NON CI RESTA CHE DISTRUGGERE TUTTO
L'OCCIDENTE FALLITO GIOCA LA CARTA DELLA DISPERAZIONE
di Alessandro Visalli
Pubblico questo fondamentale articolo di Alessandro Visalli che abbozza un quadro complesso e articolato delle dinamiche che influenzano la crisi sistemica che travaglia un Occidente collettivo in avanzata fase di declino, e spiega perché sta imboccando la via d'uscita - apparentemente folle ma di fatto obbligata - della guerra globale.
Si intravede...
Comincia ad affacciarsi uno schema (1). Il lungo ciclo, più che trentennale, nel quale in modo sostanzialmente sincrono con l’accelerazione del mondo unipolare negli anni Novanta e poi zero, intorno ad eventi altamente spettacolarizzati come il Protocollo di Kyoto (1997) e le successive COP, nel contesto delle denunce sempre più forti del IPPC circa l’incipiente cambiamento climatico, l’insorgenza della portante emozionale della lotta per un mondo più pulito ed equilibrato sembra essere sempre più sfidata da quella per un mondo più ‘democratico’, ovvero controllato dai Giusti. Si tratta, ovviamente, di due mobilitazioni dell’ansia, nelle quali la struttura è la medesima: il normale corso del mondo è minacciato da una crisi, da un avversario, che mette a repentaglio tutto, bisogna produrre una mobilitazione straordinaria prima che sia troppo tardi. Nessuno può volere altrimenti. Sembra, insomma, quasi che sia necessario un asse di orientamento per tenere in piedi il mondo nell’epoca del tramonto di tutti valori. Che una trascendenza si debba ogni volta imporre per colmare il vuoto nel quale cade, e da tempo, l’Occidente.
Perché serve un nuovo schema? Cercandone le radici bisogna riferirsi al movimento di fondo del nostro tempo: il tramonto dell’egemonia tecnica, economica e politico-militare dell'Occidente (2). Questo movimento, di portata storica, che arriva a conclusione di un ciclo di mezzo millennio, ha infatti conseguenze in ogni direzione, e talvolta inattese. Di una conseguenza inattesa vogliamo ora parlare, ma prima bisogna focalizzare qualche sfondo.
Una delle dimensioni della sconfitta (o del fallimento) è in direzione della pretesa, nutrita appunto da cinque secoli, di guidare la modernizzazione e le sue costanti transizioni. Può sembrare, a chi si sia formato nelle scuole dell’obbligo occidentali, con la loro specifica e intenzionale miopia, che in sostanza Occidente e modernità siano sinonimi, che la tecnica sia una conseguenza della rivoluzione scientifica e questa sia solo effetto del lavoro di alcuni geniali campioni (Galileo, Cartesio, Newton), tutti europei. Che quindi il potere e la ricchezza che l’Occidente ha conquistato sia un merito ed un diritto, che, anzi (supremo capolavoro) sia un regalo al mondo. Può derivarne che ci sia un quid (la tradizione greca? Quella latina? Il protestantesimo?) che è solo e proprio dell’Occidente che lo fa capace di dirigere il treno dell’umanità, una sorta di codice genetico (se pure culturale). Che, quindi, nessuno mai potrà eguagliarlo.
Lo spettacolo del presente contraddice questa pretesa.
Proviamo a prendere ancora un poco di distanza e guardare dall’alto il punto in cui siamo: il mondo è intrappolato nelle conseguenze di un modo di essere e funzionare (preferisco questa formula alla più nota “modo di produzione”, che enfatizza troppo la produzione, con il suo portato di riduzionismo (3)) che sacrifica buona parte dell’umanità, e la stessa natura, alla creazione di valore astratto ed alla sua accumulazione come fonte del potere.
Guardando la cosa a partire dall’esteriorità (ovvero dal piano fenomenico) abbiamo una violenta polarizzazione sociale nei ‘centri’ tradizionali, dinamizzati da flussi di segni di valore che tendono ad essere accumulati da ristrettissime élite, e che lasciano i più in condizioni di subalternità e degrado. Ed abbiamo un, anche più violento, sfruttamento della debolezza nelle ‘periferie’ interconnesse del “sistema mondo” (4). Ciò significa che nel “centro” prevalgono le condizioni economiche del “sottoconsumo” (5), mentre nelle “periferie”, o nei ‘centri’ sfidanti, prevale la “sovrapproduzione” (6). Dove, naturalmente, i termini “centro” e “periferia” non vanno pensati secondo il modello dei centri concentrici, ma sono intrecciati e spesso coesistono nel medesimo luogo. Il mondo è un luogo di squilibri.
A connettere e rendere anche possibile la disgiunzione di una sovracapacità produttiva con un sottoconsumo è la finanza. Ovvero la traduzione dei rapporti sociali di dominazione dall’una come dall’altra parte in valore astratto che è scambiato su piattaforme estese all’intero pianeta e virtualmente prive di attriti (7). Più specificamente, sono gli effetti della costante riduzione dei tassi di interesse che hanno sostenuto, tramite l’espansione del debito e dei beni capitali come immobili e titoli, i consumi senza dover passare per il reddito a partire dagli anni Ottanta. In un contesto di riduzione degli investimenti in capitale fisso produttivo, determinato dalla competizione di modi di accumulare meno rischiosi sulla base del livello di concentrazione già raggiunto negli anni Sessanta e Settanta, questo ambiente economico ha determinato durante tutta la fase che si incuba negli anni Ottanta, per prendere struttura e velocità negli anni Novanta, la strana coesistenza di quota salari bassa e domanda alta. Tuttavia, la prima ha comportato una vasta sottoutilizzazione delle risorse umane e materiali. In questo senso abbiamo avuto ed abbiamo un mondo intrappolato in un’immane distruzione di energia umana e naturale, che la furia compulsiva di accumulazione di pochi mette sulla strada della sua distruzione. Due fattori cruciali rendevano possibile questo strano meccanismo: il continuo aumento del debito a fronte di una politica di erogazione di denaro espansiva; la centralità del dollaro che impediva ai tassi di interesse e al debito di diventare insostenibili. Chiaramente non funziona più.
Sul piano tecnico lo schema generale della soluzione dovrebbe essere di rimettere in attività nei “centri”, creando buon lavoro e risolvendo il sottoconsumo, e avviare una necessaria distruzione controllata della sovracapacità (8) nelle “periferie”; trovando, al contempo un impiego utile alla sovracapitalizzazione che ingolfa le piazze finanziarie di tutto il mondo e che alimenta un disperato gioco alla prossima ‘bolla’ (9). Tutto questo, dal punto di vista dell’egemone occidentale sfidato, richiede di passare da una fase di ‘piccoli governi’ neoliberali al “Grande Governo”.
Il problema è che, nelle condizioni sociopolitiche e socioeconomiche dell’Occidente, dominato dalla concentrazione del capitale in poche e ben sorvegliate mani, alcune decine di migliaia di imprese giganti e pochi centri finanziari, con qualche centinaio di grandi famiglie con patrimoni quasi illimitati, non si può fare. La ragione è semplice: l’ultimo Rapporto Oxfam (10) mostra che le prime 150 multinazionali hanno profitti per 1.800 miliardi di dollari, simili al Pil di una delle più grandi potenze industriali, l’Italia, e che questi profitti all’80% sono andati agli azionisti e non sono reinvestiti, mentre il monte salari di 800 milioni di persone è sceso di 1.500 miliardi, o che i miliardari nel mondo (spesso azionisti delle sopradette società) hanno aumentato negli ultimi soli tre anni il loro patrimonio di 3.300 miliardi di dollari. Le multinazionali che stanno ‘vincendo’ sono 14 compagnie petrolifere e del gas, che hanno triplicato i profitti fino a circa 200 miliardi di dollari, due marchi del lusso, con 10 miliardi, 22 società finanziarie che hanno registrato incrementi di un terzo e pari a 36 miliardi, e 11 società farmaceutiche che hanno prodotto profitti per 43 miliardi. Considerando i profitti globali aziendali, un terzo è incassato da una società su centomila (0,001%), l’1% più ricco della popolazione mondiale (80 milioni di persone) possiede il 60% della ricchezza finanziaria, mentre la sola Apple ha un valore superiore al Pil della Francia. I primi cinque hanno un valore superiore al Pil di tutte le economie africane, dell’America Latina e dei Caraibi, messe insieme. I primi tre gestori di fondi, BlackRock, State Street e Vanguard, insieme, hanno asset pari ad un quinto del totale mondiale, 20.000 miliardi di dollari.
Giovanni Arrighi, nel corso del suo lavoro, ha messo a punto uno schema interpretativo potente che vede lo sviluppo del sistema di produzione ed organizzazione ‘capitalista’ come una successione di ‘cicli’ per successiva espansione ed incorporazione in una dialettica tra “attori territoriali” e “attori economici”. Oppure, se si vuole utilizzare un linguaggio diverso, tra una “logica di potenza” ed una “logica capitalista”. Ancora in altre parole, il sistema capitalistico è visto come una successione di cicli di accumulazione (ogni volta composti di una fase di espansione produttiva ed una fase terminale finanziaria) e da cicli di egemonia nei quali un “centro” si impone a molte “periferie”. Quando la fase di espansione produttiva inizia ad essere meno redditizia (perché si allenta il vantaggio monopolistico che ha all’inizio sfruttato) a causa dell’accresciuta concorrenza, allora i capitali generati vengono trattenuti in forma liquida, e non più investiti in attività divenute troppo rischiose, si ha quindi una fase di espansione finanziaria che prepara il crollo. Sarà l’emergere di una nuova gerarchia, spesso dopo una fase molto turbolenta e non di rado di guerra, che determina un nuovo “centro” che riavvia il processo su basi nuove. Consentendo l’avvio di un ciclo di investimenti produttivi, l’incremento di efficienza e la distribuzione dei surplus accumulati.
Arrighi sposa qui, se pure in modo originale, la tesi di Marx per la quale nel modo di produzione capitalistico (dato che lo scopo è la produzione di capitale e non lo sviluppo delle forze produttive), il mezzo entra in conflitto [in particolare nelle fasi “finanziarie”] con il fine ristretto: la valorizzazione del capitale esistente (11). Il capitale entra dunque periodicamente in palese contraddizione con l’espansione materiale dell’economia-mondo (12), il capitale “disimpegnato” in ogni fase finanziaria dall’espansione ulteriore di produzione e commerci, è, perciò, riciclato con profitto superiore in settori non produttivi (che sono spesso le armi (13)).
A questo elevato livello di astrazione si può concludere che, nella dinamica che si genera tra la tendenza a ritirare il capitale dagli investimenti produttivi (di cui a tutta evidenza soffrono i ‘centri’ sovracapitalizzati, determinando sottoccupazione e quindi sottoconsumo), a causa dell’incremento della concorrenza e la relativa scarsità di occasioni sfruttabili per un ‘adeguato’ saggio di profitto (14), e la sovrabbondanza di capitale mobile che ne è l’immediata conseguenza, c’è tuttavia lo spazio per numerosi equilibri dinamici. Gli equilibri sono determinati dalla dialettica tra occasioni di impiegare i capitali per investimenti e di metterli a frutto per rendite (DMD vs DD), entrambe soggette alla legge dei rendimenti decrescenti (relativa e non assoluta). A rendere complesso il quadro, però, non ci sono solo le diverse arene nelle quali le due scarsità (di occasioni di investimento e di occasioni di rendita) si contrappongono, ma anche attori ed organizzazioni non interessate al profitto, ma, dice Arrighi, a potere o prestigio (15).
Giovanni Arrighi |
In queste “biforcazioni” si creano quindi campi instabili e turbolenti nei quali “agenti” diversamente orientati concorrono l’uno a sottrarre capitali ai circuiti produttivi e commerciali per offrirli sui mercati finanziari, gli altri a impegnarli nei primi, cercando ognuno di massimizzare il proprio potere.
Si tratta anche di una lotta per l’egemonia.
La questione è che l’egemonia mondiale si ottiene quando alla capacità di governance delle forze sistemiche si aggiunge la leadership, che, come dicono Arrighi e Silver in Caos e governo del mondo (16), si fonda sulla capacità del gruppo dominante di presentarsi, ed essere percepito, come portatore di interessi generali (17), questa capacità porta un potere “addizionale”. Gruppo dominante e gruppi subordinati in qualche modo concordano che la direzione nella quale il primo dirige le forze è a vantaggio comune. Il sistema è gestibile, dunque, senza ricorrere alla pura e semplice forza.
Questa divagazione mostra la questione in campo.
In definitiva una possibile via di uscita dalla crisi di sottoconsumo in Occidente e di sovrapproduzione incipiente in Oriente, che li portano in rotta di collisione, è di avviare una ‘distruzione controllata’ nella seconda area, per sgombrare la sovracapacità, e una serie di impieghi ‘distrattivi’ (rispetto alla logica ‘capitalista’) nella prima. Salvaguardando, ovviamente, e anzi trovando impieghi alla sovrabbondanza di capitali, in modo che non rischino un crollo per carenza di fiducia e quindi illiquidità. Ma un impegno di questa portata richiede necessariamente la costruzione di un’emergenza che metta a tacere gli ‘spiriti animali’ che guardano sempre a cortissimo raggio. Al contempo che mobiliti le coscienze. Qualcosa che sia in grado di ‘dare una direzione’ al mondo, di focalizzarne le emozioni e di promettere la salvezza.
Richiede soprattutto la produzione di egemonia, perché bisogna mettere a tacere questi ‘spiriti’, assai concretamente operativi.
Allora nel periodo 2000-20 la quadra, come fu negli anni Cinquanta la Guerra Fredda, veniva dalla ‘distruzione del pianeta’. In questo modo i capitali potevano forzatamente essere impiegati in investimenti guidati dallo Stato, ma salvaguardanti l'iniziativa privata. In conseguenza, secondo questa influente e autorafforzante idea, nella parte diffusa della ‘manutenzione territoriale’ e della ‘economia circolare’ si potevano impiegare i ‘superflui’, combattendo il sottoconsumo occidentale, e la capacità produttiva si poteva riconvertire riducendo la sovracapacità e la sovrapproduzione. Una quadra perfetta per quello che Minsky chiamava “Keynesismo privatizzato” (18). Quindi, la riconversione ecologica e slogan come “Non c’è più tempo”, svolgevano sotto il profilo strutturale e socioeconomico questa funzione strutturale vista dal punto di vista delle élite.
In questo contesto, fino a questi ultimi anni, l'Unione Europea (lo sconfitto dentro il fallito, ed una delle più blindate roccaforti delle citate élite) ha sognato, come usualmente gli capita di porsi come guida di questa transizione ad un mondo pacifico e fondato su tecnologie smart e rinnovabili. Due pilastri reggevano questo sogno (o delirio, se preferite): la spinta interna a creare un grande mercato, che avviasse un ciclo di investimenti autosostenuto, e la dotazione di finanza attivata dalle opportunità. Entrambe le cose ci sono state, ma in misura episodica, incerta e insufficiente. Al contempo, però, i competitori sistemici (in particolare la Cindia) hanno seguito il medesimo piano, ma, al contrario della Ue lo hanno fatto davvero. Hanno creato un enorme mercato, i relativi campioni industriali, ed hanno mobilitato a tale scopo ciclopici investimenti pubblici e quindi anche privati.
Hanno vinto, come si riconosce ormai ovunque.
La differenza, infatti, tra la carenza di azione e capitali, endemica in un sistema a trazione capitalista e monopolistico incapace di decidere (non ultimo per l'eccesso di concentrazione dei capitali e quindi per la cattura del sistema di decisione pubblico), e la loro disponibilità nei tempi necessari del sistema “Orientale”, è talmente vistosa che ormai tutti si rendono conto di non riuscire a competere (nelle tecnologie per le rinnovabili elettriche, negli accumuli, ora anche nell'automotive in cui ci rifugiamo nei dazi). Il confronto tra le disfunzionali società rette dalla valorizzazione privata, miope ed a cortissimo raggio, in quanto dominata dal cosiddetto ‘capitale fittizio’ (o finanziario, largamente astratto), verso le società comunitarie, capaci di direzione e capitalizzazione adeguata, porta al cambio di fase che si intravede.
Una rappresentazione plastica di questa situazione può essere ritrovata in questa immagine.
Le reti elettriche nel mondo, 2024. |
Le reti elettriche di trasmissione in alta ed altissima tensione, mappate in questo sito (19), identificano la maggiore intensità di attività reali che ormai la Cina e l’India hanno raggiunto rispetto ad Europa ed Usa. Si noti, non è questione di popolazione, l’Africa è quasi assente, ma di attività energivore e di case moderne.
Per questo dalla fase in cui la soluzione era cercata attraverso uno sviluppo forzato degli investimenti (gara che abbiamo perso), si passa ad un’altra forma di “distruzione controllata” che è, contemporaneamente, anche una forma di missione e di scopo: alla guerra.
C’è però, una differenza.
Nel momento in cui l'Occidente collettivo va alla guerra servono diversi capitali, al posto di quelli della New Economy, bisogna ri-creare le condizioni della rivalsa del Grande Capitale Industriale (GCI) di tipo tradizionale (Oil & Gas e Nucleare & Militare, OGNM) verso il capitale distribuito e finanziarizzato egemone nell'avvio di millennio. Il GCI, allora, chiede e ottiene protezione. Anche questo significa passare da una fase “capitalista” ad una “territorialista”.
Questo conflitto tra capitali (la forma standard del modo di produzione capitalista) ha una rilevante conseguenza che si inizia a vedere: un allentamento delle retoriche della transizione e della modernizzazione smart e un relativo indebolimento delle relative politiche di spinta. L'emergere di controforze solo apparentemente volte alla mitigazione degli effetti della transizione sulla vita quotidiana (OGNM ha ottime agenzie di stampa e marketing, capaci di vendere tutto a tutti) ma in realtà dirette alla conservazione degli assetti di potere esistenti ed al loro rafforzamento. Rivolte alla sostituzione di una mobilitazione con un’altra.
Già cinque anni fa, quando si affacciò il movimento di Greta Thunberg, in un post (20) avevamo scritto che restavano solo due alternative, o, due modalità di espansione della “logica territorialista” nelle condizioni concrete di potere ed egemoniche di un Occidente sempre più disperato e corrotto:
- - gli investimenti di potenza militari (in espansione e tradizionalmente praticati, quando dal ‘keynesismo privatizzato’ del primo tipo si passa a quello ‘finanziario’ (21) e da questo, infine, terminati tutti gli escamotage, a quello “militare”);
- - la deviazione dei capitali sulla lotta a qualche ‘nemico esterno’ che giustifichi impieghi “ineconomici” (ovvero il passaggio dal “keynesismo finanziario”, cioè l’economia del debito, al “keynesismo ambientale”).
Bisogna essere chiari: entrambe le forme funzionano proprio perché sono irrazionali in termini ‘capitalistici’, ovvero non determinano ritorni sul capitale investito adeguati, e dunque si prestano a distruggere il capitale in eccesso, facendo rientrare la “fase finanziaria” ormai senza uscita (per l’Occidente). Chi accusa la seconda forma di transizione forzata di essere irrazionale, in quanto distrugge capitale, non ne capisce la funzione sistemica e inconsapevolmente appoggia l’alternativa, la pura e semplice distruzione del mondo (sperabilmente nemico).
La cosa non potrebbe essere più seria. proprio perché la posta è il controllo del mondo, ovvero l’attrazione e la ‘fissazione’ dei capitali mobili, che lo rendono instabile, e il loro impiego per guadagnare un superiore livello di efficienza. Scoperto di avere perso siamo quindi passati, semplicemente, dallo schema per il quale si puntava a cambiare la “piattaforma tecnologica” (22), certi di essere i più bravi nel gioco della tecnica, a quello in cui, scoperto che non è così (che i Cinquecento anni di dominio stanno passando), si torna alle care vecchie armature.
E’ per questo che le tecnologie della transizione, prima così desiderate, sono sotto attacco. Per questo ora si parla tanto di nucleare (contando sull’illusione che la tecnologia migliore sia americana e francese), si attaccano da ogni parte le rinnovabili (senza mai citare la vera ragione). Nel momento in cui si passa all'economia di guerra non si può certo comprare dal nemico.
Quale la nostra agenda in questo tragico bivio? Sono convinto che la ricerca di una soluzione che non sia subalterna a questa costante ricerca dell’emergenza distrattiva, ma neppure alla sua semplice negazione oppositiva debba passare per i seguenti nodi:
- - Ripensare l’Occidente in una comprensione multipolare e pluriculturale, che consapevolmente conduce a termine, nello spirito e nel concetto, la fase del dominio dell’ultimo mezzo millennio. Pensarsi eguali e non superiori.
- - Immaginare la modernizzazione come cooperazione e non come lotta. Come confronto con l’Altro e la sua via, come pluralità di sentieri.
- - Accogliere l’Altro come dono e non come un medesimo incompleto, superare l’autismo di una cultura incapace di guardarsi come parte del mondo, ma che si pensa come l’unico e vero mondo.
- - Scegliere la traiettoria di uscita dalla trappola della finanziarizzazione che non comporti la distruzione del mondo. Che utilizzi il Grande Governo per impiegare il capitale sovrabbondante (e per lo più nominale o ‘fittizio’), sottraendolo al controllo di pochi, per nuovi cicli di investimento e distribuzione.
- - Non farsi arruolare dai grandi giochi del capitale. Dal continuo gioco degli specchi, per il quale il nemico del GCI, viene venduto come il nostro.
- - Unire le periferie.
- - Porre la questione di “cosa” e “perché” produrre.
- - Per quale uomo e quale vita.
Note
(1) Se dico ‘comincia ad affacciarsi’ intendo proprio che gli eventi degli ultimi anni sembrano materializzare lo spostamento emozionale dalla ricostruzione/rigenerazione che informa il periodo terminale degli anni Novanta, sincrono con l’ascesa dei nuovi competitori (ma quando non erano percepiti come minaccia, quanto come opportunità per riavviare o potenziare un ciclo economico e di modernizzazione), alla sconfitta/distruzione di un nemico esistenziale che è, contemporaneamente, anche un barbaro.
(2) Si veda “La fine della modernità. Logiche della dipendenza e dei sistemi-mondo”, Tempofertile 26 aprile 2024
(3) Se pure non attribuibile al testo di Marx, quanto alla sua ricezione.
(4) Uso questo termine nella tradizione di ricerca della “Scuola del sistema mondo”, oggetto del mio libro del 2020, Dipendenza, per Meltemi.
(5) Effetto della carenza di domanda aggregata creata da una distribuzione delle risorse che finisce per spostarle verso la finanza interconnessa.
(6) Un eccesso di capacità produttiva che trova senso solo nella domanda esterna, determinando gli squilibri produttivi, commerciali e quindi finanziari che stanno squassando il mondo (da ultimo determinando anche i flussi migratori).
(7) Sul piano tecnico gli attriti sono ridotti dalla completa dematerializzazione del capitale, su quello tecnico dalla infrastruttura, enormemente energivora, della gestione dell’informazione, su quello normativo dalla deregolazione e dalla uniformazione.
(8) La simmetrica soluzione al sottoconsumo ed alla sovracapacità (ovvero il riequilibrio della estero-flessione, come dice ad esempio Dani Rodrik) è resa necessaria dall’equilibrio contabile d’area. Altrimenti l’investimento in un’area non riassorbirebbe i sottoconsumi, traducendosi in aggravamento della crisi fiscale e ulteriore estero-flessione e ipertrofia delle “periferie”. Lo schema porterebbe solo a maggiore finanziarizzazione ed aggravamento della crisi, quindi dello “stato di consolidamento” (Streeck) nel medio periodo. In altre parole, è un vincolo di “sistema mondo”.
(9) Per una delle migliori analisi di questi fenomeni, in un quadro categoriale keynesiano, si veda Massimo Amato, Luca Fantacci, Fine della finanza, Donzelli 2009.
(10) https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2024/01/Rapporto-OXFAM-Disuguaglianza_il-potere-al-servizio-di-pochi_15_1_2024.pdf
(11) “Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono”. Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, libro III, p. 350
(12) Uno dei modi attraverso cui gli agenti economici reagiscono a questa tendenza è l’espansione del sistema-mondo allo scopo di trovare “terre vergini” nelle quali siano presenti opportunità più convenienti. Naturalmente anche in queste espansioni la legge dei rendimenti decrescenti resta all’opera e, pur contrastata da possibili guadagni di efficienza, riarticolazioni e ottimizzazioni tecniche, alla fine determina un “ristagno” (Hicks). Questa fase è caratterizzata da sovrabbondanza di capitali liberi (“crisi di sovraccumulazione”) ed è anche, e forse soprattutto, caratterizzata da un inasprimento della lotta concorrenziale per l’impiego del capitale mobile (e la sua attrazione). In questa fase i detentori del capitale lottano per allocarlo in usi “accettabilmente” redditivi, in condizioni di abbondanza del primo e scarsità dei secondi. D’altro lato gli utilizzatori (che sono spesso gli Stati, che ne necessitano per i loro usi acuiti dalle tensioni della fase) lottano per attrarli a condizioni meno onerose.
(13) Alla base del modello è l’idea (di Adam Smith, prima che di Marx) che ceteris paribus la continua espansione delle attività produttive, con il crescere della competizione, debba portare ad un calo del saggio di profitto e, nella versione dell’ultimo, ad una stagnazione dei salari reali e conseguente crisi di domanda (che ostacola i rapporti di produzione sociali, generando la contraddizione essenziale).
(14) A sua volta determinato per via di concorrenza.
(15) Storicamente, nei vari cicli di accumulazione caratterizzati da una successione di fasi queste “lottavano contro i rendimenti decrescenti prendendo in prestito tutto il capitale possibile, e investendolo per conquistare con la forza i mercati, territori e popolazioni”.
(16) Giovanni Arrighi, Beverly Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori, Torino 2003 (ed. or. 1999).
(17) Ivi, p.30
(18) Vedi Hyman Minsky, Keynes e l'instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1981 (ed. or. 1975).
(19) https://openinframap.org/#2/20.59/-2.55
(20) “Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo”, Tempofertile, 19 marzo 2019. -
(21) Per questo la classica analisi di Streeck “L’ascesa dello stato di consolidamento europeo”.
(22) Chiamo "Piattaforma tecnologica" un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio determinati da gruppi di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati. Una “Piattaforma Tecnologica” è sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).