SUL FEMMINISMO OGGI
UN DIALOGO A DISTANZA FRA CHIARA ZOCCARATO E ALESSANDRO VISALLI
Quasi tutti gli articoli apparsi su questo blog sono di mio pugno. Solo in pochi casi ho accolto interventi di altri autori (sollecitati da me), questo è uno di quelli. Dopo essere intervenuto in più occasioni sul tema della degenerazione teorica e ideologica di un femminismo mainstream sempre più allineato con gli interessi del sistema capitalistico e con i valori e i principi neoliberali, ho deciso di pubblicare una riflessione inviatami dall'amica Chiara Zoccarato, la quale, pur duramente critica nei confronti delle correnti maggioritarie del femminismo, rivendica i motivi di fondo di un conflitto di genere che ritiene parte integrante della battaglia socialista e anticapitalista. Assieme al suo contributo, ho deciso di pubblicare anche le riflessioni critiche che quel testo ha sollecitato da parte di Alessandro Visalli (che me le aveva inviate dopo averlo a sua volta ricevuto da Chiara). Ovviamente entrambi gli autori sono stati avvertiti della mia intenzione e si sono dichiarati d'accordo. Penso che far circolare il loro dibattito sia importante, non solo per i temi che affronta, ma anche e soprattutto perché il modo in cui li affronta ha il merito di disincagliare la discussione dalle secche della sterile contrapposizione fra accuse incrociate di misoginia e misandria, in cui ultimamente sembra essersi impantanata. Ringrazio quindi queste due persone, della cui fraterna stima e affetto mi onoro, per avermi offerto questa occasione.
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA QUESTIONE FEMMINILE
di Chiara Zoccarato
Qualcuno dice che la lotta di classe disturba il sistema, la lotta tra i sessi no.
E’ un’affermazione ad effetto, da verificare con più attenzione.
Sono d'accordo che il femminismo di seconda generazione sia andato fuori strada rispetto all’obiettivo, e presenti una forma di emancipazione femminile distorta e competitiva, felicemente all’interno del sistema capitalistico e per il raggiungimento di un successo sociale ed economico secondo valori di mercato. Tuttavia mi lasciano perplessa le posizioni che definiscono discriminatorio evidenziare le differenze tra donne e uomini, quando sono biologiche, importanti e soprattutto necessarie per compensarci. Ugualmente quei pareri secondo i quali questa sarebbe una società ostile agli uomini e tutta a vantaggio della donne e a corredo di simili affermazioni si citano quote rosa in politica o nel mondo del lavoro, il vantaggio di mansioni comode e non pericolose, gli esiti favorevoli nelle cause di divorzio, le leggi “speciali” contro la violenza sulle donne.
Se si entrasse davvero nel merito delle questioni imputate, la realtà, purtroppo, è drammaticamente diversa, e certa legislazione mascherata di femminismo non sposta poi molto lo sbilanciamento di genere, che sussiste per motivi che sono strutturali e qualche provvedimento cosmetico non altera, ma certo, sistema le coscienze e dimostra la volontà di spianare la strada alle donne che accettano l’attuale società di mercato, che non è affatto neutra, ma ancora fortemente maschile, anche se non nei termini e nei modi usati da certe passionarie del femminismo neoliberale.
L’accusa, poi, letta recentemente, di essere sfaticate perché scegliamo sempre lavori poco impegnativi (tutto da vedere) e preferiamo il part-time, deriva dall’ottusa incapacità, o dalla volontà oltremodo perfida, di non vedere che quella è una scelta spesso obbligata, perché le sfaticate hanno ore e ore di lavoro di cura extra-lavorativo, non retribuito e non considerato, ma faticoso e sfinente dal punto di vista fisico e mentale. I figli, la casa, le scadenze, i genitori da accudire, spesso anche quelli del partner. Ore e ore di lavoro. Stare coi figli non significa “giocare e guardare cartoni animati”, significa tenere pulita la casa, i loro vestiti, fare la spesa, preparare i pasti e controllare alimentazione e salute, passare quarti d’ora a cercare di prendere la linea col pediatra per fare esami e visite, portarceli, far fare loro attività, andare a parlare con gli insegnanti. Accudire gli anziani di famiglia, significa far loro la spesa, portarli a fare compere, portarli a fare gli esami clinici, occuparsi delle loro pratiche burocratiche, arrivare a prenderseli in casa e fare loro da badanti finché si riesce, perché le strutture pubbliche sono insufficienti e inadeguate, e quelle private sono inavvicinabili per i costi.
La vita di una donna è dunque costellata di impegni ed attività, che le impongono limiti pressanti e insormontabili alla sua attività lavorativa e carriera professionale, che sono tutte ritagliate su tempi e modalità trasferite dal mondo maschile a quello femminile senza alcun adeguamento.
A proporne, salterebbe immediatamente fuori chi li taccerebbe di discriminazione nei confronti del genere maschile, senza che nessuno si sia mai veramente scomposto per il fatto che il genere maschile gode del lavoro di cura gratuito delle donne prestato oltre quello salariato, per cui l’accordo di reciprocità “io lavoro, tu stai a casa” è saltato da un pezzo. E tengo a precisare che pur avendone la disponibilità finanziaria, non tutto il lavoro domestico e di cura può essere trasferito alle colf, e resta sempre e comunque in carico alla famiglia, tipicamente alla donna.
Se è l’uomo a farsene carico (molto raro), questi si accorge subito che la sua performance professionale diventa decisamente meno brillante. Anche il tempo per studiare, informarsi, fare politica – ma guarda! – diventa improvvisamente pochissimo e insufficiente.
Restano irrisolvibili, se non forzando la natura con conseguenze inimmaginabili e imprevedibili, la questione della maternità e del periodo di cura neonatale, in cui il legame psicofisico è fortissimo, che sono in carico alla donna in modo esclusivo. La separazione è dannosa, oltre ad essere dolorosa, e va evitata il più possibile (disgrazie a parte, che non sono per fortuna la normalità).
Certo, una donna può scegliere di non essere madre, può scegliere di non avere una famiglia da accudire. E in quel caso in moltissime professioni può eguagliare l’uomo.
Ma è davvero una scelta che una donna può o vorrebbe mai fare? Si può decidere a 20 anni per i successivi 40? E poi, siamo sicuri che sia a costo zero? Perché se non fosse a costo zero, ma anzi, il costo fosse molto elevato, cosa di cui sono assolutamente convinta, sarebbe un’imposizione, una costrizione che la società attuale impone alla donna che voglia perseguire una professione e di cui stiamo volutamente ignorando la violenza e l’ingiustizia.
In questo quadro sociale così frustrante per il genere femminile, turba in modo particolare la presenza in ambienti comunisti di misogini mascherati da compagni. E’ disperante vedere nei pochi capisaldi rimasti, anche in ambienti di grande spessore intellettuale, emergere una reazione maschile alla questione femminile, condita ora di vittimismo esasperante e francamente fuori luogo, ora di frasi ad effetto come quella nell’incipit, che tenta sempre e comunque di rimettere la donna al “suo” posto, in questo caso in un sistema perfettamente anticapitalista, ma pur sempre di impronta maschile, dove alla donna sono garantiti diritti e te li fai bastare.
Ma non può bastare un sistema che assicura alle donne che possono abortire quando vogliono, come se non fosse un trauma fisico e psicologico! che possono divorziare facilmente o che possono partorire e tornarsene subito a lavorare in fabbrica perché tanto c’è l'asilo nido di Stato! Un sistema che dice che possono fare carriera ma, nei fatti, non è previsto un percorso diversificato che salvaguardi il loro diritto ad essere madre, con il tempo necessario alla cura neonatale (che va ben oltre i nove mesi concessi a stipendio ridotto, il cucciolo d’uomo è molto lento nella crescita), e donna, con i suoi numerosi disturbi dovuti alla complessità straordinaria del suo organismo, che ancora vengono etichettati come scuse, o peggio, come problemi mentali.
Le donne devono trasformarsi in uomini per avere successo nella loro professione, accreditamento nella società, rispetto.
Tutto ci impone di combattere la nostra natura, come se fosse un difetto di fabbrica!
E a conti fatti, in questa fabbrica sociale, è effettivamente un difetto, un ostacolo al compimento di una certa idea di mondo, figlio della logica produttivistica ed economicista (di cui anche certo comunismo è pregno), della visione parziale, cioè di parte e di genere, del sistema sociale ed economico.
Questo causa frustrazione, conflitti, recriminazioni reciproche, rancori, violenza e vendetta da entrambe le parti, una catena da cui è necessario uscire, ma per farlo è necessario cambiare il sistema in cui viviamo, crearne uno dove sia possibile ristabilire relazioni tra uomo e donna che siano collaborative, sussidiarie, fondate su valori fuori dalla cultura di mercato e liberate dai vincoli economici, che sempre più spesso imprigionano le coppie in relazioni tossiche per non trovarsi su una strada. Vanno create istituzioni e strutture dedicate all’assistenza, alla cura delle persone più fragili, un sistema che garantisca l’accudimento come bisogno imprescindibile della natura umana, in tutte le sue forme, private e pubbliche.
L’analisi da cui partire per costruire un paradigma nuovo, deve tenere in considerazione questo aspetto e operare una completa riclassificazione.
Le attività e le relazioni umane sono riconducibili a due macrosettori, quello della PRODUZIONE e quello della RIPRODUZIONE. Quest’ultima va intesa nella sua accezione più larga possibile, che inizia con la generazione di nuovi esseri umani – funzione fondamentale per la sopravvivenza della specie – ma include anche il prendersi cura della vita in genere, fisica e psicologica, la guarigione e la riabilitazione, l'educazione, la nutrizione, nonché la cura del pianeta e dell’ecosistema.
E’ un approccio femminile, ma non necessariamente riservato al genere femminile, o almeno, non interamente.
Oggi il focus economico e sociale è rivolto principalmente alla produzione, che è tipico del capitalismo ed è un approccio essenzialmente maschile.
Il settore della riproduzione è visto addirittura come antieconomico, quando invece è il fine ultimo dell'economia, intesa più correttamente come la gestione delle risorse e il coordinamento delle attività umane, comprese le forze produttive, per la sopravvivenza e il benessere della società. Pensiamo ai tagli alla sanità, alla scuola, all’assistenza socio-sanitaria territoriale e al danno che hanno prodotto.
La concentrazione massiva delle risorse umane e materiali verso la sola produzione, tra l’altro orientata al profitto, ci ha riempito di attività il cui unico scopo è il proprio ritorno finanziario e che quindi producono senza sosta una quantità impressionante di cose da immettere nel mercato globale - non importa se poco sane, poco utili o addirittura dannose, non importa se sono l’ennesima versione di un prodotto di cui ce ne sono almeno altre 100 nel mercato del tutto simili in funzionalità, aspetto e perfino prezzo. Queste vanno ad aumentare la massa dei rifiuti e l'inquinamento, sfruttano forza lavoro in modo insensato, impiegano materie prime e risorse alimentari che sono limitate, causando uno spreco intollerabile.
E’ evidente che il capitalismo non soddisfa i bisogni, non è quello il suo fine, e infatti restano inevasi, compresi quelli puramente materiali, di base perfino, figuriamoci quelli sociali e spirituali..
Un sistema fondato sul consumo è chiaramente antagonista di uno fondato sulla conservazione, sulla riproduzione, sulla cura. Oggi si butta via tutto quello che si guasta o invecchia, cose e persone. Molti finiti al margine sono scarti di cui la società non si occupa più.
Non che la produzione non sia importante, ma il Socialismo indica la necessità di un diverso modo di produzione, che risponde a precise indicazioni sul come, sul cosa e sul perché si produce.
Nel Socialismo la produzione va posta in relazione diretta con la riproduzione, che è il motivo per cui esiste.
Come va ad impattare nella questione femminile questo tipo di approccio?
Ridare dignità alla riproduzione, significa evitare di riferirsi al lavoro di cura e domestico come qualcosa che "toglie risorse alla produzione", ma diventa parte delle attività essenziali, che aggiungono valore, non lo sottraggono. E' nell'interesse della collettività che sia fatto bene e con responsabilità. Una volta si stigmatizzavano le donne che andavano a lavorare, adesso si fa con quelle che restano a casa. Come dare una possibilità di scelta vera? Il lavoro domestico come attività principale e la maternità devono essere retribuite con un salario di dignità direttamente dallo Stato, deve essere possibile stare a casa per dedicarsi alla cura familiare senza ridursi alla povertà o alla dipendenza dal partner. Le donne, o gli uomini, che decidono di stare a casa per seguire i figli, devono poter essere economicamente indipendenti. Fanno cose importanti, lavorano, ma fuori mercato. Ovviamente ci devono essere dei controlli, stare a casa non deve essere una scusa per non fare nulla, questo vale per le donne, come per gli uomini. Non è una via di fuga. Lavorare è un dovere etico, è il principio su cui si fonda una comunità. Si può lavorare meno, fare cose che hanno un senso, ma non si può non contribuire. C’è troppo lavoro da fare, bisogna dividerselo equamente. E in quell’equamente c’è l’abisso in cui è scivolata la condizione femminile negli ultimi anni, che ci vede costrette a lavorare per avere un reddito familiare sufficiente, per cui il carico di lavoro sulle spalle delle donne è molto più pesante.
Il lavoro non è una merce, il lavoro è un bene, una risorsa collettiva.
Va utilizzato per il benessere sociale e gli obiettivi d’interesse pubblico.
Il lavoro può essere nella produzione o nella riproduzione, perché devono esserci entrambi per sostenere la società e il livello minimo di dignità umana a cui dobbiamo aspirare, ed entrambi devono avere il giusto riconoscimento.
La questione femminile ha molto da portare alla discussione per l’abbattimento della logica capitalistica: una prospettiva sociale ed economica focalizzata sulla riproduzione anziché sulla sola produzione, scardina il sistema in modo più efficace e duraturo. E propone una evoluzione quanto mai necessaria ai partiti che volessero farsi portavoce di un Comunismo per il XXI, con obiettivi e valori pienamente condivisibili dall’altra metà della popolazione umana.
NOTE SULLE "CONSIDERAZIONI SULLA QUESTIONE FEMMINILE" DI CHIARA ZOCCARATO
di Alessandro Visalli
Il testo della mia ottima e vecchia amica Chiara Zoccarato sostiene che il sistema nel quale viviamo, la forma di capitalismo estremamente radicale e trionfante ormai da decenni, è ‘disturbato’ sia dalla ‘lotta di classe’ come dalla ‘lotta tra i sessi’. O, almeno, valuta l’affermazione come da verificare. Questo è l’avvio del testo, questa la conclusione. Quindi, per lei la ‘questione femminile’ contribuisce in modo decisivo all’abbattimento della ‘logica capitalista’ nel punto specifico nel quale sposta la prospettiva dalla produzione alla riproduzione.
Si tratta, come altri, di un luogo classico del vasto e multiforme pensiero ‘femminista’.
Chiara si dichiara consapevole, e in accordo, con la diagnosi dell’andare fuori strada del ‘femminismo di seconda generazione’(1), ma nel modo di descriverlo (2) sembra in sostanza riferirsi al cosiddetto “femminismo dell’eguaglianza”, o del “soffitto di cristallo”. In altre parole, alla corrente liberale dello stesso. Quel che, evidentemente, non va ‘fuori strada’ è il ‘femminismo della differenza? (3), almeno in una versione moderata che si limita a “evidenziare le differenze” e quindi la complementarità (Chiara usa in posizione chiave il condivisibile termine “compensarci”). D’altra parte, nel suo pezzo stigmatizza l’atteggiamento reattivo di coloro i quali, davanti all’avanzamento della ‘questione femminile’ (ovvero, della presenza sociale delle donne), reagirebbero per ‘rimettere la donna al ‘suo’ posto”. E, per farlo, rovescerebbero la posizione vittimaria avanzata dal femminismo (dichiarando che non è la donna in quanto tale ad essere vittima, ma lo è il ‘proletario’ tutto e spesso anche l’uomo in posizione di debolezza), in una specie di gara a chi può rivendicare la posizione più svantaggiata.
Chi avesse questo atteggiamento reattivo, antitetico-polare, di fronte alla percezione di un avanzamento della presenza della donna, in quanto tale, nella società, nel mondo del lavoro, e nella cultura, sarebbe, ovviamente, da condannare. Ovvero sarebbe da combattere chi nutrisse il progetto di un sistema nel quale le gerarchie prodotte dal capitale (che non è, in quanto tale, maschio o femmina) vengano abbattute, ma permangano quelle socialmente determinate a partire dalle differenze di genere. Liberarsi dal vincolo dell’ordinatore economico non può significare, infatti, ritornare al “caro vecchio mondo” (peraltro mal compreso) nel quale religione, onore, forza ordinavano gerarchie pervasive e largamente implicite. Non c’è bisogno di essere subalterni al mito del progresso, o alle assiologie moderniste, per respingere questa prospettiva.
Così come, nessun equivoco su questo punto, tutte le attività di cura necessarie che elenca (tenere pulita la casa, cucinare e fare la spesa, seguire la salute e istruzione dei figli, aiutare gli anziani) devono essere svolte da entrambi i membri della eventuale coppia. Non c’è alcuna ragione perché siano considerate “attività femminili”. Non lo sono, e non lo devono essere. Sono, semplicemente, cose necessarie da fare. Personalmente le faccio tutte.
Se pure ci sono ritardi, e casi di arretratezza culturale, il fatto che tutto il lavoro, cosiddetto produttivo e cosiddetto riproduttivo possa e debba essere svolto dagli uomini come dalle donne, e non sia maschile come femminile, è una specifica conquista del femminismo della prima ondata. Si è consolidato durante la metà del secolo scorso, e non si può retrocedere da esso. Paradossalmente è quando si dice che alcuni lavori sono “femminili”, perché lo sono le relative sensibilità, che si sta retrocedendo.
La sostanza del testo ripercorre infatti un altro dei topos classici del pensiero femminista della differenza nel momento in cui, come ad esempio insiste spesso Silvia Federici, arriva a stigmatizzare la via al successo in versione femminea come necessariamente mimetica del ‘maschile’. Ovvero segue quella linea che denuncia la spinta alla carriera e l’inserimento in posizione produttiva nel sistema economico come cedimento all’immersione nel patriarcato (o, con formula da scioglilingua, alla subalternità alla “fallologocrazia” (4)). Una logica patriarcale, o un’organizzazione del mondo economico che svantaggerebbe sistematicamente le donne nel momento in cui le costringerebbe, per non perdere valore, a tornare in fretta al lavoro dopo aver fatto un figlio, ad ignorare i disturbi mensili tipici del genere, ecc. Chiara, non senza ragione, critica, insomma, la “logica produttivista ed economicista” che prevede un salario a fronte di una prestazione (con ovvia estrazione di plusvalore e tutto quel che ne consegue), ma lo fa da una prospettiva ben specifica. In uno dei passaggi chiave del testo, decisamente dirimente per comprendere il punto di vista dell’autrice, è affermato che i diritti (di abortire, divorziare, avere sostegno alla gravidanza) sono “conquiste a metà” perché figlie della citata “logica produttivista” e di una “visione parziale, cioè di parte e di genere, del sistema sociale ed economico attuale”. Un sistema sbilanciato (per la semplice ragione che le donne aggiungono lavoro di cura, svolto in esclusiva, a quello produttivo remunerato) per ragioni “strutturali”.
E’ questo il punto essenziale sul piano dell’analisi: è lo squilibrio ‘strutturale’ o ‘residuale’ e congiunturale?
Insomma, l’intero sistema capitalista, creato a partire dalla prima rivoluzione industriale alla metà del settecento sarebbe sessista, in quanto creerebbe la figura del lavoratore dipendente la cui ‘forza-lavoro’ è notoriamente acquistata e remunerata in rapporto alla produzione media sociale che determina. O, in altre parole, è strutturalmente sessista semplicemente perché nella forma capitalista non si riceve perché si esiste (come in parte avveniva nel mondo precapitalista, nel quale la relazione tra sostegno e produzione era meno diretta e razionalizzata), ma si riceve se si produce un valore che si realizza nella circolazione della merce. In altre parole, se si produce qualcosa che può diventare merce ed essere venduto. L’argomento, al livello portato, sarebbe che la forma citata è ‘maschile’ anche in quanto alcuni mesi nella vita e alcuni giorni nel mese la biologia femminile (ovvero la nostra natura di mammiferi) inibisce, o ostacola, la produzione (in favore, vedremo, della ‘riproduzione’). Ovvero, è maschile in quanto pone l’uomo in condizione strutturale di vantaggio, disponendo di un numero maggiore di giorni lavorativi potenziali. Riposerebbe in questa differenza biologica la natura sessista della caratteristica “strutturale” dell’economia data dal suo orientamento a remunerare solo la produzione di merci (e non l’esistenza in sé).
Ci sono alcuni problemi: il primo è che sul piano quantitativo ben più della specializzazione biologica conta la cultura che vi è stata tradizionalmente costruita sopra (per cui non è certo per il breve periodo di allattamento che la donna viene a specializzarsi nella ‘cura’, ma per questa); il secondo è che in questa prospettiva in pratica tutto è capitalismo e ogni società concepibile è sessista. Se la differenza biologica determinata dalla fisiologia riproduttiva, che nel mondo premoderno era solo una delle tante differenze rilevanti (5), fosse così dirimente non si tratterebbe di uscire dal capitalismo, ma dalla società di mercato stessa (la tendenza a remunerare la produzione di merci, in rapporto ad esse, e non l’esistenza in sé è, in effetti, larghissimamente rappresentata e non solo da società “capitaliste”, come la stessa Chiara ricorda di passaggio).
O no? Chiara propone un’alternativa. Si tratta di un ‘programma maggiore’ di uscita dalla società di mercato, quello di “cambiare il sistema in cui viviamo, crearne uno dove sia possibile ristabilire relazioni tra uomo e donna che siano collaborative, sussidiarie, fondate su valori fuori dalla cultura di mercato e libere dai vincoli economici”. Sono d’accordo, ma servirebbe anche un programma di transizione. Di seguito, nella frase immediatamente successiva, lo riporta ad una prospettiva meno drastica, di aggiunta o complementarietà (welfarista, se vogliamo): “Vanno create istituzioni e strutture dedicate all’assistenza, alla cura delle persone più fragili, un sistema che garantisca l’accudimento come bisogno imprescindibile della natura umana, in tutte le sue forme, private e pubbliche”. Questa potrebbe assomigliare alla prospettiva indicata da Angela Davis nel 1981 nel suo classico “Donne, razza e classe” (6) : l’industrializzazione e collettivizzazione del lavoro di cura (anche se lì ha un gusto decisamente più collettivista).
Ma nel seguito il piano di giustificazione di questa richiesta pragmatica (essere messe in pari dalla società, con riferimento a quello che nelle condizioni attuali appare come uno svantaggio situato chiaramente ingiustificabile) si approfondisce, secondo una classicissima rivendicazione, facendo leva su un’affermazione che non posso condividere. Quella secondo la quale è femminile prendersi cura della vita (7). E di tutta la vita, nella sua dimensione fisica come in quella psicologica, nella guarigione come nella riabilitazione, nell’educazione, nella nutrizione, nella cura del pianeta. Insomma, quando io lo faccio sarei una donna. Per dirlo diversamente, se una donna sta lavorando imiterebbe l’uomo e se l’uomo fa lavori di cura imiterebbe la donna. Paradossalmente in queste posizioni, proprie di tanta letteratura femminista, si nasconde esattamente la mentalità che si denuncia.
In altri termini, la donna è fondamentale per la sopravvivenza della specie, l’uomo ha il posto in commedia del distruttore. La generazione degli esseri umani (ma, di più, la loro crescita ed educazione) è “un approccio femminile”. Chiara scrive esattamente così.
Mi spiace, ma sono in disaccordo. Quando ho cura dei miei figli non sono in un ruolo materno, ma paterno, quando pulisco la casa faccio semplicemente il necessario per vivere in un ambiente decoroso, se stiro le magliette di Marco sto facendo un gesto di amore paterno, quando faccio la spesa e poi cucino sostengo la mia famiglia, se aiuto mia madre sono un bravo figlio (non una figlia travestita). Se la madre si prende cura della famiglia e di coloro che ad essa sono affidati lo stesso, da sempre, fa il padre. Secondo le diverse culture e nei diversi modi di produzione, come nei diversi ruoli sociali e condizioni esistenziali è possibile lo faccia diversamente. Ma entrambi, da sempre, si prendono cura. Si tratta di una caratteristica della nostra specie.
Nessuno può fare da sé, entrambi servono.
Forse ci arriveremo. Perché se si generalizza la fecondazione artificiale, in effetti, le donne potranno fare da sole. Ma andremo oltre, perché con l’utero artificiale anche loro non serviranno più e non ci sarà più bisogno che di donatori. Ed oltre, con la clonazione non avremo più bisogno che della matrice da clonare. Al termine è possibile si arrivi al ‘postumano’. Una sorta di ibrido, non uomo né donna, geneticamente progettato, polimorfo, pronto alla infinita malleabilità. Al dominio della moda.
Io non vedrò questo mondo, e ne sono lieto. Mi auguro non lo veda neppure mio figlio (e nessuno in genere).
Ma intanto non ci siamo. E oggi, mi spiace, ma l’uomo non è il male, la donna non è il bene. Siamo tutti fatti di fango e tutti possiamo elevarci. Abbiamo tutti cura della vita, alla quale apparteniamo. Non è femminile far crescere e non è maschile uccidere. Come sappiamo da innumerevoli esempi le donne, se utile e necessario, sanno uccidere benissimo (magari diversamente). Se giustamente tanta letteratura femminista attacca ed accusa il suprematismo maschile, se teme atteggiamenti antitetico-polari di maschi che si immaginano dominanti e si scoprono pari, tuttavia questi passaggi (e la fuorviante e sfocata concettualmente ed operativamente distinzione tra “produzione” e “riproduzione”) sembrano fare la medesima mossa. Sostituire un suprematismo con l’altro.
Io sono un uomo. Non ho alcuna vergogna ad esserlo e non ritengo di avere nulla da scusare nell’esserlo. Non ho mai pensato, un solo minuto della mia vita, di essere superiore per questo. Come non ho pensato di essere superiore perché ho studiato più di altri (e meno di altri), non ho ritenuto di esserlo per la mia razza, per il luogo della mia nascita (Milano), per il luogo della mia crescita dopo l’infanzia (Napoli), per i soldi che ho (o non ho). Condivido la visione per la quale uomini e donne sono diversi, in alcune cose, e simili, in altre. Ma non quella che ci sia una supremazia morale intrinseca dell’uno sull’altra (o dell’altra sull’uno).
Il problema, andando più in profondità, è che a partire, dalla distinzione fallace tra “produzione” e “riproduzione” (derivante nella cultura marxiana dall’ordine del discorso, espositivo, tenuto nel “Il Capitale” e dal carattere incompiuto dell’opera, e non da una effettiva distinzione essenziale (8)), e dall’attribuzione della centralità di questa “al capitalismo” (casomai, come scritto prima, è una centralità del “realizzo” della merce come capitale, esasperato nella fase finanziaria di questo), deriva un movimento di pensiero, il vero e proprio teorema fondativo, per il quale se il capitalismo si concentra sulla produzione, e il settore della riproduzione è altra cosa (e femminile), allora il capitalismo è maschilista. Non è vera la premessa maggiore (casomai il capitalismo è riproduzione ed accumulo del valore attraverso la produzione di merci e il loro realizzo) e non è vera la premessa minore (la riproduzione non è femminile, nel senso dato ed allargato, unico pertinente), dunque non è dimostrata la conclusione.
Bisogna chiarirsi. Tra amici è necessario. Io credo che la frase di Chiara “oggi il focus economico e sociale è rivolto principalmente alla produzione, che è tipico del capitalismo ed è un approccio essenzialmente maschile”, sia imprecisa e a rigore falsa. Il focus economico nella nostra società è rivolto piuttosto alla valorizzazione del capitale (non necessariamente tramite la produzione di merci) e la produzione non è tipica del capitalismo. Infine, tutto ciò non è essenzialmente maschile, ma ha a che fare con la centralità del denaro. Al contempo, però, è vero che “il settore della riproduzione” (es. istruzione, cure ospedaliere, assistenza agli anziani ed ai bambini, ai disabili) è “visto come antieconomico”, e tollerato al minimo necessario per la tenuta sociale. Come è fondata la critica allo spreco implicato nella creazione di merci per la valorizzazione del capitale e non per la propria funzione di uso ed utilità sociale. Questa è una classica critica marxiana e la condivido (9). Ed è corretto che quando nominiamo “socialismo” essenzialmente intendiamo un modo di produzione ed una creazione di valore che pone in questione socialmente, e discute democraticamente, di cosa, perché e come produrre. Di cosa, come e perché qualcosa si possa scambiare nei mercati. Di cosa, come e perché esiste l’uomo e la società che questo forma. Di cosa sia il valore.
Tuttavia la produzione, come la circolazione, è sempre necessariamente in relazione diretta con la riproduzione alla scala sociale. È questa relazione che va posta in questione e con essa i ruoli sociali che crea e determina.
La soluzione che al termine Chiara propone (come alcune parti del femminismo radicale, talvolta in chiave espressamente anticapitalista) è semplice: che lo Stato dia a tutti e tutte coloro che si occupano della maternità (e paternità) e del lavoro domestico un salario incondizionato. Ciò si traduce, evidentemente, nella liberazione dal lavoro come necessità (infatti nelle posizioni più coerenti questa idea si lega con il rifiuto del lavoro ed una “società dei commons” (10)), e va in frizione con la proposta della stessa Chiara, in molte sedi rilanciata, del “lavoro di prima istanza”. Infatti, nelle ultime frasi le due prospettive si affastellano un poco.
È chiaro che si tratta di un nodo complesso. Era il punto nel quale la Davis nei primi anni ottanta prendeva la strada non del salario per il lavoro domestico (che criticava in quanto a bassa produttività), bensì della fornitura pubblica ed a maggior livello di produttività dello stesso (cosa che implicherebbe la fornitura pubblica di servizi per la prima infanzia, di sostegno fiscale, di forme di cooperazione assistita dallo stato per i lavori domestici, lavanderie pubbliche, e via dicendo). La stessa Chiara ne fa cenno quando, dopo il programma massimo, individua intanto una strada di potenziamento dei servizi collettivi che possono alleviare (e di molto) il lavoro di cura, da chiunque svolto.
Dunque io piuttosto direi, per concludere e lavorare sul programma maggiore: immaginiamo un ‘lavoro di prima istanza’ per tutti e tutte, al contempo, perché questo non introduca forme di sovrasfruttamento, fornitura di beni pubblici e sostegno multisettoriale per alleviare il lavoro di cura per tutti e tutte. Insomma, piena eguaglianza e reciproco rispetto.
Poi ognuno faccia ciò che ritiene per sé più adeguato e aiuti la società secondo le proprie capacità.
Note
(1) Oggetto di un capitolo molto specifico e molto chiaro nel libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020. Nella sezione “Regimi della ragione liberale”, che analizza i ‘regimi di ragione’ ovvero il sistema di motivazioni e giustificazioni che definisce il tipo di opposizioni che si prendono in considerazione per fare forma alle pratiche, dopo aver analizzato il naturalismo obiettivista e il postmodernismo filosofico che indica una operazione di richiusura nel privato, inquadra il diritto naturale soggettivo come snodo essenziale della ragione liberale. È a partire da questa logica che l’individualismo metodologico liberale si trasferisce nella prevalenza della logica rivendicazionista e in una forma sui generis di lotta di mercato (per far affermare il proprio ‘diritto’). Questa predominanza del ‘rivendicazionismo’ inaugura una strutturale manipolabilità ed una tendenza alla “liquefazione sociale” di cui è espressione anche il femminismo della ‘seconda ondata’. Nella ricostruzione di Zhok il dimorfismo sessuale di specie per la gran parte della storia dell’umanità conosciuta non ha determinato una qualche forma rivendicabile di oppressione di genere, piuttosto una complementarietà funzionale. L’insorgenza di società stanziali e organizzate avrebbe mutato questa predisposizione inaugurale da una specializzazione sull’asse interno/esterno ad una privato/pubblico, nel quale, però, non è legittimo leggere ‘oppressione’ in quanto questa etichetta è generata dalla proiezione delle nostre categorie e sistema di valori. Specificamente dalla costruzione illuminista delle idee di ‘parità’ ed ‘eguaglianza’ (un concetto simile anche in Honneth, “Capitalismo e riconoscimento”, Firenze University Press, 2010, p.80). La nozione di giustizia antica è fondata sul dare il giusto ad ognuno secondo la sua natura. Come ricorda anche Silvia Federici (cfr. “Origini e sviluppo del lavoro sessuale negli Stati Uniti e in Gran Bretagna”, in “Genere e capitale”, Derive ed Approdi, 2020) è la rivoluzione industriale, con l’espulsione del lavoro produttivo e la sua concentrazione nella fabbrica, a creare la divisione del lavoro che conosciamo, o meglio che si afferma nell’età vittoriana. Rimesso nei suoi termini il ‘torto storico’, e facendo uso della ‘logocentrica’ analisi strutturale, le ‘politiche dell’identità’ ed i movimenti di ‘separatismo femminile’ sono visti come parte della tendenza liberale alla frammentazione sociale, via sacralizzazione della ‘vittima’.
(2) Un femminismo che “presenta una forma di emancipazione femminile distorta e competitiva, felicemente all’interno del sistema capitalistico e per il raggiungimento del successo sociale ed economico secondo i valori di mercato”.
(3) Sul quale ho scritto un lungo post, “Pochi appunti sul femminismo della differenza”. In esso sostengo che sul piano storico e della provenienza delle idee il ‘femminismo della differenza’ (che, certo, è altamente differenziato al suo interno e si può solo qui riportare idealtipicamente), muovendo dal contesto della ‘controcultura’ degli anni sessanta e dalle università americane, sia fondato sulla pretesa di individuare un dimorfismo ontologico su base naturalistica per evidenza più fondamentale, o radicale, delle divisioni di classe all’epoca oggetto della critica radicale. Il contesto culturale degli studi linguistici e strutturalisti (e, poco dopo, della penetrazione del post-strutturalismo), favorisce quindi una critica con toni estetici radicali che identifica l’esteriorità del conflitto “tra i sessi” come prioritario sul conflitto “di classe”. È uno spostamento decisivo di bersaglio: invece del capitalismo viene scelto, nel contesto giova ricordarlo del welfare compiuto e di una società affluente, come bersaglio il livello più ‘profondo’ della differenza sessuale. In alcune versioni si scivola verso la costruzione di una femminilità idealizzata, materna, e quindi per definizione non violenta, armonica, naturale. In questa teologia e cristologia trasposta il maschile prende il posto del diavolo. E quindi si veste del simmetrico male, anche esso naturale e quindi ineliminabile: violento sin nelle sue manifestazioni più essenziali, gerarchico, entropico. La costruzione concettuale del “patriarcato”, e la denuncia del “fallologocentrismo” come elemento essenziale ed ineliminabile di ogni cultura umana conosciuta (in particolare scritta) e di ogni forma di organizzazione sociale, induce la duplice mossa del ‘separatismo’ (seguendo il mito della ‘sorellanza’) e della ritirata dal pubblico-politico (in favore di un privato-politico che inconsapevolmente copiaincolla la classica divisione storica premoderna dei ruoli). Tutto questo avviene, giova ricordarlo, in un clima di scoraggiamento e riflusso seguito alla perdita di spinta egemonica, e poi al crollo, del ‘mondo nuovo’ socialista. Emerge quindi la lotta sull’ordine simbolico (Muraro) che rinuncia alla critica diretta dei rapporti sociali, immaginando che la liberazione di tutti emerga come effetto spontaneo dall’azione individuale per l’affermazione femminile (un’idea straordinariamente simile a quella della ‘mano invisibile’).
(4) Si veda, ad esempio, Adriana Cavarero, Franco Restaino, “Le filosofie femministe”, Bruno Mondadori, 2002. Ed, ovviamente, i testi di Luce Irigaray a partire da “Speculum”, 1974 (trad.it. Feltrinelli, 1975), e “L’etica della differenza sessuale”, Feltrinelli 1985.
(5) Si tratta di considerazioni a volo d’uccello (o proprio dal satellite), tuttavia nelle società nelle quali predomina il modo di produzione schiavista la distinzione essenziale è questa, nel campo dei liberi la società si divide in dominus e clientes (che non è solo, né principalmente, una divisione identificabile con il senno di poi come ‘economica’), e nei due sottocampi il posto dei maschi e delle femmine si articola sull’asse privato/pubblico, con eccezioni. Per cui gli schiavi lavorano tutti senza distinzioni, anche nei servizi sessuali, i liberi poveri -o clientes- sono variamente coinvolti in attività produttive, i domines coordinano gli uni e gli altri. E lo fanno sia i maschi, sia le femmine. Leggere i rapporti di dominazione con gli occhi post-illuministi contemporanei potrebbe essere fuorviante. Ed usare categorie come ‘falsa coscienza’ altamente problematico. Nelle società in cui predomina il modo di produzione feudale il campo degli schiavi si allarga ed assottiglia al contempo (subentrando altre figure giuridiche dominanti) e la divisione dominus/clientes organizza in profondità, su linee molto più articolate l’intera società. In esse ognuno ha il suo posto che corrisponde alla forma del cosmo. Tutto è organizzato da una ‘grande catena dell’essere’ la quale dai contemporanei non è vissuta come oppressiva, bensì naturale. Uno dei problemi più seri della letteratura critica in oggetto è che proietta imperialisticamente la forma di vita occidentale e contemporanea nello spazio e nel tempo. Giudicando il mondo esclusivamente a partire dal proprio metro.
(6) Angela Davis, “Donne, razza e classe”, Alegre, 2018.
(7) Per come scrive si tratta di un “approccio femminile”, anche se talvolta può essere praticato anche dai maschi.
(8) Questa è una questione di esegesi del testo davvero complessa, sulla quale tornerà nella lettura del testo di Silvia Federici, “Genere e capitale”, op.cit., ma per ora si può dire sinteticamente che non si può produrre senza riprodurre i fattori che in essa vengono consumati. Almeno non si può senza provocare una progressiva distruzione di questi, e, a medio termine, la stessa impossibilità di continuare la produzione. Certo, una ricorrente logica malthusiana ricorda sempre a questo punto che il mondo è ‘finito’ e che quindi, per definizione, la crescita costante e lineare della capacità umana di estrarre dalla “madre terra” i suoi frutti andrà incontro all’esaurimento. Non intendo controbattere questo argomento (se pure da articolare meglio, data la capacità dell’ingegno umano di aggirare quando necessario i suoi vincoli), ma se pure si può individuare una certa tendenza alla “crisi della cura” (titolo di un libricino di Nancy Fraser) il punto limitato che qui si pone è solo che produzione e riproduzione sono internamente connessi ed inseparabili. Questa non è una critica del marxismo, ma una sua applicazione. Non possono dunque essere concepiti come settori contrapposti e, tanto meno, armati gli uni contro gli altri.
(9) Nel mio “Dipendenza” (Meltemi 2020), nel primo capitolo è riportato in proposito il pensiero dell’economista marxista Paul Baran.
(10) Ad es. Silvia Federici, op. cit. In particolare “Femminismo, riproduzione e funzione della tecnica”, p. 88, e “Dal comunismo ai commons, una proposta comunista”, p.97.