Lettori fissi

sabato 10 agosto 2024

 PER COSTRUIRE  IL SOCIALISMO DEL SECOLO XXI  
NON SERVE RILEGGERE IL PASSATO CON VECCHIE CATEGORIE
MA ANALIZZARE IL PRESENTE DA PROSPETTIVE INEDITE

IN MERITO A UNO SCAMBO EPISTOLARE FRA IL SOTTOSCRITTO E GLI AMICI DEL FORUM ITALIANO DEI COMUNISTI 


Da qualche tempo gli amici del Forum italiano dei comunisti mi hanno inserito in una loro mailinglist. Qualche settimana fa mi hanno inviato un file che contiene un libro di Roberto Gabriele che ha lo stesso titolo del mio blog (lo potete scaricare al seguente indirizzo). Mi hanno chiesto di darne un giudizio critico e di stendere eventualmente una prefazione (o una postfazione) in vista della pubblicazione che, se ho ben inteso, è prevista dopo l'estate in corso. Ho letto con attenzione il testo in questione, tuttavia, a mano a mano che procedevo nella lettura sono passato da una benevola aspettativa (dovuta al fatto che gli amici del Forum, rispetto alla galassia dei partitini, gruppi e gruppuscoli neocomunisti residuati dallo sfascio di PCI, PdRC e cespugli vari, hanno almeno il merito di rifiutare la scorciatoia di una illusoria riaggregazione per sommatoria dell'esistente), a una profonda irritazione, dovuta al fatto che, ancora una volta, l'attenzione si concentra prevalentemente sul passato alla ricerca di errori e tradimenti e di un mitico "filo rosso" che marcherebbe la continuità di un genuino orientamento comunista dal Manifesto del 1848 ai giorni nostri. Sull'onda di tale irritazione ho risposto all'invito di cui sopra con la mail che riproduco quasi integralmente qui di seguito (solo con qualche minima correzione e integrazione). 


(...) ho la sensazione che tutti voi di area neo-post comunista leggiate poco o almeno con poca attenzione le cose che vado scrivendo sul blog e/o sui miei libri. Altrimenti vi sareste resi conto che sono lontanissimo dal taglio memorialista-nostalgico di approcci come quello di Gabriele (e di molti, ahimè quasi tutti, gli altri amici del giro). Per essere brutalmente franco e per semplificare al massimo: 

1) non credo più da tempo che esista qualcosa come il socialismo “scientifico” di cui si parla nel libro. Lukacs, Gramsci e molti altri (come il benemerito, almeno sul tema in questione, Preve) hanno chiarito una volta per tutte che quella di Marx (meno quella di Engels) è una filosofia della prassi che non pretende di desumere presunte “leggi” del processo storico (Marx lo ha esplicitamente negato in varie occasioni e Lukacs vi ha calato sopra la pietra tombale nel suo capolavoro L'ontologia dell'essere sociale).  Ogni altra opinione in merito è ciarpame scientista e positivista, a partire dalle oscene teorizzazioni di Stalin sul cosiddetto materialismo storico e dialettico. Il metodo marxiano consente di cogliere
“tendenze” non “leggi” nel processo storico e di definire “possibilità” e non previsioni, né tanto meno certezze, in merito a processi storici che sono largamente contingenti e imprevedibili;

2) Quando sento parlare dello sviluppo delle forze produttive come condizione “oggettiva" imprescindibile per la transizione al socialismo metto mano alla pistola, dato che la cruda realtà (TUTTE le rivoluzioni socialiste vittoriose sono avvenite in paesi “arretrati” e
TUTTE quelle sconfitte in paesi industrialmente avanzati) impone di buttare a mare questa idiozia; 

3) non esiste una sorta di filo rosso che vada dal Manifesto del 1848 alla rivoluzione russa del 17 a quella cinese del 49 al dopo Mao: quella storia è fatta di infinite contraddizioni,
errori, conflitti (di classe e non solo ideologici) avanzate, ritirate, disfatte, vittorie ecc. da cui non si possono estrarre  giudizi e valutazioni univoche 

4) quanto a Lenin: manca  la consapevolezza del suo approccio ERETICO e non restauratore dell’ortodossia marxista, che è poi ciò che gli ha consentito di vincere nel 17, così come manca una seria riflessione sul significato della NEP, sulla difesa del capitalismo di stato come fase necessaria della transizione e altre cose che rendono il pensiero di Lenin  inassimilabile al rigido e rozzo schematismo staliniano; 

5) infine non ne posso più di ricostruzioni della catastrofe comunista come effetto del tradimento revisionista (il 56 di Krushev, la svolta di Berlinguer, ecc. mentre su Togliatti si tende perlopiù a sorvolare). Sarebbe piuttosto ora di capire CHE COSA HA RESO POSSIBILI QUEI COSIDDETTI TRADIMENTI, per riflettere su difetti che stavano nel manico…

Insomma l’intera teoria rivoluzionaria è da ripensare guardando assai più a ciò che è avvenuto nel secondo dopoguerra nel resto del mondo, piuttosto che nella nostra miserabile Europa 

Carlo Formenti

* * *

Mi rendo conto che il lettore del blog, non avendo letto il testo di Gabriele (cosa che può fare seguendo il link sopra riportato) può sentirsi spiazzato dall'asprezza della mia critica. Tuttavia potrà meglio afferrare l'oggetto del contendere prendendo visione della doppia replica a firma, rispettivamente, di Paolo Pioppi e dell'autore del testo da me criticato, Roberto Gabriele, nonché della mia successiva controreplica


La mail di Pioppi 

Caro Formenti,
ti ringrazio della tua risposta che ho girato a Gabriele che probabilmente vorrà rispondere a modo suo. Per quanto mi riguarda non mi turba la franchezza né i toni da sfogo di cui ti scusi che sono anzi benvenuti se servono a dissipare gli equivoci. Ed equivoci mi sembra che ce ne siano parecchi, visto che ci metti nel mucchio dei neo-post comunisti o dei cultori di una sterile ortodossia, cioè di quelli che sono sempre stati bersaglio delle nostre critiche.
Ho letto con attenzione (quella certo limitata di cui sono capace) i tuoi due volumi su guerra e rivoluzione e non è certo un caso se ho chiesto a te di leggere ed eventualmente commentare il libretto che vogliamo stampare. Penso invece che tu ti sia limitato ad ‘annusare’ il nostro scritto con un approccio pregiudiziale che ti fa percepire la puzza di cose che non ti piacciono.
Il nostro scritto infatti cerca di mettere il dito non sulla continuità di una inossidabile dottrina ma al contrario proprio sulla necessità di spiegare i momenti di rottura sia nell’URSS (sottolineando che non basta denunciare revisionismo e tradimenti, ma bisogna anche spiegare perché hanno avuto il sopravvento) sia in Cina, dove polemizziamo con la tendenza a passar sopra ai conflitti e alle clamorose contraddizioni attraversate per arrivare alla situazione attuale, limitandosi a fare i propagandisti del socialismo con caratteristiche cinesi come se questo di per sé risolvesse i problemi che abbiamo di fronte in Italia (tipico il ruolo assunto da Marx XXI in questo senso).
Vedi Formenti,
noi non siamo analfabeti e qualche lettura l’abbiamo fatta, però non siamo accademici e può darsi, anzi è sicuro, che qualche espressione utilizzata non sia stata sufficientemente chiarita. E’ il caso dell’espressione “socialismo scientifico” che tanto ti scandalizza  ("non credo più da tempo - scrivi - che esista qualcosa come il socialismo ‘scientifico’ di cui si parla nel libro"). Sicuramente quell’espressione, che aveva un senso ben preciso di contrapposizione all’utopismo, che peraltro viene anche valorizzato da Marx come precursore, va storicizzata, anche alla luce dell’ambiguità della scienza oggi in piena luce. Però Marx è stato un grande scienziato, come tale mai soddisfatto delle conclusioni raggiunte e come altri grandi scienziati ha lasciato un’eredità da cui è impossibile prescindere per chi cerca di comprendere il processo storico in atto. Forse è meglio parlare di materialismo storico, come propone già nel titolo il nostro libretto, analizzando sotto questa luce la storia del movimento comunista internazionale o perlomeno facendo l'elenco ragionato delle questioni da affrontare. Il tutto non con spirito nostalgico, ma con l’occhio al presente e alle contraddizioni attuali, come testimoniano le ultime 20 pagine sulle prospettive del socialismo nel XXI secolo e il post scriptum.
Con Gramsci e Labriola puoi chiamare se vuoi il materialismo storico "filosofia della prassi" cioè della produzione umana collettiva non solo dei beni materiali ma anche di tutti gli aspetti sovrastrutturali della società. Più semplicemente noi abbiamo sottolineato nel primo capitolo la coesistenza in Marx dello scienziato e del rivoluzionario e seguito nei capitoli successivi gli sviluppi, certo non lineari, di questa attenzione al reale e alle sue contraddizioni e dell'essere insieme rivoluzionari, che manca in alcuni prestigiosi 'marxisti', e accompagna invece soggettivamente i protagonisti attivi e creativi della grande trasformazione del modo di produzione capitalistico del quale Marx scienziato aveva saputo individuare le caratteristiche di fondo e la caducità. In questo c'è, eccome, un 'filo rosso' da riscoprire e non per nostalgia di un irripetibile passato.
In questo passato c'è, e occupa un posto di grande rilievo, Stalin. Nelle tue parole, sia pure con il beneficio d’inventario della calura agostana e di altri problemi, si avverte grande disprezzo per la sua figura, e in questo non fai nessuno sforzo di presa di distanza dal mainstream. Ebbene noi non siamo mai andati in giro con le icone di Stalin, così come col libretto rosso di Mao. Quella di "stalinisti" del resto è un'etichetta che di solito viene appiccicata ad libitum dagli avversari e ormai è spesso sostituita senz’altro da quella di "comunisti". Noi abbiamo applicato un metodo diverso, ponendo ad ogni passaggio la questione delle diverse possibilità che si presentavano concretamente e della giustezza o meno delle scelte compiute per le quali, come sempre avviene nella storia, non esistevano risposte prefabbricate. Questo metodo va applicato tra l'altro anche per la questione della NEP in cui qualcuno crede oggi di vedere la soluzione di tutti i problemi della rivoluzione, senza considerare le controindicazioni e scordandosi tra l'altro che la Cina è partita avvantaggiata dall'esperienza sovietica. Quanto ai trotskisti, sempre pronti a montare in cattedra, e scontando il fatto che gli epigoni di Trotski sono anche peggio dell’originale (leggere per credere gli spropositi attuali sul sionismo), ci immaginiamo cosa sarebbe successo della rivoluzione russa se Lenin nonostante tutto non fosse riuscito a prevalere su Trotski (e sugli altri tra cui Bucharin) sulla pace di Brest?....

Paolo Pioppi

(mi scuso con Pioppi se non ho riportato anche l'ultimo paragrafo della sua mail, ma i suoi contenuti erano irrilevanti rispetto ai temi della discussione)


UNA MESSA A PUNTO SUL COMUNISMO REALE

risposta a una lettera di Carlo Formenti


Di fronte al carattere 'eretico' della mail inviata da Carlo Formenti in risposta alla nostra richiesta di scrivere una prefazione all’opuscolo 'Per una interpretazione materialistica della storia del movimento comunista' siamo costretti a fare una difesa d'ufficio del movimento comunista così come noi lo intendiamo, anche se questo rafforzerà in lui l'idea del carattere 'memorialistico-nostalgico' della nostra posizione.

Non vogliamo lanciare anatemi - non è questa la fase - ma ribadire con forza una posizione, che peraltro ricorre in tutto il testo del nostro opuscolo, che ci sembra l'unica che possa darci la chiave interpretativa dell’attuale fase storica e insieme   anche fornire ai comunisti la lucidità di affrontare i drammatici avvenimenti che sono di fronte a tutti. 

Andiamo alla sostanza delle questioni poste da Formenti. Esiste un ‘socialismo scientifico’ a cui i comunisti possono fare riferimento per capire le contraddizioni del capitalismo e impostare la loro strategia? Formenti sostiene di no e introduce il concetto di 'tendenze' e non di 'leggi' rispetto a come Marx ha definito la questione. Possiamo pure passare il tempo a disquisire su questo, ma per noi è la sostanza che prevale sulla forma. In altre parole, non esiste un movimento comunista che non basi la sua azione su una interpretazione scientifica dei fenomeni storici su cui fondare la propria strategia.

Che cos'è il Manifesto del 1848? Che cos'è Il Capitale in cui Marx analizza la dinamica del sistema capitalistico? Cos'è infine la concezione materialistica della storia a cui Marx ed Engels hanno dedicato parte delle loro opere? Per noi questa è la  base scientifica su cui poggia la continuità del movimento comunista e, pur criticando gli schematismi interpretativi che hanno caratterizzato la fase emmellista di almeno una parte dei movimento comunista, ribadiamo con Lenin che ‘senza teoria nessuna rivoluzione è possibile’ e le fonti della teoria per noi sono quelle che abbiamo citato.

Col secondo punto della sua risposta ci sembra che il compagno Formenti abbia fatto un vero e proprio scivolone interpretativo, equivocando sul senso di ciò che abbiamo scritto e finendo per fare affermazioni che non reggono all'analisi dei fatti.

Ci riferiamo a quella parte della lettera in cui dice che gli viene la voglia di portare la mano alla pistola quando sente parlare di sviluppo delle forze produttive come condizione del passaggio al socialismo, dal momento che le rivoluzioni socialiste vittoriose hanno avuto luogo, senza eccezione, in paesi “arretrati” e certamente non nelle punte avanzate dello sviluppo. Quindi, sembrerebbe dire Formenti, che c'entra la rivoluzione con lo sviluppo delle forze produttive?

Dov'è dunque l'abbaglio?  Formenti dimentica due cose: l’esperienza cinese e la natura della crisi che ha portato al crollo del socialismo in URSS e nei paesi socialisti europei. Ambedue pongono, eccome, la questione delle forze produttive. Nel caso della Cina è più che evidente che la sconfitta della rivoluzione culturale e la vittoria di Deng Xiaoping sono avvenute proprio sulla questione dello sviluppo delle forze produttive, cioè sul modo di accelerare un processo di crescita economica che diventava decisivo per la sopravvivenza del socialismo. D'altro canto, per quanto riguarda l'URSS e i paesi socialisti europei, il crollo è avvenuto per l'incapacità del gruppo dirigente del PCUS di avviare quelle trasformazioni che potevano essere in grado di bloccare una crisi interna che ha portato poi alla controrivoluzione.

I fatti storici hanno dimostrato che, in presenza di un polo imperialista molto attivo, la questione dell'equilibrio economico con il sistema capitalistico egemonizzato dagli USA è una delle sfide decisive per i comunisti che sono al potere se vogliono costruire il socialismo. Non solo, ma la forza economica della Cina e la rete dei Brics sta scavando la fossa all'imperialismo occidentale a guida americana. C'entra tutto questo con lo sviluppo delle forze produttive?

Formenti se la prende con coloro che attribuiscono la crisi del movimento comunista ai ‘tradimenti’ di Krushev, Togliatti, Berlinguer e quant’altri e sostiene che bisognerebbe invece guardare alla situazione oggettiva per capire quei tradimenti. Peraltro, aggiunge, bisognerebbe anche distogliere lo sguardo dalla nostra 'miserabile Europa' e capire ciò che è avvenuto e sta avvenendo nel resto del mondo.

Ebbene, intanto - e questo nell’opuscolo è ben sottolineato - non siamo tra quelli che si accaniscono sul termine ‘revisionismo’, fattore puramente ideologico, nell'interpretazione dei fatti storici di cui stiamo parlando. Infatti, aldilà degli anatemi, bisogna contestualmente spiegare perché l'URSS è crollata e il PCI si è autoliquidato. In tutto questo ovviamente c'entra anche la responsabilità dei Krushev o degli Occhetto, come anche il  riconoscimento che, aldilà delle cause oggettive, bisogna parlare di controrivoluzione, come in Francia a suo tempo si parlò del Termidoro.

Non si può passare oltre a queste cose guardando da un'altre parte e riprendere il discorso sulla rivoluzione comunista da zero. Bisogna guardare all'insieme del processo storico che i comunisti hanno attraversato e ritrovare il ‘filo rosso’ della loro azione nella lotta per la trasformazione sociale.

Quello che è avvenuto in questa 'miserabile Europa' negli anni'90, ad Est come ad Ovest, interessa tutto il movimento comunista, non solo per le conseguenze che ne sono derivate, ma per il fatto che si tratta di un punto critico dello sviluppo del movimento comunista, con cui fare i conti proprio rispetto all'analisi teorica.

Per concludere, non meniamo scandalo per la lettera di Carlo Formenti e pensiamo che sui temi a cui fa riferimento dobbiamo ritornarci sopra e confrontarci, data anche l'assenza di discussione nell'area comunista. Senza però perdere la bussola, che per noi è rappresentata dall'esperienza storica del movimento comunista e dalle elaborazioni teoriche che l'hanno accompagnata. Dai critici del movimento comunista reale aspettiamo ancora una dimostrazione pratica dell'efficacia della loro azione. Perciò ci atteniamo a Hegel quando afferma che il reale è razionale.


Roberto Gabriele



LA MIA CONTRO REPLICA


Non dobbiamo “perdere la bussola”? Magari l’aveste persa anche voi, come io mi sforzo di fare da qualche anno con i miei modesti mezzi intellettuali, assieme a pochi altri sopravvissuti al naufragio del comunismo occidentale! Se infatti la bussola con cui vi orientate è quella che traspare dai vostri scritti, cari amici e compagni, posso solo invitarvi a buttarla a mare. Ma vediamo alcune questioni di fondo (schematicamente, perché non posso riscrivere le centinaia di pagine che ho dedicato al tema). 

Prima però alcuni riferimenti che ritengo imprescindibili per chiunque voglia ragionare sulla realtà storica che ci troviamo di fronte: 1) Lukacs (non quello di “Storia e coscienza di classe”, che lui stesso ha liquidato con la battuta “allora ero più hegeliano di Hegel”, bensì quello del capolavoro “Ontologia dell’essere sociale”); 2) Arrighi (tutti gli ultimi scritti, ma in particolare “Adam Smith a Pechino”) 3) qualcosa di Preve (quello dell’84 non quello sul comunitarismo); qualcosa di Losurdo (non quello che ha scritto che i comunisti dovrebbero imparare dalle cose migliori del liberalismo); 4) Zhok (vedi la “Critica della ragione liberale); 5) Visalli (vedi l’analisi delle teorie della dipendenza da Baran-Sweezy al quartetto  Amin, Arrighi, Wallerstein, Frank); 6) alcuni scritti di Vladimiro Giacché sulla transizione al socialismo; infine volendo immodestamente auto citarmi, i miei scritti su Lukacs (in particolare “Ombre rosse” e l’introduzione alla nuova edizione dell’Ontologia). Ciò posto (ovviamente non è mia intenzione indurvi a leggere quanto appena elencato,  che serve solo a rendere più chiaro, ove interessi, il mio punto di vista) procedo per punti.


Senza teoria niente rivoluzione? Certo, basta intendersi sul significato del termine teoria…Perché se per teoria si intende il cosiddetto “socialismo scientifico” non metto forse le mani alla pistola ma sicuramente le metto nei capelli. Allora: non credo che esistano una scienza borghese e una scienza proletaria (gli scienziati sovietici che lo pensavano hanno partorito mostri come le teorie di Lysenko sull’evoluzione). La scienza moderna è una ed è un  miscuglio inestricabile di conoscenze oggettive sul mondo e di interessi di classe che, in molti casi e recentemente in misura crescente, inficiano in tutto o in parte quelle conoscenze. Dopodiché Lukacs e altri hanno chiarito una volta per tutte che il pensiero di Marx non fa parte della scienza in questione (ne fanno semmai parte le sue interpretazioni di stampo illuminista-positivista, particolarmente in campo economico). 


L’unica scienza riconosciuta daMarx, scrive Lukacs, è la storia. Ma attenzione non si intende qui quell’obbrobrio staliniano che è il diamat (materialismo storico e dialettico) che ha partorito l’altra scemenza dei “cinque stadi” (per inciso questo è stato il prodotto – purtroppo complice Engels – dell’ambizione di costruire una “scienza unificata” di storia, natura e società), per cui è esclusa a priori l’idea dell’esistenza di qualcosa come la “necessità” storica (le cosiddette leggi storiche): l’analisi storica non fa previsioni a priori sul futuro ma scopre a posteriori le dinamiche (le tendenze) che hanno prodotto determinati esiti del processo storico (per inciso Marx, in una lettera polemica al recensore russo del Capitale, ha esplicitamente negato di aver voluto individuare le leggi universalmente valide del processo storico: il testo è riportato nell’antologia “India, Cina Russia” pubblicato nel 1960 dal Saggiatore). 


Se poi volessimo estrarre dal Manifesto del 48 la descrizione di simili leggi peggio mi sento: si tratta di un testo ultra datato e pieno di previsioni clamorosamente sbagliate (la riduzione delle classi al binomio capitale e lavoro, la negazione del potenziale rivoluzionario delle masse contadine, la teoria dell’impoverimento progressivo e, last but not list la globalizzazione: la tesi che entusiasma gli apologeti dell’impero a stelle e strisce alla Negri ma che l’indiscutibile inversione di tendenza in atto sta falsificando). Tale giudizio potrebbe essere esteso a molti altri testi canonici, ad eccezione di gran parte del Capitale. 


Il punto è che Marx non era “marxista”, non era cioè scienziato e in fondo (checché ne dica Preve che gli dà addirittura la patente di idealista) non era nemmeno un filosofo (vedasi le glosse a Feuerbach), la sua era piuttosto (gli ultimi a capirlo in Italia, prima che lo ribadisse Lukacs, furono Labriola e Gramsci, da aggiungere all’elenco di letture di cui sopra) filosofia della prassi  che sfuggiva all’opposizione metafisica fra idealismo e materialismo ma leggeva la realtà concreta  in funzione della lotta di classe. Per cui era disponibile ad riformulare di volta in volta la teoria in base a  tale analisi concreta (vedasi l’ipotesi, in totale contrasto con precedenti affermazioni, della possibilità di una transizione diretta al socialismo delle comunità contadine russe senza passare dalle forche caudine del capitalismo, ripresa dai marxisti latinoamericani e africani per valorizzare il potenziale anticapitalista di certe comunità originarie: cfr. Linera, Dussel, Cabral, ecc.).


Passiamo alla questione delle forze produttive qui è curiosa la vostra lettura dei “fatti” (i quali, notoriamente, se osservati con gli occhiali sbagliati danno esiti alquanto bizzarri). I fatti ci dicono che delle teorie di Marx ed Engels sulla transizione al socialismo (vedasi  ciò che ne scrive Giacché) non resta oggi pietra su pietra. In primis resta il “fatto” che nessun paese industriale avanzato ha fatto (a parte i tentativi abortiti del primo dopoguerra) la rivoluzione (perché i rispettivi proletariati sono stati felicemente integrati dal sistema), mentre questa è avvenuta negli “anelli deboli” (Lenin docet) ed ha avuto come protagoniste le larghe masse contadine alleate a proletariati in formazione e piccole borghesie urbane. 

Dopodiché cosa ci dice il successo cinese? Ci dice che per reggere all’impatto dell’accerchiamento capitalistico è stato necessario reintrodurre il mercato, e non solo nelle campagne, ma anche nella grande industria. La società cinese è oggi una società di mercato, in cui lo stato-partito mantiene il controllo sulla finanza e su alcuni settori chiave e impedisce alla borghesia di accedere al potere politico. Si tratta di un sistema misto storicamente del tutto inedito, che nessuno aveva previsto e che il solo Arrighi ha iniziato ad analizzare seriamente (valorizzando le specifiche caratteristiche storico-culturali della nazione cinese). Lenin aveva avuto intuizioni analoghe ai tempi della NEP (sviluppate solo in parte dato che la situazione socioeconomica russa era assai diversa da quella cinese di mezzo secolo dopo). Non ho qui spazio per ragionare sulle analogie con gli esperimenti  delle rivoluzioni bolivariane e di quelle nelle colonie portoghesi.


E l'Unione Sovietica? Credete seriamente che il crollo sia stato dovuto al fatto che ha perso la corsa allo sviluppo delle forze produttive con l’occidente capitalistico? La rapidità con cui è emersa una società ombra che ha rapidamente assunto il controllo della nazione, dell’economia, della cultura, ecc. non vi suggerisce alcunché? Certo si è trattato di controrivoluzione, ma non di un golpe di burocrati e revisionisti venduti, non esiste controrivoluzione senza radici di classe! Le classi in Russia, malgrado le rimozioni del regime, non sono mai sparite e le classi borghesi hanno sfruttato gli interstizi del sistema per preparare la propria rivincita, che hanno celebrato non appena ne hanno avuto l’occasione (regalatagli da una classe dirigente incapace di leggere la composizione sociale e le dinamiche del proprio paese). 


Sorvolo su Stalin (il merito di avere sconfitto il nazismo lo darei piuttosto all’eroico patriottismo del suo popolo e all’abilità dei generali sopravvissuti alle sue purghe) perché non credo che la sua “opera” offra seri spunti di discussione teorica. Ça suffit per ora (mi sono dilungato fin troppo), concludo dicendo che temo non vi siano “fili rossi” da recuperare e che non concluderemo alcunché se non riconoscendo che siamo all’anno zero e che il compito più urgente non è scrutare nel passato, perché non vi troveremo risposte per  le concretissime e terribili sfide che abbiamo di fronte, ma analizzare il presente con strumenti nuovi.


Carlo Formenti

domenica 28 luglio 2024

Circa Trump

di Alessandro Visalli


Ho chiesto all'Amico Visalli il permesso di rilanciare questo suo articolo, già apparso sul suo  blog, perché mi è parso un eccellente contributo per chi voglia leggere la campagna presidenziale americana con sguardo disincantato e con attenzione ai reali schieramenti in campo e agli interessi in gioco. Buona lettura
Carlo Formenti   



Incombe la fase finale delle elezioni americane. Ogni quattro anni viene riproposto questo spettacolo dai toni profondamente religiosi del duello tra ‘messia’. Un giudizio di dio accuratamente imbastito da mani sapienti. Con gran rullo di tamburi, il “popolo” viene chiamato a scegliere quale frontman si dovrà fare carico di rappresentare la disgregazione che nutre il cuore dell’impero occidentale. Esiste, probabilmente, un nesso funzionalmente necessario tra questa disgregazione e la ciclica riproduzione di una guerra civile ritualizzata capace di fornire l’alias di un sistema di valori comunitari rispettivamente orientati gli uni contro gli altri. L’assenza di autentici elementi di connessione comunitaria, in un ambiente ultra-frammentato sotto ogni profilo, e nel quale la promessa della prosperità (unico sostituto plausibile della salvezza ultramondana nella quale collettivamente non si crede più) per troppi si allontana generazione dopo generazione, rende, in altre parole, necessario per poter funzionare quanto basta da conservare il proprio auto-attribuito ruolo mondiale, che sia messo in scena un sostituto. Ed allora si cerca la salvezza mondana non già nell’identificazione di nemici collettivi scelti dall’effettiva gerarchia sociale operante (ovvero, in quello che una volta si chiamava il ‘nemico di classe’), quanto in presunti nemici della ‘nazione’. Nemici, che sono, insieme all’identificazione di ciò che è la ‘vera’ nazione, interni e trasversali. 


Contro questi si alza un messia. 


Chiaramente ogni quattro anni, puntualmente, ci viene raccontato con grande spesa e fine capacità retorica che la scelta è epocale. Si tratta invero di designare l’anticristo o il vero messia. Colui (o colei) il quale porterà il bene e la pace al mondo, colui che comprende e riunisce in sé tutto l’essenziale e individua il punto cruciale e dirimente. Punto che sarebbe il conflitto tra il ‘capitalismo industriale’, del quale sarebbe campione Trump, e quello ‘finanziario’ e della ‘new economy’, che sarebbe appannaggio dei democratici e quindi della Harris. Il primo, stranamente, ‘pacifista’ ed il secondo ‘guerrafondaio’. Ancora, opposti sul crinale della guerra simbolica tra tradizionalisti e ‘woke’.


Premesso che, come si sarà capito, io ‘passo’, ritengo che le cose siano altrimenti.


Andando alla struttura, tutto lo spettacolo, ed anche la sua sostanziale frivolezza, nasce dalla dinamica interna della creazione del capitale come concentrazione del valore e sua mobilitazione. La concentrazione, dinamica che prende il sopravvento in sostanza da oltre centocinquanta anni all’uscita dalla crisi dell’ultimo quarto del XIX secolo (nel passaggio al cosiddetto ‘capitalismo monopolistico’ (1)), produce direttamente nelle condizioni della modernità la dialettica tra monopoli industriali e finanziari che solo apparentemente si oppongono sulla scena mondiale, restando necessariamente intrecciati come fratelli siamesi. E produce direttamente, nelle fasi in cui il sottoinvestimento necessario per l’accumulazione in forma liquida e mobile (2) del capitale raggiunge il suo limite (ovvero destabilizza eccessivamente le “metropoli”), quei riflussi che Arrighi chiamava nel loro insieme “fase territorialista” e che alimentano il tentativo di produrre la reindustrializzazione fino ad ora (ed anche questa volta) essenzialmente militare (o energetico-militare (3)). Ovvero di produrre le basi della forza nelle condizioni dello scontro materiale tra blocchi. Due guerre mondiali sono già state figlie di questo movimento che è, al contempo, scontro tra centri di potenza imperiale e tra strutture del capitale. Scontri sempre passati sopra le teste del popolo. Stiamo ora vedendo i prodromi della terza, che, però non va guardata con occhiali morali, né dritti né rovesci; una guerra che è questione di collisione tra dinamiche strutturali, non già tra ideologie.


Una retorica di un certo successo, avanzata tipicamente dalla destra nella quale ha profonde radici (4), vede in questo movimento dialettico una semplice opposizione binaria tra industria e finanza, e tende a leggerla in chiave morale. La prima sarebbe il regno dei ‘produttori’ (indipendentemente dalla posizione rispetto al capitale); ovvero di chi, con il sudore delle proprie mani e mettendo all’opera il proprio ingegno, crea l’effettiva ricchezza. La seconda sarebbe la sentina dei mestatori e speculatori; dei pochi e malsani che speculano dalle loro alti torri (a New York o Londra), per sottrarre la sudata ricchezza ai tanti e giusti. Una rappresentazione chiaramente intrisa di teologia che ha l’enorme vantaggio di spiegare in modo semplice il dolore del mondo e fornire un’economica spiegazione del male (ovvero di produrre una teodicea). Abbiamo i ‘figli della luce’ contro i ‘figli delle tenebre’, i ‘tanti’ contro i ‘pochi’. I secondi sono chiaramente dediti a complottare e manipolare il mondo, agendo dietro le sue spalle nel chiuso dei loro rifugi. In genere, nella versione originale sono ebrei o, comunque, consorterie chiuse e oscure.

Questa narrativa sperimentata e potente fornisce la sua forza a numerose declinazioni del tema. Avremmo quindi “due capitalismi”, oppure una ‘parte sana’ del paese che è sacrificata all’altare del denaro fine a se stesso; quindi e necessariamente delle ‘èlite’ che sfruttano e manipolano il mondo, infine un “deep-state” che controlla tutto dietro le quinte. 


Nulla è mai così semplice e chiaro. Il capitalismo è un movimento diseguale e plurale che si nutre ed esiste nella dialettica spaziale e nello scontro, almeno potenziale, tra gli interessi delle classi e dei sistemi economici. In particolare, è qualcosa che attraversa tutti. Determina necessariamente e costantemente tendenza a creare e sfruttare dipendenze e quindi a livello globale relazioni coloniali e imperiali. Non si tratta di volontà di questo o quel frontman, si tratta di una assoluta necessità interna. D’altra parte, non si diventa frontman del Grande Spettacolo se non si sono profondamente interiorizzate le necessità vitali del sistema che si va a servire. Necessità di riproduzione interna dei funzionamenti gerarchici e della estrazione del surplus, ed esterna di dominio ed estrazione coloniale.


‘Sistema’ che, attenzione, non è certo diviso in Repubblicani o Democratici, quanto in infinite linee di faglia, a geometria variabile ed in continuo movimento; faglie che i diversi attori per diventare élite devono imparare a cavalcare, spesso contemporaneamente. Biden, ad esempio, è stato un ‘democrat’ particolarmente legato all’industria (anche militare, come si è visto), cosa che non impedisce lo sia anche ad altre forze. Ma chi sta sulla tigre non può scendere, per cui deve conservare sempre le relazioni che costituiscono il potere del quale è anello.

La ‘tigre’ è rappresentabile oggi come riarticolazione del modo di produzione, sotto la spinta del mutamento della piattaforma tecnologica (5), delle strutture della vita quotidiana; motore non ultimo dell’accelerazione di quella disgregazione sociale determinata in ultimo dall’avvenuta ridislocazione in occidente del lavoro di massa verso settori a basso valore aggiunto, e quindi deboli, ed a più elevato tasso di sfruttamento. Dislocazione, prodotta quindi dalla soluzione alla crisi degli anni Settanta, che ha condotto alla concentrazione crescente dei guadagni di ricchezza su sezioni sempre minori della popolazione, avvantaggiate dalla propria posizione nei flussi di valore e nei luoghi ‘densi’ che li organizzano. Ma la ‘tigre’ è anche la crisi di sicurezza determinata dal rovesciamento in corso del rapporto gerarchico denaro-merci, cioè dalla perdita di centralità della finanza e della posizione imperiale americana, che è integralmente figlio della instabilità e delle reazioni degli attori sfidati da essa. Ovvero dell’accelerazione dello scontro finale, dalle sanzioni russe, dall’allineamento del mondo in due blocchi, la creazione di nuove strutture di interscambio e relative basi monetarie, e così via.


Senza entrare ora nei dettagli, questo assetto dinamico ed in accelerato mutamento mostra, chiunque sia il frontman, la ragione della disperata determinazione americana (ed europea) di fronte al rischio di perdere la centralità. Non si tratta affatto di dare preminenza ad una presunta ed indipendente “industria” (e poi quale?), contro i complotti di una elitaria “finanza”, quanto del rischio di non disporre più degli sbocchi controllabili e sicuri per le eccedenze di capitale che i grandi conglomerati (sempre insieme industriali e finanziari) richiedono per restare stabili (6); di cui, cioè, il capitalismo ultramonopolista contemporaneo necessita per sopravvivere. Pensare che uno dei due ‘frontman’ possa prescindere da questa struttura e ripassare d’un sol colpo nel sistema di funzionamenti segmentato e caratterizzato dall’espansione interna e la competizione tra i capitali in un contesto inflattivo autostenuto (anziché tra capitali-nazione in un contesto deflattivo, come gli ultimi cinquanta anni) ha un forte sapore di whisful thinking. Ciò in quanto quel sistema esteso che chiamiamo per comodità ‘capitalismo’ (ovvero quell’insieme di rapporti sociali, giuridici e di soggettività che si definiscono per la centralità del principio organizzativo e di ordine del ‘capitale’) è sempre composto di parti interconnesse, ognuna delle quali trova la propria struttura e organizzazione dalla propria posizione nell’insieme (7). Posizione che è sempre gerarchica e simbiontica al contempo. È per questo che non si può, se non sul piano espositivo e metodologico, distinguere tra “industria” e “finanza”. La ragione è che tutti i fenomeni economici e sociali, ed in ultima analisi anche politici e militari, trovano possibilità di essere compresi solo nell’unità complessiva delle parti in interazione. Ovvero solo dialetticamente.


Escludendo che qui si tratti della lotta tra il Bene ed il Male, il rischio che l’egemone (ed il suo protempore frontman, chiunque sia) ha di fronte è molto più grande di una semplice redistribuzione interna tra egemonie del capitale: tutto il sistema di potere angloamericano si confronta con l’incubo che si ridefinisca, dopo cinquecento anni, l’intera gerarchia delle dipendenze e dell’estrazione del surplus dentro un contesto-mondo nel quale non si è più soli. 


Può tutto questo essere colpa di Biden, della Harris (o dei Democratici neo-con) o, di converso, della minaccia portata da Trump (o dai Repubblicani non neo-con)? Può essere l’uno o l’altro, in quanto messia, la soluzione?


Mi sentirei di escluderlo, nessuno può, facendone strettamente parte, sciogliere il nodo dialettico determinato dalle condizioni sociopolitiche e socioeconomiche dell’Occidente, dominato dalla concentrazione del capitale in poche e ben sorvegliate mani, alcune decine di migliaia di imprese giganti e pochi centri finanziari, che coinvolgono direttamente ed indirettamente alcuni milioni di persone, con al “centro” qualche centinaio di grandi famiglie con patrimoni quasi illimitati. Vediamo qualche dato: l’ultimo Rapporto Oxfam mostra che le prime 150 multinazionali hanno profitti per 1.800 miliardi di dollari, simili al Pil di una delle più grandi potenze industriali, l’Italia, e che questi profitti all’80% sono andati agli azionisti e non sono reinvestiti, mentre il monte salari di 800 milioni di persone è sceso di 1.500 miliardi; o che i miliardari nel mondo (spesso azionisti delle sopradette società) hanno aumentato, nei soli ultimi tre anni, il loro patrimonio di 3.300 miliardi di dollari. Le multinazionali che stanno ‘vincendo’ sono però diverse: 14 compagnie petrolifere e del gas, che hanno triplicato i profitti fino a circa 200 miliardi di dollari; 2 marchi del lusso, con 10 miliardi; 22 società finanziarie che hanno registrato incrementi di un terzo e pari a 36 miliardi; 11 società farmaceutiche che hanno prodotto profitti per 43 miliardi. Ovvero 300 miliardi dei 1.800 di profitti (un sesto) è concentrato in 50 società. Notare i valori e le loro relazioni, le compagnie petrolifere, o farmaceutiche, non sono “industria”? E il sistema del lusso, cosa è? Considerando, più in generale, i profitti globali aziendali, un terzo è incassato da una società su centomila (0,001%), l’1% più ricco della popolazione mondiale (80 milioni di persone) possiede il 60% della ricchezza finanziaria, mentre la sola Apple ha un valore superiore al Pil della Francia. Le prime cinque società hanno un valore azionario superiore al Pil di tutte le economie africane, dell’America Latina e dei Caraibi, messe insieme. I primi tre gestori di fondi, BlackRock, State Street e Vanguard, insieme, hanno quote di controllo o ‘significativa influenza’ in asset pari ad un quinto del totale mondiale, 20.000 miliardi di dollari.


Quel che succede è molto di più di uno scontro tra una industria “buona” ed una finanza “cattiva”. Molto più semplicemente, ma radicalmente, il capitale tutto entra in palese contraddizione con l’espansione materiale dell’economia-mondo; il capitale “disimpegnato” in ogni fase finanziaria dall’espansione ulteriore di produzione e commerci, è, perciò, riciclato con profitto superiore in settori non produttivi (che sono spesso le armi). 


A questo elevato livello di astrazione si può concludere che, nella dinamica fondamentale che si genera tra la tendenza a ritirare il capitale dagli investimenti produttivi (di cui a tutta evidenza soffrono strutturalmente e da tempo i ‘centri’ sovracapitalizzati, determinando abbastanza intenzionalmente sottoccupazione e quindi sottoconsumo), a causa dell’incremento della concorrenza e la relativa scarsità di occasioni sfruttabili per un ‘adeguato’ saggio di profitto (8), e la sovrabbondanza di capitale mobile che ne è l’immediata conseguenza, c’è tuttavia lo spazio per numerosi equilibri dinamici. Gli equilibri sono determinati dalla dialettica tra occasioni di impiegare i capitali per investimenti e di metterli a frutto per rendite (DMD vs DD), entrambe soggette alla legge dei rendimenti decrescenti (relativa e non assoluta). A rendere complesso il quadro, però, non ci sono solo le diverse arene nelle quali le due scarsità (di occasioni di investimento e di occasioni di rendita) si contrappongono, ma anche attori ed organizzazioni non interessate al profitto, ma, dice Arrighi, a potere o prestigio (9). In queste “biforcazioni” si creano quindi campi instabili e turbolenti nei quali “agenti” diversamente orientati concorrono l’uno a sottrarre capitali ai circuiti produttivi e commerciali per offrirli sui mercati finanziari, gli altri a impegnarli nei primi, cercando ognuno di massimizzare il proprio potere.


Ancora, non si tratta qui di una guerra tra bene e male, quanto di interessi materiali all’opera e della complessa transizione tra sistemi d’ordine e funzionamento del capitalismo. Del quale partecipano entrambi i contendenti rituali del ‘duello’.


Se vogliamo, anzi, l’enfasi retorica che alcune forze pongono sull’industria e l’economia chiusa, in opposizione alla finanza ed alla cosiddetta ‘società aperta’ (che tale non è mai stata), nasconde la spinta a creare (o ri-creare) le condizioni della rivalsa del Grande Capitale Industriale (GCI) di tipo tradizionale (Oil & Gas e Nucleare & Militare, OGNM) verso il capitale distribuito e finanziarizzato egemone nell'avvio di millennio. Questo conflitto tra capitali (la forma standard del modo di produzione capitalista) ha, tra l’altro, una rilevante conseguenza che si inizia a vedere ed è parte del pacchetto narrativo: un allentamento delle retoriche della transizione e della modernizzazione smart e un relativo indebolimento delle relative politiche di spinta. Ovvero ha come conseguenza l’abile creazione di un clima anche ideologico di ostilità a questi temi. Ne sono espressione l'emergere di controforze solo apparentemente volte alla mitigazione degli effetti della transizione sulla vita quotidiana (OGNM ha ottime agenzie di stampa e marketing, capaci di vendere tutto a tutti) ma in realtà dirette alla conservazione degli assetti di potere esistenti ed al loro rafforzamento. Rivolte alla sostituzione di una mobilitazione con un’altra. E di una mobilitazione in effetti più immediatamente connessa con la preparazione tecnico-industriale della guerra (per cui potrebbe essere invertito l’abito del lupo e dell’agnello, o, altrimenti, essere, come è, presente nel guardaroba di entrambe le parti).


Bisogna essere chiari: entrambe le forme funzionano proprio perché sono irrazionali in termini ‘capitalistici’, ovvero non determinano ritorni sul capitale investito adeguati, e dunque si prestano a distruggere il capitale in eccesso, contribuendo a far rientrare la “fase finanziaria” ormai senza uscita (per l’Occidente). Chi accusa, quindi, la seconda forma di transizione forzata di essere irrazionale, in quanto distrugge capitale, anche fisso, o lo rende obsoleto prima del tempo (obbligandone la sostituzione) non ne capisce la funzione sistemica e inconsapevolmente appoggia l’alternativa: la pura e semplice distruzione del mondo (sperabilmente nemico). Distruzione che presuppone massiccio reinvestimento in specifiche industrie e correlate matrici energetiche.

La cosa non potrebbe essere più seria. proprio perché la posta è il controllo del mondo, ovvero l’attrazione e la ‘fissazione’ dei capitali mobili, che lo rendono instabile, e il loro impiego per guadagnare un superiore livello di efficienza. Scoperto di avere perso, dopo l’illusione coltivata per trenta anni di poter guidare la modernizzazione e la transizione, siamo quindi passati, semplicemente, dallo schema per il quale si puntava a cambiare la “piattaforma tecnologica”, certi di essere i più bravi nel gioco della tecnica, a quello in cui, scoperto che non è così (che i Cinquecento anni di dominio stanno passando), si torna alle care vecchie armature. E’ per questo che le tecnologie della transizione, prima così desiderate, sono sotto attacco. Per questo ora si parla tanto di nucleare (contando sull’illusione che la tecnologia migliore sia americana e francese), si attaccano da ogni parte le rinnovabili (senza mai citare la vera ragione). Nel momento in cui si passa all'economia di guerra non si può certo comprare dal nemico.


Torniamo quindi alla fase finale delle elezioni americane. A questo spettacolo affascinante. 


Dentro il contesto di un ampio movimento di rimontaggio sistemico del funzionamento essenziale del capitalismo esteso a livello del sistema-mondo, nel quale viviamo, abbiamo evidentemente bisogno di ridurre la complessità. A questo fine la traduzione di una complessa lotta intra-élite, che attraversa diagonalmente le strutture della riproduzione del potere, ci viene presentata come una lotta morale. 

Abilissimi centri di stampa e comitati politici costruiscono narrative compatte e scintillanti, sulla base dell’antico schema della lotta degli dei e giganti, tra il bene ed il male, i tanti puri ed i pochi oscuri e malvagi. Rispettivamente opposti. 


Per cui, radicandosi nelle tradizioni politiche rispettivamente più sentite, i ‘produttori’ si oppongono agli ‘speculatori’ (o i liberali e ‘aperti’ ai conservatori e ‘nazionalisti’), gli ‘amanti della pace’ e quelli dello scontro e della guerra (qui ognuno si vede nei primi), il ‘popolo’ contro le ‘èlite’ (oppure, nell’altra narrativa, i ‘progressisti’ contro ‘tradizionalisti’ e ‘oscurantisti’). 

Ognuna di queste posizioni, presa da sola, ha le sue buone ragioni e mi è capitato di difenderle tutte (salvo la guerra, ovviamente, quella non ha padri e madri). 


Tuttavia, qui io passo la mano. Le cose sono altrimenti e qui non ci sono messia.


Note


(1) Un’analisi del quale, inserita nella critica marxista da Hilferding a Lenin, si trova in Sweezy e Baran. Cfr. Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi Milano 2020.


(2) Specificatamente per questa affermazione teorica si veda la scuola americana di Baran e Sweezy, ricordata nel mio libro Dipendenza, del 2020. Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi, 2020.


(3) Si veda il post “Si intravede”, Tempofertile 15 giugno 2024..


(4) Si può vedere utilmente il libro di Matteo Luca Andriola, La nuova destra in Europa, Edizioni Paginauno, 2019.


(5) Intendo per “piattaforma tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi, norme e incentivi, coinvolti nell’affermazione del network di tecnologie). Una “piattaforma tecnologica” è, inoltre, sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (e in ultima analisi possibile).


(6) Uno dei modi attraverso cui gli agenti economici reagiscono a questa tendenza è l’espansione del sistema-mondo allo scopo di trovare “terre vergini” nelle quali siano presenti opportunità più convenienti. Naturalmente anche in queste espansioni la legge dei rendimenti decrescenti resta all’opera e, pur contrastata da possibili guadagni di efficienza, riarticolazioni e ottimizzazioni tecniche, alla fine determina un “ristagno” (Hicks). Questa fase è caratterizzata da sovrabbondanza di capitali liberi (“crisi di sovraccumulazione”) ed è anche, e forse soprattutto, caratterizzata da un inasprimento della lotta concorrenziale per l’impiego del capitale mobile (e la sua attrazione). In questa fase i detentori del capitale lottano per allocarlo in usi “accettabilmente” redditivi, in condizioni di abbondanza del primo e scarsità dei secondi. D’altro lato gli utilizzatori (che sono spesso gli Stati, che ne necessitano per i loro usi acuiti dalle tensioni della fase) lottano per attrarli a condizioni meno onerose.


(7) Alla base del modello è l’idea (di Adam Smith, prima che di Marx) che ceteris paribus la continua espansione delle attività produttive, con il crescere della competizione, debba portare ad un calo del saggio di profitto e, nella versione dell’ultimo, ad una stagnazione dei salari reali e conseguente crisi di domanda (che ostacola i rapporti di produzione sociali, generando la contraddizione essenziale).


(8) A sua volta determinato per via di concorrenza.


(9) Storicamente, nei vari cicli di accumulazione caratterizzati da una successione di fasi queste “lottavano contro i rendimenti decrescenti prendendo in prestito tutto il capitale possibile, e investendolo per conquistare con la forza i mercati, territori e popolazioni”.

 




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