politica. Eppure le ragioni per dubitare della fede nel Dio del pallone negli ultimi decenni si sono fatte pressanti, come argomentano Antonio Massari e Gianluca Zanella nel libro Fuori gioco. Non solo Juve: sceicchi e false plusvalenze, ecco chi sta uccidendo il nostro calcio (pubblicato an cura dell'Editoriale de "Il Fatto Quotidiano")
Il discorso sull'uso politico dello spettacolo calcistico resta attuale (anzi, come vedremo, è oggi più attuale che in passato), ma il vero punto, sostengono gli autori, è che il calcio non è più uno spettacolo reso possibile da ricchi mecenati disposti a sperperare milioni per far scende in campo i più celebrati artisti del pallone: è diventato una vera e propria industria, un business formidabile che vanta un fatturato globale di 47 miliardi di dollari, pari al 28% del giro d'affari generato dallo sport mondiale. A generare questo enorme flusso di danaro sono tre fonti (che contribuiscono più o meno paritariamente ad alimentare il malloppo): stadio (vendita dei biglietti, sempre più cari), diritti televisivi (che contribuiscono alla mondializzazione del tifo, con le grandi squadre come il Real Madrid che vantano fan in tutto il mondo) e marketing (sponsorizzazioni, gadget, introiti pubblicitari, ecc.).
Il modello di business di questi colossi, spiegano Massari e Zanella, somiglia sempre più a quello della Disney e delle major di Hollywood. Se Maradona era ancora un gladiatore, super pagato ma identificabile con un Paese (l'Argentina) e una città (Napoli) che lo hanno eletto a simbolo di riscatto del Sud nei confronti dell'imperialismo angloamericano e nord italico, Ronaldo è un giramondo senza una precisa identità etnico-politica, un Mikey Mouse del calcio che, con la sua abilità di giocoliere, promuove la vendita di tv, gadget, videogame, ecc. Il suo approdo miliardario in Arabia, assieme a quello di altri fuoriclasse europei (e di un allenatore-star come Mancini), è la logica conseguenza della svolta nelle politiche finanziarie che i Paesi del Golfo hanno effettuato allorché si sono resi conto dell'esigenza di differenziare gli investimenti, in previsione della progressiva riduzione degli introiti legati al petrolio.
I soldi non bastano per vincere, pontificano i sacerdoti di una stampa sportiva impegnata a giustificare il nuovo regime dei paperoni del calcio, così come i loro colleghi delle reazioni economia, politica ed esteri legittimano i regimi neoliberisti e i loro crimini. Ciò può essere vero quando ai soldi non si accompagna un'adeguata capacità tecnico-manageriale per farli fruttare (vedi il caso del PSG) ma la storia del Manchester City, ora di proprietà dello sceicco Mansour, sta a lì a dimostrare che i soldi contano eccome: salito in pochi anni dalle serie minori alla vittoria in Champions League, questo club integrato nella Holding City Football Group, è diventato uno dei più vincenti al mondo da quando è anche diventato uno dei più ricchi - se non il più ricco - al mondo.
Si potrebbe obiettare che anche ai vecchi tempi del calcio dei padroni-mecenati era così. Ma non è vero, o almeno non è del tutto vero. I giocatori e i fan possono accettare di perdere, fa parte dello sport, scrivono Massari e Zanella, ma le cose cambiano quando e se scoprono che una parte non stava giocando secondo le stesse regole. Infatti, così come il processo di finanziarizzazione e deregulation seguito alla controrivoluzione neoliberista ha generato un regime oligarchico dominato da élite economiche, politiche e mediatiche strettamente integrate fra loro e in grado si sovvertire le regole del gioco democratico in tutti i campi della vita sociale, lo stesso è avvenuto nel calcio, dove gli interessi dei super ricchi sono in grado di plasmare (o alla bisogna violare impunemente) le regole delle istituzioni sportive, condizionandone le decisioni e, se necessario, ricorrendo alla corruzione.
Lo Sceicco Mansour festeggia la vittoria in Champions League |
Per esempio, il cosiddetto fair play finanziario che la UEFA ha istituito per riequilibrare i rapporti di forza fra club ricchi e meno ricchi è rimasto poco più di una grida manzoniana che i potenti aggirano impunemente grazie a una serie di trucchi legali e contabili. Ma c'è di più e di peggio: questo gioco sporco protende i suoi tentacoli be oltre i confini dello sport. Poco sopra scrivevo che l'uso politico dello sport è oggi ancora più diffuso ed efficace che in passato. L'intreccio fra sport, finanza e politica ha infatti fatto sì che il successo sportivo sia divenuto uno strumento strategico per promuovere campagne elettorali, "ripulire" l'immagine di Paesi, imprese, imprenditori e politici, ecc.
L'esempio più clamoroso dell'impatto negativo di questa commistione di interessi fra sport, finanza e politica è probabilmente il cosiddetto Qatargate. Per ottenere la possibilità di ospitare il campionato del mondo in barba alle migliaia di lavoratori (ma sarebbe il caso di definirli schiavi) deceduti mentre costruivano stadi in condizioni climatiche spaventose (e alle accuse di violazione sistematica dei diritti civili), il Qatar ha corrotto i vertici della FIFA e goduto dei buoni uffici del governo francese in cambio dell'acquisto della squadra parigina del PSG, dei diritti tv del calcio francese e di un congro numero di Airbus. Ma soprattutto ha versato centinaia di migliaia di euro alla parlamentare greca del Pasok, nonché vicepresidente del Parlamento europeo, Eva Kaili, e a un altro parlamentare europeo, nonché ex dirigente della CGIL, l'italiano Panzeri, perché svolgessero azione di lobbing a favore del Qatar.
In merito a questo scandalo, Massari e Zanella scrivono che la procura belga ha scoperto che il team di Panzeri ha scritto il discorso pronunciato dal ministro del Lavoro del Qatar davanti alla commissione Diritti umani del Parlamento UE e orientato le domande di alcuni parlamentari presenti, dopodiché commentano: "Questo è il calcio fuori degli stadi. E lontano dagli occhi dei tifosi. Questa è la fumeria d'oppio in cui, novanta minuti per volta, ogni appassionato di questo sport dimentica tutto per vedere quella palla rotolare, se possibile, nella porta avversaria. Ma quello che non vede è il legame sempre più indissolubile fra calcio e potere".
La seconda parte del libro è dedicata al modo in cui l'Italia si inquadra in questo contesto globale. Gli autori ricordano come anche in questo campo Berlusconi si è rivelato un precursore del nuovo corso mondiale, prima costruendo un vero e proprio impero calcistico-televisivo grazie ai suoi colossali investimenti sulla squadra del Milan (non mancando di ironizzare sul ruolo dell'ex PCI nel favorire, o almeno nel non contrastare, il business calcistico targato Mediaset), poi sfruttando l'enorme potenza di fuoco mediatica così accumulata per lanciare la sua "discesa in campo" e rimodellare le regole di funzionamento del nostro sistema istituzionale.
Luciano Moggi |
Dopodiché si passa a una puntuale ricostruzione della resistibile ascesa dell'impero Juve e dell'era di Calciopoli: dalla progettazione del "sistema Moggi" per condizionare sistematicamente gli arbitraggi, ai maneggi contabili per aggirare le regole del fair play finanziario grazie al trucco delle plusvalenze "gonfiate". Non è il caso di seguire passo passo la ricostruzione dettagliata di queste vicende, che non aggiunge molto a quanto già abbiamo appreso dalle cronache (ad eccezione della possibilità di leggere ampi estratti dai verbali delle registrazioni telefoniche delle conversazioni fra i dirigenti bianconeri che lasciano pochi dubbi sulle loro responsabilità). Mi limito a qualche nota a margine: rispetto al panorama internazionale, lo scenario italiano si caratterizza - analogamente a quanto avviene in campo politico ed economico - per certe sfumature cialtronesche. La scarsità di capitali (tutti i club sono indebitati fino al collo) e l'inettitudine di gran parte dei manager del settore ha fatto sì che "vizietti" comuni a quelli della concorrenza internazionale, si siano qui presentati in forma para mafiosa. Uno "stile" associato, purtroppo, alla palese indulgenza con cui le vicende sono state trattate dalla giustizia sportiva, nonché ai prevedibili insabbiamenti cui andranno incontro i procedimenti giudiziari, nonché al diffuso servilismo di una stampa specializzata (il giornalismo sportivo in Italia è forse ancora più conformista e allineato agli interessi dei potenti del giornalismo politico ed economico) impegnata a sventolare il principio di presunzione di innocenza anche di fronte alle prove più schiaccianti.
Che altro dire? Non credo che questa marea di merda riuscirà a togliere le fette di salame dagli occhi dei tifosi. Il rito del calcio ha forse definitivamente perso la sua sacralità, ma resta una delle poche consolazioni, ancorché del tutto illusoria, offerte da un mondo impoverito e incanaglito che ha sottratto alle masse quasi ogni altra fonte di appagamento. Anche il sottoscritto deve confessare che un riflesso condizionato acquisito in età infantile lo induce a compiacersi dei risultati positivi della "sua" squadra. Anche se devo ammettere che l'esigenza di vincere a ogni costo - imposta dalle poste economiche, politiche e di immagine in gioco - ha talmente rovinato lo spettacolo, al punto che sono ormai rari i lampi di classe che interrompono la monotonia di uno sport fatto perlopiù di prestanza fisica, velocità e frenesia, per cui guardo ormai quasi solo le partite di serie C, che conservano un certo fascino ruspante.
Post Scriptum. La commistione di sport economia e politica non ha fottuto solo il calcio. Basti pensare a un sistema dell'antidoping che finge di ignorare il fatto che il ciclismo di oggi, con le sue prestazioni pompate al limite dell'umano, può reggersi solo chiudendo non uno ma entrambi gli occhi sul fatto che certi sforzi possono essere sopportati solo grazie all'aiuto della chimica, o che tende a colpire sistematicamente gli atleti che non fanno parte del blocco anglofono. Per tacere dell'esclusione della Russia e dei suoi atleti dalle competizioni internazionali: un atto di guerra propagandistica che testimonia dell'assoluto asservimento delle istituzioni dello sport mondiale agli interessi dell'imperialismo occidentale.