UTOPIE LETALI 2
Quasi dodici anni fa (ottobre 2013) usciva, per i tipi di Jaka Book, Utopie letali, un saggio in cui analizzavo gli svarioni teorici, le derive ideologiche e i miti che stavano sprofondando le sinistre radicali nella più totale incapacità di analizzare, e ancor meno di contrastare, le strategie di ricostruzione egemonica del progetto neoliberale che, dopo la crisi del 2008 che ne aveva evidenziato contraddizioni e debolezze, era impegnato a restaurare il consenso delle larghe masse occidentali, in parte tentate dalle insorgenze populiste. In quelle pagine accusavo, nell’ordine, le teorie postoperaiste che rimpiazzano la lotta di classe con fantasmatiche “moltitudini”; l’idiosincrasia dei movimenti libertari nei confronti di qualsiasi forma di organizzazione e potere politico (stato e partito eletti a simboli del male assoluto); la fascinazione delle tecnologie digitali gabellate per strumenti di democratizzazione economica, politica e sociale; l’eurocentrismo incapace di prendere atto dello spostamento dell’asse antimperialista verso l’Est e il Sud del mondo; il dirottamento dell’impegno politico e sociale verso obiettivi rivendicativi di carattere particolaristico (libertà civili e individuali versus interessi e libertà collettive).
Da allora l’offensiva capitalista si è incattivita, assumendo i connotati di un liberal fascismo di nuovo conio (confuso, ahimè, con il liberalismo e il fascismo “classici”, e quindi affrontato con i vecchi arnesi del frontismo). Abbiamo assistito a una reazione rabbiosa di fronte all’impossibilità di restaurare il sogno di una pax atlantica e di un nuovo secolo americano, accarezzato dopo il crollo dell’Unione Sovietica; una reazione che ha sfruttato la pandemia del Covid19 per imporre un ferreo disciplinamento ideologico, politico e sociale; che ha avuto ragione con relativa facilità dei populismi di sinistra (Syriza, Podemos, Sanders, Corbyn, M5S, di Mélenchon diremo più avanti), mentre ha integrato quelli di destra (Trump in testa) nel proprio progetto; che ha identificato nella Terza guerra mondiale (di cui abbiamo visto i prodromi in Ucraina, in Siria, nel genocidio di Gaza e nella guerra che Israele e Stati Uniti hanno scatenato contro l’Iran) la soluzione finale alla crisi secolare iniziata negli anni Settanta del Novecento.
I soggetti politici e culturali che criticavo in Utopie letali hanno imparato qualcosa dalle sconfitte subite nell'ultimo decennio? La loro connivenza di fatto – salvo sporadici pigolii pacifisti – nei confronti della propaganda anti russa, anti cinese e anti islamica (e anticomunista! Vedi l’ignobile delibera del Parlamento europeo che equipara comunismo e nazismo) con cui l’Occidente collettivo prepara la nuova guerra mondiale; e la loro ottusa riproposizione delle tesi e delle analisi di cui sopra, benché smentite dai fatti, non alimentano speranze. I due libri che discuto in questo post: Tecnocapitalismo. L’ascesa dei nuovi oligarchi e la lotta per il bene comune, di Loretta Napoleoni, e Ribellatevi! La rivoluzione nel XXI secolo, di Jean-Luc Mélenchon (appena usciti per i tipi di Meltemi) concorrono ad alimentare il mio pessimismo.
Loretta Napoleoni: sedotta dai miti tecnolibertari, delusa dalla realtà anarco-capitalista.
A colpire, nella narrazione di Loretta Napoleoni, è la paradossale alternanza fra, da un lato la celebrazione della potenza liberatoria ed emancipatrice che le tecnologie digitali sarebbero in grado di regalare agli individui, alla società, alla specie umana in generale e all’ambiente naturale in cui viviamo, dall’altro lato il riconoscimento che le aspettative suscitate dalle nuove tecnologie non sono andate solo deluse, ma si sono rovesciate in altrettanti incubi. Un esito negativo che Napoleoni ascrive alla malignità di un pugno di tecnocapitalisti, ignorando il fatto che esso era inscritto nella natura stessa delle tecnologie in questione o, per meglio dire, in quella dei rapporti economici, sociali e politici che le hanno prodotte.
L’autrice inaugura il catalogo degli eroi della guerra contro l’autoritarismo dei poteri costituiti (economici, politici e sociali) con il gruppo di matematici, hacker , attivisti, fan di fantascienza che, nato alla fine degli anni 90 a San Francisco, si auto definiva cypherpunk (una crasi fra la cultura cyberpunk che imperversava in quegli anni (1) e la parola cypher, che allude alle tecnologie crittografiche). L’obiettivo fondamentale di questo movimento “libertarian”, scrive l’autrice, era scongiurare il probabile uso liberticida delle nuove tecnologie da parte dello Stato (non da parte delle imprese, le quali si sono rivelate ben più abili dello Stato nell’opprimere e sfruttare lavoratori, cittadini e utenti - ma si sa: per i libertarian la libertà economica è sacra quanto se non più di quella individuale).
Non a caso i tecnocapitalisti, come la Napoleoni chiama i magnati della cyber economy, sono stati fulminei nell’applicare la lezione dei profeti del digitale: la lentezza con cui il diritto reagisce alle innovazioni genera un’area grigia che chiunque può sfruttare ai propri fini, leciti e illeciti. Quest’area ha partorito colui che l’autrice considera un altro “eroe”della battaglia per mettere l’individuo al riparo dall’occhio invadente del Grande Fratello: quel Nakamoto (pseudonimo dietro il quale c’è chi immagina si nasconda un Robin Hood che vuole redistribuire la ricchezza alla gente comune, mentre i più avveduti subodorano la mano di un insider dell’alta finanza) che ha il discutibile merito di avere inventato il bitcoin, la più nota e diffusa di una serie di criptovalute.

Un’invenzione, azzarda Loretta Napoleoni, che potrebbe avere reso possibile il sogno dei cypherpunk, vale a dire “la decentralizzazione dello Stato e il rafforzamento di un individuo che diviene sovrano di se stesso all’interno della moltitudine”. Se aggiungiamo ai due esempi appena citati l’esaltazione della “insurrezione virtuale” della comunità denominata Reddit, protagonista di una guerra finanziaria contro Wall Street condotta con le armi del nemico (e puntualmente conclusasi con una sconfitta), si sarebbe tentati di chiudere qui il discorso, liquidando il libro della Napoleoni come un’ingenua utopia neo anarchica, una versione cyber dei sogni ottocenteschi dei vari Owen, Proudhon, Saint Simon e Fourier. In realtà le cose sono più complesse, nel senso che l’autrice non è inconsapevole delle ombre associate a certe visioni “libertarie”.
Sui cypherpunk scrive, per esempio, che costoro – insensibili a temi sociali e politici - erano convinti che solo la tecnologia e non la legge (e quindi non la politica né il diritto!) può proteggere le libertà individuali, e si professavano antidemocratici perché, essendo la maggioranza “ignorante”, la democrazia è sinonimo di tirannia - rozza versione della tesi “classica” di Alexis de Tocqueville (2). Inoltre, dopo aver spiegato che il meccanismo delle criptovalute si fonda sulla fiducia degli utenti, né più e né meno delle monete “ufficiali”, il cui valore operativo è interamente fondato sulla fiducia dei cittadini - in realtà le cose sono assai più complicate, ma sorvoliamo -, e dopo avere sostenuto che questo denaro virtuale potrebbe rappresentare un mezzo di emancipazione dal monopolio statale sull’emissione di moneta, l’autrice è indotta ad ammettere che le criptovalute si sono rivelate “uno specchio del mondo reale” (ma va!?) e che, una volta finite sotto il controllo dei tecnocapitalisti, hanno contribuito ad aumentare, più che a ridurre, le disuguaglianze.
Insomma: c’era un volta il sogno di un futuro in cui “il monopolio della comunità avrebbe sostituito il monopolio dello Stato”, ma poi sono arrivati i cattivi che lo hanno trasformato in un incubo. Ma chi sono i cattivi? Va detto che l’autrice sembra avere le idee chiare sulle modalità di funzionamento del processo di finanziarizzazione dell’economia e sul fatto che esso si è avvalso di meccanismi agevolati proprio dalla rivoluzione digitale (vedi la facilità e la velocità con cui, una volta trasformati i debiti – come i mutui immobiliari – in merce, “impacchettandoli” in fondi “certificati” dalle agenzie di rating, questi hanno potuto inondare un mercato finanziario globale che opera “in tempo reale”, innescando la bolla dei subprime). Tutto ciò è stato reso possibile dall’integrazione fra alta finanza e colossi della tecnologia. Sono stati questi ultimi (i famigerati GAFAM cioè Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) a monopolizzare il settore tecnologico, facendo sì che esso, lungi dal favorire la redistribuzione della ricchezza, abbia aggravato le disuguaglianze e intensificato lo sfruttamento del lavoro promuovendo, fra gli altri, fenomeni come la uberizzazione del lavoro e la gig economy, cui l’autrice dedica pagine interessanti (3).
Fin qui tutto bene. I guai iniziano laddove Napoleoni sostiene che il colpo di mano dei tecnotitani è stato favorito dalla presunta “fine” di uno stato-nazione ormai del tutto asservito ai loro interessi. Il ritornello sulla fine dello stato suona stucchevole da quando economisti e studiosi di sociologia politica hanno chiarito che il neoliberismo non è una riproposizione del liberismo classico, del laissez faire, bensì una dottrina (4) che riconosce allo Stato il compito decisivo di creare le condizioni per il corretto funzionamento di un mercato che, abbandonato a se stesso, non può garantire la riproduzione del sistema. Del resto, storici di lungo periodo come Braudel (5) e teorici del sistema mondo come Arrighi (6) spiegano che, fin dalle sue origini mercantiliste, il grande capitale finanziario ha sempre agito in stretta connessione (pur con fasi conflittuali) con lo Stato, e che il capitalismo, per dirla con Braudel, non può esistere senza lo Stato, di più, non può esistere senza farsi esso stesso Stato. Con buona pace di Loretta Napoleoni: niente di nuovo sotto il sole, se non il ripetersi in forma diversa dell’appropriazione capitalistica dello Stato.
I buchi nella narrazione di Napoleoni sono il frutto di un equivoco di fondo, che consiste nella mancata comprensione del fatto che la Tecnica (uso maiuscola per sottolineare l’enfasi metafisica attribuita all’entità in questione) non è un sistema che si sviluppa con dinamiche proprie e indipendenti da quelle delle relazioni sociali (di classe!), politiche, culturali (ideologiche!) che compongono la civiltà umana nel suo complesso. Se avesse tenuto conto di queste interdipendenze sistemiche, non avrebbe avuto difficoltà a capire come il trionfo del Tecnocapitalismo sulle utopie hacker fosse inscritto nelle radici stesse della cosiddetta rivoluzione digitale: tanto negli interessi economici, politici e militari (vedi il ruolo dell’Arpa nello sviluppo di Internet) che ne hanno creato le condizioni, quanto nell’ideologia anarchica (anche se sarebbe più corretto definire i libertarian anarcocapitalisti, più che anarchici nel senso classico del termine) dei suoi ideatori.
Questi ultimi coltivano il sogno di un’evasione individuale dal potere soverchiante dei monopoli (non a caso sono fan della fantascienza: vedasi un autore come Philip Dick (7) che fu maestro del genere). Un sogno che rilancia la cultura individualista dei pionieri che nell’800 abbandonavano le metropoli della costa orientale (dominate dai magnati) per andare alla ricerca di un posto al sole nelle praterie occidentali. E adesso, esauritosi il sogno della Rete come frontiera virtuale, occupata dalle enclosure dei GAFRAM, non resta loro che il mito della nuova frontiera dello spazio. Purtroppo anche qui i tecnotitani Musk, Bezos e Branson, scrive Napoleoni, stanno occupando i posti migliori, anche se va detto che certe narrazioni di espansione cosmica si riducono a campagne di marketing per promuovere progetti di turismo spaziale per super ricchi e altre forme di messa a valore dello spazio extraterrestre a noi più vicino, visto che, allo stato attuale delle tecnologie, l’unico spazio colonizzabile è, e tale resterà presumibilmente per secoli a venire, quello orbitale (del che, mi viene da dire, non possiamo che rallegrarci, dato che non vi è conquista coloniale che non sia associata alla mostrificazione dell’altro, al genocidio e alla distruzione ambientale).
Del resto sono proprio le barriere apparentemente invalicabili – naturali, economiche, culturali, sociali, demografiche, geografiche, ecc. - che consentono di riconoscere il demone che possiede tecnocapitalisti e tecnoanarchici, magnati e pionieri, finanzieri e hacker, sognatori in piccolo e sognatori in grande: è il demone che Hegel chiamava cattiva infinità e Marx accumulazione allargata, mentre Loretta Napoleoni preferisce parlare di mito della crescita infinita, e fin qui posso essere d'accordo con lei, mi si rizzano invece i capelli in testa quando chiama in causa la tesi di tale Edward O. Wilson, un biologo secondo il quale il mito della crescita infinita non sarebbe un prodotto della storia umana bensì del nostro corredo genetico. Si capisce quindi perché, sviata da questo cattivo maestro, conclude così il suo lavoro: “Ignari delle conseguenze dei fallimenti dei nostri governi, delle nostre società e, soprattutto, di noi stessi, stiamo camminando come sonnambuli verso la distopia, a meno che qualcuno o qualcosa non riesca a svegliarci in tempo” Insomma, per dira con Heidegger, solo un Dio ci può salvare...
Jean-Luc Mélenchon: tribuno del popolo o neogollista di sinistra?
Formulare un giudizio complessivo sul libro-manifesto di Mélenchon non è impresa banale perché, per ammissione dello stesso autore, non si tratta di un insieme organico di tesi, bensì di un collage di argomentazioni prese a prestito da vari autori. Il che sarebbe anche accettabile, dal momento che il nostro non è un teorico, bensì il leader carismatico di un movimento (populista più che popolare, come vedremo) come Tsipras e Iglesias lo sono stati di Syriza e Podemos. Ciò che ai miei occhi lo rende meno accettabile è il fatto che le fonti cui attinge (non citate ma riconoscibili) coincidono quasi punto a punto con le utopie letali contro cui sparavo a zero anni fa: l’impianto populista è mutuato da autori come la coppia Laclau Mouffe (8); il concetto di rivoluzione cittadina dal movimento ecuadoriano di Rafael Correa (9); l’astio nei confronti del “socialismo reale” (oggi evoluto in russofobia) è di chiara matrice troskista; la retorica decrescitista evoca la filosofia ecologista di autori come Latour e Latouche (10); l'entusiasmo per le potenzialità democratiche dei social rinvia alle stesse fonti della Napoleoni; infine l’esaltazione per le ribellioni spontanee delle “moltitudini” fatte di singolarità individuali e per la cultura antipartitica e antiorganizzativa che esse secernono è un mix di suggestioni postoperaiste e troskiste. Il tutto condito con vaghi accenti sciovinisti che giustificano la definizione di neogollista di sinistra, forse malevola ma tutt'altro che arbitraria. Ma procediamo con ordine.
Un altro “incantato dalla rete”
Le considerazioni critiche appena fatte sul testo di Loretta Napoleoni valgono, parola per parola, per le pagine che Mélenchon dedica al tema della Rete, per cui non mi dilungo eccessivamente sull’argomento, limitandomi a prendere atto che anche lui si iscrive – per parafrasare il titolo di un mio libro del 2000 (11) – al club degli “Incantati dalla Rete”. Pur non mancando di denunciare a sua volta l’irreversibile espropriazione dei sogni tecnolibertari da parte della banda dei GAFRAM, resta infatti convinto che la nostra sia “l’epoca dell’iper-individuo e della connessione” per cui annuncia, non senza prosopopea, che “la singolarità individuale è un fatto essenziale del nostro tempo” che ha battezzato la nascita di un “super individuo”.
Che la nostra sia l’era della connessione, non sussistono dubbi, nel senso che è l’era in cui il capitale, e il sistema politico che ne rappresenta gli interessi, sfruttano le tecnologie digitali per disciplinare, controllare e mettere al lavoro non solo operai, tecnici, impiegati e lavoratori “autonomi” ma anche l’intera massa dei cittadini-utenti-consumatori (12). Che ciò comporti di fatto l’abolizione delle forme tradizionali di associazione collettiva - politica, culturale e civile - rimpiazzata dal surrogato virtuale dei social, mi pare abbia francamente poco a che fare con l’emergenza (altro termine cui Mélenchon ricorre spesso, mutuandolo dai teorici della complessità) di un super individuo. Questo è semmai l’immaginario veicolato da media, pubblicità, e altri venditori di fumo (“diventa l’imprenditore di te stesso”) che alimenta l’illusione – soprattutto nelle nuove generazioni – di essere padroni del proprio destino quanto più si viene ridotti ad atomi isolati, privi di qualsiasi reale autonomia di decisione e di scelta.
Il nostro tenta però di rovesciare la frittata mostrandoci il bicchiere mezzo pieno, anzi pieno fino all’orlo, laddove scrive che “lo spazio delle reti è la principale e talvolta unica agorà contemporanea, il punto di partenza di innumerevoli azioni rivendicative”. Così, celebrando l’emergenza di questo immaginario spazio globale, richiama in vita le narrazioni “alter mondialiste”(stroncate dalla macelleria messicana di Genova 2000 e definitivamente sepolte dalla frammentazione di un sistema mondiale che precipita verso la Terza guerra mondiale) e delira di “una nuova comunità globale in crescente inclusione”, caratterizzata da un processo di “creolizzazione generale”, proprio mentre l’esplosone dei particolarismi identitari scatena ondate di odio generalizzato. Ma evidentemente per Mélenchon questi sono dettagli marginali, trascurabili controtendenze. Lui guarda piuttosto con fiducia al radioso futuro della Noosfera (!). Sì, avete letto bene: si tratta proprio della visione allucinatoria del mistico gesuita Teilhard de Chardin (13), anche se il nostro dice che non è la stessa cosa (forse si riferisce alla versione del concetto riformulata a suo tempo dal mio amico Franco Bifo Berardi, il quale però credo l’abbia ormai ripudiata, rinsavito da un sano rigurgito di realismo pessimista). Per chi lo ignorasse per noosfera si intende la sfera di tutte le attività della mente umana che sarebbe “diventata una realtà digitale che include tutti i pensieri digitalizzati”. No comment...
Qualche residuo di lucidità
Gli unici scampoli di lucidità critica il libro Mélenchon li concede nelle pagine dedicate alla critica del sistema neoliberale. È vero che anche lui – come Loretta Napoleoni – è rimasto all’idea che il neoliberismo è una riedizione del laissez faire di ottocentesca memoria, e sul tema non dice nulla di realmente in nuovo, ma almeno in questo caso ha scelto di citare gli autori giusti (sempre senza nominarli).
Così scrive che il liberalismo che oggi domina il mondo è entrato in una nuova fase in cui cui ha rinunciato al progetto democratico (progetto che Mélenchon identifica con quello “intorno cui si erano organizzate le società europee all’indomani della Seconda guerra mondiale”). Andrebbe tuttavia precisato che il liberalismo non è mai stato democratico, ha solo usato la narrazione democratica per legittimare il proprio dominio nelle centrali imperiali, mentre nelle periferie coloniali si è comportato esattamente come il Terzo Reich hitleriano (14).
Scrive inoltre che le nuove tecnologie hanno consentito al capitale finanziario di realizzare il sogno della riduzione a zero del tempo di realizzazione del profitto (D-D’ senza passare da M, saltando cioè tutte le noie, i rischi e gli imprevisti della produzione e del mercato delle merci), un sogno che già Marx aveva analizzato nel Terzo Libro del Capitale (15). Descrive poi come la tendenza crescente alla divaricazione fra i cicli lunghi dell’eco sistema e i cicli brevi (tendenti a zero) dell’economia siano la causa principale della catastrofica degradazione dei sistemi ambientali, cui collaborano anche fenomeni quali l’obsolescenza programmatica, lo spreco sistematico e la monetizzazione dei “diritti” di inquinamento (temi presenti anche nel libro di Nicoletta Napoleoni).
Populismo e cittadinismo
Come fronteggiare la sfida di un sistema neoliberale che sta trascinando il mondo verso il baratro della guerra e della catastrofe economica, sociale e ambientale? L’unica forza in grado di scongiurare il disastro, risponde Mélenchon, è la “rivoluzione cittadina”. Cosa intende con questo slogan a dir poco generico? Provo a decodificare.
In primo luogo, c’è sicuramente l’intenzione di evocare la memoria dei citoyen protagonisti della Grande Rivoluzione del 1789. Poco importa che Marx abbia smontato la narrazione di un cittadino che, dietro il mito dei diritti universali dell’uomo, nascondeva i prosaici interessi della classe borghese. Mélenchon non si cura di anticaglie come la lotta di classe, perché oggi, scrive, la teoria - termine generico con cui allude presumibilmente alle tesi del filosofo populista Ernesto Laclau (16) - “presenta una nuova conflittualità sociale: dopo il proletario contro il borghese ecco i nuovi protagonisti loro e noi, gli oligarchi contro il popolo”.
Purtroppo i leader europei che hanno tentato di importare in Europa le idee di Laclau (ritagliate sull’esperienza del peronismo argentino) sono andati incontro a clamorosi fallimenti (vedi, fra gli altri, Tsipras e Iglesias). Ma evidentemente Mélenchon spera che la Francia sia terreno più fertile per applicare certi modelli latinoamericani (non a caso la sua rivoluzione cittadina fa il verso alla revolucion ciudadana dell’ecuadoriano Rafael Correa). Dimentica però che i soli esprimenti populisti di sinistra riusciti nel subcontinente sono stati quello del Venezuela, dove il movimento di massa ha potuto contare sulle sinistre riunite nel PSUV fondato da Chavez e soprattutto sul sostegno delle forze armate, e quello della Bolivia, Paese caratterizzato dalla presenza di una schiacciante maggioranza di origine india (17). Viceversa le rivoluzioni cittadine alla Correa, che hanno fatto leva sulle classi medie urbane che tanto piacciono al nostro, sono state sconfitte.
Il punto è che, per il mondo urbano contemporaneo non vale più il motto medievale “la città rende liberi”: le metropoli postmoderne sono il teatro di un processo di gentrificazione che ha espulso i ceti popolari dai centri e li ha ricacciati nelle periferie per cui movimenti come quello dei Gilet Gialli, che Mélenchon cita a più riprese, sono movimenti periferici che esprimono la rivolta delle banlieu e delle piccole medie città di provincia contro l’arroganza dei ceti medio alti di Parigi, egemonizzati dalle destre neoliberali (18).
Ma il nostro è convinto che esista un unico movimento globale contro il potere costituito (come quello degli hacker esaltati dalla Napoleoni), espressione di “una radicale crisi di consenso da parte dei popoli nei confronti dell’autorità che li governa”. Quali autorità? Tutte perché, per l’ideologia libertaria, il potere è cattivo per definizione. Quindi Mélenchon traccia un elenco di rivolte che somiglia alla proverbiale notte in cui tutte le vacche sono nere, nel quale troviamo, accanto a Occupy Wall Street e ai Gilet Gialli, il movimento degli ombrelli di Hong Kong (dichiaratamente anticomunista e filo occidentale) e i neonazisti di Piazza Maidan.
Ammesso e non concesso che esista questo movimento globale contro lo Stato (contro ogni forma di Stato) e dato che, come lo stesso Mélenchon ammette, si tratta di soggetti che non vogliono nemmeno sentir parlare di politica, come potranno trovare risposta le sue rivendicazioni? Ma con il voto naturalmente: “la convinzione democratica e le elezioni sono la forma necessaria di mobilitazione politica in grado di invertire il corso degli eventi”. Così tutti i salmi neo anarchici finiscono in gloria, cioè nell’urna elettorale...
Per concludere: cosa non ho trovato che avrei voluto trovare e cosa ho trovato che non avrei voluto trovare nel libro di Mélenchon
Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna dei crimini vecchi e nuovi dell’imperialismo francese. A partire dal tentativo di soffocare la rivoluzione degli schiavi haitiani che avevano creduto, sbagliando, che il motto Libertè Egalitè Fraternitè valesse anche per loro. Una rivoluzione guidata da eroi come Toussaint Louverture (19), che fra qualche secolo saranno forse ricordati come i protagonisti di un evento storico più importante della presa della Bastiglia, e che riuscirono a sconfiggere sul campo gli eserciti “rivoluzionari” di Parigi, ma furono poi costretti a pagare per più di un secolo i “danni” provocati ai piantatori francesi. Un episodio osceno che è la causa principale della miseria del popolo haitiano e del quale la Francia si è finora rifiutata di fare ammenda. A seguire con i crimini di guerra perpetrati in Indocina e in Algeria, sui quali i socialisti e i comunisti francesi hanno chiuso più di un occhio. A seguire infine con l’assassinio di Gheddafi, perpetrato in combutta con l'imperialismo americano, e con gli interventi in Siria e in Sahel.
Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna del razzismo e dell'islamofobia che, come denuncia il libro di Said Bouamama, fanno parte del bagaglio culturale di larga parte dei cittadini francesi, e non solo di quelli di destra.
Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna della scandalosa deliberazione del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo.
Non ho trovato una chiara e inequivocabile condanna della strategia della NATO che, in barba agli impegni assunti all’atto della riunificazione delle due Germanie, ha esteso i propri confini a Est fino ad andare “ad abbaiare ai confini della Russia”, per usare le parole del compianto papa Francesco.
Non ho trovato una condanna chiara e inequivocabile del regime di Netanyahu e del carattere razzista e genocida della politica israeliana (quanto pesa la lobby sionista all’interno della sinistra francese?)
Ho invece trovato una esaltazione del ruolo politico delle classi medie, celebrate come “essenziali all’equilibrio di questo tipo di società” (cioè della società capitalista!).
Ho trovato l’approvazione delle pratiche assembleari cittadine che evitano accuratamente di discutere temi problematici e “divisivi” (come l’immigrazione e il razzismo?). Altro che versione postmoderna dei soviet, che erano organismi in cui si discuteva ferocemente di tutto, prima di assumere decisioni...
Ho trovato una condanna della “invasione criminale e assurda dell’Ucraina”, senza alcun cenno al regime change del 2014 orchestrato dalla Cia, o alle persecuzioni nei confronti della popolazione russofona che hanno preceduto l’intervento di Mosca (un riflesso del passato trotzkista?).
Ho infine trovato un invito a non consegnare alle destre la difesa della sovranità nazionale (occorre “prendere la bandiera e farla propria” scrive). Giusto! Ma che significa l’accusa “Macron ha buttato fuori la Francia da se stessa”? quel se stessa include la Francia imperiale (colonialista, razzista e criminale), la Francia capitalista che sfrutta le masse degli immigrati, la Francia che si schiera con l’Occidente collettivo contro i popoli del Sud del mondo? Si spera di no, ma certi accenti sciovinisti (che risuonano anche nella sigla France Insoumise), a partire dall’assunzione implicita che non esiste nessuna “vera” rivoluzione se non la Grande Rivoluzione Francese, per tacere delle “omissioni” elencate poco sopra, giustificano l'interrogativo che azzardavo nel titolo del paragrafo: “tribuno del popolo”o neogollista di sinistra?
NOTE
(1) Mi riferisco ad autori come Bruce Sterling e William Gibson, autori di romanzi che descrivono una sorta di medioevo digitale, dominato dalle grandi imprese high tech il cui potere può essere sfidato solo dai cowboy della Rete, cioè da un pugno di tecnoanarchici individualisti.
(2) Cfr. Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1999.
(3) Chi scrive si è occupato di uberizzazione del lavoro e gig economy in Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.
(4) Non è possibile comprendere la stretta relazione fra Stato e mercato che caratterizza il sistema neoliberale senza studiare l’ordoliberalismo. Vedi, in particolare, F. von Hayek, La società libera, Rubettino 2007. Sulla differenza fra liberalismo e neoliberalismo vedi A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020.
(5) Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, 3 voll., Einaudi, Torino 1982, 1993, 2006.
(6) Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1996.
(7) La monumentale opera letteraria di P. K. Dick, che anticipa i temi del movimento cyberpunk, è una epopea del piccolo imprenditore americano, schiacciato dalla concorrenza dei monopoli high tech.
(8) Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, Londra 1985; vedi anche E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 1908.
(9) Sulla revolucion ciudadana di Rafael Correa, cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2013.
(10) Cfr. B. Latour, Come abitare la Terra, Einaudi, Torino 2024, e S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2014.
(11) C. Formenti, Incantati dalla Rete, Cortina, Milano 2000.
(12) Vedi C. Formenti, Felici e sfruttati, cit.
(13) Cfr. P. Theilard de Chardin, Il fenomeno umano, Queriniana 2024.
(14) Sugli orrori commessi dall’imperialismo inglese cfr. C. Elkins, Un’eredità di violenza, Einaudi, Torino 2024, e analoghe considerazioni andrebbero fatte sull’imperialismo francese e su quello americano; quanto all’imperialismo tedesco, Aimé Césaire ironizza sull’ipocrisia delle democrazie occidentali che a Hitler non rimproveravano tanto i crimini contro l’uomo, quanto i crimini contro l’uomo bianco, l’avere cioè commesso contro i bianchi gli stessi delitti che essi avevano commesso contro i popoli di colore (Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2020).
(15) Vedi quanto ho scritto in proposito su queste pagine: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2025/04/rileggendo-marx-appunti-sui-libri-ii-e_26.html
(16) Cfr nota 8.
(17) Sulla natura anticapitalista delle comunità originarie dei campesindios andini e sul loro ruolo determinante nella rivoluzione boliviana, cfr. A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Quito 2015.
(18) Cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014.
(19) sulla rivoluzione haitiana e sulla figura del suo leader Louverture, cfr. S. Hazareesingh, Spartaco nero, Rizzoli, Milano 2020.