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giovedì 1 dicembre 2022

RILEGGERE LUKACS
PER SALVARE IL MARXISMO OCCIDENTALE


Il testo che segue anticipa la mia Prefazione della nuova edizione della "Ontologia dell'essere sociale" di Lukács che l'editore Meltemi manderà in libreria ai primi del 2023


Se la Ontologia dell'essere sociale fosse stata pubblicata nel 1971 (l'anno di morte dell'autore) avrebbe certamente influito sulla valutazione della grandezza di Lukács, elevandolo al ruolo di più importante filosofo marxista - e fra i maggiori filosofi in generale – del Novecento. Invece quest'opera monumentale, la cui stesura richiese un decennio di lavoro, tardò a vedere la luce  perché l'autore continuava a rimaneggiare il testo dei Prolegomeni che, malgrado la loro funzione di sintesi introduttiva ai temi della Ontologia, furono scritti per ultimi (1);  inoltre perché gli allievi che ebbero a disposizione il manoscritto dopo la sua morte ne ritardarono la diffusione (la traduzione italiana della seconda parte uscì nel 1981, mentre la versione originale apparve in tedesco dal 1984 al 1986), ma soprattutto alimentarono un pregiudizio negativo nei confronti dell'opera prima che fosse resa disponibile ai lettori (2).  Questi motivi, unitamente al clima storico, ideologico e culturale antisocialista e antimarxista degli anni Ottanta generato dalla rivoluzione neoliberale, dalla svolta eurocomunista di quei partiti europei che interpretarono la crisi del socialismo come “crollo del marxismo”, nonché dalla svolta libertaria e individualista dei “nuovi movimenti” post sessantottini, ha fatto della Ontologia una delle opere più sottovalutate del Novecento. Al punto che il pensiero di Lukács, mentre è rimasto oggetto di culto per minoranze intellettuali non convertitesi al mainstream neoliberale, ha continuato ad essere identificato con opere precedenti come la Distruzione della ragione (3) , e ancor più con Storia e coscienza di classe (4), un  libro che lo stesso autore considerava “giovanile” e superato. 


Lukács da giovane



Riproponendo la Ontologia in questa versione editorialmente più curata di quella uscita nel 2012 per i tipi di Pgreco, Meltemi offre un importante contributo al rinnovamento del marxismo in un momento storico in cui esso rischia seriamente di sparire, o peggio di ridursi ai balbettii dogmatici di esigue minoranze, in quasi tutti i Paesi occidentali. In questa Prefazione mi propongo di spiegare perché ritengo che lo studio di quest'opera potrebbe rivelarsi un formidabile strumento per capire le cause della crisi epocale che il movimento anticapitalista occidentale sta attraversando, e per  cercare vie di uscita dall'impasse, perlomeno sul piano teorico. Nella prima parte cercherò di enucleare alcuni nodi fondamentali del pensiero filosofico dell'ultimo Lukács, avvalendomi anche delle sue riflessioni autocritiche (5) sulle tesi sostenute in Storia e coscienza di classe, nonché di una lunga conversazione del 1966 registrata da tre intervistatori tedeschi &); nella seconda analizzerò brevemente alcuni argomenti della interpretazione lukacsiana delle teorie leniniste.


  1. La svolta ontologica


Ad alimentare la diffidenza con cui l'ultimo lavoro di Lukács venne accolto è probabile che abbia contribuito anche il titolo: evocare i concetti di ontologia ed essere non poteva non suonare sospetto alle orecchie della “moda” allora prevalente in campo marxista, cioè al progetto di “depurare” il pensiero del maestro dall'eredità hegeliana e dalle sue implicazioni “idealiste” e “metafisiche”. Il che è tanto più paradossale, in quanto l'intento dell'ultimo Lukács era precisamente quello di superare il proprio punto di vista giovanile, rinnegato in quanto più hegeliano di Hegel:. “Il proletariato come soggetto-oggetto identico della storia dell'umanità, scrive Lukács nel 67, non è quindi una realizzazione materialistica che sia in grado di superare le costruzione intellettuali idealistiche: si tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di Hegel, di una costruzione che intende oggettivamente oltrepassare il maestro nell'audacia con cui si eleva con il pensiero al di sopra di qualsiasi realtà”(7). Il bersaglio è qui il modo in cui Storia e coscienza di classe tratta il tema dell'emergenza di una coscienza di classe che non sarebbe altro “che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale”, per cui il proletariato viene assimilato a una entità ideale investita del compito di attuare “la cosciente realizzazione dei fini dello sviluppo oggettivo della società”(8). Si tratta di una rappresentazione che rispecchia i canoni della logica hegeliana, per cui il proletariato ridotto a oggetto dal processo di valorizzazione del capitale si fa soggetto di sé stesso ascendendo allo stato di soggetto-oggetto identico. Ma, si chiede Lukács, “il soggetto-oggetto identico è  qualcosa di più che una costruzione puramente metafisica?”; dopodiché si risponde: “E' sufficiente porre questo interrogativo con precisione per constatare che ad esso occorre dare una risposta negativa. Infatti, il contenuto della conoscenza può anche essere retro-riferito al soggetto conoscitivo, ma non per questo l'atto della conoscenza perde il suo carattere alienato” (9). 


L'ultimo Lukács prende le distanze anche dal modo in cui, in Storia e coscienza di classe, venivano  presentati i concetti di estraneazione e di totalità. L'estraneazione viene posta sullo stesso piano dell'oggettivazione, ma così, argomenta Lukács, si rischia di giustificare il pensiero borghese che fa dell'estraneazione una eterna “condizione umana”, infatti, dal momento che il lavoro stesso è una oggettivazione e che tutti i modi di espressione umana, come la lingua, i pensieri e i sentimenti, sono tali, “è evidente che qui abbiamo a che fare con una forma universalmente umana dei rapporti degli uomini fra loro” (10) ; per cui occorre ammettere che “l'oggettivazione è un modo naturale – positivo o negativo – di dominio umano del mondo, mentre l'estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali” (11). Passiamo alla totalità. In Storia e coscienza di classe leggiamo: “l'isolamento astrattivo degli elementi, sia di un intero campo di ricerca sia dei particolari complessi problematici o dei concetti all'interno di un campo di ricerca è certamente inevitabile. Ma il fatto decisivo è se si intende questo isolamento soltanto come mezzo per la conoscenza dell'intero...oppure se si pensa che la conoscenza astratta del campo parziale mantenga la propria “autonomia”, resti fine a se stessa...per il marxismo non vi è in ultima analisi una scienza autonoma del diritto, dell'economia, della storia, ecc. ma soltanto una scienza unica e unitaria – storico-dialettica – dello sviluppo della società come totalità” (12). E ancora: “l'aspetto che fa epoca nel materialismo storico consiste nel riconoscimento del fatto che questi sistemi (economia, diritto e stato) apparentemente del tutto indipendenti, definiti ed autonomi, sono meri momenti di un intero ed è perciò possibile sopprimere la loro apparente autonomia” (13). Viceversa, nella Ontologia, come sottolinea Tertulian nella sua “Introduzione”, la totalità sociale è concepita come un “complesso di complessi”, nel quale ogni complesso appare eterogeneo rispetto agli altri e risponde ad una propria logica, irriducibile a quelle altrui (14). Già in Storia e coscienza di classe la tendenza ad alimentare una visione determinista del processo storico appariva tuttavia parzialmente corretta grazie al concetto di possibilità: per esempio, dopo avere citato il detto di Marx che recita “l'umanità si pone solo dei compiti che è in grado di assolvere”, il giovane Lukács aggiunge che “anche in questo caso è data solo la possibilità. La soluzione stessa può essere soltanto il frutto dell'azione cosciente del proletariato” (15). L'ultimo  Lukács andrà al di là, negando la stessa esistenza di una necessità storica assoluta, attribuendo all 'idea di necessità la forma di una successione di catene causali del tipo “se questo...allora quello” e riconoscendo l'irriducibile ruolo del caso.  


La svolta ontologica, tuttavia, è caratterizzata soprattutto dal rovesciamento di prospettiva che pone la categoria del lavoro a fondamento di una corretta interpretazione del contributo di Marx alla comprensione della storia umana. Storia e coscienza di classe, scrive  Lukács nella Prefazione del 67, “tendeva ad interpretare il marxismo esclusivamente come teoria della società, come filosofia del sociale, e ad ignorare o a respingere la posizione in esso contenuta rispetto alla natura” (16). Pur sforzandosi di rendere intelligibili i fenomeni ideologici a partire dalla loro base economica, quel testo sottraeva all'ambito dell'economia la sua categoria fondamentale, vale a dire “il lavoro come ricambio organico della società con la natura” (17). Invece di partire dal lavoro, Storia e coscienza di classe prendeva le mosse dalle strutture complesse dell'economia merceologica evoluta, ma così l'esaltazione del concetto di praxis, privato del lavoro come sua forma originaria e modello,  si converte in contemplazione idealistica (18). Solo prendendo le mosse dal lavoro come fondamento e modello si può assumere un corretto approccio genetico all'analisi del processo storico: “Dobbiamo tentare di cercare le relazioni nelle loro forme fenomeniche iniziali e vedere a quali condizioni queste forme fenomeniche possano divenire sempre più complesse e sempre più mediate” (19). 


Costanzo Preve sottolinea (20) come il percorso evolutivo del pensiero di Lukács da Storia e coscienza di classe alla Ontologia possa essere descritto come approdo a uno dei tre distinti “regimi narrativi” presenti nell'opera di Marx, superando gli altri due. Secondo Preve il corpus teorico marxiano è infatti caratterizzato dai tre “discorsi”: grande-narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale. Nel primo la categoria di soggetto è titolare di un’essenza che contiene in sé, in modo immanente, una teleologia necessaria, per cui il proletariato sarebbe “per sua stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico, e a generare un mondo in cui le contraddizioni fra pubblico e privato, individuale e collettivo risulteranno superate. Il secondo alimenta la tendenza a una sorta di antropomorfizzazione della storia, nel senso che, alla narrazione dell’esistenza di un soggetto collettivo capace di imprimere una direzione al processo storico, associa l’ipotesi che tale processo sia animato da una necessità immanente (21). Mentre questi due regimi ispirano Storia e coscienza di classe, l'ultimo Lukács approda al filone ontologico-sociale del pensiero di Marx che esclude qualsiasi automatismo teleologico inscritto nella storia. In quest'ultimo regime narrativo, nessuna teleologia è all’opera nel processo storico, perché teleologia e causalità sono compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire finalistico dell’uomo e, al tempo stesso, costituisce quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società. In conclusione, Preve sintetizza il significato della svolta ontologica di Lukács in quattro punti : 1) il lavoro, in quanto attività umana volta a modificare la natura al fine di realizzare un prodotto che esiste già come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è il modello di ogni processo teleologico, o meglio è l’unica via attraverso cui il fattore teleologico penetra nel mondo reale, visto che né la storia naturale né quella umana incorporano una teleologia immanente; 2) il lavoro, inteso non solo come ricambio organico uomo-natura, ma anche in quanto somma di decisioni dirette a influenzare la coscienza di altri uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente”, gli atti lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che producono effetti necessari e irreversibili, nonché imprevedibili da coloro che le mettono in atto (motivo per cui le ”leggi” del processo storico sono comprensibili solo post festum); 3)  la realtà sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo causale naturalistico, bensì come l'insieme delle possibilità generate dal combinato disposto delle decisioni umane e delle catene causali da esse generate; 4) tali possibilità non possono essere realizzate senza l’intervento della posizione teleologica umano sociale, dal che deriva che la trasformazione rivoluzionaria del presente non è l’esito di automatismi, “oggettivi”, ma può avvenire solo grazie alla conversione della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole. Qui di seguito tenterò a mia volta di analizzare alcuni dei nodi affrontati nella Ontologia, partendo dal lavoro per poi affrontare, nell'ordine, la critica del meccanicismo, la storia, l'ideologia e il socialismo come superamento della estraneazione. 


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Per  Lukács, il contributo di Marx alla comprensione della storia umana può essere compreso solo se si parte dal fatto che il lavoro è la categoria centrale del suo pensiero, nella quale tutte le altre determinazioni sono contenute in nuce. Parliamo qui del lavoro utile, del lavoro come formatore di valori d’uso che “è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini” (22) . Il lavoro così inteso non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico in generale, ma è “l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale” (23).  Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire finalistico entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno trascendente, ideale. Per Marx, argomenta Lukács, il lavoro risulta dunque il modello di ogni prassi sociale e solo tenendo conto di ciò la definizione del pensiero marxiano come “filosofia della prassi” può essere colta nel suo significato più corretto e rigoroso. 


Nella misura in cui l'economia, intesa come  processo di produzione e riproduzione della vita umana, entra a fare parte del pensiero filosofico, diviene possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica, ma ciò non significa che l'immagine marxiana del mondo sia fondata sull'economismo. Se infatti il pensiero considerasse il lavoro isolandolo dalla totalità del fenomeno sociale, rimuoverebbe il fatto che “ la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente” (24). Da un lato, nessuno dei fenomeni sociali appena evocati può essere compreso ove lo si consideri isolato dagli altri; dall'altro lato non vanno dimenticati, sia la loro scaturigine originaria dal lavoro, sia il fatto che, benché il lavoro continui a essere il momento soverchiante, non solo non sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensifica (25). Quest’ultimo passaggio aiuta a comprendere come l'ontologia materialistica di Lukács sia lontana dalle tentazioni meccaniciste, come conferma la seguente citazione: “Solamente nel lavoro, quando pone il fine e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, - dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura – ma invece un compiere trasformazioni nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”. A partire da tale momento, la coscienza non può più essere considerata un epifenomeno ed è prendendone atto che il materialismo dialettico si separa da quello meccanicistico.


Va inoltre sottolineato il fatto che ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza, mentre influisce  sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura: per quanto radicali possano essere gli effetti trasformatori generati dalla progettazione cosciente, scrive Lukács, “la barriera naturale può solo arretrare, mai scomparire completamente” (26). A conclusione di questa sintetica descrizione del ruolo che la categoria del lavoro svolge nell'ontologia lukacsiana, segnalo l'attenzione che il filosofo dedica al fenomeno della inversione gerarchica fra il fine e il mezzo del processo lavorativo: “In ogni singolo processo lavorativo concreto il fine domina e regola i mezzi. Se però guardiamo ai processi lavorativi nella loro continuità ed evoluzione storica entro i complessi reali dell’essere sociale, abbiamo una certa inversione di questo rapporto gerarchico, che se non è certamente assoluta e totale, è purtuttavia di estrema importanza per lo sviluppo della società e dell’umanità” (27). Si tratta di un tema che svolge un ruolo importante nell'analisi lukacsiana sull’alienazione e sull’ambiente tecnologico come “seconda natura”. 


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Per Lukács il principio della determinazione in ultima istanza della coscienza da parte del fattore economico non esclude minimamente il riconoscimento della relativa libertà del fattore soggettivo: il metodo dialettico, scrive, “riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva (…) né uno sviluppo storico privo di leggi (…) né un dominio meccanico 'per legge' dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo la funzione di momento soverchiante”(28). Il modo in cui l'economia svolge tale ruolo di momento soverchiante va ulteriormente approfondito: Marx non sostiene che l'economia determina la coscienza, bensì che non è la coscienza degli uomini a determinarne l'essere sociale ma è piuttosto l'essere sociale a determinarne la coscienza; tuttavia, precisa Lukács, per Marx il mondo delle forme e dei contenuti di coscienza non è prodotto direttamente dalla struttura economica, bensì dalla totalità dell'essere sociale. La funzione soverchiante dell'economia si esercita dunque in modo indiretto, attraverso la mediazione della totalità dell'essere sociale, totalità di cui fanno parte sia l'economico che l'extraeconomico. 


La versione meccanicista del marxismo (29), nella misura in cui assume in modo unilaterale il principio del ruolo soverchiante dell'economia nel processo storico, attribuisce allo sviluppo delle forze produttive un peso determinante, se non esclusivo, nel processo di emancipazione dell'umanità dal regno della necessità; viceversa Lukács ribatte che il processo di sviluppo economico non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità perché ciò avvenga: “Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente libero, giacché il suo sì o no è legato ad esso soltanto sul piano delle possibilità”(30). In altre parole, la libertà che la filosofia della prassi concede al soggetto consiste nella facoltà di decidere in un campo di alternative date: “La determinazione (della coscienza) da parte dell’essere sociale è dunque sempre 'soltanto' la determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che nella natura non compare mai”(31). Non sfugga l'ironia di quel “soltanto”, che sta a significare come sia più che giustificato definire soverchiante il potere di condizionamento dell'economia ma che, al tempo stesso, la libertà del soggetto umano, ancorché vincolata, è smisurata rispetto alla rigida legalità dei processi naturali. 


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La critica di  Lukács alla concezione meccanicista del marxismo implica, fra le altre cose, la negazione dell'esistenza di finalità immanenti al processo storico, contesta cioè la visione di quei teorici marxisti che cedono alla tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un obiettivo finale predefinito. Secondo costoro, “il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo,  porta al socialismo, sarebbe nella sua necessità in qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico)”(32). Contro questa tendenza Lukács ribadisce, da un lato, che non esistono processi teleologici immanenti alla storia, dall'altro lato che l'agire umano finalizzato (che ha nel lavoro la propria radice e il proprio modello) mentre è certamente in grado di mettere in atto processi causali, e anche di trasformare il carattere causale del loro movimento, non è tuttavia in grado di prevedere i propri risultati in misura tale da indirizzarli in modo univoco, dal momento che “le conseguenze causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto”(33). 


Questa imprevedibilità degli esiti dell'agire umano, condizionato tanto dai vincoli dell'economia quanto dall'ineliminabile peso dei fattori casuali, significa che non è possibile associare al processo storico alcun tipo di legalità? Marx non avrebbe quindi scoperto e descritto le “leggi” di sviluppo della storia umana? La verità è, scrive Lukács, che per Marx le leggi economiche oggettive “hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di 'se…allora'. La loro forma generalizzata, la loro elevazione al concetto non è – in contrasto con Hegel – la forma più pura della necessità, e nemmeno, come pensano i kantiani o i positivisti, una mera generalizzazione intellettuale, ma invece, nel senso meramente storico, una possibilità generale, un campo reale di possibilità per le realizzazioni legali concrete 'se…allora'” (34). In altre parole, le “leggi” storiche si distinguono da quelle della natura in quanto sono conoscibili solo post festum, il che non esclude la possibilità di riconoscere l’esistenza di nessi generali, ma impone di ammettere che questi ultimi “si esplicitano nell’essere processuale, non 'come grandi bronzee leggi eterne', che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, 'atemporale', ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce”(35).


A questo punto sorge inevitabilmente una domanda: se si nega l'esistenza di ogni fattore teleologico immanente al processo storico, che ne è del concetto di “progresso”? In effetti, diverse parti della Ontologia contengono una rigorosa critica dell'ideologia progressista. In particolare,  Lukács si accanisce contro quelle che definisce le “concezioni volgar meccanicistiche del progresso”, le quali fanno dello sviluppo delle forze produttive il presupposto non solo necessario, ma anche sufficiente, dell'emancipazione umana. Ciò significa appiattire l'essere sociale sulla dimensione economica, dimenticando che “lo sviluppo delle forze produttive è necessariamente anche sviluppo delle capacità umane, ma (…) lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana”(36). Per ribadire quest'ultimo concetto, Lukács riprende temi cari agli autori della scuola di Francoforte e alle loro analisi sulle mutazioni culturali indotte dal consumismo di massa e dall'industria culturale, rinfacciando agli “illusionisti del progresso” l'incapacità di prendere atto del fatto che “lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale, non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo, al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsele con intensità sempre maggiore, in maniera sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana”(37).


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Nel dialogo del 66 (38) Lukács, rispondendo alla domanda di uno dei tre intervistatori, afferma: “Credo che Gramsci avesse ragione quando osservava che noi usiamo in generale la parola 'ideologia' in due significati distinti. Da un lato si tratta del dato di fatto che nella società ogni uomo esiste in una determinata situazione di classe, cui naturalmente appartiene l'intera cultura del suo tempo, non può esserci nessun contenuto di coscienza che non sia determinato dall'hic et nunc. D'altro lato si originano certe deformazioni per cui ci si è abituati a intendere l'ideologia anche come una certa reazione deformata alla realtà...una coscienza cosiddetta libera da legami sociali non esiste”. Nel IV° volume della Ontologia (39) citandone un'opera sul pensiero di Croce (40),  Lukács reitera il giudizio positivo sulla tesi di Gramsci, tuttavia precisa che, mentre è vero che i marxisti intendono con ideologia la sovrastruttura ideale che necessariamente sorge da una base economica, dall'altro lato “è fuorviante interpretare il concetto peggiorativo di ideologia, che rappresenta una realtà sociale indubbiamente esistente, come un'arbitraria elucubrazione di singole persone”. Quindi prosegue affermando che, affinché un pensiero possa meritarsi la definizione di ideologia, non può essere  espressione ideale di un singolo ma deve svolgere una funzione sociale ben determinata, per cui occorre chiarire che cosa colleghi, in termini ontologici, i due concetti di ideologia cui allude Gramsci, quindi scrive: “L’ideologia è anzitutto quella forma di elaborazione ideale della realtà che serve a rendere consapevole e capace di agire la prassi sociale degli uomini. Deriva da qui la necessità e l’universalità di taluni modi di vedere per dominare i conflitti dell’essere sociale” (41). Ogni reazione umana all'ambiente sociale può dunque diventare ideologia, ma Lukács associa la genesi del fenomeno alla nascita di gruppi sociali differenti che condividono interessi comuni contrapporti a quelli di altri gruppi: “In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle ideologie, giacché questi conflitti si possono dirimere con efficacia nella società solo quando i membri dell’un gruppo riescono a persuadere se stessi che i loro interessi vitali coincidono con gli interessi importanti della società nel suo intero”(42); in altre parole, la nascita delle ideologie è il connotato generale della società di classe. 


Una cosa è che un gruppo sociale persuada sé stesso del fatto che i propri interessi coincidano con gli interessi generali della società, altra è cosa che riesca a persuaderne anche gli altri gruppi: è nel caso che ciò riesca, argomenta Lukács, che si può ricorrere appropriatamente al termine di ideologia, dopodiché aggiunge che tale pretesa ha successo quando l'ideologia in questione è quella dominante, e cita il noto passaggio della Ideologia tedesca che recita: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante” (43). Estendendo il discorso al conflitto di classe come conflitto fra ideologie, Lukács scrive poi che:  “una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per quello strato sociale anche un’ideologia efficace”(44). In altre parole, per essere una forza materiale in grado di trasformare la realtà, una teoria deve assumere la forma di una ideologia. Ecco perché, al pari di Gramsci, Lukács respinge il punto di vista che attribuisce all'ideologia un carattere necessariamente negativo: a determinare la natura negativa o positiva di una ideologia, sostiene, è in ultima istanza il fine verso il quale essa indirizza l'azione, il fatto se esso coincide con gli interessi delle classi che lottano per emanciparsi dal dominio, o con quelli che intendono conservarlo. 





Una volta assunto tale punto di vista non è più possibile accettare le tesi di coloro che condanno a priori l'ideologia in quanto tale. Tesi sospette, argomenta Lukács, citando il fatto che le classi dominanti dell'Occidente post fascista, con la complicità delle socialdemocrazie, hanno trasformato  il rifiuto dell'ideologia fascista in rifiuto dell'ideologia tout court, dopodiché “ogni ideologia, ogni tentativo di dirimere conflitti sociali con l’ausilio di ideologie risulta a priori sotto accusa (…) non ci sono più veri conflitti, non c’è più campo di manovra per le ideologie: le differenze sono soltanto 'pratiche' e quindi regolabili 'praticamente' con accordi razionali, compromessi ecc. La deideologizzazione significa perciò illimitata manipolabilità e manipolazione dell’intera vita umana”(45). Il discorso deideologizzante, ironizza Lukács, si fonda su quella “ideologia dell'anti-ideologia” che coincide con l'esaltazione della categoria astratta di “libertà” quale valore salvifico per tutte le questioni della vita. Dopodiché spende parole durissime nei confronti di quegli intellettuali che, per non essere accusati di “fare dell'ideologia”, assumono nei confronti dei poteri dominanti un atteggiamento “critico” in forme “che non vogliono né possono in alcun modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo. Questi conformisti non-conformistici, perciò, nonostante le manifestazioni pubbliche verbalmente di forte critica e addirittura di opposizione, rimangono di fatto apprezzati collaboratori della manipolazione universale”(46).


Del ruolo che Lukács attribuisce all'ideologia come fattore strategico del processo rivoluzionario mi occuperò più avanti. Qui non ho invece spazio sufficiente per approfondire certe questioni legate all'autocritica dell'ultimo Lukács alla tesi sostenuta di Storia e coscienza di classe, secondo cui per il marxismo non esisterebbero una scienza autonoma del diritto, dell'economia, della storia, ecc. ma soltanto una scienza unitaria dello sviluppo della società come totalità, in quanto economia, diritto e stato sono meri momenti di un intero, privi di reale autonomia.  L'Ontologia concepisce invece la totalità sociale come un “complesso di complessi” in cui ogni complesso è eterogeneo rispetto agli altri e risponde ad una propria logica, specifica e irriducibile. Su questo argomento, e in particolare  sul rifiuto di Lukács di ridurre le sfere del diritto e della religione a semplici “sovrastrutture”, rinvio a quanto ho scritto altrove (47).


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Descrivere il modo in cui Lukács tratta la questione del socialismo come transizione dal regno della necessità al regno della libertà non è facile (48). Ci provo partendo dalla questione della libertà in generale. Secondo il filosofo il problema della libertà può essere posto solo in un rapporto complementare con la necessità (qui le tracce della lezione hegeliana sono evidenti) per cui il pensiero che mette in opposizione i due termini va respinto in quanto “identifica semplicemente il determinismo con la necessità, in quanto generalizza ed estremizza in termini razionalistici il concetto di necessità, dimenticando il suo carattere ontologico autentico di 'se…allora'. In secondo luogo, la filosofia premarxiana, anzitutto quella idealistica (…) per la massima parte estende in modo ontologicamente illegittimo il concetto di teleologia alla natura e alla storia, per cui ha grandissima difficoltà a impostare il problema della libertà nella sua forma vera, autentica, reale”(49). Viceversa tale problema, argomenta Lukács, può essere affrontato correttamente solo ricercandone il fondamento nella decisione concreta fra diverse possibilità concrete (50). 


Ciò detto, come è possibile immaginare una società in cui la relazione fra necessità e libertà assuma  forme più avanzate? La risposta di Lukács prende ancora le mosse dalla categoria del lavoro: a fondare la possibilità (non la necessità!) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che “il lavoro teleologicamente, consapevolmente, posto contiene in sé fin dall’inizio la possibilità (dynamis) di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo”. Questa possibilità, prosegue Lukács, ha creato la base oggettiva della schiavitù, prima della quale esisteva solo l’alternativa di uccidere o di adottare il nemico fatto prigioniero; così come ha consentito la nascita delle successive forme economiche fino al capitalismo, nel quale il valore d’uso della forza-lavoro è la base dell’intero sistema, dal che si deduce che “anche il regno della libertà nel socialismo, la possibilità di un tempo libero sensato, riposa su questa fondamentale peculiarità del lavoro di produrre più di quanto occorra per la riproduzione del lavoratore” (51). Tuttavia il regno della libertà potrà essere effettivamente realizzato solo nel comunismo, come scrive Marx nel III libro del Capitale: “il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria”, mentre (sempre secondo Marx) nel socialismo in quanto prima fase del comunismo la libertà “può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca (…) Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” /52). In sintonia con queste parole di Marx, Lukács ritiene che l'economia sia destinata a rimanere anche nel socialismo il regno della necessità, nella misura in cui la lotta dell'uomo con la natura per soddisfare i suoi bisogni non può finire, dato il suo fondamento ontologico (53). 


A questo punto sorge l'interrogativo di come si configuri il “salto” dal socialismo al comunismo. Ricordiamo che, per Marx, l'uomo nuovo sarà emancipato da ogni genere di estraneazione, nella misura in cui tutti i sensi e le qualità umane verranno emancipate: “perché questi sensi e qualità sono divenuti umani sia soggettivamente che oggettivamente (in altre parole i sensi così 'umanizzati') si rapportano sì, alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento ha perciò perduto la sua natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento che l’utile è divenuto utile umano” (54). Il punto però è: Lukács crede davvero in questo avvento dell'uomo autentico, che un autore come Ernst Bloch ha tradotto nella visione mistica del comunismo come paradiso in terra (55)? Mi sia consentito esprimere più di un dubbio. È pur vero che Lukács critica le correnti filosofiche, come l'esistenzialismo, che considerano l'estraneazione come una “condizione umana” eterna e universale, per cui evidentemente ritiene che la specifica forma storica che l'estraneazione assume nella società capitalistica debba e possa essere superata, ma ciò significa che pensa anche che ogni e qualsiasi tipo di estraneazione sia destinato a sparire nel comunismo realizzato? Se così fosse, saremmo di fronte a una profezia di “fine della storia” che appare in stridente contraddizione con la visione lukacsiana del processo storico che abbiamo fin qui tentato di ricostruire. Personalmente, ritengo che Lukács considerasse l'utopia marxiana, più che come una possibilità reale, concretamente attuabile, come una “ideologia” nel senso positivo chiarito poco sopra, vale a dire come una potenza materiale in grado di trasformare radicalmente la realtà. Il fatto che una utopia abbia scarse o nulle probabilità di concretizzarsi  scrive per esempio,  “non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato (…) l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità(56). Ovviamente la mia è un'interpretazione soggettiva, per cui lascio al lettore il compito di valutarne l'attendibilità.


    II. Breve nota sul leninismo di Lukács  


Lukács non è stato solo un filosofo: la sua biografia non è quella di un semplice intellettuale engagé, bensì quella di un militante politico. Convertitosi al marxismo dopo la Prima guerra mondiale, si iscrisse al Partito comunista ungherese e partecipò alla rivoluzione del 1919, ricoprendo la carica di commissario all'istruzione per la Repubblica sovietica ungherese (57). Dopo il fallimento della rivoluzione, riparò a Vienna e pendolò fra Berlino e Mosca, dove rimase dopo l'avvento del nazismo e fino alla liberazione del suo Paese. Nel '56 partecipò al governo Nagy e, dopo l'intervento sovietico, fu allontanato dall'Ungheria e “confinato” per qualche tempo in Romania. Malgrado la sua convinzione in merito alla necessità di procedere a una riforma radicale del socialismo reale, e di condurre con più decisione e coerenza il processo di destalinizzazione, non espresse mai posizioni antisocialiste e filo occidentali (58). Questa coerenza di comportamento non è senza relazioni con il fatto che il tema del partito rivoluzionario è uno dei pochi rispetto al quale le idee di Lukács sono rimaste sostanzialmente immutate da Storia e coscienza di classe alla Ontologia, restando fedeli al pensiero di Lenin. 


Parto dal seguente esempio: secondo Lukács, il principio leninista secondo cui “la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti fra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi” (59), non vale solo nelle condizioni di un Paese “arretrato” qual era la Russia del 1917, con un proletariato di recente formazione, ma appare ancora più giustificato nelle società a capitalismo avanzato del secondo dopoguerra, nelle quali gli strumenti di manipolazione delle masse proletarie da parte delle classi dirigenti si sono fatti immensamente più potenti. Sempre rispetto alla teoria leninista del partito, va sottolineato come Lukács abbia preso le parti di Lenin (60) nei confronti delle critiche di settarismo e scarsa democrazia interna rivoltegli da Rosa Luxemburg (ricordiamo che mentre quest'ultima sosteneva che la lotta all'opportunismo poteva e doveva essere condotta all'interno del partito, Lenin era invece convinto che tale lotta implicasse la separazione organizzativa fra opportunisti e rivoluzionari). 


Lenin viene poi assunto da Lukács ad esempio del ruolo decisivo che il fattore casuale può assumere nella storia, nel senso che solo il caso regala di tanto in tanto dei leader come lui, dotati di doti straordinarie sia sul piano teorico che sul piano politico. Una delle virtù fondamentali di queste figure consiste nella capacità di cogliere e sfruttare le opportunità offerte dalla drastica semplificazione delle decisioni che si accompagna alle situazioni rivoluzionarie: “Mentre nella quotidianità normale ciascuna decisione che non sia ancora divenuta completa routine viene presa in una atmosfera di innumerevoli se e ma (nelle situazioni rivoluzionarie) questa cattiva infinità di questioni singole si condensa in poche decisioni centrali” (61). La parola d’ordine terra e pace, che giocò un ruolo decisivo nel 1917, in teoria appariva realizzabile anche nella società borghese, ma la genialità politica di Lenin fu quella di cogliere la contraddizioneper cui esse, da un lato, rappresentavano una aspirazione irreprimibile e appassionata di larghissime masse, dall’altro per la borghesia russa erano in pratica inaccettabili e in quelle date circostanze non potevano trovare appoggio, anzi neppure un’accoglienza passiva, neanche fra i partiti piccolo-borghesi. Cosicché finalità politiche che in sé non dovevano obbligatoriamente abbattere la società borghese, diventavano un materiale esplosivo, il veicolo per produrre una situazione nella quale la rivoluzione socialista poté essere attuata con successo” (62).


Se la Rivoluzione riuscì a vincere, argomenta poi Lukács, ciò fu reso possibile dall'approccio anti-economicista di Lenin: nessuna delle parole d'ordine con cui fu rovesciato il capitalismo russo era socialista (63), ma Lenin era consapevole che la rivoluzione non è il frutto della maturazione di presunte condizioni oggettive (sviluppo delle forze produttive, ecc.), ma diviene possibile quando “gli 'strati inferiori' non vogliono più il passato e gli 'strati superiori' non possono più vivere come in passato” (64). Mettendo in luce questa opposizione fra volere e potere, commenta Lukács, Lenin intende attirare l'attenzione sul modo opposto di presentarsi da parte della prassi politica ai suoi due poli, nella misura in cui “alla classe dominante basta la riproduzione normale, anzi la riproduzione non troppo anormale della vita per mantenere in piedi lo status quo, mentre gli oppressi hanno bisogno di un energico e unitario atto di volontà”(65). Questa “debolezza” strutturale della posizione  del proletariato rispetto a quella borghese è il motivo per cui, anche quando si è impadronito del potere “il proletariato continua a lottare con la borghesia con armi impari, fino al momento in cui non ha acquisito ingenua sicurezza nel proprio ordinamento giuridico come unico legittimo” (66). 


La tomba di Lukács



Anche in merito al problema della continuazione della lotta di classe dopo la presa del potere il contributo di Lenin, secondo Lukács, è fondamentale: vedasi quando, all'inizio degli anni Venti, si oppose a quegli esponenti dell'ala sinistra del partito bolscevico che invocavano la transizione immediata al socialismo. Lenin liquidò come “estremismo infantile” questa posizione in quanto era consapevole che, per consolidare il potere socialista, sarebbe occorso un lungo processo di transizione anche attraverso compromessi come quelli associati alla Nuova Politica Economica, che instaurava di fatto una inedita forma di capitalismo di stato. Compromessi accettabili a condizione che il controllo dello stato restasse saldamente in mano al proletariato e al suo partito (67). Con queste note conclusive sul leninismo di Lukács, spero di essere riuscito a dimostrare che la svolta ontologica del filosofo ungherese, mentre contribuisce a innovare profondamente la teoria marxista, non intende minimamente rinnegare l'obiettivo del superamento della società capitalistica e della instaurazione del socialismo. 


Carlo Formenti


Genova, ottobre 2022


Note


(1)  Nella sua Introduzione (riproposta nel primo volume di questa nuova edizione) il filosofo rumeno Nicolas Tertulian, fondandosi sullo scambio epistolare che intrattenne con l'autore fino alla di lui morte, rivela come Lukács ritenesse di dover ulteriormente rimaneggiare i Prolegomeni e progettasse di dare seguito alla Ontologia scrivendo una Etica dedicata ai temi dell'ultima parte dell'opera. Sempre Tertulian ipotizza che i Prolegomeni siano stati scritti perché Lukács nutriva dei dubbi sulla suddivisione della Ontologia in una parte storica e una parte teorica, suddivisione superata nei Prolegomeni che contengono le idee di base della Ontologia in forma condensata (il che, per inciso, ne rende più difficile la fruizione rispetto agli altri volumi).


(2) Le annotazioni critiche degli allievi sono apparse alla fine degli anni Settanta sulla rivista aut aut. Tertulian ritiene che Lukács abbia scritto i Prolegomeni anche per rispondere alle critiche che gli erano state rivolte da coloro che avevano potuto leggere in anteprima il manoscritto, ma è convinto che il filosofo non abbia accolto gli argomenti dei critici; ritiene inoltre che tanto i ritardi nella pubblicazione quanto le critiche rispecchino la volontà degli allievi di prendere distanza dalle idee del maestro in un momento storico in cui il marxismo era sotto tiro (la successiva conversione di un'autrice come Agnes Heller al liberalismo conferma questa ipotesi).


(3) G. Lukács, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011.


(4) Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1970.


(5)  Cfr. la “Prefazione” del 1967 che G. Lukács scrisse per una ristampa della sua opera giovanile (vedi nota precedente).


(6)  Cfr. W. Abendroth, H. H. Holz, L. Kofler, Conversazioni con Lukács, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.


(7) Cfr. “Prefazione”, cit., p. XXIV.


(8) Vedi quest'altro passaggio in cui l'influenza emerge ancora più chiaramente:“presentandosi come conseguenza immanente della dialettica storica, la sua (del proletariato) coscienza si presenta essa stessa dialetticamente. Cioè essa non è altro che l'espressione di una necessità storica...non è altro che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale” (Storia e coscienza di classe, cit., p. 234, corsivo mio). Per tacere di quest'altro passaggio in cui si afferma la necessità di “liberare i fenomeni da questa forma immediata di datità, trovare le mediazioni mediante le quali essi possano essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza e colti nella loro stessa essenza, ottenere la comprensione di questo loro carattere come fenomeno, del loro apparire come loro necessaria forma fenomenica”. (Ivi, p. 11).


(9) “Prefazione”, cit., p. XXIV.


(10) Ivi, p. XXVI.


(11) Ivi, p. XL.


(12) Storia e coscienza di classe, cit., pp. 36, 37.


(13) Ivi, pp. 285-286.


(14) Tertulian mette in relazione questa definizione con l'esigenza di superare sia il determinismo che assolutizza il ruolo del fattore economico a scapito degli altri complessi della vita sociale, sia un concetto di necessità che riconosce in ogni formazione sociale e ogni azione storica una tappa del cammino verso la realizzazione di un fine immanente o trascendente. Secondo Tertulian, Lukács farebbe risalire questa versione distorta della necessità (comune ai teorici della II Internazionale e a Stalin) allo stesso Engels, il quale avrebbe sottovalutato il peso della casualità e accordato credito eccessivo alla forza coercitiva della necessità.


(15) Storia e coscienza di classe, cit., p. 95.


(16) “Prefazione”, cit., p. XVI.


(17) Ivi, p. XVII.


(18) Ivi, p. XVIII. Poco oltre (p. XIX) Lukács aggiunge che così “mi fu possibile arrivare solo alla formulazione di una coscienza di classe attribuita di diritto”.


(19) Conversazioni con Lukács, op. cit., p. 17.


(20) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.


(21) Il fondamento di questa visione, argomenta Preve, è il concetto di necessità elaborato dalla scienza ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità di anticiparne e prevederne gli esiti processuali.


(22) Ontologia dell'essere sociale, Pgreco, Milano 2012, vol II, p. 265.


(23) Ivi, vol. III, p. 23.


(24) Ivi vol. III, p. 14.


(25) Ivi, p. III, p. 58.


(26) Ivi, vol. III, p. 103.


(27) Ivi, vol. III, p. 29. Il rischio associato al fenomeno dell'inversione gerarchico fra il fine e il mezzo del processo lavorativo è la feticizzazione della tecnica, un errore teorico che Lukács attribuisce, fra gli altri, a Bucharin, e a proposito del quale scrive che si tratta di una visione in cui “i rapporti economici non vengono intesi come relazioni fera uomini, ma sono invece feticizzati, 'reificati', ad esempio identificando le forze produttive con la tecnica presa a sé, pensata come autonoma” (Vo. III, p. 341).

 

(28) Ivi, vol. II, pp. 290/91.


(29) Visione che per Lukács è tipica del marxismo della II Internazionale e dello stalinismo.


(30) Ontologia, cit., vol IV, p. 511.ù


(31) Ivi, vol. I, p. 325. Nelle Conversazioni del 66 (cfr. op. cit.) chiarisce assai bene la sua visione del rapporto fra determinismo socio economico e libertà soggettiva. A pag. 133 scrive: “una libertà in senso assoluto non può esistere. La libertà esiste semmai nel senso che la vita degli uomini pone delle alternative concrete, consiste nel fatto che deve e può operare una scelta fra le possibilità offerte entro un certo margine”. E poche pagine dopo: “Lo sviluppo sociale può creare le condizioni obiettive del comunismo, se poi da tali condizioni venga fuori un coronamento dell'umanità o il massino dell'anti-umanità ciò dipende da noi e non dallo sviluppo economico di per se stesso”.


(32) Ivi, vol. III, p. 300.


(33) Ivi, vol. IV, p. 347.


(34) Ivi, vol. IV, p. 344.


(35) Ivi, vol. I, p. 308.


(36) Ivi, vol. IV, p. 562.


(37) Ivi, vol. IV, p.670.


(38) Cfr. Conversazioni..., op. cit. p. 44.


(39) Op. cit., vol IV, p.445.


(40) A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1949.


(41) Ontologia, cit., vol. IV, p. 446.


(42) Ivi, vol. IV, pp. 452-453.


(43) K. Marx, L'ideologia tedesca, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947.


(44) Ontologia, cit., vol. I, p.245.


(45) Ivi, vol. IV, p. 770. La tragica attualità di questa tesi è confermata dalla recente, ignobile, risoluzione del parlamento europeo che equipara comunismo e nazismo, i cui effetti devastanti si sono potuti misurare grazie al modo in cui le oligarchie neoliberali e i media occidentali hanno manipolato l'opinione pubblica in merito alla guerra russo-ucraina.


(46) Ivi, p. 782.


(47) Cfr. Ombre rosse. Saggi sull'ultimo Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.


(48) Anche perché il tema è in sé particolarmente complesso, anche a causa dello spazio relativamente esiguo che Marx gli ha dedicato.


(49) Ontologia, cit., vol. III, p. 117.


(50) A pag. 113 leggiamo: se la questione viene portata a un più alto livello di astrazione distaccandola del tutto dal concreto, essa perde ogni contatto con la realtà, diviene una vuota speculazione”. Poco oltre viene aggiunto che più complicato è rispondere alla domanda “fino a che punto il determinismo esterno o interno alla decisione può essere inteso come criterio della sua libertà. Se l’antitesi fra determinismo e libertà viene concepita in termini astratto - logicistici, si viene a dire che soltanto un dio onnipotente potrebbe davvero essere interamente libero, il quale però, data la sua essenza teologica, poi esisterebbe oltre la sfera della libertà”, ma nell’uomo, che vive nella società e socialmente agisce”, la libertà non è mai del tutto priva di determinismo.


(51) Ivi, vol. III, p. 136.


(52) Troviamo queste citazioni nel III° volume della Ontologia.


(53) Cfr. Ontologia, cit., vol IV, p. 510.


(54) Marx, MEGA, I. 3, p.120 (trad. it. Manoscritti economico-filosofici, cit. p. 329).


(55) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, 3 voll., Milano 2019. Ricordo che Lukács si è più volte espresso criticamente contro l'afflato “messianico” di Bloch (cfr. in merito C. Formenti, Ombre rosse, op. cit.).


(56) Ontologia, cit., vol. IV, p. 522.


(57) Ragionando di quel periodo nella Prefazione del 67 alla riedizione di Storia e coscienza di classe, Lukács ricorda di aver partecipato alla elaborazione di una linea teorico politica “di sinistra”, caratterizzata da aspirazioni utopistico – messianiche e dalla opposizione alle tendenze burocratiche del partito (ragione per cui fu indotto all'autocritica)., Ammette anche, tuttavia, che alcune delle posizioni adottate in quegli anni nascevano da una scarsa conoscenza della teoria leninista del partito e della rivoluzione.


(58) Benché la sua critica filosofica alla versione staliniana del materialismo dialettico (diamat), e la sua opposizione alla linea politica e ai metodi adottati da Stalin nella gestione del partito e dell'Unione Sovietica, Lukács non si allineò mai alle posizioni antisovietiche di certi intellettuali comunisti “pentiti”, e disse di essere stato dalla parte di Stalin sulla questione della possibilità del socialismo in un paese solo (vedi la più volte citata Prefazione del 67).


(59) V. I. Lenin, Che fare, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma, pp. 389-390.


(60)Vedi Storia e coscienza di classe, cit., pp. 351 e segg.


(61) Ontologia, cit., vol. IV, p. 506.


(62) Ivi, vol. IV, p. 486.


(63) La Luxemburg criticò per questo motivo la politica agraria bolscevica, ma Lenin sapeva che se non si fosse sfruttata l'energia scatenata dalla sollevazione contadina il proletariato sarebbe rimasto isolato e quindi sconfitto.


(64) V.I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale, in Opere complete XXI, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 191.


(65) Ontologia, cit., vol. IV, pp. 503-504.


(66) Storia e coscienza di classe, cit., p, 331.


(67) Come ho evidenziato altrove (cfr. Ombre rosse, op. cit.; vedi anche Il socialismo del secolo XXI, di imminente pubblicazione per i tipi di Meltemi), la lezione della NEP di Lenin è stata creativamente applicata dal Partito comunista cinese con le riforme degli anni Settanta, che ha consentito alla Cina di evitare la disastrosa fine della Unione Sovietica.

martedì 29 novembre 2022

La modernizzazione cinese: percorsi, successi e sfide

 di Fosco Giannini

(con un commento di Carlo Formenti)


Verso la fine del 2021 l'Accademia delle Scienze Sociali del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese chiese al direttore di "Cumpanis", Fosco Giannini, di scrivere un libro sul "socialismo dai caratteri cinesi". Il libro, scritto prima del XX Congresso del Partito Comunista Cinese (16 al 22 ottobre 2022), sarà tra poco nelle librerie di Pechino, sia in  cinese che in inglese.  Ne anticipo qui di seguito un capitolo.


La copertina dell'edizione cinese 



Apriamo questo  capitolo sulla “modernizzazione della Cina” attraverso una citazione del grande filosofo marxista italiano Domenico Losurdo, tratta da un intervento che lo stesso Losurdo svolse al Forum europeo del 2016 dal titolo “La via cinese e il contesto internazionale”. L’intervento aveva come titolo “Washington consensus o Beijing consensus?”. In un passaggio Losurdo così si esprimeva: “La guerra di posizione condotta dalla classe dirigente del Partito Comunista Cinese ha visto negli ultimi 40 anni di Riforme e Apertura – nel contesto del più grande sviluppo economico della storia dell’umanità –  800 milioni di cinesi affrancarsi dalla povertà, un fenomeno che è stato definito dalla Banca Mondiale come uno dei più grandi racconti della storia dell’umanità. Di questi 800 milioni, 60 sono usciti dalla condizione di povertà soltanto negli ultimi 5 anni. Si tratta evidentemente di una lotta di classe che procede in direzione opposta rispetto a quella condotta in Occidente, dove assistiamo ad un processo inverso nel quale si determina un allargamento sempre maggiore della forbice sociale tra ricchi e poveri”.


“Ma questo straordinario risultato – continuava Losurdo – non induce la classe dirigente cinese a tirare i remi in barca e ad abbandonare la lotta fin qui condotta, né tantomeno a nascondere le contraddizioni irrisolte, e vorrei rammentare a proposito un’affermazione di Xi Jinping: Dobbiamo essere molto chiari: vi sono ancora molte inadeguatezze nel nostro lavoro, numerose difficoltà da affrontare. Esistono problemi acuti causati da uno sviluppo sbilanciato e inadeguato che ancora attendono soluzioni”.

Ecco: in questi stessi ultimi passaggi (nei quali Losurdo aveva evocato l’immenso sviluppo delle forze produttive cinesi dopo la Rivoluzione Culturale; gli 800 milioni di cinesi tratti fuori dalla povertà e da una condizione miserevole; il nuovo e centrale ruolo della Cina nel quadro internazionale; la consapevolezza, da parte del PCC, che le questioni non sono certo ancora tutte risolte e che dunque è la stessa fase oggettivamente contraddittoria e in divenire ad assegnare al Partito il ruolo guida rivoluzionario) è possibile rintracciare il senso ultimo di questo libro richiestomi dall’Accademia delle Scienze Sociali del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, le sue intenzioni, lo sforzo per mettere a fuoco la grandezza del progetto strategico del PCC, sia sul piano  internazionale che nazionale, i suoi obiettivi.

Un successo, quello dello sviluppo economico cinese, già così storico e planetario – come accadde all’Unione Sovietica vincente, che sconfisse il nazifascismo e impose un modello sociale che in Occidente si tradusse nel welfare e nel ruolo degli Stati nelle economie capitaliste occidentali – che sembrano, come scrive Losurdo, già remoti gli anni nei quali il Washington consensus (il liberismo totale occidentale) si offriva come unico modello, un modello oggi fortemente insidiato dal Beijing consensus, la proposta cinese segnata dal forte ruolo dello Stato nello sviluppo economico e nella costruzione sociale razionale. Un moto mondiale che, da solo, batte in breccia i tentativi volgari volti a far passare “il socialismo con caratteri cinesi” come il ritorno della Cina al capitalismo. Occorre ricordare a partire da ciò, come lo stesso Wall Street Journal abbia dovuto, con disappunto, riconoscere il ruolo “onnipresente” del Partito Comunista Cinese, il ruolo dell’economia statale in tutti settori strategici, dall’energia alle infrastrutture, dalle telecomunicazioni al sistema bancario e come, nei comunicati ufficiali cinesi, non si parli esplicitamente di “settore privato”, ma solamente di “economia non pubblica”, quasi a sottolinearne la subordinazione.

Considerazioni, si ricorda ancora, ribadite dallo stesso Xi Jinping anche al 19° Congresso del PCC (ottobre 2017): “Dobbiamo continuare a valorizzare la superiorità del nostro sistema socialista e a far valere il ruolo decisivo del Partito e del governo”.

Ma, per un lavoro dal carattere marxista, materialista, il più possibile scientifico, sarebbe il caso di cercare alcune radici dell’attuale successo cinese. Esordendo così: il 25 dicembre del 1991, alle ore 18.00, Gorbaciov si dimette da Presidente dell’Unione Sovietica, trasferendo i poteri (attraverso una scelta che si sarebbe ben presto rivelata tanto nefasta quanto drammatica per tanta parte dell’umanità, non solo per il popolo sovietico) a Boris El’cin. Alle ore 18.35 dello stesso giorno la gloriosa bandiera sovietica viene lentamente e per sempre ammainata dal Cremlino, sostituita dal tricolore russo. Il giorno dopo, 26 dicembre, il Soviet Supremo scioglie formalmente, dissolvendola, l’Unione Sovietica. Questi due giorni – 25 e 26 dicembre 1991 – sono giorni che sconvolgono il mondo e rappresentano uno spartiacque storico nettissimo: c’è una Storia precedente a questi due giorni e c’è una Storia ad essi successiva.

Con la scomparsa dell’URSS si liberano immediatamente gli spiriti animali dell’imperialismo e del capitalismo mondiale. Il nuovo e intero mondo viene da essi percepito come un totale e smisurato mercato da conquistare, con le buone o con le cattive, con la penetrazione economica o con la guerra. La stessa concezione liberale, idealistica e anti dialettica de “la fine della storia”, già messa a fuoco da studiosi del campo conservatore, come Fukuyama, viene eletta a categoria assoluta e chiave di lettura della fase presente e del divenire.

Con la sconfitta dell’URSS si afferma, da parte dell’euforico fronte imperialista e capitalista mondiale, che “la storia è conclusa” e “il socialismo si mostra ai popoli per quello che è: un’illusione irrealizzabile”; la scomparsa dell’Unione Sovietica “ratifica” formalmente, anche sul piano filosofico (per il fronte imperialista e per il pensiero borghese) che «il capitalismo è natura, eterno e immodificabile”.

In questa stessa fase temporale nella Repubblica Popolare Cinese è in atto un duro scontro tra la corrente “riformista” del Partito Comunista Cinese, guidata da Hu Yaobang e la maggioranza del Partito, guidato da Deng Xiaoping. Hu Yaobang ha messo in moto un movimento («doppio cento») che si richiama (inopinatamente) a quello dei «cento fiori», del 1956; che tende a mobilitare di nuovo quel movimento, che chiede una maggiore separazione tra Partito e Stato ma che, nella stessa dinamica politica, sociale e ideologica messa in campo nella battaglia contro il Partito, sfocia nella sfera politico-culturale liberista, nella negazione dei prodromi del progetto “denghista” dell’”economia socialista di mercato”, finendo per inclinare in senso antisocialista e filo americano. Una doppia inclinazione che porta il movimento “doppio cento” a cercare apertamente, nel 1989, il sostegno di Gorbaciov, già perdutosi, in questa fase, nel caos distruttivo dell’Unione Sovietica e dell’intero campo socialista e dunque osannato dai “doppiocentisti” durante la sua visita in Cina; sorretto, il movimento “doppiocentista”, soprattutto da una parte del movimento studentesco di Pechino, sfociato e culminato – tra il 16 e il 17 maggio 1989, in piazza Tienanmen – nella richiesta di una democrazia borghese di stampo nordamericano, che se conquistata avrebbe decretato la morte del “socialismo dai caratteri cinesi” ancora in evoluzione. Come avrebbe fatto mancare (in relazione a ciò che lo sviluppo pieno del progetto “denghista” avrebbe, nei decenni successivi, positivamente rappresentato sia per il popolo cinese che per i popoli in via di liberazione nel mondo) il pilastro fondamentale per la ricostruzione di quel fronte mondiale antimperialista che invece, in poco più di un quindicennio, si sarebbe ripresentato sulle scene internazionali.

Lo scontro tra il movimento di Hu Yaobang e la sua degenerazione liberale e la linea di Deng Xiaoping è fortunatamente vinto da quest’ultimo e dalla maggioranza del Partito Comunista Cinese.

Con la sconfitta del movimento “doppio cento” e la sconfitta della Piazza Tienanmen, la svolta politica ed economica cinese diretta ad un’ “economia socialista di mercato” s’invola. Prima con Deng, poi con Jang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping alla guida del Partito Comunista Cinese, lo sviluppo economico porta la Cina – da un’arretratezza delle forze produttive ancora segnata, alla fine dell’era maoista, persino da alcuni caratteri feudali, specie nel lavoro dei campi, nella produzione agricola, ma non solo, a conseguire la posizione di seconda più grande economia del mondo, contribuendo per più del 30 per cento alla crescita economica globale.

Gli 800 milioni di uomini e donne cinesi che nella nuova fase di sviluppo economico sono tratti fuori dalla miseria e dalla fame, dicono solo una parte della grande crescita cinese, che cambia positivamente il mondo mutandone i rapporti di forza tra poli e Stati imperialisti e poli e Stati dal carattere socialista, antimperialista e in via di liberazione anticolonialista. Uno sviluppo, quello cinese, che, incredibilmente, prende corpo in un contesto terribilmente ostile per ogni esperienza e progetto socialista e che la dice lunga sulla lungimiranza, sul senso rivoluzionario, sulla determinazione e sullo sguardo lungo dei gruppi dirigenti del Partito Comunista Cinese; un contesto segnato dalla controrivoluzione “gorbacioviana” e dalla conseguente scomparsa dell’URSS e del campo socialista; dalla scomparsa del Comecon (l’area di scambio mercantile socialista); dalla nuova aggressività economica e militare imperialista e dal fronte interno guidato da Hu Yaobang e da Piazza Tienanmen, un fronte ben visto dagli USA e dall’occidente capitalistico e obiettivamente diretto a destabilizzare il socialismo e il Partito Comunista Cinese.

A posteriori, aiutati dallo stato presente delle cose, è facile dirlo: ma se il Partito Comunista Cinese non avesse scelto e intrapreso la via del pieno sviluppo delle forze produttive, attraverso il coraggioso lancio di quel progetto autonomo, indipendente dai poli imperialisti e capitalisti mondiali e follemente grande chiamato “economia socialista di mercato” e avesse invece mutuato le scelte “gorbacioviane”, la Cina (invece di dotarsi di una propria, possente, autonomia) sarebbe stata, con ogni probabilità, preda, nella fase mondiale iperliberista successiva alla caduta dell’URSS, delle forze imperialiste; sarebbe stata penetrata da queste forze e avrebbe corso il forte rischio di una propria polverizzazione interna, di una propria implosione, a partire dall’immediata autonomia del Tibet, possibile primo mattone a cedere di un’intera struttura.

Oggi possiamo più agevolmente affermare, alla luce dei fatti compiuti, che le vittorie “denghiste” su Piazza Tienanmen e sul movimento di Hu Yaobang (con il conseguente pieno avvio di quello che sarebbe stato il più grande sviluppo economico e sociale della storia dell’umanità, lo sviluppo cinese attraverso “l’economia socialista di mercato”) si sarebbero offerte quali decisive basi materiali per giungere – da lì a pochi anni e in una fase storica così difficile per il movimento comunista, rivoluzionario e operaio mondiale da consentire alle forze imperialiste di credere davvero nella “fine della storia” – alla costituzione di un fronte antimperialista, e comunque libero dall’egemonia imperialista, in grado di cambiare i rapporti di forza mondiali a sfavore degli USA e delle altre potenze imperialiste.

Parliamo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) che a soli 18 anni (un lampo, nella storia!) dalla caduta dell’URSS si uniscono – tra il 2009 e il 2010- al fine di sviluppare una politica non subordinata alle forze imperialiste e invece solidale con i popoli e gli Stati in via di liberazione.

Ed è del tutto evidente come l’immenso sviluppo economico (e dunque politico e geopolitico) cinese sia il massimo collante di questa unione, di questo nuovo fronte tendente a “spuntare le unghie all’imperialismo”.

Il tempo che ci separa dal 26 dicembre 1991 (autoscioglimento dell’URSS) ad oggi possiamo dividerlo – seppur rozzamente, ma per far “ordine” nel quadro internazionale – in tre grandi fasi:

– la prima, quella segnata dall’euforia imperialista successiva alla caduta dell’URSS e del campo socialista;

– la seconda, quella delle grandi lotte a carattere antimperialista e socialista che si alzano (raggelando il fronte che aveva “deciso” la “fine della storia”) in tutta la loro evidenza in America Latina, che si allargano in Africa, che prendono forme antimperialiste diverse nella Russia di Putin, in India, che si consolidano in Vietnam e in altre aree dell’Asia. Tutte forme socialiste e antimperialiste che trovano nella Repubblica Popolare Cinese e nel suo sviluppo la loro prima e massima sponda, il primo alleato, il centro di gravità.

La terza fase che possiamo mettere a fuoco, in questo lasso di tempo che ci separa dal fallimento “gorbacioviano” e dalle sue catastrofiche conseguenze, è quella che oggi viviamo: la fase caratterizzata dalla risposta violenta, militare dell’imperialismo a guida USA e NATO all’”insurrezione” antimperialista internazionale, alla costituzione del fronte dei BRICS. Non è un caso, di fronte a ciò, che al 19° Congresso del PC Cinese si sia deciso un significativo rafforzamento e rimodernamento dell’esercito, che nel 2050 dovrebbe diventare «di classe mondiale».

Ed è del tutto evidente che, anche in questo caso, anche di fronte allo scatenamento militare degli USA e della NATO su di un vastissimo fronte internazionale (che va dal Medio Oriente all’Ucraina, passando per i Mari del Sud della Cina e per la Corea del Nord e per tutti gli odierni progetti USA di «golpe» in America Latina, dal Brasile all’Honduras, passando per l’Argentina e il Venezuela, è la Cina ad offrirsi come principale diga oggettivamente antimperialista.

La “legge” di Marx («il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive») trova nell’attuale potenza internazionale cinese e del Partito Comunista Cinese, la sua probante conferma. Ed è, dunque, tale, rivoluzionario, sviluppo delle forze produttive che dobbiamo indagare, mettere a fuoco. Anche per «fare legna» sul versante politico-teorico comunista generale.

Nell’affrontare “la questione cinese” e, in particolare, la relazione tra la NEP di Lenin e la “NEP” cinese, credo sia utile affidarsi ad una disciplina teorica, la massima disciplina teorica, quella secondo la quale è dalla base materiale dello sviluppo delle forze produttive e dallo sviluppo sociale generale che trovano possibilità di sviluppo le stesse “idee” e, più precisamente, le innovazioni – antidogmatiche, dunque, per la loro stessa natura di “forme” innovative – sui terreni dell’economia, della politica, della teoria, del pensiero e della prassi della trasformazione sociale, della transizione al socialismo.

Ed è indubbio che il titanico sviluppo economico e sociale intrapreso e conquistato dalla Repubblica Popolare Cinese e dal Partito Comunista Cinese, dalla fase delle «Quattro Modernizzazioni» del compagno Deng Xiaoping e dalla via al «socialismo con caratteri cinesi», si sia offerto quale immensa e solida base materiale per lo stesso sviluppo di un nuovo pensiero rivoluzionario generale, di un nuovo e denso pensiero per la trasformazione sociale e la transizione al socialismo.

È questo – la relazione tra sviluppo della materialità delle cose e lo sviluppo teorico-filosofico in senso rivoluzionario – uno degli aspetti, dei “prodotti”, della storica crescita materiale cinese, un aspetto, forse, non considerato ancora pienamente, nella sua importanza, all’interno del movimento comunista e rivoluzionario mondiale. Ma un aspetto che, invece, occorrerebbe assumere pienamente, come formidabile arricchimento del bagaglio teorico e pratico del processo rivoluzionario, specie in questa fase storica segnata – oltre che da un avanzamento del fronte antimperialista trainato proprio dallo sviluppo cinese all’interno dei BRICS – anche da processi involutivi e di indebolimento del pensiero e della prassi comunista sul piano internazionale. Specie in Europa, ove con ogni evidenza l’«eurocomunismo» ha seminato i suoi danni.

È anche da qui, dunque, dal contributo che lo sviluppo delle forze produttive cinesi, dal contributo che la «NEP» cinese ha fornito allo sviluppo dell’attuale pensiero rivoluzionario, che si può iniziare a tratteggiare un’analisi comparata tra NEP leninista, rimozione della stessa NEP leninista e «NEP» cinese, anticipando – in modo sintetico – una valutazione: come la conquista dell’obiettivo dello sviluppo delle forze produttive ha potuto darsi – in Cina – come base materiale dello sviluppo del pensiero rivoluzionario, così la troppo lunga stagnazione sovietica si è data – infine – come base materiale della cristallizzazione e dell’involuzione del pensiero e della prassi del socialismo in Unione Sovietica.

Quali sono le «categorie» centrali che, come proiezioni della propria, nuova, poderosa, forza materiale, la Cina socialista ha potuto mettere in campo?

Sinteticamente: il pieno ripristino dell’azione soggettiva e antipositivista nel processo storico (Lenin, Gramsci) e ciò in rapporto al rovesciamento del dogma secondo il quale la contrapposizione sarebbe secca: o socialismo o mercato; il superamento, nella prassi, dell’artificiosa dicotomia relativa alla “neutralità” o non “neutralità” delle forze produttive, dicotomia risolta, nell’esperienza del “socialismo con caratteri cinesi”, dal controllo del Partito Comunista sulle stesse forze produttive (esigenza già richiesta, dal Lenin della NEP, nella proposta del “controllo dalle alture strategiche”), forze produttive ridotte a pure “funzioni” del progetto del “socialismo di mercato” a guida comunista; conseguentemente a ciò, una concezione del mercato come spazio economico e politico anch’esso funzionale al progetto di necessaria accumulazione originaria, imprescindibile per la transizione al socialismo, un mercato – dunque – pienamente assunto, nella prassi e nel pensiero, come forma storica non perenne ma dialettica, cavallo di Troia materiale per il socialismo. E altre categorie: come l’internazionalismo oggettivo (e soggettivo) che scaturisce dalla stessa potenza economica, in grado di mettere in campo relazioni e grandi e positive sfere d’influenza sul piano mondiale, capaci di mutare i rapporti di forza internazionali in senso antimperialista; e, ancora, la vera e propria cancellazione della “cultura” piccolo borghese (ma tanto funzionale alla critica imperialista alla Cina socialista) tendente a mitizzare le fasi preindustriali e contadine, demonizzando lo sviluppo economico.

Sia Flaubert che Marx ed Engels avevano già fustigato tale untuosa tendenza piccolo borghese: Flaubert nel romanzo «Bouvard e Pècuchet», dove è descritto il «desiderio» della piccola borghesia di «tornare alla terra in un mondo senza più l’orrore dell’industria», un desiderio che dura il tempo di conoscere la fatica bestiale dei campi, per poi celermente scomparire; Marx ed Engels nel «Manifesto del Partito Comunista», quando scrivono dell’«idiozia di una vita rurale racchiusa nella miseria e nell’ignoranza bruta». Il punto è che per l’ideologia piccolo borghese, anche «di sinistra», nulla è contato l’aver tratto fuori dalla miseria, come ha fatto il socialismo dai caratteri cinesi, quasi un miliardo di persone dall’orrore della fame e della morte per inedia.

Come nulla è contato, per questa stessa ideologia, anche “di sinistra”, il fatto che lo sviluppo cinese abbia innestato un nuovo e potente motore nel camion dell’antimperialismo mondiale.

Marx ed Engels, per ragioni storiche, oggettive, non sono mai stati di fronte ai problemi pratici della costruzione del socialismo. E mai hanno potuto sviluppare un’analisi scientifica rispetto al rapporto tra economia di mercato e socialismo. È stato Lenin – a dimostrazione della propria inclinazione antidogmatica, la stessa che lo portò alla concezione dell’”anello debole della catena” – il primo comunista ad interessarsi alla questione. Naturalmente, il Lenin della presa del potere, dell’Ottobre, non metteva in discussione la concezione dell’incompatibilità tra socialismo e mercato. Una posizione rafforzatasi nella fase terribile della guerra contro gli undici eserciti stranieri e della controrivoluzione in atto.

In quella fase la concezione di Lenin era lineare: lo Stato doveva mettere sotto controllo totale sia la produzione industriale che le eccedenze dei raccolti del grano. In questo quadro “l’economia di mercato” e “il libero commercio” erano considerati, anche sul piano ideologico, concezioni contro-rivoluzionarie. Questa politica, come è noto, prenderà il nome di “comunismo di guerra” e terminerà all’inizio del 1921.

Ma, sconfitta la controrivoluzione, l’enorme massa dei contadini non accettò più i sacrifici imposti dal «comunismo di guerra» e Lenin si fece carico, più di ogni altro dirigente, della contraddizione sociale in atto, che lo portò a ragionare sull’esigenza dell’alleanza contadini-operai. Un’alleanza che Lenin, all’inizio, tentò di saldare anche attraverso un’innovazione politico-teorica: lo scambio di prodotti (baratto di merci) tra contadini e operai, tra grano e beni industriali. Non sarebbe stata la soluzione, ma un’epifania: l’indicazione di marcia, da parte di Lenin, era già potente, antidogmatica, una premessa della stessa NEP.

NEP che partì nell’ottobre del 1921, quando Lenin si convinse della necessità dell’economia di mercato, linea che produsse non poche contraddizioni all’interno del Partito Comunista Russo, contraddizioni e resistenze che Lenin vinse ma sarebbero poi tornate, con Stalin, sotto forma di totale contrarietà, nella fase della fine della NEP.

Quale corredo politico-teorico lascia la breve esperienza della NEP leninista?

Lascia, innanzitutto, una riflessione, da parte di Lenin, profonda e proficua, un vero e proprio apparato teorico (accantonato) a sostegno del “socialismo attraverso un’economia di mercato”.

Lenin mette a fuoco la concezione dell’«uklad», una struttura socialista, una produzione economica socialista in grado di svilupparsi proprio in virtù della competizione con le strutture neocapitalistiche interne al socialismo. Una visione, questa di Lenin, addirittura preveggente, rispetto alla futura stagnazione sovietica brezneviana e in accordo con lo stesso, odierno, tipo di sviluppo e proficua competizione stato-mercato del “socialismo con caratteri cinesi”.

Oltre ciò, Lenin affronta il problema dell’entrata dell’economia di mercato (e persino del capitale straniero) nel socialismo in termini nuovi, sottolineando gli aspetti positivi, per ciò che riguardava e riguarda il necessario sviluppo generale delle forze produttive, di queste “entrate” capitalistiche.

Un altro aspetto anticipato da Lenin, nell’analisi del “socialismo di mercato”, sta nel fatto che, in presenza di spinte neo capitalistiche nella struttura socialista, elementi “mafiosi”, di corruzione, di involuzione burocratica possono inevitabilmente presentarsi. Ed è a partire da ciò che Lenin stesso proponeva una forte spinta politica e ideale ai fini della costruzione di un’autodisciplina nelle istituzioni pubbliche, oltre la proposta di un controllo esercitato contro le degenerazioni da parte del potere socialista. Ciò che dobbiamo rimarcare, da questo punto di vista, è il fatto che le degenerazioni di cui parlava Lenin si siano poi presentate, anche in forma massiccia, nell’esperienza sovietica priva di mercato, come a dire che non basta la cancellazione del mercato a impedire il formarsi della corruzione, questione che – ci sembra – sia presente al Partito Comunista Cinese, che sta intervenendo giustamente e con polso fermo contro i fenomeni di corruzione in seno al “socialismo con caratteri cinesi”. Non è senza significato, da questo punto di vista, il fatto che l’88% dei delegati al 19° Congresso del PC Cinese sia entrato nel Partito dopo le riforme di Deng.

La stessa questione – ai fini rivoluzionari e di sviluppo del socialismo – dell’ “apprendimento” (categoria sviscerata nella ricerca leninista di allora) da parte del socialismo dei meccanismi produttivi capitalistici era considerata da Lenin centrale; come centrale, architrave del processo, era considerata da Lenin la concezione delle “alture strategiche”, terminologia mutuata dalla guerra e utilizzata per rimarcare, da Lenin, l’esigenza del controllo socialista su tutto il piano NEP, il controllo del potere rivoluzionario sullo stesso “socialismo di mercato”. Cosa è stata, in fondo, la giusta reazione del Partito Comunista Cinese in Piazza Tienanmen, quando l’imperialismo USA soffiava sul fuoco, se non l’applicazione rivoluzionaria della difesa del socialismo dalle “alture strategiche”? Possiamo, a proposito, fare ricorso alle parole che Gillo Pontecorvo fa pronunciare ad Alì Ben Mihdi ne “La Battaglia di Algeri”: “Cominciare una rivoluzione è difficile, anche più difficile continuarla, e difficilissimo vincerla. Ma è solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà!».

E che cos’è – se non una mutuazione delle categorie leniniste – la parola d’ordine uscita dal 19° Congresso del PC Cinese relativa al “maggior controllo”, da estendere per la difesa del socialismo, da parte del Partito»?

La NEP leninista, seppur tra difficoltà e contraddizioni, favorì un grande sviluppo economico, riconosciuto come tale anche da Lenin nei suoi scritti precedenti la morte. Uno sviluppo che non aveva inficiato il progetto ed il potere socialista, ma l’aveva persino rafforzato nel senso comune del popolo sovietico.

Lenin muore nel gennaio del 1924 e la NEP inizia a spegnersi da quella data. Si protrae, di fatto, sino al 1930, ma, con la “collettivizzazione forzata delle campagne”, condotta da Stalin, essa termina di esistere.

Colpa di Stalin? Noi comunisti ci rifiutiamo di rispondere in questi termini alla domanda. La demonizzazione di Stalin è già così potentemente portata avanti dall’occidente capitalistico che non ha bisogno dell’aiuto dei comunisti. Noi possiamo e dobbiamo criticare Stalin, come peraltro il Partito Comunista Cinese critica il Mao della “Rivoluzione Culturale”, ma, come il PCC che rivaluta l’azione rivoluzionaria storica di Mao, noi comunisti italiani sappiamo rivalutare l’azione rivoluzionaria storica di Stalin.

Altra cosa è un’analisi profonda e seria relativa al superamento della NEP da parte di Stalin, analisi che ancora non è sufficientemente sviluppata e che deve invece svilupparsi, anche perché riguarda una fase decisiva per arricchire lo stesso bagaglio teorico del movimento comunista mondiale.

Certo è che Stalin va dritto verso l’abolizione della legge del valore, non delineando una fase di passaggio e di transizione al socialismo; risponde con più “automatismi” ideologici, nella lotta contro il mercato, rispetto alla creatività teorica e politica di Lenin e, soprattutto, Stalin inizia ad operare in un contesto segnato dal riarmo e dall’aggressività bellica imperialista, delle spinte alle quali si aggiungono, all’interno dell’URSS, nuove tensioni e contraddizioni, date anche dallo sviluppo spurio e non ancora reso armonico al socialismo della NEP. Spinte belliche imperialiste e contraddizioni interne che inducono Stalin a decidere che l’URSS, in quella fase, non può reggere le politiche e le inevitabili contraddizioni della NEP e che, dunque, la Nuova Politica Economica va disinnescata.

D’altra parte, è un insegnamento della stessa, attuale, esperienza cinese che il “socialismo di mercato”, e comunque un processo di transizione al socialismo, ha innanzitutto bisogno di un contesto internazionale di pace. E tale assunto è facilmente constatabile proprio in questa fase: contro la nuova, gigantesca “One Belt One Road”, la Nuova Via della Seta cinese, dal successo della quale può oggettivamente partire un grande aiuto sia alla pace mondiale che alle fortune del socialismo, si erge la contrarietà imperialista, che si materializza, intanto, attraverso il minaccioso rafforzamento della flotta militare USA e NATO nei Mari del Sud della Cina e nei porti delle Filippine; attraverso la rimilitarizzazione, sostenuta dagli USA, del Giappone; attraverso la costruzione di uno scudo stellare nella Corea del Sud contro la Corea del Nord; attraverso il moltiplicarsi delle esercitazioni militari USA-Corea del Sud; attraverso la demonizzazione della Corea del Nord e attraverso la collocazione di basi militari USA e NATO sia in Ucraina che in Afghanistan, motivo primario degli interventi militari USA e NATO in questi due Paesi.

Per riprendere il filo del discorso sull’economia sovietica, discorso funzionale allo studio del “socialismo dai caratteri cinesi”: cosa sostituisce, Stalin – ai fini della produttività di massa, dello sviluppo delle forze produttive e ai fini di una nuova accumulazione – alla NEP?

Indubbiamente Stalin sostituisce alla Nuova Economia Politica la forza intrinseca dello stesso socialismo sovietico che va (dentro un mondo ostile e di fronte alla concezione quasi planetaria di un capitalismo concepito come “natura” e dunque insuperabile) controstoricamente costruendosi; costruzione concreta alla quale, tuttavia, aggiunge elementi fortemente idealisti che hanno la forza di protrarsi nel tempo (il lavoro d’assalto, l’emulazione, lo stakanovismo, l’onda lunga e idealista della Rivoluzione d’Ottobre, che tutto unisce e spinge) ma che – proprio perché elementi non materialisti – possono durare sino alla vittoria sul nazifascismo e non evitare la grigia caduta ed evaporazione nella lunga stagnazione brezneviana.

Nel senso, prosaico ma concreto, che non si poteva chiedere l’emulazione di massa e lo stakanovismo alle generazioni venute dopo la guerra. Persino Ernesto Che Guevara (un iper idealista), per ricordare la storia, da Ministro dell’Economia, dopo la Rivoluzione Cubana, punta, dopo deludenti esperienze sul campo della mobilitazione sentimentale, a introdurre, per aumentare la produttività, il cottimo. Introduzione vissuta da Guevara come una sconfitta.

Dopo la NEP, l’Unione Sovietica non conosce più altro sistema che quello dello “Stato totale”, dove, mano a mano, la spinta alla produttività e allo sviluppo delle forze produttive va anchilosandosi. Nel sistema viene a presentarsi anche una contraddizione di natura degenerativa: una sorta di scambio tra mancanza del mercato e delle merci, mancanza di democrazia sovietica e allentamento, sino quasi alla cancellazione, del controllo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro e di produzione. Uno sviluppo senza più la NEP di Lenin né l’idealismo ed il controllo di Stalin.

Il processo ideologico di “svalorizzazione” del lavoro e della produttività diviene una sorta di involucro che tutto segna di sé e, in questa palude, la riproduzione della produzione e dei mezzi di produzione – che va avanti, dalla fine degli anni ’60 in poi, come una coazione a ripetere, senza dinamizzazioni o svolte significative – diviene un processo in via d’esaurimento.

Nella mancanza – spesso disperata, per i cittadini sovietici – delle “merci leggere” e di consumo di massa, vi è molto dell’”ideologia” della stagnazione: la scelta di perpetuare un’economia di merci pesanti, a discapito delle condizioni di vita dei cittadini e del consenso di massa e a discapito dell’apertura di un più vasto mercato interno e della possibilità, da parte dell’URSS, di puntare ai mercati mondiali, la si spiega anche con la supposta, “diversa”, coscienza del popolo sovietico, non incline, per questa ideologia, alla necessità delle merci. Un errore madornale nell’interpretazione di un popolo, dei lavoratori: non vi era bisogno, per liberarsi dalle fatiche famigliari, di una lavatrice?

Non vi era bisogno di un frigorifero, di un ferro da stiro facilmente reperibili sul mercato? Non vi era bisogno, per un popolo e per una classe operaia, contadina, che tanto avevano dato alla Rivoluzione, alla difesa della Rivoluzione e alla sanguinosa lotta contro il nazifascismo, di una economia volta alla produzione di massa di merci “leggere”, di consumo popolare?

Non vi furono, nell’URSS, grandi innovazioni sul campo economico. Uniche eccezioni di rilievo, i tentativi delle due riforme condotte da Aleksej Kosygin, che prima nel 1965 e poi nel 1973, tentò di dinamizzare l’economia sovietica a partire, soprattutto, dal superamento della burocratizzazione ministeriale dell’economia, attraverso la costituzione di associazioni produttive a livello repubblicano e locale. Paradossalmente, una via che aumentava i poteri del Comitato di Pianificazione di Stato (il Gosplan) sottraendoli, appunto, ai gangli burocratici distanti dalla produzione. Le due riforme Kosygin, benché lontane dallo spirito della NEP e solo timidamente evocanti il ritorno a minimi meccanismi di mercato, furono insabbiate, pur non fallendo (si ricorda lo sviluppo produttivo imperioso delle automobili “Gorkii”, a Leningrado). Il sistema anchilosato aveva “digerito” Kosygin.

Certo è che la cause della caduta dell’URSS non vanno solo ricercate nella stagnazione e nel mancato e pieno sviluppo delle forze produttive; la lunga sfida militare imperialista volta a dissanguare l’economia sovietica sull’altare del riarmo; il possente e continuo aiuto internazionalista, di tipo materiale e diretto in ogni continente; i veri e propri tradimenti di Gorbaciov, la mancata vittoria, prima di lui, della linea Andropov, l’accidia dell’Armata Rossa, incapace di respingere il “golpe” di El’cin: tutto ciò è stato decisivo. Tuttavia, la base materiale della resa e dello scioglimento dell’URSS non può che rintracciarsi, innanzitutto, sull’assenza– infine – di un’economia forte, di forze produttive in grado di sostenere lo scontro e preparare il futuro. Ed è questa un ulteriore lezione che, oggi, ci viene dallo sviluppo cinese: le basi materiali e lo sviluppo delle forze produttive garantisco anche il futuro del socialismo. Significativo, da questo punto di vista, è il rilancio, avvenuto al 19° Congresso del PC Cinese, dei valori politici e ideali del socialismo, del progetto rivoluzionario a breve e lungo termine.

Noi riteniamo che il passaggio, in Cina, dalla Rivoluzione Culturale alle “Quattro Modernizzazioni” e poi al progetto compiuto di “socialismo dai caratteri cinesi” sia stato non solo necessario per la Repubblica Popolare Cinese e per il popolo cinese (per tanta parte uscito dalla miseria ed entrato nella modernità), ma anche per l’intero arco delle forze antimperialiste, anticolonialiste e comuniste del mondo, che dopo la scomparsa dell’URSS hanno ritrovato nella Cina dello sviluppo economico, e nei BRICS, una sponda potente e un punto di riferimento solido. Non è la questione o il desiderio di un nuovo “faro internazionale”, del quale i partiti comunisti del mondo e le forze antimperialiste e rivoluzionarie non hanno bisogno: è la questione di un’accumulazione di forze materiali (e, dunque, dialetticamente, ideali) sul piano mondiale, capace di fronteggiare e far arretrare le forze imperialiste.

La Rivoluzione Culturale cinese aveva fatto innamorare di sé anche la piccola borghesia occidentale di sinistra, molto e idealisticamente attratta dalla miseria e dal sacrificio del popolo cinese, “esempio” – per la piccola borghesia – di “una più alta vita”. La Cina aveva invece bisogno di ergersi nel mondo attraverso quello che lo stesso Marx individuava come il motore della Storia: lo sviluppo delle forze produttive.

Le concezioni politiche e teoriche che vanno forgiandosi in Cina, in questa fase di impetuosa crescita, sono già e potranno ancor più essere – senza rapporti di subordinazione, ma con rapporti leali e creativi – ricca materia teorica per altre esperienze di sviluppo socialista: il ruolo guida – nel progetto di sviluppo delle forze produttive – del Partito Comunista Cinese (ruolo guida che mutua la concezione leninista delle “alture strategiche”); il Partito Comunista come avanguardia del proletariato e della Nazione, in una visione della “totalità delle cose”, della fase e del quadro sociale e politico, una pratica della totalità volta a trainare tutto l’immenso Paese cinese verso il socialismo; l’unità transeunte tra Partito Comunista, proletariato e borghesia, nella fase storica in cui essa è funzionale allo sviluppo delle forze produttive ed esse alla transizione al socialismo; la sollecitazione strategica alla costruzione delle “aree speciali” neo capitaliste, aventi il compito di accelerare i processi di accumulazione della ricchezza generale al fine di altri investimenti sociali, tecnologici, scientifici; l’attenzione e la lotta del Partito contro le inevitabili aree di corruzione che si aprono (come si sono, peraltro, aperte anche nell’URSS priva di mercato) nel “socialismo di mercato”; la consapevolezza (che il Partito Comunista Cinese ha totalmente e lucidamente) delle inevitabili contraddizioni che la presenza, voluta dallo stesso progetto socialista di un neocapitalismo interno, produce in termini di pulsione al potere politico da parte del potere economico accumulato dal neocapitalismo e, dunque, l’apertura di una lotta di classe sociale e politica che il Partito Comunista, dopo aver provocato, vuole e deve vincere.

La stessa «Teoria delle tre rappresentatività» (l’unità storica tra operai, contadini e intellettuali, che deve allargarsi alla cultura d’avanguardia e agli interessi di massa), appare un’innovazione funzionale alla fase di transizione cinese, una linea, peraltro, già praticata da altre esperienze rivoluzionarie e comuniste di altri Paesi e in altre fasi storiche.

Negli odierni passaggi cruciali della politica cinese e nelle stesse scelte strategiche del Partito e del governo della Repubblica Popolare è confermata in toto la bontà marxista della centralità dello sviluppo delle forze produttive: nel Piano Quinquennale 2016 – 2020 (rilanciato dal 19° Congresso del PC Cinese) viene presentato un immenso progetto ambientalista, di sviluppo ecocompatibile che non ha pari al mondo e che solo avendo sviluppato precedentemente le forze produttive ora può concretizzarsi.

Sappiamo che l’imperialismo, specie quello nord americano, teme lo sviluppo cinese e ha gli occhi, e non solo gli occhi, puntati su Pechino: sarà nostro dovere di comunisti, di internazionalisti, stare dalla parte giusta, dalla parte della Repubblica Popolare Cinese e del Partito Comunista Cinese.


Commento

di Carlo Formenti



Il testo che avete appena letto tocca, fra gli altri, questi cinque nodi cruciali: 


  1.  Esistono sostanziali analogie fra la NEP promossa da Lenin nei suoi ultimi anni di vita e le riforme volute da Deng alla fine degli anni Settanta? Si tratta di una questione che, a sua volta, solleva almeno altri due interrogativi teorici: vale ancora il dogma secondo cui socialismo e mercato sono assolutamente incompatibili? Le forme di capitalismo di stato esistenti in Occidente sono equiparabili a quelle in vigore nei Paesi socialisti?
  2.  La lotta di classe prosegue nelle prime fasi del socialismo? 
  3.  È giusto affermare che “il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive”? 
  4.  Quali sono state le cause del crollo sovietico?
  5.  Quali sono i limiti del mito che identifica il socialismo con la costruzione dell'uomo nuovo? 


Questi stessi interrogativi sono al centro del mio nuovo libro “Guerra e rivoluzione” di imminente uscita per i tipi di Meltemi (il primo volume, “Le macerie dell'Impero”, a gennaio 2023, il secondo, “Elogio dei socialismi imperfetti”, due mesi dopo). Nelle prossime settimane ne anticiperò alcune pagine, mentre in questa sede mi limito ad accennare ad alcune delle risposte che il libro offre agli interrogativi di cui sopra.


Le descrizioni “classiche” del socialismo – vedi, fra le altre, quelle contenute nell'Anti-Duhring di Engels o nella Critica al programma di Gotha di Marxescludono la possibilità che tale forma sociale possa convivere con i rapporti di mercato. Questa era, anche, la convinzione di Lenin e degli altri dirigenti bolscevichi (in particolare di Bukharin) negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione del 1917.  Una volta esaurita la fase del comunismo di guerra, tuttavia, la posizione di Lenin mutò radicalmente. Di fronte al rischio di collasso dell'economia, dovuto al rifiuto delle masse contadine di rinunciare al possesso privato della terra, alle distruzioni dell'apparato produttivo provocate dalla guerra civile, all'incapacità della classe operaia russa di gestire tale apparato senza l'apporto dei quadri tecnici nonché alla riluttanza operaia a farsi carico dell'immane sforzo necessario a riavviare la macchina produttiva, Lenin si convinse della necessità di una lunga fase di transizione in cui scambi commerciali, gerarchie di fabbrica e organizzazione del lavoro sarebbero rimasti quelli del periodo prerivoluzionario. In contrasto con la sinistra del partito (e con le posizioni di Rosa Luxemburg), sostenne quindi la necessità di dare vita a una forma di “capitalismo di stato” che, sostenne, non poteva essere considerato un “ritorno al capitalismo” tout court, nella misura in cui il controllo dell'economia sarebbe rimasto  saldamente in mano dello Stato e del partito rivoluzionari. 


Anche se la storia non si ripete, è difficile non cogliere le evidenti analogie fra il contesto in cui maturò la svolta della NEP in Russia e quella imposta da Deng nella Cina del 1978. Se l'Unione Sovietica non avesse riavviato l'economia, non sarebbe stata in grado di resistere all'assedio dei Paesi capitalisti; a sua volta la Cina – reduce dai disastri provocati dalla Rivoluzione culturale -  era sottoposta alla doppia sfida dell'assedio imperialista e di quelle forze interne al Partito (appoggiate dal liquidatore dell'Urss Gorbaciov e dagli Stati Uniti) che reclamavano la separazione fra Stato e partito e l'adozione di un sistema “democratico” di tipo occidentale, per cui la svolta impressa da Deng è stata una soluzione obbligata, non solo per garantire la sopravvivenza dell'esperimento socialista in Cina, ma per salvaguardare la stessa unità e autonomia nazionali del Paese a fronte dei progetti capitalisti di smembrarlo per spartirsene le spoglie.  


Prima di interrogarci sulle ragioni che hanno provocato sviluppi tanto diversi nel caso della Russia rispetto a quello cinese, è opportuno sottolineare come entrambi i percorsi storici (per un marxista i fatti storici hanno sempre la precedenza sulle idee astratte) rappresentino una chiara smentita del dogma della incompatibilità assoluta fra socialismo e mercato e, al tempo stesso, confermino come il processo di transizione al socialismo, oltre a presentarsi assai più lungo, complesso e tormentato di quanto prevedessero i padri fondatori, sia inevitabilmente caratterizzato dal permanere del conflitto di classe. 


Nel suo testo Giannini richiama, in merito a quest'ultimo tema, il pensiero di Domenico Losurdo: la lotta di classe è sempre declinata al plurale e una delle sue forme è il conflitto geopolitico (lotte di liberazione nazionale, antimperialiste, ecc.); lotta di classe è quella “dall'alto” che in 40 anni di neoliberismo le élite occidentali hanno condotto contro le classi subalterne, sprofondando centinaia di milioni di proletari nella miseria, lotta di classe è quella della NEP in salsa cinese che, nello stesso arco di tempo, ha consentito di affrancare 800 milioni di cinesi dalla povertà, offrendo nel contempo alle larghe masse dei Paesi in via di sviluppo l'alternativa del Bejing Consensus contro l'oppressione imperialista del Washington Consensus, offrendo cioè uno straordinario esempio di successo economico fondato sul ruolo centrale dello Stato. Torniamo dunque, con buona pace di trotzkisti e negriani, alla tesi leninista che distingue fra capitalismo di stato come strumento del potere socialista e capitalismo di stato come passo verso la restaurazione del capitalismo.  


Abbozzando un'analisi sull'opposto destino della Rivoluzione russa (dalla fine della NEP alla collettivizzazione forzata staliniana, dalla stagnazione brezneviana al disastro dell'89-91), Giannini mette l'accento sull'idealismo che ha caratterizzato certe scelte di Stalin (simile alle illusioni di Guevara sull'uomo nuovo), nonché sulla disastrosa sottovalutazione, da parte dei suoi successori, delle giuste aspirazioni popolari a godere dei benefici dello sviluppo (a partire dalla carenza quantitativa e qualitativa del settore dei beni di consumo). Condivido, sono però convinto che occorra compiere un ulteriore, enorme sforzo analitico. Sospendendo il giudizio sugli errori associati alla distruzione della vecchia guardia bolscevica, credo che il vero limite di Stalin sia consistito nel riproporre il dogmatismo astratto degli oppositori “di sinistra” alla svolta “realista” di Lenin, pigiando l'acceleratore su statalizzazione e collettivizzazione forzata, cui si è aggiunto – come giustamente messo in luce da un'autrice come Rita di Leo - il suo “operaismo”, cioè la diffidenza radicale, se non il vero e proprio odio, nei confronti degli intellettuali, sentimento che lo ha indotto a rimpiazzare in tempi brevissimi sia i dirigenti e i tecnici del periodo prerivoluzionario che i dirigenti bolscevichi di estrazione borghese con quadri di estrazione proletaria, i quali hanno instaurato una prassi di quieto vivere con una classe operaia scarsamente disponibile a cooperare all'aumento di produttività. Di qui il rallentamento dello sviluppo, la sistematica falsificazione del raggiungimento degli obiettivi del piano e la stagnazione che, dopo la morte di Stalin, verranno  aggravati dalla burocratizzazione di un apparato amministrativo e produttivo che, contrariamente a quello cinese, non è mai stato sottoposto alla pressione della concorrenza.  


Ammettere che il processo di transizione al socialismo è lungo, complesso, esposto agli effetti del permanere dei conflitti di classe (e quindi al rischio di sconfitte e passi indietro), e che può convivere a lungo con il mercato e assumere la forma di un capitalismo di stato sui generis non è però sufficiente. Nel libro che ho da poco consegnato all'editore sostengo inoltre che occorre prendere congedo da certe rappresentazioni profetico religiose del socialismo – e ancor più del comunismo realizzato – come paradiso in terra, un mondo privo di conflitti e libero da ogni forma di alienazione. Lasciando da parte le speculazioni sul comunismo realizzato – che non entusiasmavano Marx e che riguardano in ogni caso un futuro difficilmente prevedibile – è probabile, per non dire certo, che la prima fase del socialismo somiglierà a una qualche forma di economia  mista non troppo diversa da certe esperienze postbelliche di socialdemocrazia radicale, con la differenza del mantenimento di un saldo controllo politico dello stato e del partito rivoluzionari sui settori strategici della produzione, sulla finanza e sui processi di riproduzione sociale. 


E per quanto riguarda il mito dell'uomo nuovo? Giannini insiste giustamente sugli effetti perversi che il mancato sviluppo della produzione di beni di consumo ha avuto sulla storia dell'Unione Sovietica, e sul fatto che una certa visione idealista impedisce di capire che anche il cittadino socialista ha diritto ad aspirare a godere di un certo benessere (ciò di cui il Partito Comunista Cinese è ben consapevole, per cui mette questa esigenza in cima ai propri obiettivi strategici). Ciò vuol dire che la sola differenza fra capitalismo e socialismo è il tasso di giustizia distributiva, mentre le differenze culturali e  antropologiche sarebbero inesistenti o trascurabili? Assolutamente no. Se la rivoluzione cinese (ma anche quelle latinoamericane) si sono rivelate meno permeabili alle seduzioni del consumismo occidentale è perché in questi Paesi il marxismo si è ibridato con tradizioni culturali (il confucianesimo in Cina, il comunitarismo di origine india in America Latina) assai diverse da quelle occidentali. Da noi il retaggio individualista, frutto di secoli di capitalismo e di cultura ebraico-cristiana, è purtroppo molto più difficile da scalzare, anche perché abbiamo a lungo usufruito delle briciole del saccheggio imperialista dei centri metropolitani a spese delle periferie del mondo. 


Concludo con un'ultima annotazione critica: rilanciare il detto marxiano “il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive”, come fa a un certo punto Giannini, può dare adito a equivoci. Una cosa è affermare che senza sviluppare le forze produttive la Cina non avrebbe potuto salvare la rivoluzione; altra cosa è applicare questo principio ai centri del capitalismo mondiale, dove le forze produttive hanno da tempo raggiunto picchi elevatissimi senza che ciò abbia consentito di fare il benché minimo passo in direzione d'un cambiamento di sistema. Il dogma secondo cui la rivoluzione si fa laddove esistono le “condizioni oggettive” (cioè ai punti più alti di sviluppo economico e, non, come ci ha insegnato Lenin, negli anelli deboli della catena) è un altro dogma da mandare una volta per tutte in soffitta, né ho dubbi in merito al fatto che Giannini condivida tale punto di vista. Tuttavia ho qualche perplessità in merito all'opportunità di riproporre certe battute del Manifesto di Marx ed Engels sull' ”idiotismo” della cultura contadina: d'accordo se si tratta di ironizzare su certi romanticismi bucolici dell'ecologismo piccolo borghese, ma attenzione al  pregiudizio ottocentesco (eurocentrico, evoluzionista e progressista: vedi l'apologia del ruolo “rivoluzionario” del capitalismo occidentale) che condizionava certe prese di posizione dei padri fondatori (che del resto lo stesso Marx superò negli ultimi anni di vita, riflettendo sul potenziale rivoluzionario del comunitarismo contadino russo).   

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