Lettori fissi

domenica 15 settembre 2024

SE DUE SECOLI VI SEMBRAN POCHI
LA STORIA DELLA RIVOLUZIONE SECONDO TRAVERSO







A mò di premessa


A volte succede di adocchiare il titolo di un libro appena uscito e dirsi “questo lo devo leggere”. Così mi è capitato con il libro di Enzo Traverso, Rivoluzione 1789-1989. Un’altra storia (Feltrinelli). Dopodiché l’incombere di altre priorità di lettura, associate a un lavoro impegnativo di cui stavo per licenziare la versione definitiva (1), ma soprattutto l’esauriente presentazione del saggio di Traverso che ho potuto consultare sul blog dell’amico Alessandro Visalli (2), mi hanno fatto rimandare l’acquisto e poi dimenticare il proposito di effettuarlo. Tuttavia questa estate, mentre traducevo il libro di Kevin Ochieng Okoth, Red Africa (l’edizione italiana sarà in libreria per i tipi di Meltemi il prossimo novembre, con una mia postfazione), mi sono imbattuto in una citazione dell’edizione inglese del testo di Traverso, e il mio interesse si è riacceso, soprattutto perché la citazione si inserisce nel contesto di una critica – condivisa da chi scrive - nei confronti di un movimento comunista occidentale che ha pressoché ignorato il contributo delle lotte di liberazione del Sud del mondo al rinnovamento del marxismo. Dal momento che mi è parso di ricordare che anche Visalli attribuisce a Traverso interessanti spunti di riflessione sul tema, ho rimediato al mancato acquisto di un paio d’anni fa, ed eccomi dunque qui a ragionare sul contributo dell’autore all’analisi di due secoli di esperienze rivoluzionarie. 







Prima di avviare il discorso, faccio un paio di premesse per facilitare al lettore tanto la comprensione del punto di vista di chi scrive, quanto la decisione di acquistare o meno il libro. In primo luogo, devo confessare che sono rimasto piacevolmente sorpreso nel verificare che Traverso ha pubblicato un lavoro che può (anche) essere considerato una approfondita ricerca iconografica sulla produzione di simboli, immagini e figure (quadri, opere d’arte, fotografie, bandiere, manifesti, divise, ecc.) associati ai vari eventi rivoluzionari dei secoli XVIII, XIX e XX. Uno straordinario repertorio visivo che, a mio avviso, vale da solo l’acquisto del volume. Passando all’analisi storica, politica e ideologica, devo invece confessare che ho incontrato una certa difficoltà nell’organizzare le mie riflessioni critiche, dovuta al fatto che alcune idee di Traverso che sottoscrivo quasi integralmente sono intrecciate con valutazioni e giudizi che valuto insufficienti, o con i quali dissento. Questa compresenza di impressioni positive e critiche ha influito sulla struttura rapsodica del testo che state per leggere, nonché sulle ripetizioni dovute al fatto che gli stessi temi vengono affrontati da punti di vista diversi in parti diverse.



Un Marx costruttivista?


Credo che il contributo più interessante di Traverso consista nella distinzione fra due regimi di discorso distinti, se non incompatibili, presenti nell’opera di Marx. In particolare, secondo Traverso, esisterebbero un Marx “determinista”, che emerge soprattutto dai testi fondativi della critica dell’economia politica, e un Marx “costruttivista”, le cui idee si riscontrano soprattutto negli scritti storico-politici, come il 18 Brumaio e altre riflessioni sul ciclo delle lotte rivoluzionarie nella Francia del secolo XIX (3)





A influenzare la tendenza determinista del fondatore del comunismo, argomenta Traverso, ha contribuito il contesto storico in cui si è sviluppata la sua analisi del capitalismo, caratterizzato dal decollo dell’industrialismo ottocentesco. La visione marxiana della funzione “rivoluzionaria” dello sviluppo capitalistico, in quanto motore di un progresso tecnico, economico, civile e culturale in grado di spazzare via i residui delle società preborghesi (visione che emerge in modo paradigmatico nel Manifesto), sostiene Traverso, è il riflesso, se non il prodotto, dell’accelerazione temporale, della neutralizzazione delle distanze geografiche e dell'abbattimento delle barriere geopolitiche resi possibili dalla rivoluzione industriale. La metafora della rivoluzione come “locomotiva della storia”  rispecchia il ruolo del tumultuoso sviluppo delle reti ferroviarie che divorano lo spazio grazie all’accelerazione temporale (senza dimenticare le nuove tecnologie di comunicazione, a partire dal telegrafo). La concezione quasi salvifica dello sviluppo delle forze produttive riscontrabile in certi scritti di Marx, scrive Traverso, appartiene all’epoca della fisica e della termodinamica moderne, e fonda una visione “teleologica” della storia come un lungo cammino lineare verso il progresso. Il punto di vista economicista/determinista, ispirato dal dogma del ruolo centrale dello sviluppo delle forze produttive nell’indirizzare il processo storico, genera a sua volta la fede nell’esistenza di leggi storiche “oggettive”, per cui la transizione fra i modi di produzione comunistico primitivo, antico (o asiatico), feudale, capitalistico, socialista viene interpretata dal “materialismo storico e dialettico” (la versione “ossificata” del metodo marxista partorita dell’ortodossia) come l’esito di “necessità” immanenti alla storia. 







Questa riflessione critica sulle tendenze deterministe della teoria marxista, parzialmente legittimata dallo stesso Marx, non è inedita. Chiunque abbia frequentato il dibattito ideologico degli ultimi decenni sa che analoghe posizioni sono emerse a più riprese. Fra le altre, quelle difese in più occasioni (4) dal sottoscritto simili a quelle formulate da Costanzo Preve in un libro del 1984 (5) . Preve non si limitava però a individuare due regimi discorsivi nel corpus marxiano: ne enumerava perlomeno tre che definiva, rispettivamente, grande narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale. Il primo identifica nel proletariato industriale il Soggetto storico “oggettivamente” destinato ad affossare il modo di produzione capitalistico; il secondo mutua dai modelli della scienza ottocentesca il concetto del comunismo come esito “scientificamente prevedibile” della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione; il terzo esclude al contrario l’esistenza di automatismi teleologici inscritti nella storia. 


Posto che i primi due coincidono, a grandi linee, con la visione determinista descritta da Traverso, anche se andrebbe precisato che non si trovano solo nelle opere “scientifiche” (secondo i criteri althusseriani) del Marx critico dell’economia politica, ma emergono saltuariamente anche nelle analisi degli eventi storici a lui contemporanei. Posto che il terzo - già presente nel passaggio della Sacra famiglia (opportunamente citato da Traverso) in cui si dice che non è la storia a servirsi dell’uomo come mezzo per attuare i propri fini (l’hegeliana astuzia della ragione) bensì è la storia a non essere altro che l’attività dell'uomo che persegue i propri fini- trova la sua formulazione più mirabile e compiuta nel capolavoro dell’ultimo Lukacs, l’Ontologia dell’essere sociale (6), laddove l’autore indica nel lavoro il modello di ogni agire intenzionale umano (su questo tornerò più avanti). Posto che lo stesso Lukacs dimostra come anche nell’analisi economica marxiana siano presenti consistenti tracce di “costruttivismo”. Posto tutto ciò, e a prescindere dai distinguo appena evocati, mi sento di affermare che, almeno sin qui, sono in sintonia con le tesi di Traverso, soprattutto nella misura in cui ne viene fatto discendere: 1) che il passaggio dal capitalismo al socialismo non ha carattere spontaneo e ineluttabile; 2 ) che  tutte le rivoluzioni trascendono le loro cause “oggettive” e seguono dinamiche particolari (contingenti) che cambiano il corso “naturale” delle cose e 3) che in ragione di tali considerazioni non è in alcun modo possibile ignorare l’autonomia del politico  (7) dai fattori “strutturali”. 



Note a margine (1). Benjamin 



Il pensiero “eretico” di Benjamin esercita un forte impatto sulla visione di Traverso, il quale sembra affascinato dalla critica radicale che Benjamin avanza nei confronti dell’idea illuminista-borghese di progresso in generale e della sua variante marxista in particolare. In netto contrasto con la cultura della II Internazionale, egemonizzata dalla Socialdemocrazia tedesca, e dalla visione “gradualista” di una transizione al socialismo scandita da riforme “progressiste” in grado di migliorare le condizioni materiali e il livello socioculturale della classe operaia, Benjamin considerava questi “passi avanti” come altrettanti chiodi sulla bara di qualsiasi prospettiva di cambiamento rivoluzionario. Al tempo stesso, pur apprezzando la svolta rivoluzionaria del 17, Benjamin non condivideva il “modernismo” dei suoi leader. Se Marx aveva visto nella rivoluzione la locomotiva della storia, e se Lenin affermava che il socialismo in Russia sarebbe nato dal connubio fra i soviet e l’elettrificazione, Benjamin rovesciava la metafora, equiparando la rivoluzione al freno a mano al quale il popolo si aggrappa per fermare la corsa verso il baratro delle crisi e delle guerre provocate dal “progresso” capitalista. Il suo, scrive Traverso, era un materialismo storico antipositivista che annichiliva in sé l’idea di progresso (8). 


Riferendosi in particolare alle “Tesi sulla storia”, Traverso insiste sulla visione di Benjamin che, al contrario dello storicismo che liquida il passato come un processo irreversibilmente compiuto (anche se andrebbe precisato che tale critica non può essere estesa alla cultura marxista in generale), ritiene che esso aleggi nel presente (si pensi all’immagine dell’Angelus Novus) e possa essere riesumato, riscattando i vinti e gli oppressi di ogni epoca e reintegrandone le storie nell’evento rivoluzionario presente (di qui l’altra metafora della rivoluzione come balzo di tigre nel passato). Contro le critiche che vedono in Benjamin un pensatore idealista e conservatore, Traverso obietta che, formulando il suo progetto di “salvare la storia”,  questo geniale eretico non intendeva affatto “tornare indietro e ripeterla”, bensì un modo di cambiare il presente capace di salvare il passato. 





La Rivoluzione russa: marxismo orientale versus marxismo occidentale? 


Diversamente da Domenico Losurdo (9), Traverso sembra convito che la cultura bolscevica, a partire da Lenin e Trotskij, fosse incontestabilmente occidentalista. Il fatto che la Rivoluzione d’Ottobre sia stata, per dirla con Gramsci, “una rivoluzione contro il Capitale”, nel senso che non ha rispettato il “canone” marxista formulato a fine Ottocento da Engels e Kautsky, che escludeva la possibilità di realizzare il socialismo in un contesto di arretratezza delle forze produttive, qual era quello russo ai primi del Novecento, non sembra scalfire tale convinzione. 


Forse è per questo che la sua simpatia sembra andare a Trotskij più che a Lenin anche se, in base  a quanto ho letto, non credo lo si possa definire trotzkista (almeno in senso stretto). Ciò che lo affascina di Trotskij sembra essere soprattutto il concetto di rivoluzione permanente e il tentativo di identificare i fattori “oggettivi” che hanno reso possibile la rivoluzione con la compresenza di formazioni sociali a differenti livelli di evoluzione storica (tornerò sul punto ragionando sulle rivoluzioni del Terzo Mondo). Quanto a Lenin, Traverso sembra apprezzare soprattutto il Lenin “antiautoritario” di Stato e rivoluzione (10), nella misura in cui, sulla scia di Marx, indica nella Comune di Parigi il modello di un potere popolare “senza stato”.  In effetti quell’opera ripropone la visione ottocentesca – condivisa da marxisti e anarchici – di una rivoluzione destinata a distruggere l’idea stessa di un potere sovrano, anche se la concezione marxiana, e ancor più engelsiana, preferiva ragionare  di estinzione più che di abolizione dello stato. Nel libro di Traverso manca invece un approfondimento del pensiero post rivoluzionario di Lenin (sorprendente l’assenza di una riflessione sull’esperienza della NEP, decisiva per analizzare le inedite forme di transizione socialista attualmente in atto, a partire dalla Cina postmaoista).


Ciò detto, Traverso non cade nella trappola di quegli intellettuali postcomunisti che vorrebbero vedere in Lenin l’antesignano del “totalitarismo” comunista (per inciso: gli sia resa lode per il secco rifiuto di accettare l’assurdo accostamento fra fascismo e comunismo, di cui si è recentemente macchiato il Parlamento europeo, con la complicità della maggioranza del mondo intellettuale “di sinistra”). La sua attenzione si concentra piuttosto sulla militarizzazione della lotta di classe associata alla guerra civile degli anni 18, 19 e 20 (militarizzazione cui Trotskij ha contribuito in misura non minore di Lenin...) e sulla concentrazione del potere nelle mani del partito a scapito della democrazia dei soviet. E qui si inserisce una tesi che ritorna in tutte le analisi che Traverso dedica ai processi rivoluzionari da lui presi in considerazione – una tesi che può essere sintetizzata in un'affermazione a dir poco “forte”: la tradizione rivoluzionaria è la contraddizione insolubile (sottolineatura mia) tra un momento estatico di autoliberazione e la sua inevitabile (idem come sopra) trasformazione in azione organizzata. E ancora: l’emergenza dei simboli e delle istituzioni di una nuova sovranità corrisponde inevitabilmente al riflusso e all'invisibilità della moltitudine che teoricamente essi rappresentano (anche in questo caso i corsivi sono miei). 


Riassumo: mettendo fra parentesi il sintomatico riferimento al concetto negriano di moltitudine (11) , Traverso sembra indicare nel prevalere del momento organizzativo e nella “condensazione” del potere popolare in nuova sovranità statale le cause fondamentali della degradazione del progetto  rivoluzionario. Attenzione però: in nessuna parte del suo lavoro tale degradazione viene associata al concetto di controrivoluzione. La linea operaista/populista di Stalin, ben descritta da Rita di Leo (12), che mirava a rimpiazzare la vecchia leadership bolscevica, di origine borghese e ideologicamente cosmopolita, con nuovi quadri dirigenti di estrazione operaia e contadina, ha sempre raccolto il consenso della maggioranza del popolo russo, come conferma la grande mobilitazione patriottica contro il nazismo. Il punto è che tutta l’analisi della rivoluzione bolscevica fino al fallimento di fine Novecento condotta da Traverso sconta una palese contraddizione. Da un lato, ci viene detto, in sintonia con l’opzione antideterminista richiamata in precedenza, che la degradazione della Rivoluzione del 17 non era ineluttabile, non era “scritta negli astri”, dall’altro lato, come abbiamo appena visto, si parla di inevitabile prevalere del momento organizzativo e di altrettanto inevitabile eclissi della moltitudine da parte del nuovo potere sovrano. 


Tenterò di approfondire il punto più avanti, ragionando sulle rivoluzioni del Terzo Mondo. Per il momento vorrei riprendere l’interrogativo sul marxismo dei bolscevichi: occidentale o orientale? Sull’occidentalismo di Trotskij non sussistono dubbi, il suo punto di vista, come ribadisce Traverso, era che il socialismo non era la negazione ma piuttosto il superamento dialettico del capitalismo e della sua civiltà. In altre parole, il suo pensiero era interno alla visione eurocentrica dello stesso Marx (superata nell’ultimo decennio di vita) che aveva immaginato che l’espansione capitalista avrebbe salvato interi continenti da barbarie, arcaismo e ristagno economico. Anche in Lenin non mancano elementi di occidentalismo, dallo slogan sui soviet all’elettrificazione all’esaltazione del taylorismo (condivisa da Gramsci), e tuttavia la sua teoria dell’imperialismo, che allargava lo scenario della lotta di classe alle lotte di liberazione nazionale dei popoli coloniali, andava in direzione opposta spostando l’asse del conflitto globale dal polo nordoccidentale al polo sudorientale (la conferenza dei popoli coloniali svoltasi a Baku su iniziativa del regime sovietico gettò il seme dello spirito di Bandung che sarebbe germogliato nel secondo dopoguerra).


Note a margine (2). Cultura rivoluzionaria e immaginario “superomista”  


Se c’è una corrente della cultura sovietica che può essere definita a buon titolo occidentalista è senza dubbio quella di un certo di tipo di avanguardia artistica e (pseudo) scientifica, nonché intrisa di un immaginario utopistico che, da un lato, presenta una stretta parentela con il futurismo italiano ed europeo e con la sua esaltazione della tecnica e della velocità, dall'altro anticipa l’immaginario della science fiction angloamericana, fino alle più recenti correnti del cyberpunk e ai sogni “transumanisti” (13) di ibridazione uomo-macchina; il tutto mixato con speranze e aspettative di carattere apocalittico e profetico. Tanto che, nell’analizzare il fenomeno, Traverso chiama giustamente in causa le analisi di Koselleck (14) sull’utopismo moderno come residuo secolarizzato di aspirazioni escatologiche. Traverso cita in merito, fra gli altri, il pioniere della narrativa russa di fantascienza Bogdanov (15) e altri esponenti del gruppo dei cosiddetti “costruttori di dio”. Questi cenacoli culturali annunciavano un futuro in cui la scienza sarebbe divenuta onnipotente, al punto da garantire alla nostra specie l’immortalità. Perfino Trotskij, ricorda Traverso, prefigurava un tempo in cui “l’uomo si abituerà a guardare il mondo come un’argilla docile che dev’essere modellata in sempre più perfette forme vitali”. 




Aleksandr Bogdanov
Aleksandr Bogdanov


Personalmente ritengo che questo afflato profetico, chiaramente ispirato a temi ebraico-cristiani e gnostici secolarizzati, abbia toccato la vetta più significativa in un autore come Ernst Bloch, il quale, nel monumentale Principio speranza (16), sfrutta gli scarsi e reticenti accenni marxiani alla realtà futura del socialismo forzandone le consonanze con gli annunci religiosi di un paradiso in terra a venire. Così, come ho ricordato altrove (17), parla di “un unico movimento avanti  nel mondo trasformabile e implicante felicità”, “di quiete della fine della storia”, di un futuro simile alla “terra dove fluiscono realmente e simbolicamente latte e miele” annunciato da tutte le religioni superiori, del divenire “autenticamente umano” dell’individuo emancipato dall’individualismo borghese in una comunità socialista senza stato, per spingersi infine a immaginare la cancellazione del confine fra uomo e natura in capo a un movimento dialettico in cui quest’ultima compirebbe il proprio fine immanente (evocando suggestioni mistiche alla Teilhard de Chardin) rendendo tutto possibile, anche l'abolizione della morte. 


Che dire di queste visioni se non che erano destinate a scontrarsi con la realtà del concreto processo di costruzione di una società socialista nelle dure condizioni del tempo (non a caso Bloch, deluso dalla realtà in questione, tornerà in Occidente). Mi pare di poter affermare che il divorzio fra comunismo occidentale e comunismo orientale ha a che fare anche con questa stridente differenza, non meno che con la repressione staliniana nei confronti della intellettualità rivoluzionaria.



Libertà positiva o libertà negativa? 


Avevo preavvertito il lettore che si sarebbe imbattuto in qualche ripetizione, e infatti devo subito reiterare l’osservazione fatta poco sopra: Traverso ha il merito di far uscire dalla porta il determinismo di tipo strutturale (economicista), dopo di che lo fa rientrare dalla finestra sotto forma di determinismo “sovrastrutturale” (partito, stato, istituzioni e altre forme organizzative soffocano inevitabilmente l’autonoma iniziativa delle moltitudini). Lo abbiamo visto a proposito dalla ricostruzione storica della rivoluzione russa, lo rivediamo in questa discussione sulla critica dei regimi rivoluzionari nella misura in cui soffocano democrazia e libertà.



Rosa Luxemburg




Da un lato, Traverso approccia il tema in modo condivisibile: rifiuta di definire il regime staliniano come una controrivoluzione, aggiungendo che un’alternativa credibile “di sinistra” a tale regime non è mai apparsa all’orizzonte, per cui, se i bolscevichi fossero stati sconfitti, avrebbe trionfato un regime fascista. Di più: aggiunge che la critica libertaria spiega raramente (mi permetto di correggere: non spiega mai!) come le rivoluzioni possano preservare una completa libertà senza farsi rovesciare. Ma se ciò è vero, Lenin aveva ragione nel controbattere alla critica della Luxemburg – la quale accusava i bolscevichi di feticizzare il momento rivoluzionario trascurando le regole necessarie per stabilire la libertà come ordine durevole – dicendo che se le avessero dato retta i controrivoluzionari li avrebbero spazzati via. 


Apro qui una parentesi sulle rivoluzioni bolivariane (Venezuela, Bolivia ed Ecuador in particolare), in quanto confermano in pieno quanto appena affermato. Tutti questi regimi rivoluzionari sono andati al potere per vie legali (vincendo cioè le elezioni) dopodiché, avendo mantenuto le regole della democrazia rappresentativa (anche se le nuove costituzioni istituivano inedite forme di democrazia diretta e partecipativa), si sono esposte alle controffensive reazionarie sostenute dall’imperialismo occidentale (Usa e Ue) che, nel caso dell’Ecuador, sono riuscite a restaurare un regime neoliberista (18), in Venezuela sono fallite solo grazie all’appoggio delle forze armate guidate da ufficiali progressisti, mentre in Bolivia vari tentativi di golpe militari sono stati frustrati dall’ampio consenso di una popolazione in larga maggioranza di etnia india. 


Ragionando su questa ondata controrivoluzionaria, l’ex vice presidente boliviano Álvaro Linera (19) mette in luce come le “sinistre” libertarie , pur non essendo in grado – vedi sopra – di indicare alternative politiche ai regimi rivoluzionari in carica, si sono schierati di fatto con le opposizioni di destra, in nome della “restaurazione della democrazia” (peraltro mai messa formalmente on discussione). Confrontandosi con queste posizioni, Linera le attribuisce a una visione demonizzante del potere politico in quanto tale, che ignora l’esigenza di risolvere il problema della sua gestione se si vogliono realmente cambiare le cose. Traverso sembra d’accordo laddove afferma che durante le rivoluzioni arabe la questione del potere si è dimostrata ineludibile. Poi però arretra di fronte allo spettro della sovranità. Nella misura in cui le rivoluzioni sono violenza che distrugge il diritto tradizionale e costituisce la premessa per l’emergere di una nuova sovranità, argomenta, si crea un vuoto: da un lato il potere democratico, popolare, è diffuso e irrapresentabile, dall’altro il potere dell’organizzazione rivoluzionaria (il partito e le nuove istituzioni politiche) si concentra riempiendo questo vuoto e neutralizzando/oscurando il potere popolare. 


Per inciso, questo rischio non turba solo Traverso: autori non sospetti di democraticismo, come Costanzo Preve e Domenico Losurdo, esprimono lo stesso tormento, che il primo  esorcizza evocando la prospettiva della comunità dei liberi produttori indipendenti (2), mentre il secondo, dopo avere rifiutato la soluzione marxista che contrappone la libertà positiva  (la libertà di agire, la libertà rivoluzionaria o, se si vuole, costituente), alla libertà negativa (la libertà dell’individuo borghese da costrizioni esterne, cioè la libertà di mercato), sembra raccogliere la critica di Bobbio alla mancanza di democrazia dei regimi socialisti e invita i comunisti a impadronirsi degli aspetti migliori della cultura liberale (21). 


Concludo il punto mettendo fra parentesi questa contraddizione e riconoscendo a Traverso il merito di avere lucidamente criticato, nella sua riflessione sul tema della libertà, le idee di due mostri sacri come Foucault e Hannah Arendt. Partito  dalla “microfisica” del potere, e dalla riconcettualizzazione della resistenza come sviluppo di pratiche che non si oppongono al potere ma ne reindirizzano dall’interno gli effetti, Foucault è infine approdato alle “tecnologie del sé”, esprimendo simpatie sempre più chiare per individualismo e neoliberalismo, senza essersi mai interessato, lungo tale percorso, alle rivoluzioni, tanto le classiche quanto quelle a lui contemporanee. Quanto ad Hannah Arendt, esaltata in quanto critica del totalitarismo e ispiratrice di aspirazioni di emancipazione individuale, Traverso ne smaschera le idee radicalmente conservatrici ed elitarie. La sua contrapposizione fra la rivoluzione americana, che istituisce la libertà repubblicana, e che la filosofa esalta sorvolando sull’indifferenza nei confronti della schiavitù e sullo spirito intimamente oligarchico, e quella francese, di cui dichiara il presunto fallimento, dovuto alla volontà di unire libertà ed emancipazione sociale, rispecchia un profondo disprezzo nei confronti delle masse popolari. La democrazia radicale di Rousseau, e ancor più  l’egualitarismo socialcomunista, vengono così liquidate come premesse del totalitarismo, mentre si afferma che la politica può esercitare i suoi fini più nobili ed elevati solo separandosi dall’interferenza delle pretese e delle rivendicazioni sociali. 


Perché il socialismo vince solo nel Sud del mondo?  


Non è un caso se  uno dei rari autori bianchi, fra le centinaia di studiosi africani, antillani e afroamericani, citati da Kevin Ochieng Okoth in Red Africa (vedi sopra) è Traverso. Benché  il suo libro si occupi in prevalenza delle rivoluzioni “atlantiche”, ad eccezione della russa, Traverso dedica molte pagine interessanti anche alle rivoluzioni del Sud del mondo, a partire da quella messicana e da quella haitiana (che ha preceduto di quasi due secoli le altre lotte di liberazione nazionale dal dominio coloniale). Anche in questo caso, nelle sue analisi ho trovato molte idee condivisibili assieme a “buchi” che riflettono a mio avviso la difficoltà di liberarsi del tutto dal retaggio eurocentrico. Parto dalle prime.


In primo luogo, Traverso è uno dei pochi studiosi occidentali di formazione marxista che - dopo la svolta anti “terzomondista” dei movimenti sociali maturata a partire dalla fine degli anni Settanta e provocata dal disincanto generato dagli sviluppi post rivoluzionari a Cuba, in Vietnam e Algeria, e dal fallimento della Rivoluzione culturale cinese - abbia continuato a interrogarsi sui motivi per cui le sole rivoluzioni socialiste vittoriose si sono verificate nel Sud del mondo, mentre quelle tentate nei Paesi a capitalismo avanzato sono abortite. Nel secondo dopoguerra il tema era stato affrontato da autori come Baran e Sweezy, i quali avevano ripreso - sia pure con altri argomenti – la tesi di Rosa Luxemburg sul rapporto fra accumulazione capitalistica dei centri e sottosviluppo delle periferie. Più tardi hanno provveduto a dargli continuità (nella sostanziale indifferenza da parte del marxismo “mainstream”) autori come Samir Amin, Giovanni Arrighi, Gunder Frank e Immanuel Wallerstein, la “banda dei quattro”, come la definisce Alessandro Visalli in Dipendenza (22).  


Vediamo come Traverso tratta a sua volta l’argomento. Anche se non lo esplicita e non l’approfondisce adeguatamente, mi pare di capire che il suo punto di vista tenga conto dei limiti intrinseci allo status materiale e alla “antropologia” del proletariato occidentale: troppo “ricco” (anche grazie ai margini creati dal dominio imperiale sul resto del mondo) e troppo ibridato con i costumi e i valori di una classe media cresciuta a dismisura grazie ai processi di terziarizzazione produttiva (un fenomeno del tutto imprevisto dall’analisi marxista “classica”). Ecco perché le rivoluzioni non sono mai state rivoluzioni “puramente” proletarie ma hanno avuto come protagoniste masse popolari formate da proletari coalizzati con altre classi (in primis contadine) e altri gruppi sociali (intellettuali piccolo borghesi e piccoli imprenditori). 


Questa verità era già emersa nel corso della rivoluzione messicana, che aveva avuto come spina dorsale comunità comunistiche basate sulla proprietà collettiva della terra - cfr. le riflessioni dell’ultimo Marx sull’obscina russa, non a caso citate da molti marxisti latinoamericani (23) - e ha avuto innumerevoli conferme nel corso del tempo. Poiché i comunisti latinoamericani ortodossi hanno sistematicamente ignorato il potenziale sovversivo delle popolazioni indigene, le rivoluzioni del subcontinente hanno spesso assunto carattere “populista”, guidate da leader e partiti emergenti che al contrario hanno saputo sfruttare quel potenziale sovversivo e metterlo al servizio di ampie coalizioni antimperialiste. Questo anche grazie al contributo di intellettuali marxisti “eretici”, a partire dal peruviano Mariategui (24) che già nella prima metà del Novecento aveva capito che il marxismo non doveva essere “importato” dall’occidente ma avrebbe dovuto fondersi con la tradizione ancestrale del comunismo incaico. E ancora con il boliviano Álvaro Garcia Linera (25) che descrive le comunità ancestrali andine come una classe rivoluzionaria sui generis,  “antropologicamente” anticapitalista. O infine, per cambiare continente, con il guineano Amílcar Cabral, il cui progetto rivoluzionario prevedeva un processo di transizione al socialismo articolato in tre fasi: nella prima la lotta sarebbe stata guidata dalla classe-nazione, nella seconda si sarebbero evidenziati i conflitti di classe dentro e fuori dal fronte antimperialista, nella terza si sarebbe passati alla costruzione del socialismo anche grazie al “suicidio” delle avanguardie piccolo borghesi e al loro scioglimento nelle masse popolari. 



Amilcar Cabral




Ma Traverso mette in luce un altro aspetto essenziale di queste rivoluzioni “eretiche” (secondo il canone marxista ortodosso): non è solo questione di composizione di classe, è anche (se non soprattutto) questione di tradizioni culturali. In Asia, Africa e America Latina il marxismo ha potuto divenire forza egemone solo ibridandosi con le culture indigene. Confucianesimo, buddismo e taoismo in Cina, Islam in Indonesia, varie forme di indigenismo in africa e America Latina. I comunisti cinesi della prima ora erano occidentalisti radicali e fedeli al dogma della rivoluzione proletaria (nonché alla linea dettata dalla III Internazionale staliniana), ma dopo la sconfitta delle insurrezioni operaie hanno abbracciato la linea “contadina” di Mao, che li ha condotti alla vittoria (e oggi, aggiungo, sono sempre più orgogliosi del loro retaggio confuciano). È per questo che il comunismo terzomondista si presenta, secondo la metafora di Traverso, come un mosaico di comunismi.


Qui finisce la sintonia, perché le intuizioni di Traverso si arenano nelle secche dei pregiudizi internazionalisti (leggi cosmopoliti) e universalisti delle avanguardie intellettuali occidentali, non senza contraddizioni che lasciano sperare in futuri ripensamenti critici: da un lato, Traverso scrive che, malgrado il loro conclamato universalismo e la loro dimensione globale, le rivoluzioni finiscono spesso (io direi sempre!) per iscriversi in un patrimonio nazionale, e sostiene che questa deriva “nazionalista”, nonché il fatto che, essendo state perlopiù concepite come guerre condotte da eserciti di liberazione, è la causa prima del perché hanno finito per dare vita a dittature di partito; dall’altro lato, dice che l’indigenismo rivoluzionario di Mariategui non era dettato da nostalgia di un passato arcaico, e ammette che “in certe circostanze storiche” (senza specificare quali) l’idea di nazione può incarnare lo spirito di libertà. Per inciso, ho registrato la stessa incongruenza nel libro di Okoth, il quale, da un lato rinfaccia ai critici dei movimenti di liberazione di non saper indicare alternative all’esigenza di costituirsi in nazione in un mondo fatto di nazioni, dall’altro si salva l’anima “di sinistra”citando la frase di Negri che afferma che lo stato-nazione è il “dono avvelenato” delle rivoluzioni dei popoli coloniali... 


Intellettuali organici o bohémien? 


Siamo così arrivati alla parte del libro di Traverso nei confronti della quale avverto la maggiore distanza. Mi riferisco al lungo capitolo sugli intellettuali rivoluzionari nel quale, può darsi che mi sbagli, ma mi pare che l’autore cerchi di riscattare quello strato di simpatizzanti e/o militanti dei movimenti rivoluzionari che gli intellettuali “organici” (ragioneremo più avanti su tale termine) hanno spesso liquidato come “piccolo borghesi”. 


Traverso descrive una serie di figure che hanno svolto ruoli più o meno significativi nei movimenti rivoluzionari nei quasi due secoli presi in esame dal libro, tentando in qualche modo di estrarne una sorta di idealtipo, più o meno stabile nel corso del tempo, fino a farne quasi una (pseudo)classe sociale connotata da caratteristiche ideali più che sociali. Fra i tratti più comuni mette in luce: l’alta percentuale di appartenenti alla comunità ebraica della diaspora, estranei alla particolarità nazionali,  portatori di una cultura cosmopolita e impregnati di valori astratti quali giustizia, uguaglianza e libertà; gruppi minoritari di “reietti” (artisti e scrittori d'avanguardia, neri, femministe, bohémien), “paria” per scelta e lumpenproletari del pensiero (autodidatti restii a farsi ingabbiare dall’istituzione universitaria e dai ranghi dell’industria culturale). Tutti costoro, essendo spesso costretti a spostarsi frequentemente per sfuggire alla repressione o per guadagnarsi da vivere sono a loro volta portatori di uno spirito cosmopolita e antinazionalista. 


Mi sembra chiaro che Traverso è molto più simpatetico nei confronti di questa congrega composita - e in certa misura immaginaria, in quanto non tiene conto delle mutazioni storico culturali che l’hanno di volta in volta trasformata - rispetto alla categoria gramsciana di intellettuale organico. Probabilmente perché Gramsci identificava tale figura con uno strato intellettuale “auto prodotto” dalle avanguardie operaie politicamente organizzate, qualcosa che si avvicinava troppo al “rivoluzionario di professione” teorizzato da Lenin (al quale, come si è visto, Traverso imputa di aver prevaricato la democrazia dei consigli). Anche se, per quanto mi pare ami poco Gramsci, Traverso ha il merito di denunciare lo scempio che il PCI, a partire da Togliatti, ha fatto di concetti come egemonia, blocco storico e guerra di posizione, trasformandoli in una sorta di manifesto di gradualismo socialista (per poi sbarazzarsene dopo la trasformazione in forza liberal democratica e neoliberista). 


Ma torniamo sul pezzo. Anche nel discorso che Traverso sviluppa su questi temi non mancano contraddizioni e incongruenze. Per esempio, propone tre idealtipi di intellettuali rivoluzionari: cosmopoliti radicati (come Ho Chi Min, che dopo avere passato quasi tutta la vita vagando fra Francia, Russia e altrove, mette radici nel Paese d’origine e lo guida alla vittoria nella guerra antimperialista), rivoluzionari tellurici (come Mao, che non ha mai lasciato la Cina ed è divenuto il leader e fondatore indiscusso della Repubblica Popolare) e internazionalisti sradicati (qui gli esempi possono essere molti, anche se il più scontato è Che Guevara). Ebbene questa classificazione dovrebbe far riflettere sul fatto che a vincere sono stati i primi due, mentre il terzo ha sistematicamente fallito, quindi, visto che quest’ultimo è quello che più si avvicina al modello che a Traverso sembra più gradito, sorge il dubbio che il nostro subisca una romantica fascinazione per la sconfitta…



Ho Chi Min




Lasciando da parte le divagazioni pseudo psicologiche (che conto mi verranno perdonate) torno alle contraddizioni. Traverso è lucidamente consapevole della catastrofe che in Occidente ha spazzato via ogni velleità rivoluzionaria.In particolare è consapevole che: 1) il capitale ha vinto “perché è riuscito a plasmare il nostro habitus mentale e a imporsi come modello antropologico” (26); 2) che il pensiero critico è stato sterilizzato alla fonte confinandolo nei recinti universitari; 3 ) che la lezione di Marcuse (27) sulle “controculture” americane di qualche decennio fa, laddove ne metteva in luce la manipolabilità da parte delle strategie di desublimazione e tolleranza repressive, resta pienamente attuale; 4) che l’obiettivo delle rivolte post sessantottine non è deporre un regime politico ma cambiarne i rappresentanti (28). Malgrado tutto ciò, se ne viene fuori con l’affermazione che no global, primavere arabe, OWS, Black Lives Matter, Indignados, Syriza, gilet gialli, Lgbtq “sono tutti momenti di costruzione di un nuovo immaginario sovversivo (sic)”. A questo elenco mancano solo gli ombrelli di Hong Kong, agitati dai nipoti della borghesia compradora al soldo dell’imperialismo britannico, assieme alle bandiere a stelle strisce e all’Union Jack. Come non capire che questi fenomeni sono parte integrante del modello antropologico di cui sopra, assimilabili dall’ala woke del capitalismo occidentale?  


Chi mi legge abitualmente sa che non amo le conclusioni. Del resto, nelle pagine precedenti mi sembra di avere esaurientemente chiarito sia i motivi di consenso che quelli di dissenso nei confronti del lavoro di Traverso, che considero comunque uno dei più stimolanti che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi. Potrei quindi chiudere qui augurando al nostro di riuscire quanto prima a sbarazzarsi di certi residui di pensiero critico “alternativo”(compito arduo, come posso testimoniare in prima persona, anche se godo del discutibile vantaggio di avere accumulato dai dieci ai quindici anni in più per arricchire la mia dote di motivi di disincanto). Tuttavia, sapendo che vengo spesso accusato di adottare un approccio critico distruttivo, senza indicare soluzioni alternative (il fatidico “che fare”) mi è parso opportuno aggiungere, al posto di una conclusione, l’Appendice qui di seguito, nella quale riassumo quel che penso sul caso cinese. Per due ragioni: in primo luogo perché Traverso mi è parso incapace, come la maggioranza dei marxisti occidentali, di vedere la reale natura di quello straordinario esperimento storico; poi perché chi scrive, pur avendo maturato un profondo scetticismo nei confronti delle pretese universaliste di tutte le teorie rivoluzionarie e di tutti i tentativi di metterle in pratica, è convinto che gli attuali “socialismi imperfetti” (29), pur non rappresentando dei modelli, incarnino la possibilità di imboccare un passaggio stretto fra la resa nei confronti della controrivoluzione neoliberale e la ripetizione dei molti errori commessi da coloro che hanno finora tentato di cambiare il mondo.



Appendice. La Cina, ovvero l’elefante invisibile nel negozio di porcellane


La Cina è l’elefante che ha fatto irruzione nel negozio di porcellane dell’equilibrio geopolitico mondiale, scompaginando il progetto americano di dominio unipolare. In quanto tale lo vedono (e lo temono) tanto le destre quanto le sinistre occidentali. Ma mentre le destre vedono la vera natura del pericolo, cioè il fatto che la crescita economica cinese non si è accompagnata a un cambio di regime politico, per le sinistre tale natura resta invisibile, dal momento che rimuovono la contraddizione considerando la Cina un paese capitalista e imperialista simile alle controparti occidentali. 


Non è il caso di Traverso che, tuttavia, non comprende a sua volta la natura del problema. Da un lato, riconosce che non può esistere libertà senza liberazione dalla necessità, considerazione che condivide con un marxista poco tenero nei confronti del regime cinese come David Harvey, il quale riconosce (30) che l’aver riscattato in tempi brevi ottocento milioni di persone dalla povertà assoluta è stata un’impresa miracolosa inspiegabile in base ai paradigmi economici occidentali. Dall’altra, afferma che la rivoluzione cinese non fu, a differenza di quella sovietica, una reale cesura sociale e politica – giudizio smentito, come vedremo fra breve, da Giovanni Arrighi. Di più: ripete il luogo comune secondo cui il boom economico di Paesi come il Vietnam e la Cina conferma che il mondo è ormai omologato dal processo di mercificazione globale (tesi smentita tanto dall’attuale crisi della globalizzazione, quanto dalle cause che l’hanno provocata). Infine rilancia la tesi (cara a Negri e discepoli e di sapore squisitamente occidentalista) che - dato l’attuale livello di sviluppo delle forze produttive - l’obiettivo non può più essere la liberazione del bensì la liberazione dal lavoro, per cui l’unico parametro di giudizio per valutare il carattere socialista di un Paese è la quantità di tempo libero che offre ai cittadini. In questa Appendice spiegherò perché dissento.


1. Per iniziare: bibliografia minima per prevenuti e disinformati


G. Gabellini, Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Mimesis, Milano-Udine 2021; F. M. Parenti, La via cinese, Meltemi, Milano 2021; V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, In AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020;  V. Giacché (a cura di) Economia della rivoluzione (raccolta di testi di Lenin), il Saggiatore, Milano 2017; D. A. Bertozzi, Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, L’Antidiplomatico 2021; D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019; R. Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019; R. Herrera, Z. Long, La Cina è capitalista?, Marx 21, Bari 2012; A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China, Springer, Berlino 2020; Z. Boyng, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona? Marx 21, Bari 2019.



 2. La lezione di Giovanni Arrighi. 







Possiamo definire la Cina un Paese che, dopo avere fatto una rivoluzione antimperialista, ha avviato il processo di transizione al socialismo? Partiamo da una serie di dati di fatto. In particolare: anche dopo le riforme degli anni Settanta, i settori strategici dell’economia sono rimasti sotto il controllo dello stato/partito; l’agricoltura è stata (parzialmente) liberalizzata ma non privatizzata; gli investimenti stranieri vengono utilizzati per accelerare lo sviluppo tecnologico, scientifico ed economico, senza influire sugli equilibri generali del sistema; gli investimenti diretti all’estero sono orientati a promuovere lo sviluppo dei Paesi beneficiari e non a ingabbiarli nell’economia del debito; i tentativi della borghesia nazionale di trasformare il proprio potere economico in potere politico vengono puntualmente stroncati; lo straordinario successo economico ha imposto pesanti sacrifici alle classi lavoratrici, ma poi è stato utilizzato per riscattare centinaia di milioni di cittadini dalla povertà assoluta, elevare i salari operai e i redditi contadini, migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle masse e spostare il motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni; infine questo rapido processo di trasformazione socioeconomica non ha favorito una evoluzione in senso liberal-democratico del sistema politico. 


Tutto ciò non basterebbe di per sé a giustificare la mia valutazione sulla natura dell’esperimento cinese, la quale si basa piuttosto sul capolavoro di Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino (31). Sulle tracce di Fernand Braudel e Karl Polanyi, Arrighi sposta l’analisi dal livello puramente economico a quelli sociologico, storico e antropologico. In particolare parte da una lettura “laterale” di alcuni aspetti dell’opera di Adam Smith, il quale, ricorda Arrighi, sosteneva che la Cina era più ricca di qualsiasi Paese europeo grazie al carattere “stazionario” della sua economia, cioè grazie al fatto che, pur non essendo mossa dalla spinta occidentale all’accumulazione illimitata, aveva raggiunto la pienezza di ricchezze consentita dalla natura del suolo, dal clima e dalla posizione geografica. Smith definiva “naturale” questo tipo di sviluppo, basato sull’agricoltura e sul commercio interno, contrapponendolo allo sviluppo “innaturale” delle economie europee, basato sul commercio estero. 


Partendo da questa contrapposizione, Arrighi critica la tesi marxiana che vede nello sviluppo capitalistico la fase da cui il mondo intero dovrà passare, prima di liberarsene. Per Marx, lo sviluppo che Smith definisce “naturale” non potrebbe sopravvivere in un mondo in cui  si sia diffuso lo sviluppo “innaturale” del capitalismo. Marx era convinto che ogni altra formazione sociale sarebbe collassata non appena venuta a contatto con il mercato capitalistico. Tuttavia, argomenta Arrighi, l’appiattimento “globalista” previsto da Marx non si è realizzato: esistono culture, tradizioni, modelli di relazioni sociali, forme di vita che non solo hanno resistito, ma hanno generato modelli di sviluppo alternativi a quello dominante, alcuni dei quali fondati sul mercato ma non capitalistici, e la Cina ne è l’esempio più significativo. 


Arrighi parte evocando certe costanti che hanno caratterizzato la millenaria storia cinese. In particolare, ricorda che la rivoluzione industriale occidentale è riuscita a prevalere solo nel XIX secolo sulla “rivoluzione industriosa” orientale, concetto con cui si riferisce alla struttura istituzionale dominante in Asia che, ancorché deficitaria in materia di innovazioni su larga scala, investimenti in capitale fisso e traffici di lunga distanza, favoriva tecnologie ad alta intensità di lavoro, privilegiando le risorse umane rispetto alle risorse materiali. Arrighi ricorda poi che la Cina  non ha mai intrapreso guerre su vasta scala, né ha tentato di costruire imperi d’oltremare nei secoli in cui lo scenario europeo era caratterizzato dalla feroce competizione militare fra nazioni e dalle conquiste imperiali. Nel secolo XVIII lo stato nazione cinese esisteva da tempo immemorabile e aveva sviluppato un immenso mercato interno. Le dinastie Ming e Qing impegnarono tutte le risorse nel consolidamento di relazioni pacifiche con i confinanti e di una economia nazionale basata sull’agricoltura. Queste politiche generarono prosperità e crescita demografica, ma la Cina fu cieca di fronte al pericolo che incombeva da Occidente. Tuttavia non fu la presunta superiorità economica del modello occidentale a metterla in ginocchio: in barba alle previsioni di Marx ed Engels, secondo cui le merci occidentali a buon mercato sarebbero state “l’artiglieria pesante con cui la borghesia europea avrebbe abbattuto le muraglie cinesi”, i mercanti inglesi scoprirono di non poter battere la concorrenza di quelli cinesi. Per sottomettere la Cina gli occidentali dovettero scatenare le guerre dell’oppio, alle quali seguì un secolo di umiliazioni e vessazioni da parte dei “barbari” occidentali e del Giappone, fino all’invasione con cui quest'ultimo  anticipò la Seconda guerra mondiale.  


Cosa ha permesso alla Cina, dopo essersi liberata con la rivoluzione del 1949, di accrescere la propria potenza fino ad assumere il ruolo di competitor nei confronti dell’impero Usa? Arrighi data l’inizio del processo al tempo della grande rivolta dei popoli asiatici e africani contro l’Occidente degli anni Cinquanta, allorché nacque un fronte ampio delle nazioni ex coloniali – il movimento dei “non allineati” – che si allearono per rivendicare un nuovo ordine economico internazionale. Ancorché sconfitta, quella sollevazione non lasciò le cose com’erano prima. In particolare, creò le basi per l’ascesa della potenza collettiva di un arcipelago asiatico che si propose in tempi brevi come “officina del mondo” e fonte di enormi riserve di liquidità. E la Cina, pur inserendosi per ultima in tale concerto, divenne il capofila di questa sfida all’Occidente. 


A coloro che considerano tale “miracolo” come il prodotto della conversione dello stato/partito comunista al credo neoliberale, Arrighi oppone un’altra spiegazione: a determinarlo fu il fatto che, scartando le shock terapy confezionate dal Washington Consensus per “risanare” le economie dell’ex Unione sovietica e relativi satelliti, Deng  ha imboccato una via riformista inspirata a un rigoroso gradualismo. A far decollare l’economia è stata la decisione di imporre alle aziende statali di farsi concorrenza e di accettare la concorrenza delle aziende straniere e delle nuove aziende a partecipazione privata. Alla formazione dell’immenso mercato interno cinese ha poi contribuito la scelta di consentire ai residenti delle aree rurali la possibilità di svolgere attività di trasporto e commercio anche a grande distanza. Infine Arrighi sfata due miti: a favorire l’enorme flusso di investimenti stranieri nelle Zone Speciali istituite dopo le riforme del 78 non è stato il basso costo della forza lavoro bensì l’alta qualità di quest’ultima in termini di salute, livelli di istruzione e ampi margini di autonomia, tre caratteristiche ereditate dall’era maoista; quanto agli investimenti stranieri: più delle multinazionali occidentali, a trainarli furono le imprese dei cinesi della diaspora. Infine gli investimenti occidentali si sono dovuti avvalere della mediazione di “sensali” locali, così la lingua, le usanze e le reti sociali hanno contributo a proteggere l’economia cinese da eccessivi livelli di condizionamento da parte del capitale straniero. 


È stato tutto ciò, argomenta Arrighi, a favorire uno sviluppo di mercato di tipo non capitalistico (quello che i cinesi chiamano socialismo con caratteristiche cinesi o socialismo di mercato). Per i marxisti ortodossi, questa è una eresia. Giusto, ma il punto è che Arrighi evoca un cambio di paradigma: abbandonando la prospettiva globalista di un mondo livellato dal processo di accumulazione capitalistico, mette in luce la novità di un Paese di un miliardo e mezzo di persone che ha ibridato tre fattori apparentemente incompatibili: una millenaria tradizione capace di generare una ricchezza fondata sulla stabilità sociale e sull’attenzione al bene comune; la spinta innovativa di una rivoluzione di liberazione nazionale guidata da un partito marxista-leninista; un uso del mercato tanto spregiudicato quanto sottoposto al ferreo controllo dello stato-partito. 


Il libro di Arrighi non risolve forse tutti i dubbi sulla natura della società cinese, ma basta a liquidare come una idiozia le etichette di capitalismo di stato e potenza imperialista emergente. Resta il dilemma: è un Paese socialista o una formazione sociale di tipo nuovo? Vladimiro Giacché evidenzia (32) le differenze fra il socialismo in stile cinese e la visione marxista “classica” (mutuata dalla Critica al Programma di Gotha di Marx e dall’ Anti Duhring di Engels). Secondo la versione “canonica” il socialismo non è caratterizzato solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari. Un dogma che non verrà messo in discussione neanche dai bolscevichi nei primi anni successivi alla Rivoluzione del 1917, ma s partire dagli anni 1921-23, Lenin criticò chi sosteneva la possibilità di transitare direttamente al socialismo senza passare da una fase di transizione, e sostenne che tale fase sarebbe stata lunga e caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari. 


Giacché ha ragione di affermare che “se la scomparsa della produzione mercantile è assunta quale unico parametro del carattere socialista di una società, non può considerarsi tale né la Cina di Mao, né tantomeno quella di Deng e dei successori”. Ricorda però che Lenin, nel 1918, ebbe a dire: “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet”. Perché negare ai comunisti cinesi il diritto di rivendicare il carattere socialista della Repubblica Popolare? Resta il dubbio se la Cina sia un Paese in transizione verso il socialismo o verso un modello inedito di formazione sociale. I marxisti ortodossi potrebbero replicare che riconoscere il carattere socialista della Cina è un atto di fede basato su argomenti ideologico-politici ma insostenibile sul piano socio-economico, a meno di non riformulare alcune categorie fondamentali del marxismo. È appunto ciò che tentano di fare Alberto Gabriele ed Elias Jabbour in un libro (33) che discuterò nel prossimo paragrafo. 



3. Legge del valore e socialismo 


Secondo Gabriele e Jabbour non esistono allo stato attuale Paesi che rispecchino modelli di ”puro”  socialismo; esistono piuttosto Paesi che si possono definire come “socialistic” o “socialist oriented”  ove soddisfino due condizioni: a) siano governate da forze politiche che rivendicano ufficialmente e credibilmente di essere impegnate nello sviluppo di un sistema socialista; b) siano avanzate in apprezzabile misura in direzione della costruzione del socialismo. Il grado di orientamento in senso socialistico è correlato con obiettivi quali la riduzione della disuguaglianza, la soddisfazione universale dei bisogni di base, la sostenibilità ambientale, ecc. Come si vede la proprietà di “essere socialista” è qui definita in senso “debole”. Per esempio, in un altro passaggio, si allude a modalità di distribuzione dei redditi e della ricchezza nettamente più egualitarie di quelle in auge nei Paesi capitalisti (un’economia mista come quella italiana degli anni Sessanta non era così lontana da soddisfare tale requisito). Infine Gabriele e Jabbour affermano che il socialismo come modo di produzione è radicato solo in certe aree del Sud ed è ancora nella sua infanzia (di fatto considerano “socialist oriented” solo Cina, Vietnam e Laos, mentre tacciono sui socialismi latinoamericani). 


In che misura è possibile utilizzare in questo contesto il concetto di modo di produzione? La categoria marxiana di modo di produzione presuppone l’esistenza di una serie di fattori altamente specifici (il modo di produzione capitalista non è definito solo dalla produzione di merci ma anche da precise figure sociali - borghesia e proletariato – e dalle relazioni di produzione e scambio che le interconnettono, ecc.). Nel senso più astratto, il modo in produzione è un sistema dotato di coerenza interna e leggi di autoconservazione e movimento (Gabriele e Jabbour notano che il concetto è compatibile con quello di sistema elaborato dalla teoria dei sistemi, e io aggiungerei con quello di struttura). Tuttavia si tratta appunto di un modello astratto, al quale le concrete formazioni socioeconomiche, storicamente e geograficamente determinate, possono aderire in misura significativamente diversa (con il termine formazione socioeconomica, Gabriele e Jabbour definiscono un sistema dotato di un certo grado di consistenza e stabilità interne che predomina storicamente in un dato luogo identificato da coordinate spaziotemporali). Laddove Marx ipotizzava che il modo di produzione capitalistico fosse destinato a diffondersi a livello mondiale fino a soppiantare tutti gli altri (a meno che non fosse rovesciato da una rivoluzione socialista), Gabriele e Jabbour sostengono che, anche nell’attuale contesto di tardo capitalismo “globalizzato”, il suo primato può essere, in differenti contesti storico-geografici, assoluto o relativo. Gli Stati Uniti rappresentano un chiaro esempio di supremazia assoluta del modo di produzione capitalistico, ma in altre formazioni socioeconomiche due o più modi di produzione possono coesistere in contesti che presentano relazioni di rivalità e/o di simbiosi, così come possono darsi situazioni di transizione da un modo di produzione a un altro. 


Questo pluralismo dei modi di produzione - riscontrabile soprattutto nel Sud del mondo, dove accanto al capitalismo esistono sia formazioni socioeconomiche socialist oriented che relazioni sociali di tipo precapitalistico – non vieta di riconoscere che il modo di produzione dominante a livello mondiale resta il capitalismo ma, al tempo stesso, non vieta di affermare che, laddove esso convive con altri modi di produzione, a meno di non assumere una visione teleologica della storia, non è possibile stabilire a priori quale modo di produzione prevarrà nel lungo periodo. In particolare, occorre prendere atto che il modo di produzione capitalista, ancorché dominante, lo è in misura minore del passato, in quanto il processo di globalizzazione ha offerto ai Paesi socialist-oriented l’opportunità di integrarsi nell’economia mondiale e di competere con i paesi capitalisti senza rinunciare al proprio progetto di transizione al socialismo. Infine Gabriele e Jabbour definiscono Meta Modo di Produzione l’attuale  sistema globale, definito dalle seguenti caratteristiche: produzione di merci e rapporti di produzione e scambio, vigenza della legge del valore e del processo di estrazione del plusvalore, coesistenza fra un macrosettore produttivo e un macrosettore improduttivo. 


La tesi più radicale di Gabriele e Jabbour consiste nell’affermare che l’esistenza del plusvalore non è di per sé indice di sfruttamento di classe né determina il grado di giustizia di una certa società. In quanto relazione sociale, scrivono, lo sfruttamento dev’essere considerato come una categoria sociologica che implica un giudizio etico-politico, nella misura in cui si tratta del frutto dell’asimmetria di potere fra capitalisti e lavoratori. L’appropriazione privata del surplus sociale, sostengono, non è un fatto meramente economico, ma va reinterpretato come un fenomeno sociale olistico prodotto dalla estrema disparità fra individui appartenenti a differenti classi sociali. In un certo senso, ciò significa affermare che non è l’appropriazione privata del surplus a produrre la disuguaglianza di classe ma è la disuguaglianza di potere fra le classi a generare le condizioni per l’appropriazione privata. Ora, se la legge del valore e le interazioni di mercato mantengono il loro ruolo in una formazione sociale in transizione verso il socialismo, è evidente che quest’ultima dev’essere un contesto in cui le categorie in questione subiscono un progressivo depotenziamento. Accantonata la tesi comune a Trotsky ed altri teorici marxisti che negano la possibilità della costruzione del socialismo in un solo Paese, è evidente che il concetto di transizione al socialismo debba essere formulato in termini meno ambiziosi e descritta come un processo di lunga durata in cui permangono i conflitti sociali. 


Secondo la visione sin qui esposta, la sfida del socialismo inteso come modo di produzione sui generis consiste nel riuscire a imporre le ragioni della politica sulle ragioni dell’economia. Per ottenere tale risultato si sono imboccate due vie: la via sovietica, caratterizzata dalla pianificazione centralizzata dell’economia, e la via delle economie socialiste di mercato come Cina, Vietnam e Laos (personalmente aggiungerei all’elenco alcuni Paesi latinoamericani).  Queste ultime sono caratterizzate: a) dal fatto che il meccanismo dei prezzi di mercato e la legge del valore sono la forma prevalente di regolazione (almeno nel breve medio termine); b) dal fatto che il ruolo diretto e indiretto dello Stato e il suo controllo sull’economia sono qualitativamente e quantitativamente assai superiori rispetto ai Paesi capitalisti; c) dal fatto che il governo rivendica come obiettivo a lungo termine la realizzazione del socialismo. 


4. Sulle riforme cinesi


Negli anni Cinquanta e nella prima parte degli anni Sessanta (almeno fino alla rottura con l’URSS), la Cina aveva tentato di imitare il modello sovietico: collettivizzazione delle campagne attraverso la costituzione delle Comuni agricole, concentrazione delle risorse nel settore dell’industria pesante e tentativo di costruire un sistema di pianificazione centralizzato. Pur contrastato da una parte del partito, Mao impose di insistere su questa via lanciando prima il Grande Balzo in avanti e, dopo il suo fallimento, la Rivoluzione Culturale contro la direzione del PCC che reclamava una svolta. Dopo la morte di Mao, le riforme iniziano dal settore agricolo dove viene applicato il principio liberalizzazione senza privatizzazione. Mentre la linea precedente imponeva ai contadini di sopportare il peso dell’accumulazione forzata del settore industriale, lo smantellamento delle Comuni e il ritorno all’impresa individuale come unità produttiva di base rilancia l’alleanza fra operai e contadini. L’intuizione di Deng è che questi ultimi possono rappresentare, un fattore strategico per le nuove strategie di sviluppo. Il nuovo sistema prevede che si stipulino contratti fra lo Stato e i contadini, costoro devono versare una quota del surplus al primo, ma possono vendere il resto sui mercati locali (in una fase successiva anche su mercati distanti). Nel contempo vengono effettuati investimenti in Ricerca e Sviluppo che favoriscono il rapido progresso tecnologico del settore. L’insieme di queste innovazioni determina un formidabile incremento della produzione agricola che rappresenta un potente volano per lo sviluppo dell’intera economia.



Deg Xiaoping




Nella prima fase delle riforme lo smantellamento delle Comuni ha offerto un importante contributo al decollo anche da un altro punto di vista. Ai tempi di Mao, le Comuni avevano sviluppato una serie di infrastrutture industriali per rendersi autonome e fungere da isole di resistenza economica, oltre che politico-militare, in caso di invasione. Queste infrastrutture vengono ereditate da piccole e medie imprese di villaggio (cooperative, municipali, in qualche caso private) che negli anni Ottanta e Novanta, prima di essere messe in crisi dalla crescita del settore privato o integrate nel settore statale, hanno innescato un vero e proprio boom. 


Se ci spostiamo sul piano delle grandi imprese industriali e della finanza vediamo come i media e gli “esperti” occidentali intonino un coro unanime: il “miracolo” cinese si spiega con il fatto che il Paese si è convertito al capitalismo pur restando sotto il governo totalitario dello stato/partito, ergo è  questione di tempo prima che esplodano crisi industriali e finanziarie simili a quelle dei mercati occidentali e che il regime comunista si sfaldi, aprendo la strada alla trasformazione del Paese in senso liberal-democratico. Ma le cose non sono andate, e difficilmente andranno in futuro, così. L’abbandono del modello sovietico di pianificazione centralizzata infatti non è coinciso con la fine della pianificazione. L’ascesa del mercato a meccanismo regolatore del sistema economico non si è associata a processi di deregulation di stile occidentale, al contrario: il mercato stesso è plasmato in larga misura dallo Stato, e la pianificazione non è morta ma si è fatta flessibile, articolandosi per settori e progetti. Le linee guida che governano l’azione dello stato/ partito impongono che venga rispettato il principio della prevalenza della proprietà statale e respinta l’ideologia “mercatista” occidentale: Mao è morto ma non è morto lo slogan che recita “la politica deve dirigere tutto”. Così, se è vero che le imprese pubbliche sono oggi in numero inferiore che in passato e concorrono in misura minore al prodotto globale, è altresì vero che sono più grandi e tecnologicamente avanzate e che le loro performance in termini di efficienza e redditività sono superiori a quelle delle imprese private. Questo risultato si è ottenuto applicando il principio “tenere le grandi mollare le piccole”; dando maggiore autonomia ai manager; consentendo la vendita dei prodotti a prezzi più alti di quelli fissati dal piano; esponendo progressivamente le imprese pubbliche alla concorrenza, sia sul piano interno che su quello internazionale. 


L’uso cinese della globalizzazione (finché gli Stati Uniti si sono resi conto che si stava rivelando un boomerang  e hanno avviato una strategia di “delinking” dal mercato cinese e di misure protezioniste) ha consentito di integrare il Paese nelle reti mondiali del commercio e della finanza senza cedere ai fondamentalisti del mercato. Ciò è stato possibile grazie al controllo politico sulla finanza e al conseguente mantenimento di una relativa autonomia dal dollaro. Naturalmente, la Cina non gode ancora di una totale sovranità monetaria, tuttavia, grazie alle enormi dimensioni della sua economia, al progressivo spostamento del motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni e al controllo politico sul sistema finanziario, è stato possibile contenere l’impatto della crisi delle tigri asiatiche del 1997 e della crisi finanziaria globale del 2007-2008. 


Il processo di riforma è andato avanti a lungo in modo relativamente caotico, per tentativi ed errori, ma ora  sta assumendo forme, principi e valori sempre più definiti e consolidati, e la leadership di Xi Jinping è coincisa con il rilancio delle ambizioni di trasformazione in senso socialista, sancita dal rafforzamento del controllo capillare del Partito su imprese (sia pubbliche che private) e istituzioni economiche e dal varo di politiche redistributive a favore delle classi lavoratrici, finanziate attraverso l’inasprimento dei prelievi fiscali sui profitti. Ciò detto, il processo cinese è associato a fattori storici, geografici e culturali unici, per cui non può essere assunto come un modello esportabile in altri contesti. Tuttavia non vi è dubbio che contenga un insegnamento di carattere generale: per Marx ed Engels il comunismo era un obiettivo realizzabile già nel loro tempo storico, a coronamento di un breve processo di transizione socialista; Lenin, messo di fronte alle  difficoltà della transizione, varò la NEP contro le pretese della sinistra bolscevica che chiedeva l’abolizione immediata dei rapporti monetari di scambio; dall’esperienza cinese ereditiamo invece la consapevolezza del fatto che il passaggio dalla regolazione dell’economia attraverso il mercato a forme avanzate di pianificazione è un processo inevitabilmente assai lento e complesso, e può realizzarsi solo quando il processo di trasformazione del modo di produzione avrà raggiunto un livello assai avanzato (senza dimenticare che il persistere di differenze e conflitti di classe potrebbero decretarne il fallimento, come è avvenuto in Russia, sia pure in un contesto differente). 


Concludo con una postilla sulla distinzione fra emancipazione del lavoro ed emancipazione dal lavoro, un obiettivo rivendicato, fra gli altri, dai “costruttori di dio” (vedi sopra) , dal Bloch del Principio Speranza, dai teorici post operaisti come Negri, Gorz e, mi pare, dallo stesso Traverso. A questa visione, che rischia di ridursi a una sorta di apologia del consumo (cfr. la richiesta di reddito universale incondizionato a prescindere dallo svolgimento di qualsivoglia attività lavorativa), preferisco opporre quella di Lukacs che, nella Ontologia dell’essere sociale, considera il lavoro in quanto ricambio organico uomo-natura come il modello di ogni prassi sociale e il fondamento di ogni visione materialistica dell’essere sociale, cioè qualcosa da cui non ha senso “emanciparsi”: posto che solo la società capitalistica occulta il fondamento concreto-ontico del lavoro per ridurlo a merce forza-lavoro e a fonte del valore di scambio, l’emancipazione del lavoro significa emanciparsi da questa aberrazione e non emanciparsi dal lavoro, ma piuttosto ricondurre quest’ultimo alla sua natura di ricambio organico uomo – natura.


Note


(1) Cfr. C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll., Meltemi, Milano 2023.


(2) https://tempofertile.blogspot.com/2022/09/enzo-traverso-rivoluzione.html?q=traverso



(3) Cfr. K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 2022; vedi anche Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori Riuniti.


(4) Cfr. in particolare, Guerra e rivoluzione, op. cit., vol. I cap. I.


(5) C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.


(6) G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Meltemi, Milano 2023.


(7) Il filosofo italiano che ha trattato in modo più approfondito e convincente il concetto di autonomia del politico è Mario Tronti.


(8) Cfr. W Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.


(9) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017.


(10) V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, Edizioni clandestine, Massa 2017. 


(11) Cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001.


(12) Vedi in particolare, R. di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011.


(13) Mi sono occupato del transumanesimo e delle  altre utopie delle cyberculture californiane in Incantati dalla Rete, Cortina, Milano 2000.


(14) Cfr. R. Koselleck, Futuro passato, Hoepli, Milano 2007.


(15) Il più noto romanzo di fantascienza di Bogdanov è Stella Rossa (Alcatraz 2019, con una presentazione dei Wu Ming)


(16) Cfr. E. Block, Il principio speranza, 3 voll. , Mimesis, Milano-Udine 2019.


(17) Vedi Guerra e rivoluzione, op. cit. vol. I, cap. I. 


(18) Ho potuto studiare la Revolucion Ciudadana di Rafael Correa nel corso nell’estate del 2012, trascorsa a Quito. Come ho argomentato in Magia bianca magia nera (Jaka Book, Milano 2013), già allora erano evidenti le contraddizioni (in particolare il conflitto fra governo e associazioni della minoranza di origine india) che avrebbero consentito alle destre neoliberiste di riconquistare il potere.


(19) Vedi A. G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.


(20) Cfr. C. Preve, Opere, vol. II,  Manifesto filosofico del comunismo comunitario, Inschibbolleth edizioni. 


(21) Cfr. D. Losurdo, La questione comunista, Carocci, Roma 2021. 


(22) A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(23) Vedi la lettera di Marx a Vera Zasulic, in K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960; vedi inoltre E. Dussel, L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009, vedi infine P. P. Poggio, L’obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976. 


(24) J. C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino 1972.


(25) A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de suenos, Quito 2015. 


(26) Considero La nuova ragione del mondo di P. Dardot e C. Laval (DeriveApprodi, Roma 2013) la migliore analisi di questa controrivoluzione culturale.


(27) Cfr. H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 2001. Per un'analisi attualizzata della sostanziale compatibilità fra cultura delle nuove sinistre libertarie e sistema neoliberale vedi L. Boltanski e E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.   


(28) Sull’abdicazione dei nuovi movimenti rispetto nei confronti di qualsiasi progetto di conquista del potere cfr. P. Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012.


(29) Definisco così i regimi di Cina, Vietnam, Cuba, Venezuela, Bolivia ecc. nel secondo volume di Guerra e rivoluzione, op. cit.


(30) Cfr. D. Harvey, The Anti-capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020. 


(31) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007 (nuova edizione in Mimesis). 


(32) Cfr. V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, In AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020;  V. Giacché (a cura di) Economia della rivoluzione (raccolta di testi di Lenin), il Saggiatore, Milano 2017


(33) A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21st Century. A Century after the Bolshevik Revolution, Routlege, London- New York 2022.

sabato 10 agosto 2024

 PER COSTRUIRE  IL SOCIALISMO DEL SECOLO XXI  
NON SERVE RILEGGERE IL PASSATO CON VECCHIE CATEGORIE
MA ANALIZZARE IL PRESENTE DA PROSPETTIVE INEDITE

IN MERITO A UNO SCAMBO EPISTOLARE FRA IL SOTTOSCRITTO E GLI AMICI DEL FORUM ITALIANO DEI COMUNISTI 


Da qualche tempo gli amici del Forum italiano dei comunisti mi hanno inserito in una loro mailinglist. Qualche settimana fa mi hanno inviato un file che contiene un libro di Roberto Gabriele che ha lo stesso titolo del mio blog (lo potete scaricare al seguente indirizzo). Mi hanno chiesto di darne un giudizio critico e di stendere eventualmente una prefazione (o una postfazione) in vista della pubblicazione che, se ho ben inteso, è prevista dopo l'estate in corso. Ho letto con attenzione il testo in questione, tuttavia, a mano a mano che procedevo nella lettura sono passato da una benevola aspettativa (dovuta al fatto che gli amici del Forum, rispetto alla galassia dei partitini, gruppi e gruppuscoli neocomunisti residuati dallo sfascio di PCI, PdRC e cespugli vari, hanno almeno il merito di rifiutare la scorciatoia di una illusoria riaggregazione per sommatoria dell'esistente), a una profonda irritazione, dovuta al fatto che, ancora una volta, l'attenzione si concentra prevalentemente sul passato alla ricerca di errori e tradimenti e di un mitico "filo rosso" che marcherebbe la continuità di un genuino orientamento comunista dal Manifesto del 1848 ai giorni nostri. Sull'onda di tale irritazione ho risposto all'invito di cui sopra con la mail che riproduco quasi integralmente qui di seguito (solo con qualche minima correzione e integrazione). 


(...) ho la sensazione che tutti voi di area neo-post comunista leggiate poco o almeno con poca attenzione le cose che vado scrivendo sul blog e/o sui miei libri. Altrimenti vi sareste resi conto che sono lontanissimo dal taglio memorialista-nostalgico di approcci come quello di Gabriele (e di molti, ahimè quasi tutti, gli altri amici del giro). Per essere brutalmente franco e per semplificare al massimo: 

1) non credo più da tempo che esista qualcosa come il socialismo “scientifico” di cui si parla nel libro. Lukacs, Gramsci e molti altri (come il benemerito, almeno sul tema in questione, Preve) hanno chiarito una volta per tutte che quella di Marx (meno quella di Engels) è una filosofia della prassi che non pretende di desumere presunte “leggi” del processo storico (Marx lo ha esplicitamente negato in varie occasioni e Lukacs vi ha calato sopra la pietra tombale nel suo capolavoro L'ontologia dell'essere sociale).  Ogni altra opinione in merito è ciarpame scientista e positivista, a partire dalle oscene teorizzazioni di Stalin sul cosiddetto materialismo storico e dialettico. Il metodo marxiano consente di cogliere
“tendenze” non “leggi” nel processo storico e di definire “possibilità” e non previsioni, né tanto meno certezze, in merito a processi storici che sono largamente contingenti e imprevedibili;

2) Quando sento parlare dello sviluppo delle forze produttive come condizione “oggettiva" imprescindibile per la transizione al socialismo metto mano alla pistola, dato che la cruda realtà (TUTTE le rivoluzioni socialiste vittoriose sono avvenite in paesi “arretrati” e
TUTTE quelle sconfitte in paesi industrialmente avanzati) impone di buttare a mare questa idiozia; 

3) non esiste una sorta di filo rosso che vada dal Manifesto del 1848 alla rivoluzione russa del 17 a quella cinese del 49 al dopo Mao: quella storia è fatta di infinite contraddizioni,
errori, conflitti (di classe e non solo ideologici) avanzate, ritirate, disfatte, vittorie ecc. da cui non si possono estrarre  giudizi e valutazioni univoche 

4) quanto a Lenin: manca  la consapevolezza del suo approccio ERETICO e non restauratore dell’ortodossia marxista, che è poi ciò che gli ha consentito di vincere nel 17, così come manca una seria riflessione sul significato della NEP, sulla difesa del capitalismo di stato come fase necessaria della transizione e altre cose che rendono il pensiero di Lenin  inassimilabile al rigido e rozzo schematismo staliniano; 

5) infine non ne posso più di ricostruzioni della catastrofe comunista come effetto del tradimento revisionista (il 56 di Krushev, la svolta di Berlinguer, ecc. mentre su Togliatti si tende perlopiù a sorvolare). Sarebbe piuttosto ora di capire CHE COSA HA RESO POSSIBILI QUEI COSIDDETTI TRADIMENTI, per riflettere su difetti che stavano nel manico…

Insomma l’intera teoria rivoluzionaria è da ripensare guardando assai più a ciò che è avvenuto nel secondo dopoguerra nel resto del mondo, piuttosto che nella nostra miserabile Europa 

Carlo Formenti

* * *

Mi rendo conto che il lettore del blog, non avendo letto il testo di Gabriele (cosa che può fare seguendo il link sopra riportato) può sentirsi spiazzato dall'asprezza della mia critica. Tuttavia potrà meglio afferrare l'oggetto del contendere prendendo visione della doppia replica a firma, rispettivamente, di Paolo Pioppi e dell'autore del testo da me criticato, Roberto Gabriele, nonché della mia successiva controreplica


La mail di Pioppi 

Caro Formenti,
ti ringrazio della tua risposta che ho girato a Gabriele che probabilmente vorrà rispondere a modo suo. Per quanto mi riguarda non mi turba la franchezza né i toni da sfogo di cui ti scusi che sono anzi benvenuti se servono a dissipare gli equivoci. Ed equivoci mi sembra che ce ne siano parecchi, visto che ci metti nel mucchio dei neo-post comunisti o dei cultori di una sterile ortodossia, cioè di quelli che sono sempre stati bersaglio delle nostre critiche.
Ho letto con attenzione (quella certo limitata di cui sono capace) i tuoi due volumi su guerra e rivoluzione e non è certo un caso se ho chiesto a te di leggere ed eventualmente commentare il libretto che vogliamo stampare. Penso invece che tu ti sia limitato ad ‘annusare’ il nostro scritto con un approccio pregiudiziale che ti fa percepire la puzza di cose che non ti piacciono.
Il nostro scritto infatti cerca di mettere il dito non sulla continuità di una inossidabile dottrina ma al contrario proprio sulla necessità di spiegare i momenti di rottura sia nell’URSS (sottolineando che non basta denunciare revisionismo e tradimenti, ma bisogna anche spiegare perché hanno avuto il sopravvento) sia in Cina, dove polemizziamo con la tendenza a passar sopra ai conflitti e alle clamorose contraddizioni attraversate per arrivare alla situazione attuale, limitandosi a fare i propagandisti del socialismo con caratteristiche cinesi come se questo di per sé risolvesse i problemi che abbiamo di fronte in Italia (tipico il ruolo assunto da Marx XXI in questo senso).
Vedi Formenti,
noi non siamo analfabeti e qualche lettura l’abbiamo fatta, però non siamo accademici e può darsi, anzi è sicuro, che qualche espressione utilizzata non sia stata sufficientemente chiarita. E’ il caso dell’espressione “socialismo scientifico” che tanto ti scandalizza  ("non credo più da tempo - scrivi - che esista qualcosa come il socialismo ‘scientifico’ di cui si parla nel libro"). Sicuramente quell’espressione, che aveva un senso ben preciso di contrapposizione all’utopismo, che peraltro viene anche valorizzato da Marx come precursore, va storicizzata, anche alla luce dell’ambiguità della scienza oggi in piena luce. Però Marx è stato un grande scienziato, come tale mai soddisfatto delle conclusioni raggiunte e come altri grandi scienziati ha lasciato un’eredità da cui è impossibile prescindere per chi cerca di comprendere il processo storico in atto. Forse è meglio parlare di materialismo storico, come propone già nel titolo il nostro libretto, analizzando sotto questa luce la storia del movimento comunista internazionale o perlomeno facendo l'elenco ragionato delle questioni da affrontare. Il tutto non con spirito nostalgico, ma con l’occhio al presente e alle contraddizioni attuali, come testimoniano le ultime 20 pagine sulle prospettive del socialismo nel XXI secolo e il post scriptum.
Con Gramsci e Labriola puoi chiamare se vuoi il materialismo storico "filosofia della prassi" cioè della produzione umana collettiva non solo dei beni materiali ma anche di tutti gli aspetti sovrastrutturali della società. Più semplicemente noi abbiamo sottolineato nel primo capitolo la coesistenza in Marx dello scienziato e del rivoluzionario e seguito nei capitoli successivi gli sviluppi, certo non lineari, di questa attenzione al reale e alle sue contraddizioni e dell'essere insieme rivoluzionari, che manca in alcuni prestigiosi 'marxisti', e accompagna invece soggettivamente i protagonisti attivi e creativi della grande trasformazione del modo di produzione capitalistico del quale Marx scienziato aveva saputo individuare le caratteristiche di fondo e la caducità. In questo c'è, eccome, un 'filo rosso' da riscoprire e non per nostalgia di un irripetibile passato.
In questo passato c'è, e occupa un posto di grande rilievo, Stalin. Nelle tue parole, sia pure con il beneficio d’inventario della calura agostana e di altri problemi, si avverte grande disprezzo per la sua figura, e in questo non fai nessuno sforzo di presa di distanza dal mainstream. Ebbene noi non siamo mai andati in giro con le icone di Stalin, così come col libretto rosso di Mao. Quella di "stalinisti" del resto è un'etichetta che di solito viene appiccicata ad libitum dagli avversari e ormai è spesso sostituita senz’altro da quella di "comunisti". Noi abbiamo applicato un metodo diverso, ponendo ad ogni passaggio la questione delle diverse possibilità che si presentavano concretamente e della giustezza o meno delle scelte compiute per le quali, come sempre avviene nella storia, non esistevano risposte prefabbricate. Questo metodo va applicato tra l'altro anche per la questione della NEP in cui qualcuno crede oggi di vedere la soluzione di tutti i problemi della rivoluzione, senza considerare le controindicazioni e scordandosi tra l'altro che la Cina è partita avvantaggiata dall'esperienza sovietica. Quanto ai trotskisti, sempre pronti a montare in cattedra, e scontando il fatto che gli epigoni di Trotski sono anche peggio dell’originale (leggere per credere gli spropositi attuali sul sionismo), ci immaginiamo cosa sarebbe successo della rivoluzione russa se Lenin nonostante tutto non fosse riuscito a prevalere su Trotski (e sugli altri tra cui Bucharin) sulla pace di Brest?....

Paolo Pioppi

(mi scuso con Pioppi se non ho riportato anche l'ultimo paragrafo della sua mail, ma i suoi contenuti erano irrilevanti rispetto ai temi della discussione)


UNA MESSA A PUNTO SUL COMUNISMO REALE

risposta a una lettera di Carlo Formenti


Di fronte al carattere 'eretico' della mail inviata da Carlo Formenti in risposta alla nostra richiesta di scrivere una prefazione all’opuscolo 'Per una interpretazione materialistica della storia del movimento comunista' siamo costretti a fare una difesa d'ufficio del movimento comunista così come noi lo intendiamo, anche se questo rafforzerà in lui l'idea del carattere 'memorialistico-nostalgico' della nostra posizione.

Non vogliamo lanciare anatemi - non è questa la fase - ma ribadire con forza una posizione, che peraltro ricorre in tutto il testo del nostro opuscolo, che ci sembra l'unica che possa darci la chiave interpretativa dell’attuale fase storica e insieme   anche fornire ai comunisti la lucidità di affrontare i drammatici avvenimenti che sono di fronte a tutti. 

Andiamo alla sostanza delle questioni poste da Formenti. Esiste un ‘socialismo scientifico’ a cui i comunisti possono fare riferimento per capire le contraddizioni del capitalismo e impostare la loro strategia? Formenti sostiene di no e introduce il concetto di 'tendenze' e non di 'leggi' rispetto a come Marx ha definito la questione. Possiamo pure passare il tempo a disquisire su questo, ma per noi è la sostanza che prevale sulla forma. In altre parole, non esiste un movimento comunista che non basi la sua azione su una interpretazione scientifica dei fenomeni storici su cui fondare la propria strategia.

Che cos'è il Manifesto del 1848? Che cos'è Il Capitale in cui Marx analizza la dinamica del sistema capitalistico? Cos'è infine la concezione materialistica della storia a cui Marx ed Engels hanno dedicato parte delle loro opere? Per noi questa è la  base scientifica su cui poggia la continuità del movimento comunista e, pur criticando gli schematismi interpretativi che hanno caratterizzato la fase emmellista di almeno una parte dei movimento comunista, ribadiamo con Lenin che ‘senza teoria nessuna rivoluzione è possibile’ e le fonti della teoria per noi sono quelle che abbiamo citato.

Col secondo punto della sua risposta ci sembra che il compagno Formenti abbia fatto un vero e proprio scivolone interpretativo, equivocando sul senso di ciò che abbiamo scritto e finendo per fare affermazioni che non reggono all'analisi dei fatti.

Ci riferiamo a quella parte della lettera in cui dice che gli viene la voglia di portare la mano alla pistola quando sente parlare di sviluppo delle forze produttive come condizione del passaggio al socialismo, dal momento che le rivoluzioni socialiste vittoriose hanno avuto luogo, senza eccezione, in paesi “arretrati” e certamente non nelle punte avanzate dello sviluppo. Quindi, sembrerebbe dire Formenti, che c'entra la rivoluzione con lo sviluppo delle forze produttive?

Dov'è dunque l'abbaglio?  Formenti dimentica due cose: l’esperienza cinese e la natura della crisi che ha portato al crollo del socialismo in URSS e nei paesi socialisti europei. Ambedue pongono, eccome, la questione delle forze produttive. Nel caso della Cina è più che evidente che la sconfitta della rivoluzione culturale e la vittoria di Deng Xiaoping sono avvenute proprio sulla questione dello sviluppo delle forze produttive, cioè sul modo di accelerare un processo di crescita economica che diventava decisivo per la sopravvivenza del socialismo. D'altro canto, per quanto riguarda l'URSS e i paesi socialisti europei, il crollo è avvenuto per l'incapacità del gruppo dirigente del PCUS di avviare quelle trasformazioni che potevano essere in grado di bloccare una crisi interna che ha portato poi alla controrivoluzione.

I fatti storici hanno dimostrato che, in presenza di un polo imperialista molto attivo, la questione dell'equilibrio economico con il sistema capitalistico egemonizzato dagli USA è una delle sfide decisive per i comunisti che sono al potere se vogliono costruire il socialismo. Non solo, ma la forza economica della Cina e la rete dei Brics sta scavando la fossa all'imperialismo occidentale a guida americana. C'entra tutto questo con lo sviluppo delle forze produttive?

Formenti se la prende con coloro che attribuiscono la crisi del movimento comunista ai ‘tradimenti’ di Krushev, Togliatti, Berlinguer e quant’altri e sostiene che bisognerebbe invece guardare alla situazione oggettiva per capire quei tradimenti. Peraltro, aggiunge, bisognerebbe anche distogliere lo sguardo dalla nostra 'miserabile Europa' e capire ciò che è avvenuto e sta avvenendo nel resto del mondo.

Ebbene, intanto - e questo nell’opuscolo è ben sottolineato - non siamo tra quelli che si accaniscono sul termine ‘revisionismo’, fattore puramente ideologico, nell'interpretazione dei fatti storici di cui stiamo parlando. Infatti, aldilà degli anatemi, bisogna contestualmente spiegare perché l'URSS è crollata e il PCI si è autoliquidato. In tutto questo ovviamente c'entra anche la responsabilità dei Krushev o degli Occhetto, come anche il  riconoscimento che, aldilà delle cause oggettive, bisogna parlare di controrivoluzione, come in Francia a suo tempo si parlò del Termidoro.

Non si può passare oltre a queste cose guardando da un'altre parte e riprendere il discorso sulla rivoluzione comunista da zero. Bisogna guardare all'insieme del processo storico che i comunisti hanno attraversato e ritrovare il ‘filo rosso’ della loro azione nella lotta per la trasformazione sociale.

Quello che è avvenuto in questa 'miserabile Europa' negli anni'90, ad Est come ad Ovest, interessa tutto il movimento comunista, non solo per le conseguenze che ne sono derivate, ma per il fatto che si tratta di un punto critico dello sviluppo del movimento comunista, con cui fare i conti proprio rispetto all'analisi teorica.

Per concludere, non meniamo scandalo per la lettera di Carlo Formenti e pensiamo che sui temi a cui fa riferimento dobbiamo ritornarci sopra e confrontarci, data anche l'assenza di discussione nell'area comunista. Senza però perdere la bussola, che per noi è rappresentata dall'esperienza storica del movimento comunista e dalle elaborazioni teoriche che l'hanno accompagnata. Dai critici del movimento comunista reale aspettiamo ancora una dimostrazione pratica dell'efficacia della loro azione. Perciò ci atteniamo a Hegel quando afferma che il reale è razionale.


Roberto Gabriele



LA MIA CONTRO REPLICA


Non dobbiamo “perdere la bussola”? Magari l’aveste persa anche voi, come io mi sforzo di fare da qualche anno con i miei modesti mezzi intellettuali, assieme a pochi altri sopravvissuti al naufragio del comunismo occidentale! Se infatti la bussola con cui vi orientate è quella che traspare dai vostri scritti, cari amici e compagni, posso solo invitarvi a buttarla a mare. Ma vediamo alcune questioni di fondo (schematicamente, perché non posso riscrivere le centinaia di pagine che ho dedicato al tema). 

Prima però alcuni riferimenti che ritengo imprescindibili per chiunque voglia ragionare sulla realtà storica che ci troviamo di fronte: 1) Lukacs (non quello di “Storia e coscienza di classe”, che lui stesso ha liquidato con la battuta “allora ero più hegeliano di Hegel”, bensì quello del capolavoro “Ontologia dell’essere sociale”); 2) Arrighi (tutti gli ultimi scritti, ma in particolare “Adam Smith a Pechino”) 3) qualcosa di Preve (quello dell’84 non quello sul comunitarismo); qualcosa di Losurdo (non quello che ha scritto che i comunisti dovrebbero imparare dalle cose migliori del liberalismo); 4) Zhok (vedi la “Critica della ragione liberale); 5) Visalli (vedi l’analisi delle teorie della dipendenza da Baran-Sweezy al quartetto  Amin, Arrighi, Wallerstein, Frank); 6) alcuni scritti di Vladimiro Giacché sulla transizione al socialismo; infine volendo immodestamente auto citarmi, i miei scritti su Lukacs (in particolare “Ombre rosse” e l’introduzione alla nuova edizione dell’Ontologia). Ciò posto (ovviamente non è mia intenzione indurvi a leggere quanto appena elencato,  che serve solo a rendere più chiaro, ove interessi, il mio punto di vista) procedo per punti.


Senza teoria niente rivoluzione? Certo, basta intendersi sul significato del termine teoria…Perché se per teoria si intende il cosiddetto “socialismo scientifico” non metto forse le mani alla pistola ma sicuramente le metto nei capelli. Allora: non credo che esistano una scienza borghese e una scienza proletaria (gli scienziati sovietici che lo pensavano hanno partorito mostri come le teorie di Lysenko sull’evoluzione). La scienza moderna è una ed è un  miscuglio inestricabile di conoscenze oggettive sul mondo e di interessi di classe che, in molti casi e recentemente in misura crescente, inficiano in tutto o in parte quelle conoscenze. Dopodiché Lukacs e altri hanno chiarito una volta per tutte che il pensiero di Marx non fa parte della scienza in questione (ne fanno semmai parte le sue interpretazioni di stampo illuminista-positivista, particolarmente in campo economico). 


L’unica scienza riconosciuta daMarx, scrive Lukacs, è la storia. Ma attenzione non si intende qui quell’obbrobrio staliniano che è il diamat (materialismo storico e dialettico) che ha partorito l’altra scemenza dei “cinque stadi” (per inciso questo è stato il prodotto – purtroppo complice Engels – dell’ambizione di costruire una “scienza unificata” di storia, natura e società), per cui è esclusa a priori l’idea dell’esistenza di qualcosa come la “necessità” storica (le cosiddette leggi storiche): l’analisi storica non fa previsioni a priori sul futuro ma scopre a posteriori le dinamiche (le tendenze) che hanno prodotto determinati esiti del processo storico (per inciso Marx, in una lettera polemica al recensore russo del Capitale, ha esplicitamente negato di aver voluto individuare le leggi universalmente valide del processo storico: il testo è riportato nell’antologia “India, Cina Russia” pubblicato nel 1960 dal Saggiatore). 


Se poi volessimo estrarre dal Manifesto del 48 la descrizione di simili leggi peggio mi sento: si tratta di un testo ultra datato e pieno di previsioni clamorosamente sbagliate (la riduzione delle classi al binomio capitale e lavoro, la negazione del potenziale rivoluzionario delle masse contadine, la teoria dell’impoverimento progressivo e, last but not list la globalizzazione: la tesi che entusiasma gli apologeti dell’impero a stelle e strisce alla Negri ma che l’indiscutibile inversione di tendenza in atto sta falsificando). Tale giudizio potrebbe essere esteso a molti altri testi canonici, ad eccezione di gran parte del Capitale. 


Il punto è che Marx non era “marxista”, non era cioè scienziato e in fondo (checché ne dica Preve che gli dà addirittura la patente di idealista) non era nemmeno un filosofo (vedasi le glosse a Feuerbach), la sua era piuttosto (gli ultimi a capirlo in Italia, prima che lo ribadisse Lukacs, furono Labriola e Gramsci, da aggiungere all’elenco di letture di cui sopra) filosofia della prassi  che sfuggiva all’opposizione metafisica fra idealismo e materialismo ma leggeva la realtà concreta  in funzione della lotta di classe. Per cui era disponibile ad riformulare di volta in volta la teoria in base a  tale analisi concreta (vedasi l’ipotesi, in totale contrasto con precedenti affermazioni, della possibilità di una transizione diretta al socialismo delle comunità contadine russe senza passare dalle forche caudine del capitalismo, ripresa dai marxisti latinoamericani e africani per valorizzare il potenziale anticapitalista di certe comunità originarie: cfr. Linera, Dussel, Cabral, ecc.).


Passiamo alla questione delle forze produttive qui è curiosa la vostra lettura dei “fatti” (i quali, notoriamente, se osservati con gli occhiali sbagliati danno esiti alquanto bizzarri). I fatti ci dicono che delle teorie di Marx ed Engels sulla transizione al socialismo (vedasi  ciò che ne scrive Giacché) non resta oggi pietra su pietra. In primis resta il “fatto” che nessun paese industriale avanzato ha fatto (a parte i tentativi abortiti del primo dopoguerra) la rivoluzione (perché i rispettivi proletariati sono stati felicemente integrati dal sistema), mentre questa è avvenuta negli “anelli deboli” (Lenin docet) ed ha avuto come protagoniste le larghe masse contadine alleate a proletariati in formazione e piccole borghesie urbane. 

Dopodiché cosa ci dice il successo cinese? Ci dice che per reggere all’impatto dell’accerchiamento capitalistico è stato necessario reintrodurre il mercato, e non solo nelle campagne, ma anche nella grande industria. La società cinese è oggi una società di mercato, in cui lo stato-partito mantiene il controllo sulla finanza e su alcuni settori chiave e impedisce alla borghesia di accedere al potere politico. Si tratta di un sistema misto storicamente del tutto inedito, che nessuno aveva previsto e che il solo Arrighi ha iniziato ad analizzare seriamente (valorizzando le specifiche caratteristiche storico-culturali della nazione cinese). Lenin aveva avuto intuizioni analoghe ai tempi della NEP (sviluppate solo in parte dato che la situazione socioeconomica russa era assai diversa da quella cinese di mezzo secolo dopo). Non ho qui spazio per ragionare sulle analogie con gli esperimenti  delle rivoluzioni bolivariane e di quelle nelle colonie portoghesi.


E l'Unione Sovietica? Credete seriamente che il crollo sia stato dovuto al fatto che ha perso la corsa allo sviluppo delle forze produttive con l’occidente capitalistico? La rapidità con cui è emersa una società ombra che ha rapidamente assunto il controllo della nazione, dell’economia, della cultura, ecc. non vi suggerisce alcunché? Certo si è trattato di controrivoluzione, ma non di un golpe di burocrati e revisionisti venduti, non esiste controrivoluzione senza radici di classe! Le classi in Russia, malgrado le rimozioni del regime, non sono mai sparite e le classi borghesi hanno sfruttato gli interstizi del sistema per preparare la propria rivincita, che hanno celebrato non appena ne hanno avuto l’occasione (regalatagli da una classe dirigente incapace di leggere la composizione sociale e le dinamiche del proprio paese). 


Sorvolo su Stalin (il merito di avere sconfitto il nazismo lo darei piuttosto all’eroico patriottismo del suo popolo e all’abilità dei generali sopravvissuti alle sue purghe) perché non credo che la sua “opera” offra seri spunti di discussione teorica. Ça suffit per ora (mi sono dilungato fin troppo), concludo dicendo che temo non vi siano “fili rossi” da recuperare e che non concluderemo alcunché se non riconoscendo che siamo all’anno zero e che il compito più urgente non è scrutare nel passato, perché non vi troveremo risposte per  le concretissime e terribili sfide che abbiamo di fronte, ma analizzare il presente con strumenti nuovi.


Carlo Formenti

NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO A mò d’introduzione Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) ...

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