Lettori fissi

sabato 29 maggio 2021

SULLA FILOSOFIA IMPERFETTA DI COSTANZO PREVE

Ovvero: come valorizzare le intuizioni di un marxista eretico, riconoscendone i limiti ma anche andando al di là delle scomuniche di cui fu vittima 


Dopo il post su Bordiga, proseguo la riflessione su alcuni autori che, pur avendo portato un contributo significativo alla teoria marxista, sono stati messi all’indice e rimossi dalla sinistra a causa delle loro tesi “eretiche” e politicamente “scorrette”. Questa seconda puntata è dedicata al pensiero di Costanzo Preve.   

In uno dei miei ultimi lavori (1) ho dedicato un paragrafo al “caso Preve”, nel quale osservavo come il contributo di questo autore controverso e geniale alla teoria marxista sia stato oggetto di una rimozione radicale, se non di un vero e proprio linciaggio ideologico, sia per le sue critiche feroci a una sinistra in via di autodissoluzione (formulate in tempi in cui ciò era ancora considerato intollerabile), sia perché la scomunica di cui fu vittima a causa di tale “colpa”, contribuì ad esacerbarne il carattere ombroso, innescando certi suoi atteggiamenti provocatori che gli costarono un isolamento pressoché totale. In questo scritto proverò a spiegare i motivi per cui ritengo importante – tanto sul piano teorico quanto sul piano politico – rivisitarne certe intuizioni che meritano di essere approfondite cercando, al tempo stesso,  di evidenziarne limiti e contraddizioni. A tale scopo prenderò in esame due testi distanziati da un quarto di secolo: La filosofia imperfetta (1984) e Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale (2009) (2). La parte dedicata a quest’ultimo testo anticipa alcuni dei temi che affronto nella Prefazione che ho scritto per una nuova edizione, prevista per il prossimo settembre. 


Costanzo Preve



1) La filosofia imperfetta 

Il libro del 1984 si articola in cinque parti dedicate, rispettivamente, 1) ai tre “discorsi” che, secondo Preve, sostanziano il corpus teorico marxiano; 2) ad alcune delle principali correnti marxiste del Novecento; 3) al pensiero di Heidegger, indicato come la vetta più elevata del pensiero borghese novecentesco; 4) all’utopia concreta di Ernst Bloch; 5) all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs. Tratterò esclusivamente delle prime due e della quinta, ignorando le sezioni dedicate a Heidegger e Bloch, sia per motivi di spazio, sia perché meno rilevanti rispetto alle questioni che intendo qui sollevare. I tre discorsi marxiani oggetto della prima parte sono: il discorso grande-narrativo, il discorso deterministico-naturalistico e il discorso ontologico-sociale (nella descrizione di quest’ultimo Preve fa ampiamente ricorso al capolavoro dell’ultimo Lukacs (3), che pur essendo trattato nella quinta e ultima parte, informa di sé tutte le parti precedenti). 

Prima di affrontare la critica dei discorsi grande-narrativo e deterministico-naturalistico, segnalo che le stesse questioni sono affrontate – in modo meno sistematico e con terminologie differenti - in un dialogo fra il sottoscritto e Onofrio Romano, pubblicato da DeriveApprodi con il titolo Tagliare i rami secchi (4). Personalmente, ma credo di poter parlare anche a nome di Onofrio Romano, devo dire che quando registrammo il nostro colloquio non conoscevo ancora il testo di Preve del 1984, per cui, leggendolo,  sono rimasto particolarmente colpito dalla convergenza dei punti di vista, in assenza di qualsiasi confronto diretto fra gli autori. 

La definizione più sintetica – e graffiante - di discorso grande narrativo che troviamo nel testo di Preve è la seguente: metafisica immanentistica di un Soggetto che marcia cantando verso l’utopia sintetica di una società integralmente trasparente. Per chiarire meglio il senso di alcuni dei termini evocati (soggetto con la maiuscola, utopia sintetica, società trasparente) aggiungo quest’altro passaggio: La categoria di soggetto (così come si presenta nella cornice di questa narrazione, nota mia) è titolare di un’essenza che pretende di contenere in sé, in modo immanente, una teleologia necessaria, la quale funge da supporto teorico di una concezione del comunismo come utopia sintetica, in cui pubblico e privato, individuale e collettivo, si fonderanno insieme. Per semplificare: ciò che Preve pone alla nostra attenzione critica è il fatto che Marx fa propria, in alcune parti della sua opera, la tesi secondo cui il proletariato sarebbe “per sua stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico, nonché di protagonista di un rivolgimento sociale e politico in grado di generare un mondo in cui le contraddizioni fra pubblico e privato, individuale e collettivo risulterebbero superate, pacificate. Una pretesa che – sia detto per inciso – lo stesso Marx (per tacere di Lenin) mette in questione, laddove pone la distinzione fra classe in sé e classe per sé, aggiungendo che la conversione della prima nella seconda non è inscritta in alcun dispositivo destinale (la cui sola esistenza giustificherebbe la Esse maiuscola attribuita a tale soggetto metafisico). Mettiamo per ora fra parentesi la questione del comunismo come “società trasparente”, che verrà ripresa più avanti, e passiamo al discorso deterministico naturalistico, che appare strettamente intrecciato con quello appena descritto, con il quale condivide la tendenza a una sorta di antropomorfizzazione della storia, nella misura in cui affianca alla narrazione di un soggetto collettivo capace di fondare il senso e la direzione del processo storico, l’ipotesi che tale processo sarebbe animato da una necessità immanente. 

A fungere da modello ideale di questa seconda narrazione, argomenta Preve, è il concetto di necessità elaborato dalla scienza ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità di anticiparne e prevederne gli esiti processuali. Ebbene, secondo Preve (e credo sia difficile contestare questa sua convinzione), anche in Marx esistono tracce di una mentalità scientifico-idealistica in ragione della quale la moderna produzione capitalistica assume il volto di una entità cosalmente impersonale. In ciò si avverte chiaramente l’influenza del concetto di storia naturale, influenza che fa sì che le legalità di tipo naturalistico vengano estese sotto forma di specifici vincoli necessitanti a quella sezione della natura chiamata società.  Dire che il comunismo è lo sbocco inevitabile, “scientificamente” prevedibile, della natura dinamica della moderna produzione capitalistica, argomenta Preve, non è diverso dal dire che il comunismo è il passaggio dalla preistoria alla storia attuato dal proletariato rivoluzionario. Se la teoria marxiana si potesse ridurre a queste due narrazioni, che contengono quattro miti (del soggetto, dell’origine, della fine e della trasparenza) avrebbero ragione i suoi più sofisticati detrattori borghesi, come Max Weber e Martin Heidegger (ai quali Preve dedica una parte che non ho qui modo di discutere). Senonché Preve sostiene, non solo che la teoria marxiana non può essere contenuta in questa cornice mitico-messianica, ma anche che gli elementi in questione sono secondari rispetto al filone fondamentale del pensiero di Marx che, come chiarito dall’ultimo Lukacs (5) è di tipo ontologico-sociale, per cui esclude a priori qualsiasi teleologia automatica della storia. 

Approfondiremo quest’ultima asserzione più avanti, discutendo della filosofia di Lukacs e della lettura offertane da Preve. Prima affronterò la seconda parte del libro, nella quale l’autore prende avvio dal seguente interrogativo: visto che i marxismi dopo Marx  si sono quasi sempre inspirati alle due narrazioni mitiche sopra descritte, piuttosto che all’ontologia sociale, è possibile superarli a partire da una interpretazione autentica  dell’opera del maestro? La risposta non può che essere negativa, perché cento anni di interpretazioni sbarrano la strada del viaggio verso il contatto originale e autentico con Marx. Ma soprattutto occorre tenete presente che i “fraintendimenti” del testo originale non sono frutto di “errori concettuali”, bensì “immagini del mondo” (concetto che Preve ruba ad Heidegger) che rispecchiano precisi vincoli storici: L’incorporazione del marxismo autentico in una formazione ideologica è una forma di esistenza necessaria del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione economico  sociale). Questo punto di vista è omologo a quello del Lukacs critico delle ideologie di cui mi sono occupato su questa pagina (6) e che Preve rilancia a sua volta così: l’ideologia non è riducibile al concetto di “falsa coscienza”, ma è lo strumento sociale con cui gli uomini combattono in conformità ai propri interessi i conflitti che nascono dal contraddittorio sviluppo economico. Lo spazio ideologico è un sistema di regni combattenti né è prevedibile che scompaia in una totalità pacificata. Sull’ultima affermazione dovremo tornare perché, come vedremo, è in contraddizione con altre affermazioni dello stesso Preve, per ora possiamo accontentarci del concetto secondo cui le varianti (i “fraintendimenti”) del marxismo vanno lette come espressione di differenti insiemi di interessi conflittuali, storicamente determinati. Nel libro Preve analizza, fra le altre, due di tali varianti nel modo che descriverò qui di seguito.

La prima variante è il marxismo della Seconda Internazionale che ha avuto il suo massimo esponente in Kautsky. Costui, scrive Preve, non era un “rinnegato” (secondo l’accusa di Lenin). Al contrario, la sua era una versione “ortodossa” dell’ideologia marxista, non nel senso (del tutto impossibile, come sopra argomentato) della perfetta coincidenza con il pensiero di Marx, bensì nel senso di un punto di vista che rispecchiava la visione delle magnifiche sorti e progressive del proletariato industriale tedesco fra fine Ottocento e primo Novecento, una “immagine del mondo” che rispecchiava quella specifica composizione di classe e l’ascesa politica della socialdemocrazia che la rappresentava. La visione kautskyana del capitalismo, scrive Preve, era incorporata nel discorso deterministico naturalistico (evoluzione automatica di un organismo complesso destinato al “crollo”), mentre quella del proletariato era incorporata nel discorso grande narrativo (crescita cumulativa della coscienza politica di un soggetto associata alla crescita della grande industria moderna). Per questo gli era alieno il concetto leniniano di “anello debole” – che, come anche Gramsci riconobbe, era la vera “eresia” (7) – in quanto aveva sempre ragionato in base alla teoria di una transizione al socialismo che sarebbe necessariamente dovuta avvenire nei punti alti della produzione capitalistica.


Karl Kautsky 



La seconda variante è quella dell’operaismo italiano. Pur rendendo omaggio alle analisi dei Quaderni Rossi (e di Rainero Panzieri in particolare) sull’evoluzione dell’organizzazione capitalistica del lavoro e della composizione di classe nelle grandi imprese degli anni Sessanta, Preve nota come da quell’analisi si sia fatto derivare un concetto di composizione di classe che veniva eletto a unica forma di manifestazione concretamente empirica della classe operaia stessa. In altre parole, nella narrazione operaista, la composizione astrattista dell’operaio massa diveniva sinonimo della classe in quanto tale (e addirittura della classe in sé, nella misura in cui veniva tolta la stessa distinzione marxiana fra classe in  sé e classe per sé (8)), con il risultato che questo racconto è entrato in crisi non appena è entrata in crisi la concreta composizione di classe su cui si basava. Preve scriveva nell’84, quindi non ha fatto in tempo a valutare le successive metamorfosi concettuali (dall’operaio sociale ai lavoratori della conoscenza) che il post operaismo ha escogitato per adattare una realtà radicalmente mutata al paradigma originario, ha però fatto in tempo a cogliere due tendenze teoriche specifiche della corrente “negriana” del post operaismo, in ragione delle quali, da un lato, si vaneggia sul “divenire comunista” del capitalismo, nella misura in cui il comunismo viene ridotto all’orizzonte del consumo di beni e servizi privi ormai del “valore” (lavoro) fruito da un unico soggetto collettivo (…) questi beni e servizi sono prodotti da macchine automatiche mentre il soggetto fruitore è affidato alla automaticità macchinica post moderna di flussi desideranti (9)); 2) dall’altro lato, la lotta di classe viene presentata come scontro fra potere e potenza, il primo identificato con il comando capitalistico, che cerca di reimporre l’infamia del lavoro produttivo (..) quando ormai non rimarrebbe che consumare gratis i prodotti senza valore della macchine, la seconda consistente nella forza vitale metafisicamente promanante dai nuovi soggetti sociali (giovani, donne, ecc.).

Facciamo un passo indietro al tema dei tre discorsi di Marx. Abbiamo visto come Preve liquidi i primi due – quello grande narrativo e quello deterministico naturalistico – identificando nel discorso ontologico-sociale l’asse portante del contributo che Marx ha dato alla liberazione umana dal giogo del modo di produzione capitalistico. È venuto il momento di definire cosa intende Preve con il termine discorso ontologico-sociale. Ecco la definizione: la proposizione ontologico-sociale è fondata sull’esistenza di una sola scienza, la storia, caratterizzata da processualità e specificità, e ancora: nel momento in cui Marx fa della produzione e riproduzione della vita umana il problema centrale, compare la doppia determinazione di una insopprimibile base naturale e di una ininterrotta trasformazione sociale di questa. Il materialismo storico non è ricerca di presunte leggi deterministiche, perché la conoscenza tipizzata del passato, cioè la ricostruzione dei nessi causali che ne hanno determinato lo sviluppo può avvenire solo post festum. Nessuna necessità immanente, nessuna teleologia perché teleologia e causalità sono compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire finalistico dell’uomo e, al tempo stesso, costituisce quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società. 

Così Preve nella prima parte, dove anticipa il suo corpo a corpo con l’ultimo Lukacs che avverrà nella quinta e ultima parte. È da qui che Preve trae l’idea del lavoro come                fondamento categoriale dell’ontologia sociale, che non è filosofia della storia ma assieme di possibilità ontologiche concrete e inscindibilmente collegate ai vari modi di produzione. Lukacs nega ogni forma di teleologia tanto nei processi naturali che in quelli sociali, la storia non ha il diavolo in corpo, ma è il prodotto delle decisioni alternative che gli esseri umani compiono per realizzare un fine determinato (e l’attività lavorativa è il modello di questa prassi fatta di decisioni alternative ed è, quindi, il modello di ogni agire umano). La teleologia sta solo in queste decisioni alternative, mentre la causalità nasce dal fatto che esse generano sequenze causali necessarie che a loro volta danno luogo a specifiche soglie di irreversibilità storica. Né il soggetto delle decisioni è in grado di controllare la “direzione” delle sequenze causali che mette in atto (per questo le “leggi” del processo sono ricostruibili solo post festum). Le leggi economiche infatti non sono altro che la sommatoria impersonalizzata delle alternative individuali (“non sanno ciò che fanno ma lo fanno”, ripete Lukacs ossessivamente sulle tracce di Marx). 


Gyorgy Lukacs



Prima di proseguire è il caso di “tradurre” questi due ultimi paragrafi. Semplificando drasticamente: per Lukacs (e per Preve che ne sposa le tesi) 1) il lavoro, in quanto attività umana volta a modificare la natura al fine di realizzare un prodotto che esiste già come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è il modello di ogni processo teleologico, o meglio è l’unica via attraverso cui il fattore teleologico penetra nel mondo reale, visto che né la storia naturale né quella umana incorporano una teleologia immanente; 2) il lavoro, inteso non solo come ricambio organico uomo-natura, ma anche e soprattutto in quanto somma di decisioni dirette a influenzare la coscienza di altri uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente”(10), gli atti lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che producono effetti necessari e irreversibili, nonché imprevedibili da coloro che le mettono in atto, ed è per questo che le ”leggi” del processo storico sono comprensibili solo post festum; 3) da 1) e 2) deriva che la realtà sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo causale naturalistico, bensì come un insieme di possibilità generate dal combinato disposto delle decisioni umane e dalle catene causali da esse generate; 4) queste possibilità non potranno mai essere realizzate senza l’intervento della posizione teleologica umano sociale; il che significa: 5) che la trasformazione rivoluzionaria del presente non  avviene in ragione di processi “automatici” ma solo grazie alla conversione della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole (il cui esito non è necessario/prevedibile ma appartiene a sua volta all’ordine della possibilità). Fin qui si è visto come in questo libro Preve segua quasi passo passo la lezione di Lukacs, ora vedremo come, quando si impegna nel tentativo di offrirne una attualizzazione politica, se ne discosti progressivamente, fino a “fraintenderne” (per il significato del termine vedi sopra) talvolta lo spirito e talaltra anche la lettera. 

In primo luogo, Preve dà per acquisito il fatto che Lukacs si collochi nel campo del “marxismo occidentale”, in opposizione – sia pure non sempre esplicita – con il “marxismo orientale”. Ricostruire i termini di tale opposizione richiederebbe qui troppo spazio, per cui mi limito a ricordare che Preve – diversamente da Domenico Losurdo, che ha fatto a sua volta ricorso a tale distinzione (11) – negativizza il marxismo orientale assimilandolo, di fatto, al Diamat staliniano, e concedendo solo qualche limitato credito al maoismo (laddove la Cina post maoista viene assimilata all’URSS in quanto Paese in cui si sarebbe restaurato il capitalismo), mentre pur criticando il marxismo occidentale (vedi sopra l’analisi del kautskismo e dell’operaismo) ne salva il superiore potenziale di sviluppo filosofico. In questo senso manifesta, oltre a una tendenza dogmatica che riproduce l’eurocentrismo di Marx ed Engels (12), anche una totale chiusura nei confronti delle inedite sfide teoriche poste dagli sviluppi del “socialismo reale”, liquidando con un’alzata di spalle, per esempio, la suggestione di un’autrice come Rita di Leo, la quale si poneva l’obiettivo di analizzare come funziona concretamente un modello di società caratterizzato dalla dominanza del fattore politico sul fattore economico. Posto che Lukacs, pur esplicitamente critico nei confronti dello stalinismo, non ha mai abbandonato la speranza nella riformabilità dei sistemi a socialismo reale (per cui avrebbe sicuramente accolto con estremo interesse l’esperimento cinese), Preve come giustifica questa sua attribuzione di Lukacs al campo del marxismo occidentale? Per rispondere mi concentrerò su due temi, che chiamano entrambi in causa la mancata critica dell’universalismo astratto quale imprescindibile presupposto del pensiero filosofico occidentale (universalismo che Lukacs assume contraddittoriamente, mentre Preve sposa integralmente). I temi in questione sono l’ideologia giuridica e la questione della estraniazione.

Parto dalla questione del diritto. Preve parte dalla constatazione che, per Lukacs, la riproduzione sociale è un complesso di complessi relativamente autonomi (linguaggio, economica, diritto, sessualità, guerra, arte ecc.) che mutano nel tempo e muta anche la collocazione di ognuno di essi nella gerarchia riproduttiva dell’insieme sociale. Da qui discende il fatto che nessuno di tali complessi può essere inquadrato in una gerarchia fissa che attribuisce all’economia il ruolo di struttura e a tutti gli altri quello di ideologie sovrastrutturali. Ciò vale, ovviamente, anche per il diritto. Preve sfrutta quindi questo passaggio per forzare una presunta valorizzazione lukacsiana del potenziale emancipativo contenuto nella formalità e nell’astrattezza del diritto borghese. Ora ciò è in contraddizione con la negazione di Lukacs di una concezione astratta della storia come progresso verso livelli sempre più elevati di civiltà (concezione che peraltro lo stesso Preve dovrebbe rifiutare, nella misura in cui essa si basa implicitamente sulla presupposizione di una tendenza al “meglio” immanente al processo storico). Inoltre lo stesso Preve riconosce che Marx tende a vedere nei discorsi di tipo etico una variante della concezione giuridica della società, concezione da lui respinta in quanto dal superamento dello sfruttamento non deriva una “giustizia socialista” bensì il superamento della forma giuridica in quanto consustanziale alla forma economica (per cui il diritto è per definizione diritto borghese e non “diritto umano”). Tuttavia Preve si distanzia qui da Marx e dal disprezzo dei diritti umani tipico delle legislazioni del socialismo reale. 

Eppure in nessun passaggio di Lukacs ho trovato qualcosa che possa giustificare questa presa di distanza, per cui mi pare che Preve vada a cercarla piuttosto in quella parte finale della Ontologia dove Lukacs affronta le questioni della estraniazione e della transizione al socialismo (una parte, come ho sottolineato nelle mie “Glosse” (13), in cui il discorso appare abbozzato e tutt’altro che risolto). L’estraniazione, argomenta Preve, è generata dal fatto che mentre lo sviluppo delle forze produttive presuppone lo sviluppo delle capacità umane, quest’ultimo non produce obbligatoriamente lo sviluppo della personalità umana. E qui Preve si avviluppa (ma va detto che anche Lukacs si barcamena faticosamente fra diverse piste) in una serie di contraddizioni. Cosa si intende per sviluppo della personalità umana? Posto che Preve afferma che l’universalizzazione è possibile solo sulla base del capitalismo; posto che l’universalizzazione viene concepita come effetto collaterale dell’astrattizzazione e che la possibilità del rapporto non estraniato fra individualità particolare e genere umano è ontologicamente consentita dallo stesso progetto di astrattizzazione causato dal rapporto capitalistico di produzione; posto che (a proposito di diritti umani) Il comunismo è al di là e non al di qua della soglia ontologica irreversibile prodotta dal diritto borghese formale e astratto; posto che il comunismo è visto anche come momento della lotta della personalità individuale per la conquista della genericità in sé. Posto tutto ciò, non siamo qui pericolosamente vicini a regredire all’universo mitico che Preve ci invita a rinnegare nella prima parte? 

È pur vero che Preve cerca di salvare capra e cavoli aggrappandosi al concetto di possibilità (il capitalismo rende possibile, non necessario il passaggio a un rapporto non estraniato fra particolarità e generalità,  lo sviluppo delle forze produttive rende possibile non necessario lo sviluppo della personalità umana, ecc.), ma questo non basta a dissipare la sensazione che si riaffacci la visione di un processo lineare e irresistibile verso il paradiso del comunismo realizzato come regno di una personalità umana universale e pacificata, cioè verso la fine della storia. Il tutto reso possibile solo dal flusso principale della storia (borghese e occidentale), messa al riparo delle deviazioni laterali del “barbarico” comunismo orientale. Insomma siamo in pieno clima anni Ottanta, all’inizio del processo di marcescenza di un comunismo occidentale che di lì a poco sarà pienamente reintegrato nel regime neoliberale. Per capire se e in quale misura la catastrofe ha contribuito a modificare l’atteggiamento di Preve faremo ora un salto di 25 anni, fino al testo del 2009.                                


2) Il nemico principale

Nei 25 anni che separano La filosofia imperfetta da  L’atteso ritorno del nemico principale è successo di tutto: la caduta dell’Unione Sovietica, lo scioglimento del Pci e la sua trasformazione in partito liberale, la degenerazione della sinistra radicale convertitasi nei nuovi movimenti, esclusivamente votati alla rivendicazione di diritti civili e individuali, il tragico arretramento dei rapporti di forza delle classi subalterne occidentali, travolte dai processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia e dal tradimento delle loro organizzazioni tradizionali; l’ascesa della Cina socialista, sempre più in grado di contendere agli Stati Uniti l’egemonia mondiale.  


Come ha cambiato tutto ciò l’immagine del mondo di Preve? Non ne ha fortunatamente provocato la conversione all’ideologia mainstream della sinistra liberale; al contrario, ha suscitato il suo odio nei confronti di questa sinistra fino a ripudiare il significato stesso di tale parola, al punto da indurlo ad assumere provocatoriamente certe suggestioni della Nuova Destra, nella misura in cui rilanciano concetti e parole d’ordine già patrimonio delle sinistre rivoluzionarie, come nel caso di questa citazione del filosofo francese Alain de Benoist: Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico. Perché citare De Benoist: una reazione dettata dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase di decomposizione; o semplicemente perché quelle affermazioni apparivano condivisibili a prescindere dal campo ideologico da cui provenivano? Sciogliere questo dubbio mi sembra secondario rispetto al fatto che gli inquisitori si sono concentrati sulla fonte della citazione, ignorandone il contenuto; si sono cioè precipitati a condannare il dito ignorando la luna che il dito indicava. Molti altri “intellettuali eretici” “- come Jean-Claude Michéa, Hosea Jaffe, Domenico Losurdo fra gli altri – sono stati messi all’indice, ma solo Preve è stato sottoposto a un  vero e proprio linciaggio, rimuovendo il suo contributo alla comprensione dell’epoca di passaggio che il mondo vive in questo inizio di secolo. Ma veniamo al modo in cui Preve sviluppa la suggestione di De Benoist.  


Nel definire il nemico principale sul piano economico, Preve sostituisce il termine modo di produzione capitalistico al termine capitalismo, in quanto il primo consente di calare la determinazione del concetto astratto di capitalismo nella pluralità delle società capitalistiche concrete (vedi in proposito l’analogo concetto espresso nel precedente libro), ma soprattutto preferisce usare il termine società di mercato, in quanto economia di mercato è definizione troppo generica, in quanto lo scambio mercantile convive tranquillamente con formazioni sociali precapitalistiche (ma anche con formazioni sociali postcapitalistiche, anche se, come vedremo più avanti Preve non condivide tale affermazione). Il modo di produzione capitalistico è una società di mercato nel senso che, diversamente da tutte le formazioni sociali che la hanno preceduta, fa dello scambio mercantile il fattore coattivo di tutti i rapporti sociali (14). Una centralità ossessiva che, con l’avvento della globalizzazione neoliberale, attinge livelli tali da caratterizzarla come nemico globale e complessivo del Genere Umano in quanto tale. 


Passiamo al nemico principale in politica, cioè quel liberalismo che, scrive Preve, rappresenta, con la società capitalistica di mercato, uno dei due volti inscindibili di un’unica forma oligarchica di dominio. Nel trattare il tema Preve compie due mosse. La prima, destinata ad aggravare la sua posizione di fronte al tribunale delle sinistre, consiste nel prendere le distanze da chi insiste nell’indicare quale nemico assoluto il Fascismo benché questo regime appaia irreversibilmente tramontato. L’antifascismo senza fascismi è il sintomo del fatto che il liberalismo, di destra centro e sinistra, nella misura in cui dispone esclusivamente della ricchezza privata quale unico criterio di riconoscimento sociale, necessita di una serie di ideologie di legittimazione etica integrativa, la principale delle quali è l’esaltazione degli immortali valori dell’antifascismo. La seconda mossa chiama invece in causa tre diverse critiche radicali dell’individualismo liberale: la prima appartiene a Michéa, il quale rilancia il detto di Marx secondo cui l’uguaglianza formale e astratta finisce inevitabilmente per accrescere le disuguaglianze reali; la seconda è quella di Castoriadis, il quale riconosce nel liberalismo le stigmate del disincanto come valore, del narcisismo come profilo antropologico e del nichilismo come nuova metafisica di fondazione; la terza rievoca un detto di Mo Ti  (antico filosofo cinese) che recita: in una società in cui ognuno considera di fatto valido il proprio criterio di giudizio e disapprova quello degli altri, la conseguenza è che i più forti si rifiuteranno di aiutare i più bisognosi, ed i più ricchi si rifiuteranno di dividere le loro ricchezze.


Nel definire il nemico principale sul piano sociale, la borghesia, il discorso di Preve si fa più originale, nella misura in cui si discosta dal concetto marxiano di borghesia come insieme dei proprietari privati dei mezzi di produzione. In primo luogo perché osserva come il processo di produzione capitalistico possa essere messo in moto da soggetti non-borghesi, come la realtà contemporanea dimostra ampiamente, tanto che oggi il termine più corretto da adottare sarebbe oligarchie capitalistiche. Inoltre, e qui il ragionamento si fa più sottile, perché la borghesia “classica” era portatrice di una “coscienza infelice” che induceva le sue menti più brillanti a rinnegare il proprio ruolo storico. Coscienza infelice di cui oggi non rimane traccia alcuna se non nella patetica figura di quelle “anime belle” che trasformano l’impotenza in supremo valore morale. 


Quanto ai motivi per cui Preve concorda con de Benoist nell’indicare negli Stati Uniti il nemico principale in geopolitica, cito qui di seguito le sue motivazioni: E siccome questa superpotenza, oggi, è anche il supremo garante strategico-militare del capitalismo (1), della società di mercato (2), del liberalismo politico (3), della teologia interventistica dei diritti umani (4), della nuova religione olocaustica del complesso di colpa interminabile dell’umanità (5), della sottomissione dell’Europa costretta alla cosiddetta “posizione del missionario” (6), della proliferazione di basi militari atomiche in tutto il mondo (7), del modello culturale televisivo del rimbecillimento antropologico universale (8), della secolarizzazione del presunto mandato messianico assegnato da Dio ad una nazione protestante eletta (9), più altre determinazioni che qui non riporto per brevità, ne consegue che non il popolo americano, non la nazione americana, ma soltanto la superpotenza geopolitica imperiale americana è il nemico principale. Esaurito il ragionamento sul concetto di nemico principale vengo a tre degli argomenti trattati in questo libro che mi paiono più interessanti: 1) gli spunti critici nei confronti di certi aspetti del pensiero di Marx, che riprendono temi trattati nel libro analizzato in precedenza; 2) il problema della difficoltà di tradurre l’identità di classe in azione politica; 3) il giudizio storico sul socialismo reale (e anche qui rileviamo elementi di continuità con l’opera precedente).  


Sulle critiche a Marx. Preve rifiuta l’idea del comunismo come fine della storia, intesa come fine del conflitto sociale, e quindi come fine della politica. La formula da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, che Marx associa a una visione irenica che dipinge un futuro in cui la politica dovrebbe dissolversi in amministrazione della cose, piace molto alla sinistra postmoderna e “antipolitica” dei giorni nostri, ma fa venire i brividi a Preve, il quale non crede in una utopistica ricomposizione di tutti i conflitti fra interessi collettivi (e qui mi pare si possa affermare che c’è un chiaro passo avanti rispetto ai discorsi sulla possibile realizzazione futura di una “personalità umana universale e pacificata” che abbiamo letto sopra). Preve rifiuta inoltre la separazione fra storia del pensiero politico e storia del pensiero economico moderni: il modo di produzione capitalistico, scrive, coincide in tutto e per tutto con ciò che chiamiamo modernità, per cui il tentativo di salvare il contenuto emancipativo della modernità, qualificandola come il solo aspetto culturale specifico della legittimazione simbolica del modo di produzione capitalistico può avere quale unico risultato l’esaltazione di quella divinità idolatrica chiamata Progresso. Marx non era esente dalla fascinazione da parte di questa divinità, soprattutto laddove esalta il carattere “progressivo” dei rapporti capitalistici nella misura in cui soppiantano i precedenti rapporti schiavistici e feudali. 

Scrive Preve in proposito: Personalmente, non sono un ammiratore incondizionato di questo aspetto borghese-progressivo del pensiero di Marx, ed anzi lo considero uno dei punti più deboli e datati del suo pensiero. Ma non è questo il problema. Il fatto è che Marx non ha chiarito bene quale sia il criterio che permette di stabilire quando questa funzione progressiva cessa, e quando comincerebbe invece la funzione regressiva. Per essere più precisi, Marx ha bensì fornito un criterio di giudizio, ma l’ha fornito errato, individuandolo nel momento storico dell’insorgenza dell’incapacità di sviluppare ulteriormente le forze produttive, con conseguente stagnazione, parassitismo, eccetera. Insomma, il capitalismo diventerebbe “reazionario” soltanto quando non è più in grado di sviluppare le forze produttive ed i capitalisti da imprenditori creativi diventano percettori oziosi di rendite, tipo i signori feudali. Ora, mi sembra chiaro che questo volenteroso criterio è del tutto errato. Il capitalismo continua a produrre imprenditori di valore ed a sviluppare in modo vertiginoso le forze produttive. Ed allora non può essere questo il criterio giusto. Il criterio deve tornare ad essere pienamente filosofico, e cioè “umanistico”, e deve essere individuato nel modello di illimitatezza della produzione capitalistica complessiva e nell’imbarbarimento sociale ed antropologico delle forme di vita capitalistiche. E qui devo dire che il passo avanti maturato in questo quarto di secolo che separa le due opere mi sembra decisivo, nella misura in cui Preve si sbarazza delle illusioni in merito al potenziale emancipatorio del capitalismo che ancora nutriva nel precedente lavoro 


Veniamo alla possibilità di tradurre in azione politica l’identità di classe. Qui Preve è decisamente più vicino a Lenin che a Marx. Già nel libro precedente aveva ammesso che a tutt’oggi non possediamo una teoria dello stato e del partito che abbia veramente superato Lenin, nel senso che resta valido il giudizio leniniano in merito  alla incapacità delle classi subalterne, serrate nella morsa di un sapere limitato alla particolarità e prossimità diretta, di comprendere i meccanismi della riproduzione politica, economica e geopolitica della società in generale. Il guaio è, argomenta Preve, che la borghesia (che oggi veste i panni delle nuove oligarchie capitalistiche) è una signora classe, assai più coesa e abile del volonteroso e confuso proletariato. E a confonderlo ancora di più contribuiscono quegli intellettuali “di sinistra” che si impegnano a descrivere il secolo delle rivoluzioni proletarie come un museo degli orrori (15), che demonizzano il Novecento quasi volessero prevenire la malaugurata ipotesi che le classi subalterne ci possano riprovare. 



la caduta del Muro




Viceversa Preve non si limita a difendere il Novecento dall’accusa di essere stato il secolo degli orrori: difende anche l’esperienza del comunismo novecentesco dalle denigrazioni che gli arrivano dagli esponenti del settarismo di sinistra. Questa è senz’altro una novità rispetto al ripudio totale che 25 anni prima aveva manifestato nei confronti del socialismo reale, e che ora invece sostiene che andrebbe rivendicato come un esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico, anche se ovviamente deformata da rapine burocratiche di vario tipo. Tuttavia questo cambiamento di prospettiva non si spinge fino a mettere in discussione l’affermazione dogmatica secondo cui questo gigantesco esperimento di ingegneria sociale sarebbe fallito ancora prima di concludersi con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche. Ammesso e non concesso che ciò sia vero, è inspiegabile la rigidità con cui Preve liquida anche la rivoluzione cinese, rifiutandosi di prendere atto del fatto che, in questo caso, l’esperimento ha prodotto – invece del disastro russo – la straordinaria ascesa della Cina al rango di grande potenza mondiale, in grado di confrontarsi da pari a pari con il “nemico principale” statunitense. Preve arriva addirittura a liquidare il regime postmaoista con la sprezzante definizione di “capitalismo confuciano”. 


Dietro questa clamorosa semplificazione si nasconde certamente il deficit di conoscenza economica, sociale e politica di un filosofo che evidentemente ignora - o sottovaluta - le argomentazioni di autori come  - fra gli altri - Giovanni Arrighi (16), che descrivono la Cina come un sistema socialista con presenza di mercato e con conflitti di classe che potrebbero condurlo sia verso una restaurazione capitalistica, sia verso una più avanzata forma di socialismo. In particolare, Arrighi sottolinea come il permanere del controllo statale sui settori produttivi strategici e sulle banche, di uno sviluppato sistema di servizi pubblici, e di una politica estera difficilmente definibile come imperialistica, inducono a prendere atto del fatto che, finché il potere politico mantiene il controllo sull’economia, si può aggiungere mercato a volontà senza che il sistema possa essere definito capitalista (discorso che ricorda l’argomento di Rita Di Leo citato in precedenza, che tuttavia, come si è visto, Preve si rifiuta di accogliere). Se a ciò si aggiunge lo straordinario risultato di avere ridotto il numero dei cittadini in condizioni di povertà da più di ottocento a quattordici milioni, di avere mantenuto i livelli di occupazione nel momento in cui la crisi li aggrediva duramente nei paesi capitalisti occidentali, e di avere pilotato l’economia del Paese da un modello mercantilista fondato sui bassi salari a un modello autocentrato, grazie ad un aumento consistente e generalizzato delle retribuzioni, è evidente che il “miracolo” cinese, più che a una conversione del Partito-Stato ai principi e ai valori del liberismo, è da attribuirsi al permanere di consistenti elementi di socialismo (ed è esattamente per questo che scatena l’aggressività del capitalismo occidentale). 


Ma non è solo questione di ignoranza e disinformazione. Qui gioca, a mio parere, il nodo filosofico che avevamo evidenziato discutendo le tesi della Filosofia imperfetta, e che un quarto di secolo dopo è rimasto irrisolto. Il fatto è che Preve non riesce a realizzare che, così come riconosce che il modo di produzione capitalista – in  quanto astratta categoria idealtipica – esiste solo attraverso una pluralità di formazioni sociali concrete, dovrebbe riconoscere che lo stesso vale per il rapporto fra il modello ideale di socialismo e la realtà delle diverse, concrete società socialiste in cui tale modello si è storicamente incarnato. Ritengo che ciò gli è impedito dal fatto che è rimasto legato a categorie filosofiche “universali”, né la frequentazione della ontologia sociale lukacsiana basata sul lavoro è bastata a riportarlo con i piedi per terra. Preve non riesce a digerire il “socialismo in  stile cinese” perché non  riesce ad afferrare la specificità storico-geografica di un immenso Paese con millenni di storia alle spalle, che ha sviluppato il suo grandioso esperimento sociale in coerenza con la concezione del tempo che ha ereditato dalle sue tradizioni culturali, e che ha elaborato un concetto di transizione socialista concepito come un processo secolare, caratterizzato da avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte. Non ci riesce perché resta ancorato a una visione del mondo sostanzialmente eurocentrica, tipica di quel marxismo occidentale del quale, pur odiandolo, non ha potuto sbarazzarsi del tutto.  


Note

(1) Cfr. C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019, pp. 86-90.

(2)  La filosofia imperfetta. Proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984; una nuova versione di Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale è prevista per il prossimo settembre per i tipi di Inschibbolleth.

(3) G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Pgreco, Milano 2012. 

(4) C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi, Roma 2019.

(5) Vedi nota 3

(6) “Glosse all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs” apparse in quattro puntate su questo blog.

(7) Mi riferisco ovviamente alla nota frase di Gramsci secondo cui i bolscevichi avevano fatto una rivoluzione “contro il Capitale”, nel senso che la loro impresa aveva sovvertito l’idea marxiana, condivisa dall’ortodosso Kautsky, secondo cui la rivoluzione avrebbe potuto svolgersi solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico. 

(8) Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966. 

(9) Più su Marx, del quale si valorizza quasi esclusivamente il “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, la retorica post operaista si fonda soprattutto sulle teorie di autori come Michel Foucault e Gilles Deleuze.

(10) Come ho notato altrove (vedi nota 6) questa formulazione somiglia alla definizione di potere in Max Weber.

(11) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

(12) Sull’eurocentrismo di Marx ed Engels ho ragionato in un post apparso su questo blog, a partire dall’antologia di loro scritti India, Cina, Russia (a cura di Bruno Maffi), il Saggiatore, Milano 1960. 

(13) Vedi nota 6.

(14) Un ragionamento che rievoca le tesi di C. Polanyi ne La grande trasformazione (Einaudi, Torino 1974), senonché Preve non apprezza il contributo di questo autore nella misura in cui – come sostengo in questo scritto – lo stesso Preve resta impaniato in una visione “continuista” (ancorché non  teleologica) del processo storico.

(15) Cfr. M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001. 

(16) Cfr- G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008. Del dibattito in campo marxista sulla natura dell’economia e della società cinesi mi sono occupato ne Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020.   



     


giovedì 20 maggio 2021

CINQUE BUONE RAGIONI PER ESSERE COMUNISTI 

(E NON DI SINISTRA) 


In coda a un  dibattito sulle "Prospettive del comunismo oggi" al quale ho partecipato ieri sera (trovate qui il video: https://fb.watch/5BfY9aMSQW/ ) Marco Rizzo ha annunciato la mia candidatura come capolista del Partito Comunista alle prossime elezioni municipali di Milano. I motivi che mi hanno convinto a compiere questa scelta erano già impliciti nel post "Riflessioni autobiografiche di un comunista (finora) senza partito", che avevo pubblicato non molti giorni fa su questo blog. Ma ho ritenuto che fosse il caso di ribadirle e sintetizzarle qui di  di seguito.    





Perché il comunismo è un’ideologia più giovane e vitale del liberalismo  

Chiarisco che il termine ideologia è qui inteso nel senso forte, positivo che Gramsci e Lukacs gli attribuivano: non falsa coscienza bensì l’insieme dei valori, principi, visioni del mondo, conoscenze, memorie collettive, ecc. che costituisce l’identità sociale e antropologica di una determinata classe (anche quando essa perde consapevolezza di sé dopo avere subito una dura sconfitta da parte degli avversari). Ciò posto, va ricordato che l’ideologia comunista è giovane: se ne fissiamo la nascita alla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels (1848) non ha ancora due secoli di vita (mentre il liberalismo ne ha almeno sei). I suoi fondatori furono troppo ottimisti nel prevederne il trionfo in tempi brevi. Oggi sappiamo che la via è lunga e difficile, costellata di avanzate e ritirate, vittorie (come quelle del 1917 in Russia e del 1949 in Cina) e sconfitte (come quella del 1989 che ha visto il crollo dell’Urss). Ma sappiano anche che, malgrado i cinque monopoli (Samir Amin) sui quali può contare il nemico di classe (sui mezzi di produzione, sulla finanza, sulle tecnologie, sulle conoscenze scientifiche, sui media), e malgrado il disastro dell’89, la via socialista ha dimostrato una poderosa capacità di resilienza, soprattutto nell’Oriente e nel Meridione del mondo, al punto che oggi, grazie ai trionfi dello stato/partito cinese, è di nuovo in grado di contendere al capitalismo occidentale il dominio mondiale, come dimostrano 1) la forsennata guerra fredda che Usa e Ue stanno scatenando contro il “pericolo giallo”, 2) la paura che li sta costringendo a riscoprire keynesismo e statalismo per recuperare il consenso delle classi subalterne, martoriate da decenni di neoliberismo e dagli effetti delle crisi che questo sistema criminale ha innescato. Ma non c’è solo la Cina: oggi l’America Latina (Cuba, Venezuela, Bolivia e ora il Cile che rialza la testa a mezzo secolo dal golpe di Pinochet) è di nuovo in lotta contro il neoliberalismo e gli Stati Uniti faticano a controllare il loro “cortile di casa”. 





Perché il comunismo è un’ideologia diversa (e incompatibile) con quella di una sinistra che si è meritata l’odio delle classi popolari. 

L’equivoco della identificazione fra comunismo e sinistra è nato all’inizio degli anni Settanta, quando gli strati piccolo borghesi che si riconoscevano nel movimento studentesco e nei gruppetti extraparlamentari innalzarono la bandiera dell’alleanza operai/studenti, rilanciando parole d’ordine e obiettivi del movimenti rivoluzionari del Novecento in modo astratto e libresco, usandoli come una maschera estetizzante dei loro reali obiettivi, che si riducevano a una rivoluzione dei costumi, e all’emancipazione dalle forme più arcaiche di controllo gerarchico (paternalismo famigliare, clientelismo politico, corporazioni professionali, gerarchie generazionali, ecc.), ormai superate dallo stesso sviluppo capitalistico che richiedeva una radicale modernizzazione culturale. Dissolta la spinta delle lotte operaie, stroncate dalla crisi e della ristrutturazione capitalistiche (e tradite dalle loro organizzazioni tradizionali, che in quegli anni decisero di allinearsi alle politiche neoliberiste in economia e neoliberali in politica (promuovendo il compromesso al ribasso con i padroni in fabbrica e dissociandosi dai Paesi socialisti per schierarsi a fianco del blocco occidentale e del suo braccio militare, la Nato), quegli strati piccolo borghesi sono tornati a svolgere il loro ruolo di agenti e funzionari del regime capitalistico. Hanno dato vita a movimenti (come il femminismo e l’ambientalismo) che rivendicavano riforme fondate sul riconoscimento identitario di questo o quel gruppo sociale e del tutto compatibili con il processo di modernizzazione di un sistema mai messo in discussione e hanno rinunciato completamente a porsi il problema della conquista del potere politico (di qui il rifiuto fobico nei confronti dello stato, identificato come il male assoluto, e del socialismo, condannato in quanto regime “autoritario”). Questa deriva è proseguita fino ai giorni nostri, toccando vertici deliranti con l’instaurazione della cultura autoritaria e violenta del politicamente corretto adottata, dalle sinistre di governo assieme a un’ideologia femminista ormai totalmente integrata nella cultura neoliberale. Questa deriva, assieme al fatto che queste sinistre hanno approvato leggi antipopolari - come l’abolizione dell’articolo 18 - ha fatto sì che oggi il popolo dei Paesi occidentali odi le sinistre, come dimostrano le analisi dei flussi elettorali che vedono i centri gentrificati votare a sinistra e le periferie proletarie votare a destra o astenersi. L’equivoco degli anni Settanta è stato brevemente richiamato in  vita da populismi di sinistra come Syriza, Podemos, la sinistra americana di Sanders, France Insoumise (l’Italia ha prodotto solo l’aborto dell’M5S che non è nemmeno riuscito ad accreditarsi come una nuova sinistra alternativa al PD, sia pure ultramoderata). Questi movimenti, che pure erano inizialmente sembrati in grado di smarcarsi dall’immagine deteriorata delle sinistre tradizionali, e di interpretare il ruolo di rappresentanti delle spontanee ribellioni popolari contro le politiche neoliberali, sono falliti a causa: 1) del mancato radicamento sociale, avendo assunto la forma di partiti “leggeri” fondati sulla comunicazione e sul tentativo di catturare un’opinione pubblica trasversale; 2) della scelta di fare propria la cultura politicamente corretta delle sinistre (Podemos è arrivato a qualificarsi come partito femminista – Unidas Podemos – piuttosto che come partito di classe); 3) dall’essersi alleati in posizione subordinata con le vecchie sinistre in funzione “antifascista” (anche quando tale minaccia appariva frutto della propaganda del regime neoliberale più che rappresentare un rischio reale); 4) dal fatto che, fin dalle origini, i loro quadri appartenevano perlopiù a strati sociali piccolo borghesi come era avvenuto negli anni Settanta (anche se oggi si tratta di gruppi che presentano una composizione professionale diversa, legata soprattutto alle modificazioni indotte dalle nuove tecnologie). Tutto ciò ha fatto sì che abbiano seguito rapidamente lo stesso destino delle sinistre tradizionali, guadagnandosi il rigetto delle classi popolari che si erano brevemente illuse di trovare una nuova rappresentanza per i propri interessi. In conclusione: oggi sinistra è sinonimo di liberalismo di sinistra, per cui chi si dichiara (non a parole, ma perché sinceramente intenzionato a rappresentare gli interessi delle classi subalterne e la speranza di un radicale cambiamento di civiltà, e non solo del modo di produzione) comunista non può, né deve, avere più alcunché da spartire con queste sinistre.  


Perché comunismo vuol dire dare priorità agli interessi, ai bisogni e ai valori comunitari rispetto agli interessi, ai bisogni e ai valori individuali

La propaganda anticomunista batte ossessivamente sul tasto della libertà e dei diritti individuali. Ma la presunta “universalità” dei diritti dell’individuo (borghese), come già annotava Marx, si riduce di fatto alla tutela dei diritti dell’uomo proprietario. Il diritto “uguale” fra soggetti astratti si rovescia nel diritto disuguale fra soggetti concreti, visto che solo un’infima minoranza di quest’ultimi dispone delle risorse necessarie per far valere i propri diritti, mentre per tutti gli altri questi si riducono a pure affermazioni di principio (non a caso la nostra Costituzione – tanto odiata dai liberal liberisti – afferma la necessità di garantire le condizioni per la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale fra i cittadini). Oltre che dell’individuo proprietario, il diritto borghese si premura di tutelare i diritti dell’individuo consumatore: il diritto del consumatore si afferma a danno dei diritti del lavoratore (costretto ad accettare salari bassi e ritmi di lavoro infernali per contenere il costo delle merci). Certo il lavoratore è a sua volta consumatore, ma se accetta il punto di vista borghese viene messo contro i suoi fratelli – e contro se stesso. Senza dimenticare che, in nome dei diritti del consumatore (occidentale!) si perpetrano crimini tanto ai danni dell’ambiente, quanto dei popoli schiavizzati dei Paesi poveri. E ancora: in nome del desiderio (trasformato in diritto) individuale di avere figli delle coppie gay, si legittima l’infame pratica dell’utero in affitto che riduce donne in difficoltà a ridursi a “contenitori” di bambini (a loro volta ridotti a “prodotto”) per conto terzi. E a legittimare la mercificazione del corpo femminile è, paradossalmente, proprio il movimento femminista (o almeno la sua componente neoliberale, oggi mainstream) che, del resto, da tempo ha assunto questa prospettiva, nella misura in cui considera il corpo come una sorta di oggetto, una “proprietà” (vedi sopra) individuale. Al posto degli interessi dell’individuo proprietario e consumatore, il comunismo difende gli interessi, il benessere e la sicurezza dell’individuo produttore in quanto parte organica della collettività (l’individuo non vive nel vuoto: è il prodotto di molteplici determinazioni sociali) impegnata a riprodurre se stessa e a garantire il prevalere del bene comune. Quanto diversi siano gli effetti di queste due visioni del mondo, lo abbiamo potuto misurare grazie alla differenza nella gestione della pandemia da parte della Cina rispetto a quella del mondo occidentale: da un lato, il diritto alla salute e alla sicurezza del popolo intero, dall’altro il diritto al profitto delle Big Pharma che ha richiesto, assieme allo smantellamento dei sistemi sanitari pubblici voluto dai governi neoliberali, il tributo di milioni di morti. Ma noi occidentali siamo liberi…di crepare.


Perché il comunismo è internazionalista e non cosmopolita 

Che la globalizzazione sia stata frutto di una legge economica “oggettiva”  è una mistificazione liberal-liberista fatta propria dalla sinistra. Una narrazione che nasconde come dietro il processo di internazionalizzazione dei capitali si celi la “guerra di classe dall’alto” che il capitalismo ha avviato a partire dalla dagli anni Settanta del secolo scorso. L’esercito di questa  guerra sono state le grandi imprese transnazionali, armate della loro capacità di muovere capitali, merci e persone inseguendo le condizioni più favorevoli offerte da mercati del lavoro, politiche fiscali e sistemi giuridici locali. Ma pensare che ciò significhi la fine dello stato nazione è un’idiozia, perché  le multinazionali non avrebbero potuto espandersi senza il sostegno e l’aiuto dei rispettivi stati di origine. La globalizzazione è un processo politico sostenuto e accompagnato dagli stati più potenti (Stati Uniti su tutti) che se ne servono per ristrutturare l’ordine mondiale, e l’obiettivo della globalizzazione non è liberare il capitale dal giogo degli stati, bensì da quello della democrazia. Il neoliberismo non vuole distruggere lo stato, vuole costruire uno stato forte ma non democratico. La battaglia ideologica contro lo stato nazione va di pari passo con quella contro il socialismo e ha l’obiettivo di spezzare il legame fra stato e democrazia. Così il tradizionale nazionalismo di destra cede il passo al cosmopolitismo liberale e allo pseudo internazionalismo di sinistra. L’ondata populista non è stata tanto l’esito della controffensiva di settori capitalistici arretrati che tentano di rianimare l’ideologia nazionalista, quanto della reazione popolare  agli effetti della globalizzazione. Ma la crisi della globalizzazione ha gettato nel panico le sinistre convertite al cosmopolitismo, che hanno reagito etichettando come fasciste le idee “sovraniste”. Così la parola patria oggi incute terrore negli eredi di una cultura politica che, fino agli anni Settanta, era ancora consapevole del fatto che tutte le rivoluzioni socialiste sono state rivoluzioni nazional-popolari. Le sinistre hanno adottato un internazionalismo che somiglia all’ideale cosmopolita di un mondo pacificato e unificato dagli scambi economici. Questa ideologia rispecchia valori e interessi del ceto medio riflessivo e delle sue aspirazioni di mobilità fisica e sociale, un ceto che ignora interessi e bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale che vive inchiodata al luogo di nascita. Viceversa per i comunisti la difesa della sovranità nazionale è un fattore imprescindibile: la patria è sinonimo di res publica, di una società concreta di uomini e donne che lottano per l’autogoverno dei cittadini, l’indipendenza nazionale e la sovranità popolare. I comunisti sono consapevoli che la lotta di classe non si svolge solo all’interno dei singoli Paesi, è anche lotta fra popoli oppresse e nazioni dominanti, e questa verità non vale oggi solo per i rapporti fra potenze imperialiste e Paesi ex coloniali, ma anche per quelli fra Paesi del Nord e del Sud Europa, per i quali la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada per riacquistare il controllo politico sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone. Ecco perché i comunisti non possono che essere contro  questa Europa, contro questo mostruoso esperimento politico che mira a mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberalismo moderno, von Hayek, l’uomo che sognava di spezzare il rapporto biunivoco fra politica e territorio neutralizzando, assieme alla sovranità nazionale, i conflitti sociali e la possibilità di offrire loro rappresentanza democratica. La Ue funziona come una sorta di polizia economica che sfrutta l’euro e il principio di concorrenza per sterilizzare appunto i conflitti sociali. Il sistema dei trattati è una costituzione materiale che  agisce come una costituzione senza stato e senza popolo e rimpiazza la democrazia con la governance. L’impianto filosofico che ispira questo esperimento è l’ordoliberalismo che,

contrariamente al liberismo classico, non dà per scontata la capacità dei mercati di autoregolarsi, ma affida a un potere politico forte il compito di garantire la stabilità dei prezzi (a partire da quello della forza lavoro!). Per i Paesi del Sud Europa, l’ingresso nella Ue ha voluto dire milioni di posti di lavoro e migliaia di imprese in meno, deindustrializzazione e declassamento al ruolo di subfornitori delle imprese tedesche. Una relazione asimmetrica che è stata, non solo accettata, ma addirittura promossa dalle nostre élite: i vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa e Prodi, la hanno voluta per promuovere, con la scusa del “vincolo esterno”, le riforme neoliberali: tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro e implementazione nella nostra Costituzione (attraverso il famigerato articolo 81) del Fiscal Compact, cioè del divieto costituzionale di adottare politiche economiche keynesiane. Ecco perché i comunisti dei Paesi euromediterranei dovrebbero adottare il principio del  delinking (sganciamento) teorizzato da Samir Amin: solo riconquistando la sovranità nazionale sarà possibile ridare spazio al conflitto redistributivo, invertire la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzando banche ed imprese in crisi e ri-nazionalizzando i servizi pubblici, e adottare politiche fiscali progressive. 







Perché il comunismo non è antistatalista, ma mira a far sì che le classi subalterne si facciano stato

Il rifiuto delle sinistre nei confronti della nazione va di pari passo con il rifiuto nei confronti dello stato. Il ripudio dell’esperienza storica del socialismo, e l’ideologia “orizzontalista” comune a  tutte le componenti della sinistra radicale, fanno sì che il vecchio principio marxista, secondo cui la macchina statale borghese non può essere ereditata e usata così com’è da parte delle classi subalterne, si sia trasformato nel dogma secondo cui lo stato in quanto tale non può più essere usato. Per questa ideologia neoanarchica lo stato, qualsiasi classe o forza politica ne detenga il controllo, è sempre e comunque un nemico, per cui il concetto di presa del potere è sparito dal suo orizzonte culturale. La logica del controllo subentra alla logica della conquista, e alla volontà di costruire un’alternativa globale al modo di produzione capitalistico e alle istituzioni dello stato borghese subentra una sorta di “democrazia dell’opinione” che diffida del potere ma non aspira a governare, non mira ad abolire il capitalismo bensì ad addomesticarne la ferocia. Ne è prova il ruolo svolto da Terzo settore, Ong e volontariato, i quali collaborano attivamente allo smantellamento del welfare in sintonia con la logica ordoliberale del “capitalismo sociale”. Ne è prova quel patetico surrogato dell’utopia comunista che è l’ideologia “benecomunista”, mentre dà per scontato che un partito rivoluzionario che pretenda di essere avanguardia politica dei movimenti non solo non serve, ma è controproducente. Insomma: siamo di fronte a un’ideologia che potremmo sintetizzare con la formula “cambiare il mondo a partire dal basso, (o addirittura a partire da sé!) senza prendere il potere”, che potremmo ironicamente accostare al detto di Cristo “il mio regno non è di questo mondo” (purtroppo la storia insegna che il detto cristiano che invita a tenersi alla larga dal potere non ha particolarmente contribuito a cambiare i rapporti di forza fra potenti e sudditi). Contro questa visione va rivendicata la necessità di conquistare il potere, o meglio, per dirla con Gramsci, di guidare le classi subalterne a farsi stato - stato che non va abolito in quanto tale, ma del quale occorre abolire il carattere di classe. 


Post Scriptum

Due parole sul perché ho scelto di schierarmi con Il Partito Comunista guidato da Marco Rizzo piuttosto che con un altro dei tanti partiti e movimenti italiani che si dichiarano tali. In primo luogo perché, attraverso un serrato confronto che ho avuto con questi compagni dopo avere concluso la mia esperienza nei gruppi sovranisti di sinistra, ho verificato che sono quelli con cui ho maggiori affinità su una serie di temi che considero discriminanti, poi perché sono di gran lunga i più lontani da quella cultura di sinistra della quale ho appena finito di descrivere le caratteristiche che mi inducono a valutarla come un avversario politico. Caratteristiche che, viceversa, hanno contaminato fino a snaturarne le origini una formazione come Rifondazione Comunista. Probabilmente esistono altre forze politiche che in futuro potranno contribuire alla rinascita di un forte partito comunista nel nostro Paese, ma non penso che la mia scelta sia in contraddizione con l'imnpegno di superare le ragioni che ancora ci dividono.           


lunedì 17 maggio 2021

 COME E PERCHE' IL NEOLIBERALISMO

HA INGHIOTTITO (E DIGERITO) IL FEMMINISMO


Marxismo e liberalismo non sono solo due ideologie: sono anche ideologie (1), ma sono anche e soprattutto due paradigmi reciprocamente incompatibili, nella misura in cui incorporano visioni del mondo, principi e valori etici, metodi di analisi scientifica, bisogni umani e obiettivi politici fra loro antagonisti, così come sono antagonisti gli interessi di classe rappresentati dai partiti e movimenti che ad essi si inspirano. La tesi che sosterrò in questo scritto è che il femminismo - termine con cui non intendo qui quel variegato insieme di correnti culturali che esiste da più di un secolo, bensì il movimento femminista politicamente organizzato, nato fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta -, inizialmente sviluppatosi come articolazione interna del paradigma marxista (cui ha apportato il proprio contributo, allargando il concetto di sfruttamento ed evidenziando il ruolo del lavoro riproduttivo per la conservazione degli equilibri della società capitalistica), se ne è progressivamente separato, impegnandosi – senza successo – ad autodefinirsi come paradigma autonomo – e sotto vari aspetti concorrente – rispetto al marxismo, ottenendo quale unico risultato la propria integrazione nel paradigma liberale (nella forma neoliberale che quest’ultimo ha assunto a partire dagli anni Ottanta), del quale rappresenta oggi a tutti gli effetti una corrente ideologica (e qui il termine – diversamente da quanto chiarito in nota (1) - va inteso nel senso corrente di falsa coscienza). 

Per sostenere quanto appena affermato, non mi avvarrò della produzione letteraria delle correnti mainstream del femminismo, anche perché, nel loro caso, la tesi di cui sopra suona scontata, ma prenderò in esame tre autrici - Silvia Federici, Nancy Fraser e Catherine Rottenberg – le quali, sia pure in diversa misura e con approcci differenti, rivendicano tuttora un punto di vista marxista, perlomeno su alcuni temi, e si pongono criticamente nei confronti del femminismo neoliberista. Una scelta che consente di rendere ancora più evidente 1) che, nella misura in cui il femminismo si pone come paradigma autonomo e “alla pari” con il paradigma marxista, finisce per produrre discorsi eclettici che con il marxismo poco o nulla hanno a che fare; 2) che, malgrado l’atteggiamento critico nei confronti del femminismo neoliberale, anche un certo femminismo socialista finisce di fatto per convergere con quest’ultimo, subendone l’egemonia su una serie di questioni che hanno un peso strategico nei rapporti di forza fra capitale e lavoro. 

Parto da Silvia Federici, autrice che in un saggio di qualche anno fa (2) avevo citato come un esempio, ancorché contraddittorio, di resistenza del femminismo marxista nei confronti dell’egemonia neoliberale, riferendomi soprattutto al libro Il punto zero della rivoluzione (3). Con l’uscita di Genere e Capitale (4) mi pare che questo equivoco sia da considerarsi sciolto. Infatti basta leggere il primo capitolo (“Marxismo, femminismo e patriarcato del salario”) per capire che la “lettura femminista di Marx” cui allude il sottotitolo ha poco a che fare con Marx. In primo luogo, perché marxismo e femminismo sono presentati come due “movimenti teorico politici” che vengono messi sullo stesso piano. Peccato che il marxismo abbia prodotto sconvolgimenti storici (dalla Rivoluzione d’Ottobre alla Rivoluzione Cinese, per citare solo i due casi più clamorosi) che hanno cambiato la vita di miliardi di esseri umani  (uomini e donne) mentre il femminismo finora ha prodotto esclusivamente campagne di opinione che riguardano solo Stati Uniti ed Europa e solo una parte – appartenente alle classi medio elevate - della popolazione femminile di questa minoranza dell’umanità, la quale continua però a considerarsi la sola che conti; e ha contribuito a cambiare, non i rapporti di forza fra sfruttatori e sfruttati (che nei decenni del boom femminista sono drasticamente peggiorati a danno dei secondi, anche se di ciò non intendo attribuire la responsabilità al femminismo) ma la retorica del discorso politico dominante (retorica che, grazie alle reazioni di rigetto generate dai deliri del politicamente corretto, ha gettato milioni di proletari – uomini e donne – nelle braccia dei populisti di destra). 

Di più: Federici parla della “difficoltà del femminismo socialista di integrare il marxismo nel femminismo”, dal che si deduce che femminismo e marxismo, in realtà, non vengono affatto messi sullo stesso piano, bensì si dà per scontata la superiorità del primo (altrimenti si parlerebbe semmai della difficoltà di integrare il femminismo nel marxismo). Il che presuppone a sua volta la convinzione che la contraddizione capitale lavoro vada ricompresa, sussunta (aufhebung per dirla con Hegel) nella contraddizione di genere. Infatti Federici, partendo dalla giusta considerazione che le divisioni di genere e di razza svolgono un ruolo importante nella costruzione delle gerarchie del lavoro (questione che Marx aveva perfettamente presente) arriva a sostenere (contro David Harvey, il quale considera contingenti e non logicamente necessari questi fattori) che il capitalismo sarebbe strutturalmente sessista, razzista e coloniale. Un’affermazione che si regge esclusivamente se riferita al colonialismo, la cui necessità strutturale – in senso marxiano! – è stata ampiamente dimostrata (5). 





Il punto è – questione cruciale su cui dovremo tornare – che qui il termine “strutturalmente” non è usato nella sua accezione marxiana (che Federici, al pari delle autrici di cui ci occuperemo fra poco, liquida come “economicista”) bensì nel significato che gli viene comunemente attribuito dopo la svolta “culturalista” delle scienze sociali. In altre parole, i suoi riferimenti teorici sono – più che Marx – Foucault, Antonio Negri e gli altri maestri della contaminazione fra marxismo e filosofie postmoderne, come certificato dalla sua rivendicazione di appartenenza a quella corrente culturale antistatalista e “benecomunista” che assume come modello di società alternativa al capitalismo, non il socialismo, bensì quei rapporti comunitari “che ridefiniscono il concetto marxiano di socialismo”. Per farla breve: la “difficoltà” di integrare il marxismo nel femminismo di cui parla Federici rispecchia la assoluta impossibilità di integrare due ordini di discorso che c’entrano fra loro come i proverbiali cavoli a merenda.

Veniamo a Nancy Fraser. Il mio atteggiamento nei confronti di questa autrice ha subito una evoluzione simile a quella appena descritta a proposito di Silvia Federici. In diversi miei lavori (6) avevo descritto il suo discorso come il più solido e attendibile baluardo contro la marea neoliberista che il femminismo socialista sia ad oggi riuscito ad erigere. Tale giudizio si fondava in particolare su Fortune of Feminism (7), e su una serie di articoli in cui aveva condotto una critica serrata del femminismo mainstream e della sua piena integrazione nel fronte del “progressismo neoliberale”. È per questo motivo che ho voluto ospitare la traduzione del suo dialogo con la sociologa svizzera Rahel Jaeggi – Capitalismo (8) – nella collana Meltemi “Visioni eretiche”, da me diretta. Rileggendo a distanza di un anno l’edizione italiana di quel testo (che avevo letto solo in parte nella versione inglese) ho avuto la sensazione che la sua posizione marxista – peraltro già ibridata con inserti post strutturalisti – si sia fatta meno chiara e salda di quanto non fosse in passato. Una sensazione corroborata dalla lunga e articolata recensione che Alessandro Visalli (9) ha dedicato al libro in questione sul suo blog. 

Parto dalle ragioni per cui considero tuttora utile il contributo della Fraser. In primo luogo, perché, al contrario di Silvia Federici, non solo non condivide la critica femminista allo statalismo welfarista, ma anzi considera tale critica funzionale all’attacco neoliberista che, a partire dagli anni Ottanta, ha distrutto i rapporti di forza dei lavoratori (e delle lavoratrici), eliminando le protezioni e le garanzie – frutto di secolari lotte di classeche consentivano di resistere alle pressioni padronali su livelli salariali e condizioni di vita, e creando condizioni favorevoli ai processi di precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro. Considera parimenti controproducente il modo in cui il femminismo ha criticato il cosiddetto “salario familiare” (cioè il reddito garantito dal solo componente maschile della coppia) nella misura in cui ha di fatto legittimato quel capitalismo flessibile che, attraverso l’arruolamento in massa di forza lavoro femminile nel processo produttivo, è riuscito a mettere in competizione lavoratori e lavoratrici abbassando il salario per tutti (invece di elevare quello femminile al livello di quello maschile) e facendo sì che ora si debba lavorare in due per guadagnare ciò che prima guadagnava uno. Sostiene inoltre che la presa di distanza delle femministe dall’economismo marxista (che sostanzia le critiche alle politiche redistributive del movimento operaio di cui sopra) hanno buttato via il bambino con l’acqua sporca. Infine, oltre a esprimere scetticismo nei confronti della cultura della politicizzazione del personale, rovescia il punto di vista della Federici, parlando di integrazione del femminismo nel marxismo e non viceversa.


Nancy Fraser



Tuttavia è esattamente quest’ultimo il nodo che fa problema: questa integrazione, infatti, dal suo punto di vista significa integrare nel paradigma marxista le “intuizioni” postcoloniali, post strutturaliste, ecologiste ecc. che stanno alla base del “femminismo della seconda ondata”. In altre parole, si tratterebbe di conciliare “giustizia distributiva” e “giustizia del riconoscimento” (10), perché se è vero che i movimenti concentrati sul riconoscimento delle varie identità di gruppo hanno finito per trascurare la dimensione della distribuzione, è altrettanto vero, sostiene Fraser, che i movimenti dei lavoratori concentrati sulle rivendicazioni salariali hanno costantemente trascurato la dimensione del riconoscimento identitario. Il punto è che questa aspirazione a “riequilibrare” i due ordini di discorso finisce – dal momento che essi non rispecchiano due approcci ideologici, bensì , come chiarito sopra, due paradigmi – per risolversi necessariamente nell’affermazione egemonica di uno dei due rispetto all’altro e, anche nel caso della Fraser, come cercherò di mostrare riprendendo le osservazioni di Visalli, il paradigma che finisce per prevalere è quello femminista, in barba alle sue professioni di marxismo. 

La pietra d’inciampo, come per la Federici, sta nella stratificazione interna alla classe degli sfruttati secondo linee di genere e di razza (cui si sono aggiunte quelle evocate dalla cultura LGBTQ), stratificazione che giustificherebbe l’esigenza di integrare rivendicazioni di giustizia di riconoscimento e rivendicazioni di giustizia distributiva, in quanto si presume che questa stratificazione avrebbe motivi strutturali (vedi sopra le considerazioni in merito all’ambiguità di tale concetto), sarebbe cioè una necessità per la auto conservazione del modo di produzione capitalistico. Ora a contestare questa affermazione è, nel dialogo sopra citato, Rahel Jaeggi – che marxista non è ma, in quanto allieva della scuola di Francoforte, possiede una raffinata padronanza del pensiero dialettico – la quale rinfaccia alla Fraser che, dalla sua argomentazione teorica, non si evince alcun motivo per cui gli sfruttati debbano essere categorizzati in base a confini di genere e/o di razza, e aggiunge che, ciò posto, l’ordine di genere e di razza descrive semplicemente i modi empirici in cui espropriazione e sfruttamento sono stati storicamente organizzati (che è poi esattamente quanto sostiene Harvey – vedi sopra). Cito letteralmente qui di seguito la sua argomentazione:  

tu dici che il capitalismo separa la storia in primo piano, quella della produzione di merci, da quella

sullo sfondo, quella dell’espropriazione e della riproduzione sociale. Dici anche che il sessismo ed il

razzismo sono intrinseci al capitalismo fintanto che esso assegna le funzioni della storia sullo sfondo

a popolazioni appositamente designate, che di conseguenza saranno razzializzate e femminilizzate.

Ma lasci aperta un’altra possibilità. E se il capitalismo non richiedesse questa seconda

condizione? E se mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’ quasi tutti, esigendo manodopera in

quelle dimore nascoste dall’intera popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già

richiede loro attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Non è uno scenario possibile? E se lo

fosse, il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non sessista?

Ebbene, come giustamente sottolinea Visalli nella sua recensione, di fronte a questa obiezione Fraser appare palesemente in difficoltà, nel senso che è indotta ad ammettere che l’ipotesi della Jaeggi è “logicamente possibile”, ma poi se la cava aggiungendo che la si può escludere “per tutti gli scopi pratici”. Ora è pur vero che la storia della cultura femminista è ricca di disinvolte alzate di spalle nei confronti delle pretese di rigore logico della filosofia “maschile” - do you remember Sputiamo su Hegel? (11) -, ma è altrettanto vero che, per un’autrice che si richiama al marxismo, doversi aggrappare ad un’argomentazione puramente empirica (argomentazione che, per inciso, appare sempre più debole anche sul piano fattuale, a fronte d’una cultura imprenditoriale che esalta le differenze di genere, età, razza e gusti sessuali (12) come vantaggi competitivi per la moderna forza lavoro, in particolare per i suoi strati medio elevati), non è certamente il massimo. E tuttavia non ha alternative perché, se dovesse ammettere che sessismo e razzismo non sono necessità organiche per il modo di produzione capitalistico, ma sono derubricabili a permanenze residue, l’intera parabola femminista si ridurrebbe a una lotta di retroguardia contro tali arcaismi culturali e contro le forze politiche che li incarnano (che non sono certamente le élite dominanti liberal progressiste, le quali, al contrario, hanno fatto della retorica femminista uno dei loro tratti caratterizzanti). Per dare un minimo di consistenza alle presunte radici strutturali su cui si fonderebbe la necessità capitalistica di mantenere l’oppressione di genere, Fraser deve imbarcarsi in un complicato ragionamento sul ruolo economico – deponendo quindi le armi del femminismo “culturalista” e recuperando quelle dell’economismo marxista – del processo riproduttivo. Ma anche qui, come vedremo più avanti, inciampa in difficoltà e contraddizioni irrisolvibili. Prima di occuparmene, tuttavia, discuterò le tesi che Catherine Rottenberg avanza nel suo L’ascesa del femminismo neoliberale (13). 

Al libro della Rottenberg dedicherò più spazio perché, trattandosi di un’autrice che appartiene a una generazione successiva a quella di Federici e Fraser, e non collocandosi  nel campo del femminismo marxista e socialista, ma piuttosto in quello della cultura post coloniale, post strutturalista e foucaultiana, è più vicina – benché lo critichi – al femminismo neoliberale e, almeno sotto certi aspetti, lo considera un fenomeno positivo con cui le femministe “ortodosse” dovrebbero confrontarsi, senza rinunciare al dialogo. Sono caratteristiche che ben si prestano a evidenziare come tutte queste varianti del femminismo – apparentemente in conflitto reciproco – siano in realtà strettamente interconnesse, e come il tanto vituperato femminismo neoliberale non abbia fatto altro che sviluppare – banalizzandoli e popolarizzandoli - tendenze e presupposti teorico politici già presenti nelle correnti più radicali e culturalmente “rigorose” del movimento.   

Rottenberg descrive i tratti distintivi del neoliberalismo in modo non dissimile da quello di molti autori marxisti (14). In particolare sottolinea che: 1) mentre il liberalismo classico si fondava sulla separazione fra sfera pubblica e sfera privata, il neoliberalismo tende a erodere il confine fra tali sfere nella misura in cui “esporta” la razionalità economica in tutti gli ambiti della vita, riducendo le persone a “capitale umano”; 2) il neoliberalismo produce soggetti imprenditorializzati (diventa imprenditore di te stesso!) orientati a “investire” su di sé e resi responsabili del proprio benessere (la cura di sé come terapeutizzazione del soggetto, che è chiamato a “imparare a essere felice” e a occuparsi del proprio stato emotivo); 3) il neoliberalismo produce soggetti radicalmente individualizzati che competono gli uni con gli altri per “ottimizzare” il proprio capitale umano e organizzare la propria vita in base al calcolo razionale del rapporto costi/benefici. 

Dopodiché si passa a descrivere il modo in cui il neoliberalismo ha riconfigurato il femminismo a sua immagine a somiglianza. In primo luogo, la Rottenberg cerca di spiegare perché il neoliberalismo aveva “bisogno” del femminismo per risolvere le sue contraddizioni interne (il che ci riporta al tentativo di definire un rapporto di necessità strutturale fra capitale e funzione riproduttiva femminile). Se è vero che per il neoliberalismo tutte le persone – donne e uomini - non sono altro che capitale umano, cioè unità produttive neutre, sembrerebbe trovare conferma l’obiezione critica della Jaeggi a Fraser (vedi sopra), ma Rottenberg se la cava dicendo che per riprodursi il capitalismo ha bisogno che le donne generino figli, cioè futuri lavoratori. Ora, posto che questa esigenza non è specifica del modo di produzione capitalistico, ma di tutte le forme sociali che lo precedono (e di quelle che auspicabilmente lo seguiranno), è evidente che il problema del processo riproduttivo non può essere appiattito sulla biologia (con la conseguenza, per inciso, di ri-naturalizzare la differenza di genere) ma implica tematiche più ampie (ci torneremo più avanti). Ma passiamo al modo in cui Rottenberg descrive l’uso capitalistico (neoliberale) del femminismo. 

Analizzando una serie di esempi tratti dalla copiosa produzione letteraria di donne in carriera (di sinistra, ma anche di destra, compresa una certa Ivanka Trump!), Rottenberg evidenzia il filo rosso che le attraversa: il leitmotiv di questi scritti – che echeggiano la straboccante produzione editoriale di manuali di self help – è la descrizione del modo in cui si può conciliare successo personale e un’appagante vita familiare. Ovviamente, a disturbare la sensibilità femminista “classica” dell’autrice, è il fatto che in questi testi si danno per scontati, oltre alle aspirazioni professionali, relazioni eterosessuali e desiderio di maternità (anche se le si potrebbe obiettare che la visione di un felice equilibrio lavoro- famiglia sarebbe perfettamente condivisibile anche da una coppia omosessuale con figli nati attraverso la pratica dell’utero in affitto). Un altro aspetto che viene messo in luce è l’enfasi sulla necessità di coltivare e cambiare se stesse (ma tutto questo non vi richiama alla mente le pratiche di autoscoscienza? Niente di nuovo sotto il sole, almeno da questo punto di vista...). 

Dopodiché Rottenberg batte insistentemente su un altro tasto: il classico slogan il personale è politico, che mirava a riconfigurare il privato come parte del pubblico, viene rovesciato, nel senso che questo nuovo femminismo mira piuttosto a riconfigurare il pubblico in relazione alle esigenze e ai bisogni del privato (promuovendo condizioni che, in azienda come in società, siano più favorevoli all’equilibrio lavoro-famiglia di cui sopra). L’annotazione è interessante, in quanto consente di evidenziare come questo “rovesciamento” era in realtà già immanente alla versione originaria dello slogan: affermare che il personale è politico vuol dire infatti dare il via a quell’erosione del confine fra le due sfere che verrà sfruttato dall’ideologia neoliberale per creare una dimensione dove tutto – a partire dalla politica – è personalizzato, dove la sfera pubblica - vedi in proposito quanto scritto da Richard Sennett (15) – è letteralmente neutralizzata. La politicizzazione del personale si rovescia così nella spoliticizzazione di tutti i rapporti sociali – pubblici e privati, sempre più reciprocamente confusi – che da ora in avanti potrà e dovrà essere combattuta solo riaffermando con decisione il principio secondo cui il politico non è personale.  

Ma torniamo alla critiche al femminismo neoliberale. Rottenberg sottolinea giustamente come questa ideologia incarni le esigenze, gli interessi e i bisogni una minoranza privilegiata di donne bianche appartenenti alle classi medio elevate. Per raggiungere l’auspicato equilibrio lavoro-famiglia, questi soggetti decentrano il lavoro di cura a donne che appartengono a classi sociali – e a etnie – “inferiori” il che produce un curioso paradosso: in questo modo si realizza, sia pure con modalità impreviste e imprevedibili, la famosa rivendicazione del salario al lavoro domestico, e tuttavia ciò non coincide con il passaggio verso la liberazione, bensì rappresenta la via attraverso la quale si è prodotta una nuova discriminazione di classe e e di razza tutta interna al genere. Rottenberg scrive, a tale proposito, che il privilegio dell’1% delle donne si basa sullo sfruttamento del 99%. Ma questa affermazione è contestabile da due distinti punti di vista: in primo luogo, non è per nulla vero che si tratta dell’1%, visto che quella minoranza di privilegiate non è fatta solo da manager, politiche, attrici, pop star, campionesse sportive, influencer, ecc. ma è fatta di milioni di appartenenti alle classi medio alte che, nei decenni scorsi, hanno potuto usufruire – grazie alla finanziarizzazione dell’economia – di parte dei sovraprofitti realizzati delle élite dominanti; secondariamente la maggioranza degli sfruttati non è fatta solo di donne, perché se è vero che il lavoro di cura mercenario è in larghissima misura femminile, è altrettanto vero che i soldi con cui viene pagato vengono dallo sfruttamento di milioni di proletari – donne e uomini, gente di colore e bianchi poveri. 

Infine Rottenberg mette in luce come il femminismo neoliberista fornisca argomenti politici per sostenere la “superiorità” della civiltà occidentale, che viene contrapposta a tutte le altre nella misura in cui è la sola a riconoscere – e a garantire – la parità effettiva uomo-donna. E, ciò che è più grave, questo femminismo viene impugnato come arma propagandistica per giustificare gli interventi dell’imperialismo occidentale (americano in primis) nei Paesi a maggioranza musulmana, in quanto funzionali a tutelare i diritti delle donne di quei Paesi (poco male se migliaia di donne pagano con la vita quelle “ingerenze umanitarie”).

A conclusione di questa requisitoria ci si potrebbe aspettare la messa al bando del femminismo neoliberale in nome dei principi del “vero” femminismo. Invece no. Per Rottenberg occorre riconoscere che, malgrado i molti demeriti (che però non devono alimentare atteggiamenti “colpevolizzanti”, per cui critica la durezza della posizione assunta dalla Fraser su questo argomento), il femminismo neoliberale non è privo di meriti. In primo luogo, scrive, dopo un’era “post femminista” in cui il femminismo sembrava essere sparito dall’orizzonte delle culture occidentali, nella misura in cui si dava per scontato che la parità di genere era stata sostanzialmente raggiunta, questa nuova ondata, malgrado la sua “arretratezza” culturale e politica, ha contribuito a diffondere la consapevolezza che le discriminazioni di genere esistono ancora, con il risultato che aumenta continuamente il numero delle giovani donne che si dichiarano femministe e, anche se esse non ne traggono le dovute conseguenze politiche, ciò fa sì che il femminismo sia divenuto accettabile (ma sarebbe meglio dire egemone, perlomeno negli Stati Uniti e non solo) in misura mai vista in precedenza.  Attribuisce qualche merito persino a Ivanka Trump, la quale, descrivendo la sua esperienza di lavoro di cura in termini asetticamente manageriali, avrebbe dato un contributo nello smontare l’idea dell’esistenza di un naturale istinto di cura femminile. Insomma: tracciare un confine (16) fra il “vero” femminismo e il femminismo neoliberale è impossibile, ma soprattutto sarebbe politicamente controproducente. 


Ivanka Trump



Questo atteggiamento “ecumenico” sembrerebbe estendersi oltre i confini di genere, nella misura in cui l’autrice di cui mi sto occupando sostiene di inspirare la propria visione politica al pensiero di Judith Butler, notoriamente in contrasto con  quella ortodossia femminista che trascura le altre dimensioni del conflitto politico e sociale a favore del solo conflitto di genere (17). In particolare, Rottenberg fa propria la categoria di precarietà, che, secondo Judith Butler (18), sarebbe il trait d’union che consentirebbe di aggregare in un blocco antisistema individui, gruppi e popolazioni che, di per sé, non solo avrebbero poco da spartire gli uni con gli altri, ma sarebbero portatori di interessi potenzialmente conflittuali. In quanto portatori di un comune status precario – che la Butler, e Rottenberg con lei, non riconduce a fattori economici – donne, LGBTQ, poveri, minoranze etniche e religiose, ecc. potrebbero confluire in un fronte unitario, se non unito, di resistenza. Ritroviamo qui il rifiuto dell’economismo di matrice marxista, al quale si contrappone una visione culturalista del conflitto sociale, per cui le ragioni della giustizia di riconoscimento vengono inevitabilmente anteposte a quelle della giustizia distributiva (innescando radicali effetti di rigetto nei confronti delle sinistre liberal da parte delle classi subalterne). Troviamo, anche, un approccio che somiglia al concetto di “catena equivalenziale” elaborato da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (19), secondo cui un “popolo” si costruisce come sommatoria di rivendicazioni eterogenee che hanno come comun denominatore il fatto di non trovare risposta da parte delle élite dominanti (anche in questo caso le soggettività in gioco sono definite sul piano simbolico e non in relazione all’appartenenza di classe). 


Judith Butler
Judith Butler



La differenza con il discorso populista di Laclau-Mouffe, sembrerebbe essere che, mentre quest’ultimo presuppone un momento di “verticalizzazione” della catena equivalenziale, si pone cioè il problema di quale soggetto individuale (leader) o collettivo (movimento) debba svolgere un ruolo egemonico all’interno della catena, la visione di Butler-Rottenberg parrebbe rigorosamente “orizzontalista” (il che lo accomuna ai discorsi di Federici e Fraser che assumono a loro volta quale modello il movimento Occupy Wall Street e la sua proiezione elettorale nella sinistra democratica di Bernie Sanders, Ocasio Cortez e altri). Apparentemente, perché il ruolo egemonico, in questo "popolo" che si autoattribuisce l'estensione del 99%, laddove si riduce a una quota ideologizzata – e quindi minoritaria - di ceto medio riflessivo, spetta senza dubbio al movimento femminista, che può illudersi di esercitarlo proprio grazie al confluire nelle sue fila del femminismo neoliberale e delle sue propaggini ideologiche (MeTo, politicamente corretto, quote rosa, discorso mainstream di media e politici di regime, ecc.). Un illusione maggioritaria che funziona, da un  lato, rimuovendo il tema del conflitto di classe, che viene riformulato/neutralizzato come conflitto interno al genere (ricomponibile sulla base di una “sorellanza” universale che vede tutte le donne contrapposte in blocco a tutti i maschi - contrapposizione che è vista come la sola, “vera” contraddizione antagonista), dall’altro lato, alimentando il mito di una presunta superiorità morale del genere femminile - mito che una intellettuale femminista come Jessa Crispin (20) ha avuto il coraggio di sfatare. 

Il grumo concettuale in cui tutti questi nodi vengono al pettine è quello della centralità del lavoro riproduttivo che, per tutte queste autrici, si fonderebbe sulla presunta necessità strutturale dell’oppressione di genere ai fini della riproduzione del modo di produzione capitalistico. Concludo quindi copiaincollando qui di seguito la riflessione critica che Alessandro Visalli ha dedicato a tale tema nella sopracitata recensione a un libro di Nancy Fraser 

E proprio in questo punto viene inserito il focus tematico femminista della riproduzione, intesa in

modo molto largo come tutte quelle forme che “producono e mantengono legami sociali”, e

consistono nella ‘tutela’, nel ‘lavoro affettivo’, nella formazione di soggetti umani come esseri

incarnati e come esseri sociali. Qualcosa che forma il loro habitus e la loro sostanza socio-etica

nella quale si muovono. Si tratta, cioè, del lavoro di socializzazione dei giovani, della costruzione di

comunità e di produzione e riproduzione di significati condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti

di valore che sostengono la cooperazione sociale. Il punto è che, parla la Fraser, “nelle società

capitaliste molta (anche se non tutta) quest’attività continua al di fuori del mercato – nelle famiglie,

nei quartieri, nelle associazioni della società civile e in una serie di istituzioni pubbliche, tra cui

scuole e centri di assistenza all’infanzia e agli anziani”.

In questa formulazione così ampia si tratta di una presa di posizione indiscutibilmente corretta. Ma,

se pure alcune di queste attività indispensabili e non mercatizzate (non mercatizzabili) sono

comparativamente svolte in misura maggiore da donne, nessuna è specificamente ed esclusivamente

femminile. Non solo le donne creano e mantengono i legami sociali, svolgono ‘lavoro affettivo’,

formano esseri umani e li socializzano, costruiscono comunità e producono significati, disposizioni

affettive e orizzonti di valore. Non solo le donne sostengono la cooperazione sociale.

Ma, e in questo ovviamente la mia distanza dal femminismo, io dico di più: non lo

fanno principalmente le donne, e non lo fanno maggiormente le donne. Ovviamente lo fanno sia le

donne sia gli uomini, e, naturalmente, lo fanno diversamente. Rivendico, in altre parole, anche

come padre oltre che come essere sociale e buon amico, parte responsabile di una comunità umana,

la mia capacità, pur non essendo donna, di produrre e mantenere legami sociali, di amare e essere

capace di tutela dei più deboli e dei vicini e parenti, di contribuire per la mia parte a formare

soggetti umani come esseri incarnati e come esseri sociali. Rivendico la mia capacità di

comprendere e rispettare l’habitus nel quale viviamo e la sua sostanza socio-etica. Di essere parte

della socializzazione dei giovani, della costruzione di comunità e di produzione e riproduzione di significati condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti di valore che sostengono la cooperazione

sociale.

Ma torniamo al testo. In genere il femminismo per “riproduzione” intende strettamente

l’allevamento dei nuovi esseri umani come forza lavoro (per cui, schematicamente, se non ci

fossero le madri a tutta evidenza non ci sarebbero i figli, non crescerebbero, e dunque non ci

potrebbero essere lavoratori). Una funzione che nella prospettiva tradizionale del cosiddetto “salario

familiare” è femminilizzata. Se fosse tutto qui il femminismo sarebbe una battaglia di

retroguardia, in quanto le condizioni di riproduzione sociale per l’accumulazione lo hanno superato

da tempo. Come abbiamo visto è tramontato come modello normativo e socialmente dominante con

l’insorgere dell’accumulazione flessibile nella quale si è passati ai due salari e quindi alla

ripartizione del lavoro su entrambi i ruoli. La Fraser propone perciò una versione molto allargata

del termine, quella sopra schematizzata, al fine di rendere ancora possibile la critica femminista in

un mondo nel quale in linea di principio tutti lavorano (se pure male). Un mondo nel quale sembra

si sia riprodotta quella condizione denunciata da Angela Davis in Donne, razza e classe per la

quale donne e uomini erano del tutto equivalenti, in tutti i lavori, perché visti dai padroni di schiavi

dei paesi del sud solo come forza lavoro.

Da una parte la ‘riproduzione’ sociale comprende ora in senso larghissimo la creazione,

socializzazione e soggettivazione degli esseri umani, in tutti i loro aspetti. Quindi “anche la

realizzazione e il rifacimento della cultura, delle varie aree dell’intersoggettività in cui gli esseri

umani sono inseriti – le solidarietà, i significati sociali e gli orizzonti di valore nei quali e attraverso

i quali vivono e respirano”. Dall’altra resta appannaggio femminile. In pratica, detto in altro modo,

per la visione sessista della nostra le donne sono esseri umani completi e gli uomini solo forza

lavoro.


Che altro aggiungere? A mò di conclusione mi pare di poter dire che, se esiste ancora un femminismo socialista, l’unico modo che ha per “salvarsi l’anima”, e soprattutto per non affogare nella palude del femminismo neoliberale, consiste, per dirla con Marx, nel rimettere il mondo con i piedi in terra, vale a dire nel ristabilire l’ordine gerarchico fra conflitto di classe e conflitto di genere, restituendo al primo il carattere di contraddizione strutturale – in senso marxiano, che non vuol dire affatto economista, nella misura in cui incorpora fattori etici, antropologici e storici – di tipo antagonista, e al secondo il carattere di contraddizione interna alla classe degli sfruttati, da ricomporre ai fini della lotta contro il nemico comune. Preciso infine che ricomporre non significa ignorare la radicalità dei problemi: affermare che sessismo, razzismo, omofobia sono elementi residuali, che giocano ormai un ruolo secondario – se non addirittura negativo - per la conservazione del dispositivo di dominio liberal liberista, non significa affermare che si tratta di questioni trascurabili, né che non vadano combattuti con la massima decisione, significa semplicemente che metterli in cima alla lista degli obiettivi politici – o peggio eleggerli a unici obiettivi – vuol dire consegnarsi nelle mani del nemico di classe.  


Note


(1) Come ho cercato di chiarire nelle Glosse alla Ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs - pubblicate su questo blog - per una visione marxista lontana dal materialismo volgare, l'ideologia non è sinonimo di falsa coscienza, ma rappresenta piuttosto un fattore costitutivo dell’identità stessa – in senso materiale e non puramente ideale - di un soggetto sociale storicamente determinato. 

(2) Cfr.  C. Formenti, La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016. 

(3) Cfr. S. Federici, Il punto zero della rivoluzione, ombre corte, Verona 2014.

(4) Cfr. S. Federici, Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma 2020.

(5) Vedi, in particolare, A. Visalli, Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi, Milano 2020.

(6) Cfr. La variante…, op. cit.; vedi anche Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.  

(7) N. Fraser, Fortune of Feminism, Verso, London-New York 2015.

(8) N. Fraser, R. Jaeggi,  Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.

(9) http://tempofertile.blogspot.com/2021/05/nancy-fraser-capitalismo-una.html 

(10) Cfr. N. Fraser, a. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Lotte di genere e disuguaglianze economiche, Meltemi, Milano 2020.

(11) Cfr. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, 1974.

(12) La promozione della diversità come fattore di vantaggio competitivo per la nuova forza lavoro, in particolare per i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, è un tratto distintivo dei settori capitalistici più avanzati, in particolare per l’industria high tech e le Internet Company. Vedi in proposito il concetto di “classe creativa” in R. Florida (L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003.

(13) C. Rottenberg, L’ascesa del femminismo neoliberale, ombre corte, Verona 2021.

(14)  La descrizione più approfondita della costruzione del nuovo soggetto lavorativo da parte del neoliberalismo si deve probabilmente a P. Dardot, C. Laval,  La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.

(15) R, Sennett, Il declino dell’uomo pubblico,  Bruno Mondadori, Milano 2006. 

(16) A proposito del rifiuto fobico di tracciare confini simbolici, tipico delle culture postmoderniste cfr. F. Furedi, I confini contano, Meltemi, Milano 2021.

(17) La Butler ingaggiò a tale proposito una durissima polemica con le femministe tedesche – che arrivò ad accusare senza mezzi termini di razzismo - in merito all’episodio di Colonia, allorché nella notta di Capodanno, migliaia di immigrati musulmani invasero il centro della città importunando le donne. Ho commentato quella polemica ne Il socialismo è morto, op. cit.      

(18) Cfr. J. Butler, Vite precarie, Meltemi, Milano 2004; vedi anche L’alleanza dei corpi, nottetempo, Milano 2017.

(19) Cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008; vedi anche C. Mouffe, For a left Populism, Verso, London-New York 2018.

(20) Cfr. J. Crispin, Why I’m nit a femminist. A femminist manifesto, Melville House, London 2017.




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