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domenica 24 novembre 2024

LE CRITICHE D’UN FILOSOFO SOVIETICO 
 ALLE SINISTRE RADICALI OCCIDENTALI
UN DIBATTITO DEL 73 CHE AIUTA A CAPIRE
PERCHÉ’ IL CAPITALE HA VINTO








Alcune settimane fa Alessandro Visalli, il quale era giunto a conoscenza della sua esistenza da un post su Internet, mi ha segnalato un libro del 1973: Filosofia della rivolta. Critica della sinistra radicale, del filosofo sovietico Eduard Jakovlevič Batalov. Il  libro, uscito in edizione italiana qualche anno fa per i tipi della Anteo Edizioni, benché infarcito di refusi e tradotto malissimo (solo chi disponga di una buona conoscenza degli argomenti è in grado di afferrare il senso di certi passaggi al limite della incomprensibilità) è di indiscutibile interesse storico da vari punti di vista. 


In primo luogo, perché questa analisi di un intellettuale russo dell’era brezneviana sulle sinistre radicali degli anni Sessanta in Occidente, permette di comprendere meglio con quali occhiali teorici e ideologici la cultura sovietica di allora osservasse la società tardo capitalista e i suoi conflitti di classe, le lotte del Terzo Mondo, le prospettive del movimento comunista e della rivoluzione mondiale, il tutto non molto prima di andare incontro alla propria dissoluzione. Poi perché, a mezzo secolo di distanza dalla sua stesura, il bilancio che Batalov traccia dei limiti della cosiddetta Nuova Sinistra e delle ragioni del suo fallimento (estendibile al fallimento dei “nuovi movimenti” che ne hanno raccolto l’eredità culturale e politica) anticipa una riflessione critica che, alle nostre latitudini, è maturata solo a partire dai primi del Duemila. Infine, perché è una lettura che aiuta a capire come i punti di vista dei soggetti criticati e il punto di vista di chi li critica, per quanto apparentemente opposti, condividessero una serie di elementi che hanno impedito a entrambi di prevedere e contrastare la controrivoluzione liberale che di lì a poco li avrebbe duramente sconfitti.  



I bersagli critici di Batalov 


Sul piano ideologico e filosofico, le critiche di Batalov puntano il dito in particolare contro il sociologo americano Wright Mills; contro i membri della scuola di Francoforte e il loro concetto di “dialettica negativa” (1), Adorno ma sopratutto Marcuse, citato così spesso da occupare pagine e pagine del libro; contro Sartre e l’esistenzialismo; contro Frantz Fanon e i teorici “terzomondisti”; contro il pensiero di Mao e la Rivoluzione Culturale. All’ampiezza di questa schiera di presunti inspiratori della Nuova Sinistra fa riscontro l’area geografica relativamente ristretta alla quale dedica la sua analisi: si concentra soprattutto sui movimenti di Stati Uniti e Francia (il che spiega lo spazio privilegiato accordato ad autori come Mills, Marcuse e Sartre) mentre a Paesi che pure hanno avuto un ruolo importante in quella stagione di lotte, come l’Italia e la Germania, dedica scarsa attenzione.Veniamo ora alle accuse rivolte alla cultura e alla prassi politica dei movimenti in questione. 



E. J. Batalov



La prima si riferisce al fatto che si auto definivano come una forza rivoluzionaria in grado di rimpiazzare il proletariato, in quanto – al pari di Mills e Marcuse – ritenevano  quest’ultimo del tutto integrato nella società dei consumi e compartecipe dei valori borghesi. 


La seconda riguarda il riemergere di uno spirito anarcoide di sapore ottocentesco: l’ideologia dei movimenti occidentali, scrive Batalov, era radicalmente anti partitica e antistatalista in base all’idea che ogni organizzazione è un’incarnazione materiale del principio burocratico, o meglio che la burocrazia è una caratteristica inalienabile dell’organizzazione in quanto tale e, di conseguenza, associavano le loro aspirazioni non tanto al socialismo quanto con un concetto astratto di società libera. 


La terza chiama in causa l’esaltazione dello spontaneismo, associata all’assenza di qualsiasi chiara definizione del futuro da costruire: il movimento è tutto mentre l’obiettivo non conta nulla, nella misura in cui si pensa che la società futura è il movimento stesso e le nuove forme di socialità cui dà vita. La quarta è in un certo senso un corollario della terza, in quanto coincide con l’estetizzazione delle forme e dei metodi di lotta:  si prediligono comportamenti studiati deliberatamente per scioccare conformisti e benpensanti (épater les bourgeois); si esprime il bisogno di una creatività libera e disalienata, si cerca la bellezza nelle relazioni; “l’immaginazione al potere, siate realisti chiedete l’impossibile”, recitavano gli slogan del Maggio francese, e qui Batalov richiama in causa Marcuse e il suo invito a travalicare i limiti delle pseudo trasgressioni ispirate dal consumismo (vedi il concetto di “tolleranza repressiva” (2)). 


La quinta è l’apologia della violenza considerata uno strumento di per sé rivoluzionario e liberatorio. La confusione di mezzi e fini, e l’assenza di un’analisi ponderata della necessità o meno di ricorrere alla violenza in base alle condizioni concrete di tempo e luogo, chiosa Batalov, è una minaccia per una negazione davvero rivoluzionaria, mentre la negazione e il rifiuto assoluti di tutti gli aspetti della cultura precedente tendono a degenerare in rifiuto della cultura in sé e quindi nel nichilismo. 


A questo punto – circa a metà della lettura - confesso di essermi domandato se Boltanski e Chiapello, nello scrivere la loro splendida analisi del “nuovo spirito del capitalismo” (3), si siano almeno in parte ispirati a Batalov, laddove parlano della separazione fra critica sociale (retaggio del movimento operaio tradizionale) e critica artistica (espressione dei nuovi movimenti degli anni 60 e 70). Senonché fra i due punti di vista c’è una differenza di fondo: i due sociologi francesi scrivono a posteriori, avendo cioè potuto assistere all’evoluzione politico-culturale delle generazioni che erano state protagoniste dei movimenti degli anni 60 , per cui ne descrivono l’integrazione nei nuovi meccanismi di gestione delle imprese e delle istituzioni postfordiste, così come hanno potuto assistere al deragliamento dei nuovi movimenti (femministe, lgbtq, ambientalisti, ecc.) verso la cultura woke del politicamente corretto, concentrata sui diritti civili e sui valori individualisti del neoliberalismo. Viceversa Batalov non poteva conoscere questa evoluzione che sarebbe maturata nei decenni successivi al momento in cui scriveva. La sua è stata un’intuizione profetica? Sì, se si accetta l’idea secondo cui tale evoluzione era inevitabile e necessaria, se invece si pensa che quella complessa e convulsa stagione avrebbe potuto avere esiti differenti, è il caso di evidenziare come l’analisi di Batalov peccasse di semplicismo e si basasse su una serie indebite generalizzazioni. Vediamo quali.


Uno. Dopo una prima ondata spontaneista (tipica dei movimenti studenteschi), settori consistenti delle sinistre radicali avevano tentato di dare vita a embrionali formazioni neo comuniste di tipo partitico, mentre accusavano i partiti comunisti ufficiali di opportunismo e revisionismo, quindi erano tutto meno che anarchici ed estetizzanti. Ciò vale in particolare per l’Italia, dove alla rivolta studentesca aveva fatto seguito una formidabile mobilitazione operaia duramente critica nei confronti delle organizzazioni partitiche e sindacali tradizionali.


Due. Batalov paragona le sollevazioni studentesche in Occidente al movimento cinese delle Guardie Rosse, ma questo significa rimuovere le radicali differenze storiche, culturali, politiche ed economiche fra i due contesti, identificando i fenomeni sull’unica base del peso maggioritario della componente giovanile-studentesca. Qui gioca ovviamente l’intento propagandistico anti-cinese, frutto della rottura fra le due grandi nazioni socialiste, Nè il povero Batalov poteva immaginare che, di lì a poco, la Cina “eretica”, chiusa l'infelice parentesi della Rivoluzione Culturale, avrebbe imboccato la via delle riforme, che l’avrebbe portata agli attuali vertici di potenza economica e politica globale, mentre l’ortodossa Unione Sovietica si sarebbe afflosciata sotto il peso dei propri errori e dell’offensiva imperialista. 





Tre. I giudizi liquidatori nei confronti di Frantz Fanon e di altri teorici della rivoluzione coloniale (accusati, al pari di Marcuse e Sartre, di essere i “cattivi maestri” della Nuova Sinistra occidentale) sono in palese contrasto con il giudizio di Lenin in merito al ruolo strategico (e non di mero supporto tattico agli interessi del socialismo reale) delle lotte di liberazione nazionale per l’attuazione della rivoluzione socialista mondiale. Così Batalov squalifica sia l’idea secondo cui la lotta contro l’imperialismo può inizialmente  prescindere dalle divisioni di classe fra gli oppressi (4), sia le tesi di coloro che “vorrebbero farci credere che nei paesi coloniali solo i contadini sono rivoluzionari”. Purtroppo per lui, le rivoluzioni antimperialiste in America Latina (da quella cubana a quelle bolivariane) hanno confermato che questa credenza è fondata, almeno in determinati contesti geografici, mentre i partiti comunisti ortodossi hanno dovuto accontentarsi dei nuovi spazi politici creati da leader come Chavez e Morales (5).



Le cause socioeconomiche dell’emergere della Nuova Sinistra  


Batalov si concentra su alcuni aspetti associati all’impatto delle innovazioni tecnologiche, sempre più rapide, sull’organizzazione del processo produttivo, sulle trasformazioni culturali e sul peso crescente dell’industria culturale.


In primo luogo, sottolinea come la rivoluzione tecnologica tenda ad erigere una barriera cognitiva fra le diverse generazioni. I giovani d’oggi, scrive – e fa riflettere il fatto che lo dica nei primi anni Settanta, nei quali l’accelerazione temporale era assai inferiore ai livelli raggiunti dopo la rivoluzione digitale - crescono in un mondo che muta tanto rapidamente da indurli a creare delle proprie sottoculture o controculture per differenziarsi dalle idee, dai principi e dai valori della cultura mainstream. 


Più importanti del conflitto generazionale, tuttavia, sono a suo avviso i conflitti di interesse creati dalle trasformazioni del ruolo socioeconomico della classe intellettuale. A causa dell’enorme sviluppo dell’industria culturale (media, pubblicità, trattamento delle informazioni, ecc.),  dell’automatizzazione dei processi industriali e della terziarizzazione produttiva, l’intellettuale si trasforma in ”operaio” di questi nuovi processi produttivi, un “lavoratore parziale” impiegato in questo o quel settore specifico, cui sfuggono la comprensione e il controllo del processo complessivo. Lo scrittore si trasforma in “tecnico letterario” (copywriter, sceneggiatore, redattore, ecc.) e qualcosa di simile avviene per l’ingegnere, l’architetto, ecc. Il divario fra competenze acquisite e mansioni svolte, e fra aspettative e realtà in termini di carriera retribuzione ecc.  aumenta progressivamente, alimentando l'insoddisfazione e lo spirito di rivolta, a partire dalle masse studentesche, cresciute numericamente perché l’aumento della domanda di lavoro qualificato favorisce l’accesso di nuovi strati sociali al processo formativo. 


È da questi strati sociali, scrive Batalov, che le sinistre radicali attingono i propri militanti, i quali non appartengono più alla borghesia ma non appartengono ancora pienamente al proletariato: “un nuovo tipo di rivoluzionari utopisti non proletari”, li definisce il filosofo sovietico, “nato dalle contraddizioni della società capitalista avanzata”.





Il tema appena esposto contiene, al tempo stesso, un elemento comune e una differenza fra l’approccio di Batalov e le analisi di una parte significativa delle sinistre radicali. Il concetto di proletarizzazione dei lavoratori intellettuali viene dato infatti per acquisito da entrambe le parti. La differenza è che, per Batalov, come abbiamo appena visto, si tratta di un processo in corso ma ancora incompiuto. Inoltre il filosofo russo rimprovera alle sinistre radicali occidentali di voler sostituire al proletariato tradizionale, dato per ormai imborghesito e integrato, questi strati emergenti nel ruolo di avanguardie rivoluzionarie. In realtà, perlomeno se ci riferiamo alle sinistre “operaiste” (italiane ma non solo), la questione è più complessa. Per queste ultime, infatti, a essere integrata era l’aristocrazia degli operai professionali, inquadrata nei partiti e nei sindacati tradizionali, mentre gli operai addetti a mansioni meramente esecutive, stressanti e mal retribuite (operaio-massa) erano il nerbo di un nuovo soggetto antagonista, del quale gli strati del lavoro intellettuale proletarizzato erano parte integrante. 


Queste differenze nell’analisi della composizione di classe nella società tardo capitalista producono una divaricazione in merito alle prospettive temporali del processo rivoluzionario. Da un lato, le sinistre radicali considerano il nuovo contesto socioeconomico come condizione necessaria e sufficiente per il rovesciamento del potere del capitale, e accusano di opportunismo le organizzazioni tradizionali della classe operaia, le quali coltivano l’illusione di sfruttare una democrazia borghese ormai morta e sepolta per attuare una transizione pacifica al socialismo. Dall’altro, Batalov ribatte che gli obiettivi utopistici sono praticabili solo quando esiste già la base materiale per la loro attuazione (visione in palese contrasto con la teoria leninista dell’anello debole secondo la quale la rivoluzione è possibile se, quando e dove le élite borghesi non riescono più  esercitare la propria egemonia); nega poi che la democrazia borghese, malgrado i suoi difetti e la crisi che sta attraversando, possa essere data per morta e sostiene che dev’essere difesa in quanto esito di secolari lotte popolari. 


Infine, Batalov ribadisce quella che a suo avviso è la concezione corretta (in base ai dogmi del “diamat” di staliniana memoria) del processo rivoluzionario. Il primo dogma consiste in una visione rigorosamente “continuista” del processo storico: rovesciamento dialettico dell’esistente senza rotture (6). Ecco alcune citazioni paradigmatiche: “un sistema storico concreto nasce da un altro”; la rivoluzione è “proiezione nel futuro delle tendenze presenti nello sviluppo sociale contemporaneo”; “questi processi (cioè le trasformazioni in atto nella società tardo capitalista) allo stesso tempo promuovono oggettivamente la creazione delle precondizioni materiali per il socialismo che a sua volta completa il lavoro storico iniziato dal capitalismo”; il socialismo è “sublimazione rivoluzionaria della democrazia borghese” (tutte le sottolineature, al pari di quelle che seguiranno, sono mie). 


Il secondo dogma riguarda il principio di immanenza – di necessità interna – che sovradetermina rigidamente i comportamenti e i ruoli dei soggetti sociali. La tesi di chi parla di integrazione della classe operaia occidentale è insostenibile perché sono “i fattori oggettivi che determinano la posizione del proletariato nella società capitalista come classe rivoluzionaria”, quindi chi ha un atteggiamento pessimista su questo tema “può indicare l’opportunità ma in nessun caso la necessità storica di cambiamenti rivoluzionari”; chi pretende di contestare il sistema dall’esterno dimentica che essere qualitativamente fuori dal sistema esistente significa “non avere possibilità di svilupparsi al suo interno”;  “la rivoluzione costituisce una transizione da una necessità a un’altra”. Per concludere Batalov concede ai movimenti che mette sotto la sua lente critica l'unica chance di fungere da catalizzatori della storia che possono sgombrare il terreno alla possibilità di mettere in atto “la vera necessità storica”. 


Siamo insomma di fronte al catalogo di un marxismo ridotto a una elencazione “scientifica” delle leggi di movimento che governano il processo storico, e questo pochi anni dopo che il più grande filosofo marxista del Novecento, Gyorgy Lukacs, aveva consegnato alle stampe il suo capolavoro (7) in cui faceva piazza pulita di questa paccottiglia determinista. Se aggiungiamo il sintomatico silenzio sui drammatici conflitti interni al blocco socialista (da Budapest a Praga) e sulle non esaltati performance dei partiti comunisti di osservanza sovietica in Europa e in America Latina; l’omaggio a Cuba senza dedicare un cenno a Che Guevara; l’infelice citazione di una frase di Lenin in cui si celebrano le lodi del taylorismo per ribadire l’importanza dello sviluppo delle forze produttive ai fini della realizzazione del socialismo; la celebrazione della coesistenza pacifica come strategia vincente nei confronti del capitalismo (si è visto come è andata finire). Se aggiungiamo tutto questo, si sarebbe tentati di schierarsi dalla parte delle sinistre radicali contro la requisitoria di questo loro censore. Ma sarebbe un errore. In primo luogo perché le cinque accuse che ho citato in apertura di questo articolo (vedi sopra) sono a mio avviso giustificate. Ma soprattutto perché anche le esperienze più orientate alla costruzione di un’alternativa comunista all’ortodossia sovietica scontavano, come cercherò di dimostrare fra poco, non pochi dei limiti teorici che ho appena attribuito a Batalov.

  

Perché le sinistre (vecchie e nuove) sono state asfaltate dalla controrivoluzione neoliberista


Parto da un appunto di Batalov alle tesi di Marcuse e degli altri teorici della integrazione della classe operaia: la sinistra radicale e i suoi cattivi maestri, scrive, hanno esagerato la capacità della borghesia di realizzare i propri obiettivi. Io direi che, al contrario, la sinistra radicale ha drammaticamente sottovalutato la capacità di resilienza del sistema capitalista, mentre Batalov e le élite del socialismo reale l‘hanno ignorata del tutto. 


La prima causa di tale cecità è stata l’incomprensione dell’evoluzione dell’imperialismo nella transizione dal colonialismo al neocolonialismo. A parte le infelici battute di Batalov sui leader e sui teorici (a partire da Fanon) delle lotte di liberazione nazionale, è sintomatico che il filosofo russo sprechi fiumi di inchiostro su Marcuse e Sartre mentre tace sulle analisi marxiste (da Baran e Sweezy al quartetto Samir Amin, Arrighi, Frank e Wallerstein) sul concetto di dipendenza (8) e sul rapporto sviluppo/sottosviluppo. Idem dicasi delle sinistre radicali occidentali, le quali, esauriti gli effimeri entusiasmi per le vittorie vietnamite, la Rivoluzione Culturale e altri eventi “periferici”, hanno liquidato come “terzomondismo” l’interesse per il Sud del mondo (mentre condividevano con Batalov il disprezzo per le masse contadine, “arretrate” e dunque incapaci di svolgere un vero ruolo rivoluzionario). Questa ignoranza condivisa ha impedito di capire che la questione della integrazione delle aristocrazie operaie del Nord rinviava a un fattore strutturale (la possibilità da parte delle metropoli di elargire alle proprie classi subalterne parte del bottino sottratto alle periferie) piuttosto che psicologico-culturale.  





Un secondo elemento condiviso da vecchi e nuovi dogmatismi di (presunta) origine marxista consiste nella costellazione determinismo – oggettivismo - economicismo. Di Batalov si è detto. Quanto alle sinistre radicali: il nuovo soggetto antagonista – variamente denominato come lavoratori cognitivi, operaio sociale, ecc. - è investito della stessa funzione “oggettivamente rivoluzionaria”, in ragione della sua collocazione nel processo produttivo, attribuita in precedenza alla “vecchia” classe operaia; la crisi capitalistica degli anni Settanta viene analizzata come una tendenza irreversibile, governata da “leggi” scientifiche; la rivoluzione tecnologica è infine descritta come il punto di non ritorno della contraddizione oggettiva fra forze produttive e rapporti di produzione (questa narrazione assumerà toni deliranti a partire dagli anni Novanta (9), con l’esaltazione della rivoluzione digitale come strumento di democratizzazione di economia, politica e società). 


Detto che a negare uno sbocco rivoluzionario al breve e intenso ciclo di lotte dell’operaio fordista fra la fine dei 60 e l’inizio dei 70 non è stata la carenza di fattori materiali, “oggettivi” bensì, da un lato, l’assenza di organizzazioni e programmi politici in grado di saldare un ampio fronte popolare per la conquista del potere politico, dall’altro, il fatto che l’egemonia delle élite dominanti non stava affatto attraversando una crisi terminale (in barba ai sogni dei teorici della lotta armata); detto ciò tutte le presunte “leggi” e i fattori oggettivi sopra descritti si sono rivelati altrettante leve nelle mani del capitale: decentramento produttivo (oggi l’83% del lavoro industriale si trova nei Paesi in via di sviluppo o di recente sviluppo); ristrutturazione tecnologica selvaggia (drastica riduzione del proletariato tradizionale, terziarizzazione, femminilizzazione e precarizzazione del lavoro); finanziarizzazione dell’economia; cooptazione degli strati superiori del lavoro cognitivo nelle stanze di controllo e comando del sistema; disinnesco della carica antagonista dei nuovi movimenti sociali, ridotti a impegnarsi per obiettivi compatibili con i principi e i valori neoliberali.  


Nel frattempo l’Unione Sovietica e il socialismo reale affondavano sotto il peso della mancata riforma di un sistema economico penalizzato dalle rigidità di una pianificazione eccessivamente centralizzata, e incapace di esaudire la domanda popolare di beni di consumo;  dall’enorme spreco di risorse imposto dalla gara agli armamenti con il blocco occidentale (problema esacerbato dalla disastrosa avventura afgana); da decenni di scarsa attenzione nei confronti dei problemi di tecnici, professionisti e intellettuali (una classe media che si vendicherà mettendosi alla testa della controrivoluzione). E, al momento del crollo del Muro di Berlino, i figli e i nipoti delle sinistre radicali criticate da Batalov accorreranno a celebrare la rinnovata unificazione della “democrazia” mondiale, ignari che la presunta “fine della storia” associata a quell’evento avrebbe innescato uno spietato progetto di espansione globale del dominio imperialistico. Finché il formidabile sviluppo della Cina socialista, il ritorno in campo di una Russia uscita dagli anni terribili dell’adesione alle ricette del Washington Consensus, e l’emergenza di un fronte di resistenza al dominio imperiale degli Stati Uniti guidato dai Brics hanno riaperto i giochi. Ma questa è un’altra storia. 


Note

(1) Cfr. T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970.


(2) Cfr. H. Marcuse, “Tolleranza repressiva” in E. P.  Wolff, Barrington Moore Jr, H. Marcuse, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino 1968.


(3) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.


(4) A formulare la tesi opposta è stato, fra gli altri, il leader della guerra di liberazione della Guinea Bissau, Amilcare Cabral (vedi il post che gli ho dedicato su questo blog: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/11/i-popoli-africani-contro-limperialismo-3.html


(5) Sul rapporto fra rivoluzioni bolivariane e partiti comunisti “ortodossi” vedi quanto ho scritto in Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2013 e nel terzo capitolo del secondo volume (“Elogio dei socialismi imperfetti”) di Guerra e liberazione, Meltemi, Miano 2023.


(6) La critica più radicale di questa concezione continuista che concepisce la rivoluzione socialista come la prosecuzione e il compimento delle promesse non mantenute della rivoluzione borghese è uno dei pochi esponenti della Scuola di Francoforte che Batalov evita – non a caso – di citare, vale a dire quel Walter Benjamin che descrive la rivoluzione come un “balzo di tigre” che segna una discontinuità assoluta nel flusso del temporale della storia (Cfr. Angelus Novus,  Einaudi, Torino 1962).


(7) Fu lo stesso Marx a smentire l’idea secondo cui l’obiettivo della sua ricerca teorica fosse stato quello di descrivere le leggi generali che governano il processo storico e la transizione fra diversi modi di produzione (vedi la sua lettera a un recensore dell’edizione russa del Capitale in India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960). Ma a formulare la critica più spietata di una interpretazione teleologica della concezione marxiana della storia (cioè dell’idea che il processo storico sia “direzionato” da leggi immanenti) è appunto G. Lukacs in Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023.


(8) Cfr. A Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(9) Cfr. le mie critiche agli apologeti “di sinistra” della rivoluzione digitale in Cybersoviet (2008), Felici e sfruttati (2011) e Utopie letali (2013). 












lunedì 18 novembre 2024

I POPOLI AFRICANI CONTRO L'IMPERIALISMO
3. AMILCARE CABRAL


Amilcar Cabral è l’ultimo intellettuale rivoluzionario africano di questo trittico in cui ho già presentato le idee di Said Bouamama e Kevin Ochieng Okoth. Nato in Nuova Guinea da genitori capoverdiani nel 1924, quando il Paese era ancora una colonia portoghese, nel 1945 ottenne una borsa di studio che gli consentì di frequentare l’Università di Lisbona dove conseguì la laurea in agronomia e dove rimase fino al 1952, ma soprattutto dove conobbe quelli che sarebbero diventati, assieme a lui, i leader delle guerre di liberazione delle altre colonie portoghesi, fra i quali l’angolano Mario Pinto de Andrade e il mozambicano Eduardo Mondlane. Rientrato in patria con l’incarico di agrimensore, si mise alla testa della lotta per l’indipendenza nazionale che si concluse vittoriosamente nel 1973 pochi mesi dopo la sua morte (nel gennaio di quell’anno venne assassinato da agenti portoghesi). Il suo contributo teorico, politico e culturale alla rivoluzione anticolonialista e antimperialista e allo sviluppo della teoria marxista, è di ampio respiro e resta un punto di riferimento obbligato per capire le dinamiche della lotta di classe in Africa. Per presentarne il pensiero, ho utilizzato qui un’antologia che raccoglie testi di discorsi tenuti nel corso dei suoi viaggi in giro per il mondo per raccogliere  solidarietà  alla lotta del popolo guineano (“Return to the Source”, Monthly Review Press). Alla fine trarrò le conclusioni di questo percorso in tre tappe.  



Return to the source: come riprendere il cammino storico dell’Africa 

 interrotto dal colonialismo






1. Teoria e prassi come momenti di un unico processo di apprendimento


Nei dibattiti in campo marxista ricorre di frequente lo slogan “senza teoria niente rivoluzione”, ripreso pedissequamente da alcuni testi di Lenin. Purtroppo tale enunciato viene spesso interpretato come un attestato di superiorità del momento teorico rispetto al momento della prassi: prima viene la teoria, poi, se e soltanto se la teoria è giusta (cioè se i sacri testi del marxismo-leninismo sono stati correttamente interpretati), viene la pratica (organizzazione, programma politico, tattica, strategia, ecc.). Posto che ritengo questo schema alieno al reale pensiero di Lenin (opinione che qui non argomenterò, per non allontanarmi eccessivamente dallo scopo di questo scritto) ciò che è certo è che si tratta di un punto di vista incompatibile con le idee che Cabral nutriva in merito. 


Nel corso dei dibatti raccolti nell’antologia sopra citata, gli è stato chiesto di frequente se il movimento da lui guidato si ispirasse alla teoria e all’ideologia del marxismo-leninismo. Tutte le sue risposte sono varianti di un medesimo principio, ben rappresentato dalla seguente metafora: “la rivoluzione è come un vestito che dev’essere adattato di volta in volta all'uno o all’altro corpo”. Per tradurre la metafora, spiega: i primi due obiettivi che ci siamo posti sono stati 1) definire chi siamo e chi è il nostro nemico; 2) partire dalle condizioni attuali, concrete (storiche, economiche, politiche, geografiche, ecc.) del nostro Paese, restando sempre ben consapevoli che avremmo dovuto avere il coraggio di inventare il percorso della nostra rivoluzione, scartando a priori qualsiasi schema o modello “precotto”. In altre parole: abbiamo costruito la nostra teoria definendo di volta in volta quali possibilità concrete di azione ci erano offerte dal contesto in cui ci trovavamo a operare.


Scendendo nel merito della domanda sul marxismo-leninismo, ammette: quando abbiamo iniziato a progettare la nostra lotta di liberazione sapevamo ben poco di teoria; certamente poi abbiamo studiato, ma sempre in  funzione di adattare i principi che apprendevamo dalle altrui esperienze alla nostra concreta realtà storica. Detto in sintesi: la nostra ideologia, quando ci siamo preparati a cominciare la lotta, si riduceva a pochi punti: liberarci dal dominio straniero, imboccare la via dello sviluppo economico e sociale e mantenere il potere saldamente nelle mani del popolo. Certo non ignoravamo il concetto di imperialismo, ma non potevamo illuderci di mobilitare la gente in nome della “lotta antimperialista” (di che parlate, ci avrebbero chiesto), potevano farlo solo basandoci sulla loro esperienza quotidiana di sofferenza e sfruttamento. Oggi, dopo anni di lotta antimperialista anche i bambini sanno cosa vogliono dire colonialismo e imperialismo.


Eppure da questo approccio dimesso, da questa concezione “di basso profilo” che molti marxisti accademici liquiderebbero come puro empirismo, sono scaturiti una serie di contributi tutt'altro che marginali alla cassetta degli attrezzi del movimento marxista internazionale su temi quali classe e rivoluzione, la cultura popolare come fattore di lotta anticapitalista, stato nazione e partito, transizione socialista, postc colonialismo e neo colonialismo ecc. 



2. Analisi della composizione di classe e teoria del soggetto rivoluzionario


La composizione socio economica della pur piccola nazione africana (La Guinea Bissau ha un territorio paragonabile a quello del Belgio) appare, nella meticolosa ricostruzione di Cabral, estremamente complessa, striata com’è da linee etniche e culturali, oltre che da articolazioni regionali, livelli di reddito e ruoli produttivi. Nei suoi scritti, Cabral tiene conto della specificità delle colonie portoghesi rispetto ad altri imperi occidentali. Il Portogallo, in quanto nazione meno sviluppata d’Europa, non è mai stato nelle condizioni di permettersi la possibilità di concedere l’indipendenza alle proprie colonie, assicurandosi nel contempo la continuità di un controllo di tipo neo coloniale sulle loro risorse. Il regime fascista di Lisbona ha invece incentivato l’emigrazione dei propri cittadini nelle colonie africane per ridurre le tensioni generate dagli alti tassi di disoccupazione, per cui la quota di coloni bianchi era più numerosa rispetto alla maggior parte degli altri domini coloniali europei.  


Cabral inizia la sua analisi da questa componente, concentrata nelle città, che presenta le stesse caratteristiche del paese d’origine: ai vertici i manager delle imprese industriali e commerciali e i quadri superiori dell’amministrazione coloniale; subito sotto i colletti bianchi e i quadri intermedi; alla base della piramide i lavoratori salariati, in maggioranza operai specializzati e in ogni caso pagati meglio della mano d’opera locale. La grande maggioranza degli appartenenti a questo gruppo era ovviamente ostile alla lotta per l’indipendenza nazionale. Dopodiché Cabral spiega che la strategia del regime coloniale per dividere gli africani è consistita nel riprodurre lo stesso tipo di stratificazione all’interno di una parte della popolazione urbana autoctona, instillando nella piccola borghesia degli “assimilati” (impiegati, tecnici amministrativi e intellettuali) un senso di superiorità nei confronti del resto della popolazione e una mentalità simile a quella dei colonizzatori.        


Questa strategia ha funzionato poco, in quanto una parte della piccola borghesia indigena (della quale lo stesso Cabral era un esponente) ha “tradito” la propria classe, tanto da assumere il ruolo di nucleo costitutivo del movimento. Su quali altri strati sociali questo nucleo ha potuto contare, per riuscire a realizzare il proprio progetto politico? Cabral sottolinea l’assenza di una vera e propria classe operaia di tipo occidentale, ad eccezione dei portuali (fin dall’inizio parte attiva della lotta) e di alcuni altri tipi di salariati dediti a lavori precari e saltuari. Restando in città, esisteva poi un settore di lumpen proletariato (piccoli criminali, prostitute, ecc. che hanno spesso svolto il ruolo di spie e informatori per l’amministrazione coloniale), ma soprattutto una massa di giovani di recente inurbazione che si sono rivelati un prezioso serbatoio di quadri. 


Quanto al resto del paese le larghe masse contadine rappresentavano ovviamente il gruppo più interessato – in quanto più sottoposto a oppressione e sfruttamento – alla lotta di liberazione. Tuttavia, annota Cabral, occorre tenere presente che, diversamente dalle masse contadine protagoniste della rivoluzione cinese, questo strato sociale non aveva alle spalle una lunga tradizione di rivolte. Inoltre, per poterle politicizzare, il movimento ha dovuto fare i conti con la presenza di diversi gruppi etnico-religiosi dotati di strutture sociali differenti. I Balantes, in prevalenza animisti, non avevano gerarchie sociali e politiche precise (a prendere le decisioni erano i consigli degli anziani), e coltivavano terre considerate di proprietà comune (anche se ogni famiglia poteva detenere propri attrezzi di lavoro e una quota di prodotto necessaria alla sussistenza). 


Una danza tradizionale Balanta



Viceversa i Fula, perlopiù musulmani, erano un gruppo semifeudale gerarchicamente strutturato: capi, nobili e sacerdoti ai vertici, artigiani nel mezzo e contadini privi di diritti alla base. Anche l’etnia Fula non prevede la proprietà privata della terra, ma i contadini sono obbligati a lavorare per i nobili. Quanto alla condizione femminile: relativamente libere le donne Balantes, oppresse le donne Fula anche per il contesto tradizionalmente poligamico. Ovviamente queste differenze hanno influito sulle possibilità di mobilitazione: mentre i Balantes hanno risposto positivamente, è stato più difficile ottenere successi con i Fula, le cui élite apparivano legate al potere coloniale, ad eccezione dei Dyulas – una casta di commercianti nomadi – che si sono rivelati utili per diffondere notizie, idee e informazioni da un villaggio all’altro. 


Una donna di entia Fula



Una volta analizzato questo quadro complesso, il movimento ha dovuto risolvere una questione fondamentale: come unire le tessere del mosaico sociale in un fronte rivoluzionario? Il primo passo è stato costruire un partito (il PAIGC – Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde) per organizzare politicamente il popolo (un processo durato tre anni). La molteplicità dei soggetti etnici e sociali coinvolti ha reso difficile la realizzazione di tale obiettivo, che ha potuto  essere realizzato solo preservando i valori culturali positivi di tutti i gruppi per fonderli in una dimensione nazionale unitaria. Ed è qui che Cabral dimostra la sua creatività teorica, partendo dal principio secondo cui non si sarebbe dovuto perdere di vista il carattere di classe della cultura, pur in presenza di una struttura di classe embrionale quale quella appena descritta. 


Ispirandosi ai processi rivoluzionari latino americani – Cuba ai tempi in cui scriveva, ma avrebbe osservato con altrettanto interesse le più recenti rivoluzioni bolivariane  – Cabral ipotizza che un processo rivoluzionario innescato dai settori patriottici della piccola borghesia urbana e dai giovani di recente inurbazione e successivamente esteso alle masse contadine, avrebbe potuto oltrepassare i limiti della lotta anticolonialista e antimperialista e assumere carattere socialista, pur in assenza di una classe operaia di tipo occidentale (1). La protagonista di questa prima tappa del processo è quella che Cabral definisce classe-nazione ma, prima di analizzare le tappe successive, occorre spiegare come e perché egli attribuisse alla cultura popolare africana lo stesso potenziale anticapitalista della classe operaia occidentale (2). 



3. Il valore della cultura come fattore rivoluzionario


Nei suoi scritti Cabral dedica molto spazio e attenzione al valore della cultura come fattore di resistenza alla dominazione coloniale. Da un punto di vista marxista “ortodosso” (dal quale vanno espunte tanto la concezione gramsciana di egemonia (3), quanto le riflessioni dell’ultimo Lukacs (4)  sull’ideologia come potenza materiale) questo punto di vista potrebbe essere accusato di dare peso eccessivo alla dimensione “sovrastrutturale” della lotta anticapitalista; al tempo stesso il suo slogan “return to the source” potrebbe suggerire una concessione alle lusinghe dell’approccio culturalista ed essenzialista dei teorici della Negritudine e della Blackness (vedi i due post precedenti).


Niente di tutto questo. Cabral è perfettamente consapevole del rischio di sottovalutare il pericolo associato agli elementi regressivi del passato, esaltando acriticamente la realtà sociale e le tradizioni dell’Africa pre coloniale, presentata come “naturalmente” comunitaria, egualitaria, in equilibrio armonico con la natura, ecc. Né condivide l’illusione di poterla restaurare come se nulla fosse successo nel periodo che separa  la colonizzazione dalla conquista dell’indipendenza. Lo slogan return to the source e il concetto di “ri-africanizzazione” della coscienza popolare africana (5) possono essere compresi solo tenendo conto del fatto che Cabral intende il termine cultura in senso storico-materiale. 


In quanto prodotto storico la cultura, argomenta, riflette in ogni momento la realtà materiale e spirituale di una società. Il colonialismo vecchio e nuovo ha costantemente tentato di autolegittimarsi negando l’esistenza stessa di una storia e di una cultura africane (“L’Africa non esiste” amava dire il dittatore fascista portoghese Salazar, quasi anticipando il detto di Margaret Tatcher “la società non esiste”). Ma la verità è che la storia e la cultura africane esistevano da secoli allorché furono interrotte con la violenza dai colonizzatori (il colonialismo va considerato, scrive Cabral, come il blocco della storia di un determinato paese che produce l’accelerazione dello sviluppo storico di altri paesi (6)) e i popoli africani non saranno liberi finché non torneranno alle vie della propria tradizione culturale (rielaborata attraverso l’esperienza della lotta antimperialista).


Antonio de Oliveira Salazar



Il ritorno è possibile nella misura in cui le culture tradizionali hanno dimostrato di possedere un alto grado di resilienza, malgrado il tentativo dei colonizzatori di eradicarle e/o renderle funzionali al proprio dominio. Una potenza che intende imporre il proprio dominio su un popolo straniero, argomenta Cabral, deve infatti scegliere fra due vie: o annienta l’intera popolazione (è la via del colonialismo stanziale/insediativo che mira a sostituire le popolazioni autoctone con la propria: vedi il genocidio degli indigeni nordamericani e australiani, il progetto nazista di occupazione della Russia e il progetto sionista di sterminio-cacciata del popolo palestinese), oppure deve imporre la propria cultura al popolo dominato. In Africa le potenze coloniali europee hanno tentato di percorrere la seconda via, ma hanno fallito. Sia perché la colonizzazione non è durata abbastanza a lungo per ottenere un grado  significativo di distruzione della cultura dei popoli dominati, sia perché la cultura è il più ovvio e immediato fattore di resistenza alla dominazione straniera.


In particolare, spiega Cabral riferendosi alla realtà della Guinea Bissau, fuori dai centri urbani la cultura dei colonizzatori ha avuto un’influenza minima, per non dire nulla. E’ per questo che la rivoluzione, pur essendo partita da settori di piccola borghesia urbana e di strati giovanili di recente inurbazione, ha potuto avere successo solo mettendo radici nelle larghe masse contadine. A svolgere un ruolo determinante in tal senso è stato il partito (vedi paragrafo precedente) che, in quanto promotore dell’interscambio fra élite e masse, ha permesso alle prime di comprendere la ricchezza della cultura popolare e alle seconde di accrescere la propria consapevolezza politica venendo a contatto con strati sociali ed etnie diverse (7). Tutto ciò aiuta a comprendere meglio la definizione di classe-nazione adottata da Cabral, per connotare una forma di lotta di classe in assenza di una composizione sociale di tipo occidentale. 



4. Cenni di storia della guerra di liberazione in Guinea Bissau


Interrogato sulle strategie della guerriglia contro l’esercito dei colonizzatori in alcuni dei dialoghi raccolti nel volume di cui stiamo discutendo, Cabral ha spiegato che fin dall’inizio sono state compiute due scelte che si sono rivelate decisive. In primo luogo si è adottato il principio di limitare  quanto più possibile le perdite, il che voleva dire non affrontare il nemico sul suo stesso terreno e in situazioni a lui favorevoli, costringendolo a disperdere le proprie forze (difficile non notare l’analogia con la regola seguita dall’esercito popolare cinese nella guerra contro i giapponesi e il Kuomintang : uno contro dieci strategicamente dieci contro uno tatticamente). A tale scopo si è evitato, contrariamente a quanto fatto da altri movimenti di liberazione nazionale, di coinvolgere i paesi limitrofi dislocando le unità combattenti oltre confine. Lo stratagemma ha funzionato, perché i portoghesi, convinti che gli attacchi sarebbero arrivati dall’esterno, hanno schierato il grosso delle truppe lungo i confini, sguarnendo il centro del paese. Quindi i guerriglieri hanno potuto assumere il controllo delle regioni centrali per poi marciare verso il fuori. Inoltre la dispersione delle truppe nemiche, e le scarse e inefficienti vie di comunicazione, hanno favorito gli attacchi per scompaginarne la logistica. 


Un’altra analogia con i principi della guerra di liberazione cinese emerge laddove Cabral sottolinea il fatto che la guerriglia è sempre stata sotto la guida del partito: benché le singole unità combattenti godessero del massimo di autonomia, onde garantire flessibilità e mobilità dell’azione, non è mai stato messo in discussione il principio secondo il quale la guerriglia era il braccio armato del partito.


Guerriglieri del PAIGC



Infine, e questo è un altro aspetto che, assieme a quelli evidenziati nei paragrafi precedenti,  conferma il carattere teoricamente avanzato e innovativo dell’esperimento politico-sociale, oltre che militare, della rivoluzione anti coloniale della Guinea Bissau, Cabral evidenzia con orgoglio che, nelle zone liberate, si è provveduto a costruire quelli che sarebbero stati gli elementi del futuro stato indipendente: amministrazione, sanità, educazione, tribunali, prigioni, ecc. Parlando a un convegno internazionale non molto prima del suo assassinio e della proclamazione dell’indipendenza, ha annunciato che si stavano preparando elezioni locali in vista dell’elezione della prima Assemblea nazionale, e ha dichiarato che, mentre al momento le decisioni politiche venivano prese dal partito, subito dopo l’indipendenza sarebbero spettate alle istituzioni popolari elettive. Il che ci porta direttamente ad affrontare le questioni relative al rapporto fra liberazione nazionale, emancipazione sociale e natura politica dello stato generato dalla guerra antimperialista. Questioni che, come abbiamo visto nei due post precedenti, sono oggetto di dure polemiche in merito alle cause del fallimento di molti stati post coloniali a fronte dell’offensiva neocolonialista. 



5. Stato-nazione e rivoluzione sociale


Come abbiamo appena messo in luce, nella Guinea Bissau la lotta di liberazione coloniale è andata di pari passo con la costruzione del nuovo stato nazionale, che è venuto prendendo forma a mano a mano che quote crescenti di territorio venivano liberate. Abbiamo anche evidenziato come, secondo Cabral, queste nuove istituzioni popolari, frutto di una larga partecipazione democratica, si pensava sarebbero subentrate al partito nel ruolo di decisori politici. Sappiamo che tale progetto, condiviso da altri movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale, fra cui quelli di Angola e Mozambico, non si è realmente concretizzato, mentre la controffensiva neocoloniale ha spento  i sogni africani di emancipazione. Sappiamo infine che le cause del fallimento sono state attribuite, da sinistra, al fatto stesso di avere scelto la via della costruzione di nuovi stati-nazione, inevitabilmente destinati a ingabbiare il movimento rivoluzionario in nuove strutture di potere e oppressione politica e sociale, da destra, al fatto di avere adottato ideologie, come il marxismo e il modernismo occidentali, aliene alla realtà e alla tradizione africane, laddove l’unica possibilità di emancipazione era associata alla riscoperta delle culture originarie del continente. 


L'assemblea Nazionale



A prescindere da queste opposte diagnosi, e dal peso da attribuire agli errori soggettivi piuttosto che alle cause oggettive del fallimento, occorre porsi i seguenti interrogativi: la sconfitta era inevitabile, inscritta nella necessità storica? La transizione dalla liberazione nazionale alla costruzione del socialismo era e resta tuttora un’utopia irrealizzabile? A quali condizioni i progetti di quella che Kevin Ochieng Okoth chiama Red Africa (vedi post precedente) possono tornare di attualità? 


Accennerò a questi argomenti nelle conclusioni relative al trittico africano che si chiude con questo articolo, ma prima vorrei completare l’analisi del pensiero di Cabral, dimostrando come la sua visione della Guinea Bissau post coloniale sia coerente con i concetti innovativi di lotta di classe e di lotta culturale descritti nei paragrafi precedenti. 


“Lo sfruttamento non ha colore”, sentenzia Cabral in un passaggio a conclusione del quale chiarisce che l’obiettivo strategico della rivoluzione anti coloniale non è conquistare il diritto di inalberare una bandiera nazionale ma di porre fine allo sfruttamento, non solo da parte dei colonialisti bianchi ma anche della borghesia nera. Stabilito che a dirigere la lotta è stata perlopiù, se non esclusivamente, la piccola borghesia urbana, Cabral si dice consapevole del fatto che la tendenza di questo strato sociale è inevitabilmente (“è l’essere sociale che determina la coscienza”, per dirla con Marx) quella di monopolizzare la direzione politica del movimento, ed è per questo, aggiunge, che il PAIGC si è sempre sforzato di controllare la composizione sociale dei propri vertici. Ma ciò è sufficiente per sventare il rischio che il potere finisca nelle mani di una nuova élite nera?


Per rispondere, Cabral torna a misurarsi con il dogma marxista che pone al centro della lotta al socialismo la classe operaia.  Posto che la rivoluzione in Guinea Bissau ha dovuto scontare l’assenza di una vera classe operaia, salvo esigue minoranze, e posto che essa non avrebbe potuto vincere se a condurre la lotta fosse stato un singolo strato sociale, per cui non si è trattato di lotta si classe in senso classico bensì di lotta di popolo, per la quale Cabral, come si è visto, ha coniato il concetto di classe-nazione. Posto tutto ciò, Cabral si chiede: chi controllerà il potere politico dopo la liberazione? Dell’assenza di una vera classe operaia si è appena etto; quanto alla classe contadina, che pure rappresenterebbe il più ovvio candidato ad assumere tale ruolo visto che rappresenta la maggioranza del popolo, essa non dispone delle competenze necessarie (che potrà acquisire solo a conclusione di un lungo processo di acculturazione politica); infine, non esistendo una borghesia moderna, si torna al fatto che solo la piccola borghesia dispone degli strumenti per costruire e governare l’apparato statale. 


E allora? Dato per scontato che appena ottenuta l’indipendenza ed esaurita la funzione della classe-nazione si riapriranno i conflitti di classe, argomenta Cabral, l’unica chance di indirizzare il paese sulla via del socialismo è che la piccola borghesia si suicidi in quanto classe, “sciogliendosi” nelle larghe masse popolari per addestrarle svolgere il compito di governare il paese. Quanto al programma socio-economico: per avviarsi sulla via della transizione, argomenta, il primo compito è quello di rivoluzionare l’agricoltura. Rivoluzione tecnico-produttiva perché, in assenza di proprietà privata della terra (che come si è visto appartiene alle comunità di villaggio), l’obiettivo non è quello classico della ridistribuzione delle terre. La struttura più adatta per piantare i primi semi di una società socialista, scrive Cabral, è piuttosto la forma cooperativa, che potrebbe sfruttare l’esistenza di una tradizione di cooperazione spontanea a livello di famiglie e villaggi.





Se Cabral non fosse stato assassinato dagli agenti dell’imperialismo, assieme alla maggior parte dei leader africani di tendenza marxista, questo programma politico avrebbe avuto qualche possibilità di riuscita? Forse no, data la formidabile pressione economica e militare esercitata dalle potenze neocolonialiste occidentali e l’opportunismo di molte élite africane post coloniali. Tuttavia ciò non giustifica la perdita di interesse che, a partire dagli anni Settanta del 900, le sinistre radicali occidentali hanno manifestato nei confronti del contributo teorico e ideologico delle rivoluzioni di liberazione nazionale, liquidandolo come “terzomondismo”. 


Questa cecità conferma il giudizio di Cabral, il quale, parlando dell’offensiva neocoloniale fondata sugli “aiuti” allo sviluppo e sulla complicità delle neoborghesie compradore, disse che, se tale offensiva avesse vinto, si sarebbe trattato di una sconfitta della classe operaia mondiale piuttosto che dei popoli colonizzati, visto che lo sfruttamento di questi ultimi avrebbe finanziato la creazione di un’aristocrazia operaia occidentale refrattaria a qualsiasi progetto di trasformazione rivoluzionaria. Mai profezia fu più azzeccata.



Per concludere 

Bouamama, Okoth, Cabral: 

il rapporto fra lotta di liberazione nazionale

e rivoluzione socialista  


Provo a sintetizzare quelli che considero gli spunti più interessanti del percorso sulle lotte di classe in Africa che ho proposto negli ultimi tre post.  


In primo luogo, ritengo che tutti e tre gli autori che ho preso in esame, sia pure con approcci e punti di vista diversi, diano un contributo importante alla critica del preteso universalismo della cultura occidentale. In primo luogo perché smontano il mito colonialista e razzista dei “popoli senza storia” che è a lungo servito per giustificare l’espansionismo delle nazioni occidentali a spese del resto del mondo. Questa narrazione, che rivendica alle tradizioni greco-latina ed ebraico-cristiana il monopolio del progresso culturale, sociale e politico, era già parsa ridicola a fronte delle millenarie tradizioni asiatiche (Cina, India e non solo) e amerindie (Maya, Aztechi, Inca) ma, a mano a mano che anche la storia del continente africano (e non più solo quella dell’antico Egitto) esce dal cono d’ombra in cui l’aveva occultata l’ideologia “orientalista” (8), suona, più che ridicola, criminale se è vero che, come argomenta Cabral, la dominazione coloniale ha interrotto e bloccato la storia di determinati paesi per produrre l’accelerazione dello sviluppo storico di altri paesi.


A mano a mano che questa narrazione si è fatta insostenibile, perlomeno nelle sue forme più becere, è stata rimpiazzata dal paradigma dello “scontro di civiltà” (9), il quale, mentre riconosce l’esistenza di storie, tradizioni e valori diversi e non meno antichi di quelli occidentali, ribadisce che la storia, la tradizione e i valori dell’Occidente sono superiori in quanto sono gli unici che, nella misura in cui garantiscono la libertà e il diritto individuali, possono essere considerati “veramente” universali (anche se, come Marx ha ironicamente commentato, si riducono ai diritti e alla libertà dell’individuo borghese). 


Ma il merito dei nostri tre amici è anche quello di non legittimare le contronarrazioni dei teorici essenzialisti e culturalisti (Afropessimisti, Decoloniali, ecc.) che, attraverso i concetti di Negritudine, Blackness e consimili, tentano di evocare universalismi “alternativi” a quello occidentale, screditando in quanto “eurocentriche” le teorie e le ideologie che, come il marxismo e il patriottismo antimperialista, hanno ispirato le lotte di liberazione nazionale.  


Restando in tema di eurocentrismo. In diversi scritti (10) ho duramente criticato il carattere innegabilmente eurocentrico (con le dovute eccezioni) della tradizione marxista occidentale, riferendomi, in particolare, alla tesi economicista secondo cui la transizione al socialismo è possibile solo laddove lo sviluppo delle forze produttive abbia raggiunto un determinato livello, e al suo corollario, in base al quale a tale livello la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione fa sì che la transizione assuma il carattere di “necessità” storica. A Lenin va il merito di avere liquidato questo dogma, sia introducendo il concetto di “anello debole” della catena (la rivoluzione socialista è possibile piuttosto laddove le élite dominanti non sono più in grado di esercitare la propria egemonia), sia riconoscendo il ruolo strategico delle lotte di liberazione nazionale nel creare le condizioni della rivoluzione socialista mondiale. Gli autori che abbiamo appena discusso compiono un ulteriore, decisivo passo avanti in tale direzione.


Se la rivoluzione cinese e le rivoluzioni latinoamericane avevano già ampiamente dimostrato (11) come la rivoluzione socialista non sia monopolio esclusivo della classe operaia di tipo occidentale, ma possa essere realizzata da (e storicamente sia stata realizzata solo da) larghe masse popolari in prevalenza contadine, i nostri tre autori hanno ulteriormente esteso il concetto di lotta di classe anticapitalista: 1) evidenziando come le comunità nere della diaspora abbiano contribuito al superamento dei conflitti interetnici e al sorgere di una coscienza panafricanista rivoluzionaria, 2) mettendo in luce come le culture tradizionali possano, a determinate condizioni, assumere il ruolo di soggetti antagonisti paragonabili alla classe operaia occidentale, 3) criticando coloro che attribuiscono il fallimento dei progetti politici post coloniali al fatto di avere assunto la forma-stato, dimenticando che l’obiettivo della costruzione dello stato nazione ha un significato del tutto diverso  nel contesto dei mondi colonizzati rispetto al contesto europeo, 4) dimostrando che il decentramento  della produzione nei paesi in via di sviluppo e il permanere dello sfruttamento neo coloniale di interi continenti è la causa fondamentale della sconfitta del proletariato industriale occidentale, per cui il testimone della rivoluzione socialista è ormai passato nelle mani del resto del mondo. 


Ciò vuol dire che essa è “necessariamente” destinata a vincere in Asia, Africa e America Latina? Affermare tale tesi vorrebbe dire attribuire ai popoli di recente o futura emancipazione lo stesso "destino" storico che abbiamo a lungo attribuito al proletariato occidentale. Ma il futuro non è nelle mani di nessuna presunta “legge” storica, bensì delle soggettività concrete che tentano di costruirlo, al di là dei miti essenzialisti e universalisti. Così come la sconfitta dell'ondata di lotte rivoluzionarie degli anni Settanta in Africa non era un destino inevitabile (come ogni passaggio storico avrebbe potuto avere un esito diverso) allo stesso modo non esiste alcuna garanzia che una nuova ondata avrà successo.  


Note 


(1) Il dibattito in merito alla opportunità di realizzare una rivoluzione socialista in assenza di un moderno proletariato industriale può essere fatto risalire alla celebre lettera alla Zasulic, nella quale Marx discute sulla possibilità - teorizzata dai populisti - che le comunità contadine russe (obscina) riuscissero a passare direttamente al socialismo senza transitare dalla fase capitalista (cfr. K. Marx. F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960). La discussione è stata ripresa in America Latina da autori come Mariategui (Saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino 1972), Dussel (L'ultimo Marx, il Manifesto Libri, Roma 2009) e Linera (Forma valor y forma comunidad, quito 2015). Quest'ultimo, in particolare, ha sostenuto che le comunità originarie andine, in ragione della loro resistenza nei confronti delle relazioni sociali di tipo capitalistico, possono essere considerate una classe antagonista a tutti gli effetti. Cabral aggiunge una tessera importante a questo dibattito.


(2) Il concetto di cultura di Cabral è di tipo materiale-antropologico nella misura in cui rinvia alle pratiche di produzione e riproduzione della vita e delle relazioni sociali.


(3) Sul concetto gramsciano di egemonia Cfr. Quaderni dal carcere, 4 voll. Einaudi, Torino 2014. 


(4) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell'essere sociale, 4 voll.. Meltemi 2023.


(5) Sul concetto di ri-africanizzazione della cultura, vedi, fra gli altri, Ngugi Wa Tiong'o, Decolonizzare la mente, Jaka Book, Milano 2015. 


(6) Sulla relazione di interdipendenza sviluppo/sottosviluppo cfr., fra gli altri, A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020. 


(7) Qui vi è una chiara analogia con la visione leniniana del rapporto fra partito e classe:  da un lato il partito deve essere costantemente a contatto con le masse e integrarne le avanguardie al proprio interno, dall'altro le masse possono assumere coscienza politica solo imparando a conoscere i rapporti fra tutti gli strati che compongono la società.


(8) Cfr. Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2013.


(9) Cfr. S. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2000. 


(10) Cfr. in particolare C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll. Meltemi, Milano 2023. 


(11) Vedi op. cit., vol. II ("Elogi dei socialismi imperfetti"), capitoli 1 e 3. 


 





 

NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO A mò d’introduzione Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) ...

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