Lettori fissi

sabato 30 settembre 2023


SONG CI. UN EROE DEL RINASCIMENTO CINESE






Oltre che un accanito lettore di letteratura “alta”, sono un consumatore seriale di romanzi di genere (gialli, noir e science fiction) qualche esemplare dei quali difficilmente manca sul comodino accanto al letto. Se vado in libreria per acquistare un saggio, butto un occhio anche sugli scaffali che ospitano questo tipo di libri e, quando passo dall’edicola, verifico se lo spazio riservato alla letteratura pop (vedi Giallo Mondadori e Urania) offre qualche novità. Ecco perché, qualche giorno fa, non mi è sfuggito un giallo intitolato Final Witness. Incuriosito per l’insolita lunghezza (quasi seicento pagine, laddove i testi di questa collana raramente raggiungono le trecento) e per il nome dell’autore, Wang Hongjia (avevo letto con gusto i romanzi di genere di altri autori cinesi), mi sono affrettato ad acquistarlo.


Nei giorni successivi l’ho praticamente divorato, pur essendomi subito reso conto che il testo che avevo fra le mani non era un giallo “classico” – benché del giallo presenti alcuni ingredienti – bensì un intrigante romanzo storico ambientato nella Cina del XIII secolo. Wang Hongjia, oltre a occupare un ruolo di primo piano nell’Associazione degli Autori Cinesi, e ad avere vinto importanti premi letterari, è uno studioso della società dell’informazione, ma soprattutto è un romanziere e un esperto di storia cinese. Questo Final Witness è il suo lavoro più conosciuto (tradotto in molte lingue occidentali) e ha come protagonista Song Ci, un funzionario della dinastia Song (960-1279), medico, magistrato e scienziato forense ante litteram, noto per avere pubblicato (nel 1247) un libro intitolato L’eradicazione dei mali. Casi di ingiustizia rettificata che documenta la sorprendente modernità dei suoi metodi d'indagine, che anticipavano di secoli quelli dell’Occidente contemporaneo. Ma soprattutto, come spiegherò più avanti, aiuta a capire certi aspetti della Cina di oggi e il suo peculiare mix di marxismo e confucianesimo.


Prima di entrare nel merito del racconto, è il caso di ricordare che è ambientato al tempo della dinastia Song, prima che questa soccombesse all’occupazione da parte del mongolo Kublai Khan (l’imperatore di cui riferisce il Milione di Marco Polo), cioè in un’epoca associata a una straordinaria fioritura della civiltà cinese. Il governo Song, fra le altre cose, è stato il primo a livello mondiale a emettere vera carta moneta, ha costruito una marina militare permanente, ha sviluppato il commercio marittimo su lunga distanza, utilizzato la bussola e la polvere da sparo e a dotato il proprio esercito di nuove tecnologie belliche. Nello stesso periodo la produzione agricoltura subì un forte incremento grazie all’introduzione di nuove tecniche, propiziando l’aumento della popolazione e accrescendone il benessere. Infine diede un forte impulso alla crescita della burocrazia statale, che ridimensionò i poteri locali dell’aristocrazia terriera e creò le condizioni per lo sviluppo dell’arte, della cultura e delle scienze filosofiche, matematiche e ingegneristiche, anche grazie allo viluppo dell’editoria, che sfruttava l’invenzione della stampa a xilografia e dei caratteri mobili, risalente al secolo XI. 


Song Ci fu un esponente di spicco di questa specie di Rinascimento in salsa cinese ma, prima di raccontarne la storia, va detto che quella di Wang Hongjia è una biografia romanzata, in cui l’autore  scioglie le briglie alla fantasia onde integrare le scarse informazioni storiche di cui si dispone sulla vita e le opere del protagonista, e - ciò che farà sicuramente piacere ai lettori più portati all’intrattenimento che allo studio - “condisce” la narrazione con intrighi, delitti e duelli di arti marziali che evocano i colossal storici di registi come John Woo (controbilanciando certe lungaggini descrittive che, ancorché interessanti come documenti della vita quotidiana e delle relazioni sociali e familiari dell’epoca, rischiano di annoiare il lettore medio occidentale). 


Song Ci era figlio di un alto funzionario governativo, il quale, prima di morire, gli lasciò in eredità  l’ingiunzione tassativa di seguire la sessa strada. Prima di farcela, il giovane Song Ci dovette affrontare i durissimi esami per divenire funzionario imperiale, riuscendovi solo al terzo tentativo, malgrado l’assiduo impegno e la brillante intelligenza (a leggere la descrizione che Daniel Bell fa (1) fa dell’arduo percorso che i candidati devono affrontare per accedere alle alte cariche del Partito Comunista e dello Stato cinesi, da allora le cose non sono così cambiate). 


Un ritratto di Song Ci



Dopodiché scopriamo che superare gli esami non comportava automaticamente la nomina a un incarico governativo (così come ai tempi nostri chi vince un concorso universitario, per poter insegnare deve attendere la “chiamata” da parte di un ateneo). Per Song Ci l’attesa sarà particolarmente lunga: solo a quarant’anni otterrà il posto di cancelliere presso un tribunale  provinciale. Ma tutto quel tempo non andrà sprecato: il funzionario in pectore lo impiegherà per accumulare una cultura mostruosa attraverso lo studio di centinaia di libri nei campi della scienza medica, del diritto, nonché della casistica di celebri processi e della filosofia. Questa vasta erudizione, assieme alle straordinarie capacità intuitive, ne faranno una sorta di Sherlock Holmes ante litteram, consentendogli di ricostruire le dinamiche di innumerevoli delitti, incastrando molti colpevoli e scagionando molti innocenti (il pensiero corre al monaco-detective medievale del Nome della rosa di Umberto Eco). Per ottenere questi brillanti risultati, il nostro sviluppa inedite tecniche di indagine: esami autoptici, test biologici, metallurgici e chimici su armi, tessuti, residui vegetali e alimentari raccolti sulla scena del delitto, ecc. Applicherà inoltre le conoscenze mediche acquisite in anni di studio per curare ferite, avvelenamenti e malanni vari. Si circonderà inoltre di un gruppo di assistenti e guardie del corpo che lo accompagneranno per tutta la vita, salvandolo da alcuni attentati e aiutandolo a catturare pericolosi delinquenti. 


Superando i confini provinciali la sua fama gli vale una serie di promozioni che lo obbligano a viaggiare per tutto l’impero assieme alla moglie e alla figlia (che perde la vita in un attentato che avrebbe dovuto togliere di mezzo lui). Finché verrà chiamato a ricoprire il ruolo di supervisore delle carceri imperiali. In questa veste scopre gli orrori di un sistema giudiziario che si basa sulla presunzione di colpevolezza: coloro che vengono accusati di determinati crimini, anche se non sussistono prove, vengono trattenuti in carcere a tempo indeterminato, in attesa di un improbabile chiarimento dei rispettivi casi. Song Ci ribalta questa logica, adottando di fatto il principio di presunzione di innocenza, per cui fa scarcerare migliaia di detenuti (in larga maggioranza contadini poveri) e impone ai giudici di riesaminare i casi che considera dubbi. Descrivendo quest’azione riformatrice, Wang Hongjia mette in luce lo scontro di classe che genera simili ingiustizie. I contadini, oltre a subire gli effetti di carestie e disastri ambientali, come le frequenti inondazioni, sono vittime dei tiranni locali (proprietari terrieri e grandi commercianti) i quali, per difendere i propri privilegi contro i tentativi governativi di ridimensionarne il potere, assoldano bande di mercenari e ricorrono alla corruzione sistematica dei funzionari locali (2). Song Ci si trova così impegnato in una lotta senza esclusione di colpi con aristocratici, burocrati corrotti e soldataglie al servizio degli uni e degli altri. Spinto da una inestinguibile sete di giustizia e al tempo stesso frustrato dall’impossibilità di riparare tutti i torti di cui viene a conoscenza, paga la tensione invecchiando rapidamente e andando incontro a una morte precoce (nel racconto di Hongjia, pur malato e confinato sul letto di morte, riuscirà ugualmente a risolvere un ultimo caso).


Wang HongJia



Perché ho detto che questo romanzo ci fa capire certe cose della Cina moderna? Provo a sintetizzare. In primo luogo, è difficile non vedere nell’opera di Hongjia una metafora del ruolo del Partito Comunista Cinese come una sorta di gramsciano Principe moderno (3). Così come il grande regista russo Sergej Ejzenstejn mise in scena nel film Ivan il Terribile la lotta dello zar contro i boiardi per celebrare quella di Stalin contro i kulaki, analogamente Hongjia descrive il conflitto fra il potere imperiale (incarnato dal funzionario onesto Song Ci) i tirannelli locali e i burocrati corrotti come una metafora della lotta del PCC contro i nemici del popolo e della rivoluzione cinese. Al tempo stesso, Song Ci incarna un potere buono che difende gli interessi delle masse contadine contro i potenti che le opprimono, un potere che può apparire paternalistico agli occhi della cultura occidentale ma che, come è stato osservato (4), risponde allo specifico concetto di democrazia di un popolo che non bada al rispetto delle procedure ma al fatto se il potere agisce concretamente per tutelare gli interessi delle masse. Comprendiamo così come l’attuale relazione fra Stato, comunità e partito sia profondamente radicata nella tradizione millenaria di un grande Paese che non è mai passato sotto le forche caudine di un feudalesimo paragonabile a quello del nostro Medio Evo (5) e, al tempo stesso,  capiamo i motivi della rivalutazione dell’etica confuciana da parte del PCC. 


In conclusione,  mi pare che il romanzo possa essere considerato come un’operazione di “soft power” che, valorizzando le conoscenze scientifiche e filosofiche, le invenzioni tecniche e le pratiche empiriche in auge nella Cina del XIII secolo - che testimoniano di un livello di civiltà che anticipava di secoli quello dei popoli e delle culture occidentali – riscatta la storia cinese dalle umiliazioni infertegli dalla colonizzazione da parte delle potenze europee. Senza dimenticare che il guru del liberalismo inglese Adam Smith, come ricorda Giovanni Arrighi (6), era consapevole che, non solo la civiltà, ma anche l’economia cinese, almeno fino alla fine del secolo XVIII, era di gran lunga più prospera, equilibrata ed armoniosa di quella del nascente capitalismo occidentale. Più la Cina popolare si avvia a rappresentare una potenza mondiale in grado di contrastare l’egemonia degli Stati Uniti, più le sue élite moltiplicano l’impegno per riscoprire e valorizzare le radici della sua civiltà millenaria, più diventa importante per tutti noi coglierne il senso. 


Note


(1) Cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019. Nel mio ultimo libro (Guerra e rivoluzione, vol. II, p. 45) scrivo a proposito delle tesi di Bell:” Per definire questo complesso sistema di governance (in continua evoluzione sul piano legislativo e istituzionale), Bell utilizza la formula di “meritocrazia democratica verticale”. Alle nostre orecchie suona come un ossimoro, ma Bell ce ne spiega il significato descrivendo  le procedure di selezione della leadership politica. Come nell’antica Cina imperiale, il sistema ha lo scopo di selezionare una élite attraverso esami e valutazioni delle prestazioni ai livelli di governo locali. La proverbiale durezza e competitività dei percorsi universitari è il primo ostacolo che devono affrontare tanto i candidati alla carriera politica quanto quelli alla carriera statale. Il passo successivo consiste nei non meno impegnativi esami per il pubblico impiego, dopodiché si può accedere ai livelli più bassi di governo, e ogni successiva promozione dipende esclusivamente dalla qualità delle prestazioni realizzate”.


(2) Il conflitto fra potere centrale e tiranni locali, in cui il primo si allea con le classi subalterne, e/o crea un proprio apparato professionale (burocrati, magistrati, polizia, ecc.) estraendone i quadri dalle classi intermedie, per sconfiggere i secondi è un leitmotiv di diverse epoche storiche in differenti contesti socioeconomici e culturali. Si pensi al ruolo di sovrani come il Re Sole o Ivan il Terribile nella formazione dello stato moderno. Quanto al tema della corruzione dei magistrati locali da parte delle vecchie aristocrazie per contrastare il potere dello stato centrale, si tratta di un problema ancora più diffuso nello spazio e nel tempo, che non riguarda solo la transizione fra il medioevo e il mondo moderno, ma permane in quest’ultimo persino laddove si siano verificate rivoluzioni sociali: vedi le periodiche campagne contro la corruzione condotte dallo Stato-Partito della Repubblica Popolare Cinese.


(3) Sulla concezione gramsciana del Partito come Principe moderno cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, 4 voll., Einaudi, Torino 2014.


(4) Cfr. D. Bell, op. cit. In Guerra e rivoluzione (cit., pp. 42, 43) scrivo: “Le accuse di totalitarismo, di disprezzo per le regole e i principi democratici nonché per i diritti umani nei confronti della Cina sono un mantra che media, governi e partiti occidentali ripetono ossessivamente. A confutare questo luogo comune è, fra gli altri, Daniel Bell, uno studioso canadese che da anni vive e insegna in Cina. Bell parte da un dato di fatto: il sistema cinese rappresenta la definitiva smentita della tesi secondo cui la democrazia liberale di tipo occidentale è il sistema verso cui tutti i Paesi evolvono “naturalmente”, a mano a mano che al loro interno si sviluppa un’economia di mercato e si raggiungono diffusi livelli di benessere. Tutte le ricerche rivelano che i cittadini cinesi  non condividono la nostra concezione “procedurale” di democrazia, cui non attribuiscono alcun valore. Il loro concetto di democrazia è di carattere “sostanziale”, nel senso che si preoccupano soprattutto delle conseguenze che un determinato sistema politico è in grado di produrre per le loro vite e i loro interessi. Per il cinese comune, la democrazia non si misura in termini di principi e i valori, bensì in relazione al livello di sicurezza che lo Stato-partito è in grado di garantire, al fatto se fa o meno gli interessi della maggioranza del popolo, ciò che fa sì che il livello di legittimità del sistema politico cinese, grazie ai risultati ottenuti in termini di lotta alla povertà, aumento dei livelli di reddito e delle opportunità di accesso ai servizi sociali nella seconda fase del processo riformista, è molto più elevato di quello che i cittadini di molti Paesi occidentali riconoscono ai rispettivi governi.”


(5) Nel suo libro Eurocentrismo (La Città del Sole, Napoli-Potenza 2022) un grande teorico marxista come Samir Amin sostiene che il “sorpasso” delle nazioni europee nei confronti della Cina (ben più avanzata di esse fino al secolo XVIII) è potuto avvenire grazie a un paradosso: la maggior arretratezza del nostro Medioevo rispetto al florido Oriente, ha alimentato rivoluzioni borghesi radicali che hanno accelerato il processo della storia.


(6) A proposito del giudizio di Smith sulla Cina, e della interpretazione che ne dà Giovanni Arrighi in Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, Milano 2007), scrivo nel mio Guerra e rivoluzione (cit., p, 12): “ Adam Smith non fu tanto l’apologeta del mercato autoregolantesi che basta lasciare operare liberamente perché generi spontaneamente la ricchezza delle nazioni, quanto colui che auspicò l’esistenza di uno Stato forte, in assenza del quale non possono darsi le condizioni di esistenza del mercato stesso. I suoi consigli al legislatore, aggiunge Arrighi, furono sempre di ordine sociopolitico piuttosto che economico, né si proponevano esclusivamente di agevolare l’interesse e il potere dei capitalisti: la sua idea di fondo era che, se si vuole perseguire l’interesse generale, occorre stimolare la competizione per tenere il più basso possibile il saggio di profitto. Detto altrimenti: i mercati non devono essere abbandonati al loro sviluppo spontaneo, bensì “usati” come strumenti di controllo e di governo, una tesi, sostiene Arrighi, che ci consente di capire la logica delle “economie di mercato non capitalistiche”, delle quali la Cina rappresenta un esempio tipico. Smith lo aveva intuito già nel 1776, allorché scriveva che la Cina era più ricca di qualsiasi Paese europeo, attribuendo il carattere “stazionario” della sua economia – cioè il fatto che non fosse mossa dalla spinta all’accumulazione illimitata – al fatto che essa aveva raggiunto la pienezza di ricchezze consentita dalla natura del suolo, dal clima e dalla posizione geografica.  Ma ciò che è più interessante è che Smith definiva come “naturale” questo tipo di sviluppo, basato sull’agricoltura e sul commercio interno, mettendolo in contrapposizione con lo sviluppo “innaturale” delle economie europee, basato sul commercio estero (e sulla potenza militare forgiatasi dai conflitti intereuropei, aggiunge Arrighi), un modello, secondo Smith, assai meno favorevole di quello “naturale” all’interesse nazionale.”






   


 



mercoledì 27 settembre 2023

 A PROPOSITO DEL COSIDDETTO CAPITALISMO WOKE 






Leggendo il libro dell’australiano Carl Rhodes, esperto di teorie dell’organizzazione e docente dell’Università di Sidney (Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Fazi editore) è difficile non rendersi conto di un paradosso: scritto con l’intenzione di denunciare i veri obiettivi politici che si nascondono dietro la svolta “progressista” di alcune grandi imprese multinazionali, finisce invece per svelare (sia pure involontariamente) le ragioni per cui la sinistra “politicamente corretta”, con la quale Rhodes si identifica, ha poche chance di contrastare gli obiettivi in questione. 


Partiamo dal senso del termine woke, ormai di uso comune nel mondo anglofono ma che non tarderà a diffondersi in un’Europa sempre più “americanizzata”. Coniato dagli afroamericani nel contesto dei movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, e rilanciato nel corso delle mobilitazioni del movimento Black Lives Matter, nato per protestare contro gli assassinii a sangue freddo di cittadini neri ad opera di poliziotti bianchi (sistematicamente impuniti), è stato adottato anche dalle altre componenti della nuova sinistra Usa con il significato di essere attento, sensibile e ben informato rispetto a ogni genere di discriminazione e ingiustizia razziale o sociale (in particolare Rhodes elenca temi come sessismo, razzismo, ambientalismo, diritti LGBTQI+ e disuguaglianza economica, quest’ultima lasciata non a caso per ultima, ma su ciò tornerò più avanti). Ad adottare questa postura etica, tuttavia, non sono solo i militanti che inalberano le bandiere del politically correct, bensì un numero crescente di grandi marchi multinazionali, i quali non si limitano a sponsorizzare il mondo woke promuovendone obiettivi e slogan attraverso campagne di opinione e/o integrandoli sistematicamente nel linguaggio delle proprie strategie di marketing e pubblicitarie, ma lo sostengono attivamente, sia attraverso consistenti donazioni, sia promuovendo gli ideali woke fra i propri dipendenti (al punto di  licenziare chi non vi si adegua). L'interrogativo cui Rhodes cerca di dare risposta nel proprio lavoro è se questa “conversione” non nasconda secondi fini. 


L’autore prende le mosse dallo scontro ideologico che la presunta svolta a “sinistra” di manager di colossi come la finanziaria Black Rock, di multimiliardari come Bill Gates e Jeff Bezos, di aziende simbolo della New Economy quali Amazon, Google, Apple, Facebook ecc., per tacere di molti esponenti dello star system hollywoodiano e di grandi campioni sportivi, ha innescato fra progressisti liberal ed esponenti delle destre più reazionarie e retrograde, sia in ambito politico che in ambito giornalistico e religioso. I conservatori accusano i settori capitalistici convertitisi alla retorica del politicamente corretto di essersi accodati agli slogan dei movimenti femministi, LGBTQI+, ambientalisti, pacifisti, antirazzisti ecc. al solo scopo di “ripulire” (greenwashing)  la propria immagine, ma soprattutto li accusano di avere così rinnegato il proprio ruolo fondamentale, che consiste nel generare profitti per gli azionisti; li accusano infine di ipocrisia, cioè di simulare idee e sentimenti che non provano realmente, contribuendo in questo modo al dilagare di un moralismo di massa che danneggia i principi e i valori tradizionali del popolo americano.


Curiosamente, quest’ultima accusa che arriva da destra converge con la critica più diffusa da parte delle sinistre. Tipica, in tal senso, la posizione assunta da un’esponente della sinistra democratica come la senatrice Elisabeth Warren, la quale invita le aziende ad essere woke non solo a parole ma anche nei fatti. Non si può essere veramente woke, argomenta la Warren assieme ad altri esponenti della sua parte politica, se l’impegno di manager e imprese si riduce a chiacchiere e a donazioni  che, per quanto cospicue, sono poco più che briciole rispetto ai mostruosi profitti realizzati dai soggetti in questione. In particolare, certi slogan sulla giustizia sociale stridono con i mostruosi livelli di disuguaglianza che queste imprese hanno contribuito in prima persona ad alimentare negli ultimi decenni, né sono associate ad azioni concrete per ridurli. In poche parole: il “buonismo” ipocrita delle imprese non apporta cambiamenti reali in seno ai programmi del capitalismo. 


Pur condividendo tale osservazione, Rhodes non la considera il nodo centrale delle questioni sollevate dall’ascesa di questo inedito”capitalismo di sinistra”. In primo luogo, sgombra il campo dalle ubbie di coloro che vedono nel fenomeno il rischio di un crollo dei profitti e un grave danno per gli interessi degli azionisti, che manager “plagiati” dalla sinistra sarebbero disposti a sacrificare sull’altare della propaganda liberal progressista. La verità è, argomenta citando una serie di dati in merito, che questa svolta non solo non ha danneggiato gli interessi aziendali ma ha anzi contribuito ad aumentare significativamente i profitti. Insomma: sposare l’ideologia woke sembra un ottimo affare. Ma i veri obiettivi della svolta, argomenta, sono altri e decisamente preoccupanti, nella misura in cui, sostiene, mettono a rischio la sopravvivenza stessa del sistema democratico. Il fatto che le imprese divengano woke, scrive, non potrebbe essere un mezzo per estendere il potere e l’egemonia del capitalismo? Non si tratta di “capitalizzare” la moralità pubblica, in modo che il dibattito civico e il dissenso democratico vengano sostituiti da campagne di marketing e pubbliche relazioni? 


Per rispondere, Rhodes affronta la questione dal punto di vista storico. In primo luogo, ricorda che il fenomeno attuale presenta evidenti analogie con quello della filantropia dei robber barons, i  rapaci monopolisti che dominarono l’economia americana negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento. Superata la Grande Crisi del 29 e la parentesi bellica, personaggi come Carnegie e Rockefeller, per citare i più noti, si trovarono negli anni Cinquanta a fronteggiare la sfida dell'alternativa socialista incarnata dall’Unione Sovietica e reagirono investendo una consistente fetta dei loro immensi profitti (Carnegie dispose che, alla sua morte, il 90% del patrimonio che aveva accumulato dovesse essere impiegato in iniziative benefiche di vario tipo). Il loro impegno filantropico era parte di una strategia lucidamente finalizzata a contrastare le possibili tentazioni socialiste da parte dei lavoratori americani. Né si trattava semplicemente di tener buono il popolo con il vecchio trucco di elargirgli panem et circenses: l’obiettivo era  assumere il controllo delle politiche pubbliche onde sostituire progressivamente il sistema democratico con una plutocrazia benevola. Ebbene, scrive Rhodes, l’attuale capitalismo woke ripropone la stessa logica, con l’unica differenza che, oggi, a impegnarsi socialmente non sono più (o almeno non sono solo) i singoli magnati ma le aziende stesse. Come si spiega questo ricorso storico?

iIl fatto è che, nel corso del “trentennio dorato” del secondo dopoguerra, un potere politico ispirato ai principi ridistributivi keynesiani aveva favorito un compromesso fra capitale e lavoro che garantiva alti livelli di occupazione, salari decenti e servizi pubblici accessibili ed efficienti nel contesto di un ampio sistema di welfare, contribuendo a neutralizzare i progetti di instaurazione d’un regime plutocratico. La controrivoluzione liberista avviata negli anni Ottanta dai governi Tatcher e Reagan, e successivamente diffusasi in tutto il mondo occidentale, ha sistematicamente smantellato questo dispositivo. Liberalizzazione selvaggia, delocalizzazioni e globalizzazione finanziaria hanno invertito il corso della storia, generando livelli di disuguaglianza ancora più estremi di quelli dell’era dei robber barons, legittimati da narrazioni in merito alle chance di mobilità sociale che il libero mercato offrirebbe a tutti i soggetti dotati di spirito imprenditoriale, e dal mito del “trickle down” (cioè dalla tesi secondo cui una parte dei superprofitti accumulati dalle megaimprese “sgocciolerebbe” fino alla base della piramide sociale, garantendo benessere a tutti). 


Queste narrazioni neoliberiste sono naufragate sugli scogli delle crisi del 2000-2001 e 2007-2008 scatenando la rabbia di lavoratori, consumatori ed elettori e aprendo la strada ai movimenti populisti (da notare che Rhodes sembra associare automaticamente al fenomeno populista le forze politiche di destra, ma anche su questo tornerò più avanti). E’ per fronteggiare la rabbia popolare che nasce il capitalismo woke (“una polizza assicurativa contro lavoratori, consumatori ed elettori esasperati” scrive Rhodes). Appropriandosi dei temi e degli slogan delle sinistre, le grandi imprese tentano di costruirsi delle credenziali etiche per distogliere l’attenzione dalle proprie rapine a danno dei beni pubblici, cui non hanno alcuna intenzione di rinunciare (non a caso, fra le cause che perorano, non viene quasi mai menzionata la lotta alle disuguaglianze di reddito e all’evasione fiscale). Il populismo aziendale è l’altra faccia del populismo di destra: se il secondo difende le ragioni del capitalismo selvaggio, il “progressismo” del primo è ancora più insidioso in quanto rivendica la propria capacità di risolvere problemi che i governi non possono né vogliono più risolvere. L’idea è che, più le imprese si dimostrano in grado di gestire le proprie “responsabilità sociali” meno ci sarà bisogno di intromissioni politiche in campo economico. Le grandi imprese, sostiene Rhodes, costituiscono una nuova élite il cui potere sulla società ambisce a rimpiazzare quello del governo democratico. Se questo obiettivo si realizzasse, si avvererebbe il sogno dei robber barons: il potere politico non sarebbe più la posta dello scontro pubblico fra opinioni contrastanti, bensì del dibattito fra le voci di coloro che detengono il potere economico, l’equilibrio del potere verrebbe quindi irreversibilmente spostato dalla sfera della democrazia alla sfera dell’economia. A questo punto cercherò di spiegare perché ritengo che gli argomenti di Rhodes e della cultura politica della sinistra politicamente corretta di cui questo autore è espressione non hanno alcuna chance di contrastare i fenomeni che il suo libro analizza e denuncia.      


* * *


Parto da una constatazione: il regime plutocratico che Rhodes presenta come un rischio da scongiurare è già da tempo un dato di fatto. Basti considerare che una buona metà dei senatori e deputati che siedono nei due rami del parlamento americano appartengono alla minoranza dei super ricchi. Ciò non è solo dovuto ai costi proibitivi delle campagne elettorali che fanno sì che solo pochi privilegiati possano “comprarsi” un seggio (sia con le proprie risorse personali sia con quelle che vengono loro offerte dalle lobby finanziarie che li sponsorizzano, le quali ne condizioneranno il voto dopo  che verranno eletti), ma è anche e soprattutto l’esito di un progressivo processo di integrazione fra élite economiche, politiche, accademiche e mediatiche, ben simboleggiato dal meccanismo delle “porte girevoli” che fa sì che le stesse persone assumano in successione le più alte cariche direttive nelle imprese private, nelle istituzioni pubbliche, nei partiti e nel mondo culturale (università, giornali, tv, ecc.). Questo sistema “truccato” (come è stato definito dall’esponente dell’ala socialista del Partito Democratico Bernie Sanders) non ha più nulla a che vedere con le regole della democrazia, ma è espressione di un regime che autori come Colin Crouch hanno definito post democratico (vedi Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2013).


Se le cose stanno così, è evidente che nessun ritorno alle politiche socialdemocratiche appare possibile in assenza di radicali sconvolgimenti economici, politici e culturali, senza cioè che si verifichi una vera e propria rivoluzione. I fallimenti dei progetti neo socialisti di Sanders negli Stati Uniti e di Corbyn in Inghilterra dimostrano che queste nuove sinistre non sono all’altezza del compito, non solo perché condizionate dagli apparati delle sinistre tradizionali ormai convertite al credo neoliberista (con le quali i leader appena citati non hanno avuto il coraggio di tagliare i ponti), ma anche perché è fallito il loro tentativo di saldare i movimenti femministi, antirazzisti, LGBTQI+, ambientalisti ecc. con i movimenti dei lavoratori e, per capire le ragioni per cui è fallito, occorre interrogarsi sul perché le classi lavoratrici preferiscono in larga maggioranza votare per i populisti di destra (tutte le ricerche sui flussi elettorali confermano che in tutto l’Occidente a votare per le sinistre sono i membri delle classi medio-alte che abitano nei centri gentrificati delle metropoli, mentre le masse che vivono nelle periferie votano in massa a destra). 


Uno dei pochi seri tentativi di rispondere all’interrogativo è quello della coppia di sociologi francesi Boltanski-Chiapello (vedi L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014) i quali, analizzando la scissione fra “critica artistica” e “critica sociale” verificatasi alla fine dei Settanta (la prima concentrata su rivendicazioni dei diritti di specifiche minoranze, di fatto compatibili con il sistema capitalistico e sempre meno attenta a quelle delle classi lavoratrici), hanno ben descritto il nuovo spirito del capitalismo (che altro non è se non il capitalismo woke di cui parla Rhodes). Il merito di questi autori è avere colto le radici di classe del fenomeno: a mano a mano che le classi medie riflessive che erano state protagoniste delle lotte anti autoritarie della fine dei Sessanta e dei primi Settanta entravano a far parte di una rinnovata casta dirigente (nelle imprese, nei media e nelle istituzioni), plasmavano una nuova cultura manageriale “progressista”, ma sostanzialmente compatibile con le regole del sistema. In altre parole: non è che il capitalismo woke abbia manipolato le nuove sinistre o che, al contrario – secondo la narrazione conservatrice – si sia fatto manipolare da esse, si tratta piuttosto della spontanea formazione di un blocco socioculturale che incarna l’illimitata capacità adattiva del capitalismo alle mutate condizioni storiche in cui si trova via via ad operare. 


Rhodes è del tutto incapace di cogliere questa realtà perché ancorato a una visione ingenua, irenica, di una democrazia che non è mai realmente esistita, se non come facciata politica di un sistema socioeconomico fondato sullo sfruttamento e sull’oppressione capitalistica della forza lavoro. Per lui il conflitto sociale non è lotta di classe bensì confronto fra opinioni. Così leggiamo, fra le altre cose, che “l’etica può sfidare il sistema stesso su cui poggia il capitalismo”; che non si tratta di condannare l’attività imprenditoriale in sé perché “le imprese possiedono il potenziale per sostenere la democrazia”; che “la politica democratica si fonda sulla convinzione che le persone (cioè gli individui non i popoli!) abbiano il diritto di governarsi da sole”; che “i consumatori detengono il potere della domanda (!!??)”; che, citando Greta Thunberg, “è l’opinione pubblica che governa il mondo libero (!!??); infine che non c’è niente di sbagliato nel fatto che gli attivisti LGBTQI+ si siano rivolti alle aziende per raccogliere consensi, in quanto si tratta di ”un'azione democratica dei cittadini che hanno utilizzato l’influenza delle imprese”. 


Il nostro ritiene di essere portatore di una cultura anticapitalista, ma il suo anticapitalismo si riduce in buona sostanza a combattere l’evasione fiscale da parte delle imprese e delle minoranze dei super ricchi. Sembra cioè convinto che, una volta che tali risorse siano state recuperate e messe al servizio del bene pubblico, sarà possibile restaurare il paradiso socialdemocratico (ammesso sia mai realmente esistito). Il guaio è che anche questo programma minimo appare irrealizzabile nel contesto di un capitalismo come quello americano che domina oggi l’intero Occidente (e in particolare le sue propaggini anglofone come quell’Australia di cui Rhodes è cittadino) e che sta lottando con le unghie e i denti contro tutte le nazioni emergenti che ne minacciano l’egemonia. Le nuove sinistre credono che basti vincere le battaglie per il riconoscimento dei diritti delle minoranze che esse rappresentano per minare le basi del sistema, ma è proprio un fenomeno come il capitalismo woke a dissipare simili illusioni: è vero che il capitalismo ha via via saputo sfruttare i conflitti razziali, di genere, etnici e religiosi per dividere i lavoratori e rafforzare la propria egemonia, ma è altrettanto vero che è in grado di sopravvivere anche riconoscendo i diritti di neri, donne, e minoranze varie cooptandone una parte nell’élite. 


Un esempio? Le star dello spettacolo e dello sport che “lottano” per gli obiettivi cari a Rhodes godono di retribuzioni di entità scandalosa perché percepiscono una quota dei sovraprofitti capitalistici. Le rivendicazioni di uguaglianza di genere, razza e quant’altro sono tutte realizzabili nel quadro del sistema esistente, purché non mettano in questione l’unica vera rivendicazione incompatibile, vale dire la distribuzione egualitaria del plusvalore prodotto dai lavoratori. In verità non è che Rhodes manchi di porre questo obiettivo, ma lo inserisce nell’elenco al pari di altri, mettendolo cioè sullo stesso piano delle varie rivendicazioni delle sinistre politicamente corrette. Finché non gli verrà invece attribuito il posto d’onore, finché non gli verrà cioè riconosciuto il ruolo di conditio sine qua non per la realizzazione di tutti gli altri, i lavoratori continueranno a lasciarsi sedurre dalla demagogia dei populisti di destra, e a tenersi alla larga dal chiacchiericcio politicamente corretto che percepiscono come un discorso oggettivamente divisivo rispetto agli interessi generali del popolo degli ultimi. In effetti, mentre si indigna per le accuse di autoritarismo che i conservatori rivolgono agli ayatollah del politically correct, Rhodes tace sulle pratiche di certi movimenti (dalla caccia alle streghe scatenata dal movimento MeToo, alla cancel culture che pretende di riscrivere la storia “correggendo” i capolavori del passato accusati di sessismo e razzismo, passando per una serie di paradossali manifestazioni di intolleranza condannate anche dalle più avvedute esponenti del movimento femminista come Nancy Fraser) siano effettivamente autoritarie, intolleranti e cariche di disprezzo nei confronti delle classi inferiori (vedi in proposito J. Friedman, politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Mimesis, Milano-Udine 2018).


Concludo con un’ultima annotazione critica. Nel lavoro che sto qui discutendo ho trovato ben pochi accenni all’oppressione e allo sfruttamento dell’Occidente capitalistico nei confronti delle altre nazioni. Si aggiunga che, partendo evidentemente dalla convinzione che all’Occidente spetti il monopolio dell’unica vera forma di democrazia, Rhodes non condanna l’arroganza criminale con cui ci  auto attribuiamo il diritto di “esportarla” – anche con la violenza – nel resto del mondo, quasi questa pretesa fosse un aspetto marginale della disuguaglianza. Vedi in merito il capitolo in cui esalta la lotta “democratica” dei cittadini di Hong Kong contro il regime “totalitario” di Pechino, senza fare cenno 1) al fatto che Hong Kong è una ex colonia dell'imperialismo inglese da poco restituita alla sovranità cinese; 2) che sfruttando il regime transitorio di questa enclave in attesa della sua piena integrazione nella madre patria, essa viene utilizzata come rifugio per autori di crimini (soprattutto economici) commessi in Cina, nonché come paradiso fiscale di capitali sottratti al controllo della Cina popolare; 3) che serve da base logistica di quei servizi occidentali che alimentano, organizzano e finanziano i movimenti anticinesi perseguendo gli stessi obiettivi di “regime change” che perseguono in tutti gli altri Paesi che si oppongono all’egemonia angloamericana.  

    



 


  


   


  





        


       



 

martedì 22 agosto 2023

Pubblico un lungo estratto da un eccellente articolo di Francesco Galofaro (docente dell'Università IULM di Milano) sul ruolo geopolitico della Polonia nell'attuale contesto internazionale caratterizzato dalla guerra tra Ucraina e Russia. La versione integrale del testo è consultabile sul sito della rivista Cumpanis all'indirizzo https://www.cumpanis.net/la-polonia-alla-guida-delleuropa-centro-orientale/ 


LA POLONIA ALLA GUIDA DELL'EUROPA CENTRO-ORIENTALE  






La Polonia conta circa 40 milioni di abitanti, pari ai due terzi della popolazione italiana. Nonostante la crescita economica impetuosa, si tratta di un Paese ancora in gran parte poco sviluppato e segnato da grandi contrasti sociali. Nel 1991, per l’italiano medio la Polonia era un semisconosciuto Paese dell’est, patria di Giovanni Paolo II e di Lech Wałęsa, il leader delle battaglie sindacali che Solidarność ha portato avanti contro il governo comunista degli anni ’80. Oggi la Polonia è probabilmente più nota per il suo attivismo nella politica internazionale: guida blocchi di Paesi centro-orientali contro l’Europa a trazione franco-tedesca e contro la concezione liberale della democrazia, promuove un modello di Stato etico ispirato al cattolicesimo conservatore, paternalista e familista, nel tentativo di assoggettare al governo il potere giurisdizionale e il sistema dei media (...) .


1. Economia e politica

Tra tutti i Paesi dell’Est Europa, la Polonia è forse quello in cui si è registrato lo sviluppo economico e sociale più impetuoso. Negli anni 2000 si aveva l’impressione che il Paese fosse un unico, grande lavoro in corso: qui una nuova sopraelevata, là un parcheggio multipiano e un megacentro commerciale, mentre immensi grattacieli dalle curvilinee pareti a specchio sopravanzavano i monolitici edifici di epoca staliniana fino a cancellarli dal profilo urbano. La Polonia è forse l’unico Paese del Patto di Varsavia in cui il liberismo, il laissez-faire, le zone economiche speciali detassate abbiano realmente prodotto una crescita impetuosa. Tuttavia, essa si accompagna a tremende disparità tra città e campagna e tra centro e periferia. La destra clericale ha approfittato della totale assenza di politiche sociali e di ridistribuzione del reddito per battere i liberali: governa senza interruzione dal 2015 semplicemente perché sostiene la natalità con assegni familiari, dando respiro alle classi sociali impoverite dalla globalizzazione, senza danni per la crescita e senza cambiare l’ispirazione liberista di fondo delle politiche economiche. Tuttavia, questo modello economico, che aveva superato senza problemi la crisi dei subprime, è stato spazzato via dal conflitto russo-ucraino nel 2022, suscitando diverse incognite circa il futuro del Paese (...).


Negli anni 2000 la Polonia conobbe una crescita impetuosa, dovuta ad alcuni fattori. Il primo è senz’altro la massiccia emigrazione. All’epoca, alcuni partiti di destra francesi incitavano la popolazione a diffidare dell’idraulico polacco, che divenne perfino una figura ricorrente della commedia borghese. In Italia, le donne polacche furono a lungo considerate badanti per antonomasia. In questo modo i governi socialdemocratici e liberali non hanno dovuto far fronte alla povertà del Paese con politiche redistributive, mentre l’afflusso di capitali permetteva alle famiglie di far studiare i figli e costruire nuove case. Grazie alla qualità del suo sistema di istruzione superiore e universitario, alla caduta del comunismo si formò rapidamente una classe media preparata e a buon mercato quanto a stipendi, il che attrasse investimenti da parte di grandi società multinazionali. Inoltre, allora come ora la Polonia è un Paese in larga parte poco sviluppato, in cui – grazie a ingenti finanziamenti europei – si sono create infrastrutture, collegamenti, ferrovie, autostrade, fognature, acquedotti.


Nel periodo 2007-2015 ciò corrispose al governo della destra liberale ed europeista guidata da Donald Tusk, il cui non-modello di sviluppo era basato sul laissez faire. La grande borghesia di Varsavia ha subito preso a prestito idee e valori dal mondo anglosassone, inviando i propri rampolli nei college inglesi, considerando il proprio successo come frutto di intelligenza e preparazione, e la povertà crescente nel Paese come frutto dell’ignoranza e dell’idiozia congenita nelle campagne. È a questa stessa stupidità che i liberali imputano la vittoria, a partire dal 2015, della destra conservatrice e del suo mix di nazionalismo, conservatorismo e clericalismo. La realtà è che il Partito di Jarosław Kaczyński, Andrzej Duda e Mateusz Morawiecki ha semplicemente intercettato un malessere che i liberali si ostinano a non voler vedere, generato da un modello che premiava (e premia tuttora) le metropoli a danno delle province e delle periferie.


Dallo scoppio del conflitto in Ucraina, il tasso di crescita annuale del PIL polacco è crollato in pochi mesi dall’8% allo 0%. L’inflazione è schizzata fino a toccare quasi il 20%, per assestarsi negli ultimi mesi al 12%. Se possibile, il prezzo che la Polonia sta pagando alla guerra ucraina è anche più caro di quello italiano; eppure, mentre qui da noi l’opinione pubblica è piuttosto scettica sull’invio di armi all’Ucraina, quella polacca supporta entusiasticamente l’escalation in Europa.


Per comprendere i motivi del crollo economico, si può pensare alla Polonia come alla porta d’oriente europea (o un hub, per usare un barbarismo). Dalla Bielorussia e dall’Ucraina passava una delle infrastrutture ferroviarie della BRI (Belt and Road Initiative) grazie alla quale l’Europa scambiava merci con la Cina. È in funzione di questo ruolo, oggi pregiudicato, che la Polonia aveva ristrutturato il proprio sistema ferroviario negli anni 2010, avvalendosi di fondi europei e acquistando il Pendolino italiano (...).


Si calcola che oltre 3 milioni di rifugiati ucraini abbiano attraversato la Polonia nei primi mesi del conflitto. Da paese monoetnico, monoreligioso e monolinguistico la Polonia si è trasformata in pochi mesi in un crogiolo di culture, lingue e religioni; il mercato immobiliare e degli affitti è salito alle stelle; molti rifugiati – non essendo migranti economici – non si adattano a qualsiasi lavoro, moltiplicando le occasioni di conflitto entro le classi sociali (dunque: tra lavoratori, tra proprietari, tra industriali ecc.). L’accoglienza che il Governo ha riservato ai rifugiati, accompagnato alla propaganda russofoba, può suonare come una grossa contraddizione: la Polonia ha sempre fatto ostruzionismo rispetto a ogni tentativo dell'UE di redistribuire i migranti provenienti dai Paesi che affacciano sul Mediterraneo. I polacchi non si sono ammorbiditi neppure quando la proposta di redistribuzione proveniva da Giorgia Meloni, la quale presiede il gruppo europeo dei conservatori cui fa riferimento il governo polacco.


D’altronde, l’atteggiamento polacco nei confronti degli immigrati, come anche quello nei confronti di Russia e Germania, riposa sul mito del Commonwealth polacco-lituano, che esplorerò nella seconda parte di questo scritto. In base a questo mito, la missione storica della Polonia è incarnare il baluardo della civiltà europea contro le minacce esterne che provengono dall’Asia e dal mondo islamico. In questa visione del mondo, l’Ucraina è considerata come se fosse ancora parte integrante della confederazione polacco-lituana del XVI secolo. Al di là delle canzoni popolari polacche nostalgiche delle bellezze che popolano la verde Ucraina, gli ucraini sono stati per secoli una popolazione di servi della gleba mantenuti in uno stato di ignoranza e sfruttamento dalla nobiltà polacca. Questo spiega bene il successo, nell’opinione pubblica, dell’atteggiamento paternalista assunto dalla Polonia nei confronti dell’Ucraina, vista tutt’oggi come la terra della felicità perduta. 


2. Una cultura di frontiera

(...) Come ogni altra cultura, anche quella polacca è un modello del mondo, e lo suddivide in uno spazio interno [IN] ed esterno [ES]. Lo spazio esterno è valorizzato negativamente: è lo spazio della natura, della non cultura, dell’assenza di informazione: della barbarie, ma anche di quel che “minaccia la nostra società”. Nel caso della Polonia, è stato via via lo spazio del paganesimo, dell’ortodossia russa e delle scorrerie dei cosacchi, del protestantesimo tedesco e svedese, dell’Islam turco. Lo spazio culturale [ES] alla cultura polacca è sovente suddiviso tra Germania e Russia, con differenze importanti. Il mondo tedesco è ciò con cui si deve competere quanto a sviluppo, e con il quale sono possibili collaborazioni economiche. Il mondo russo è al contrario identificato con l’arretratezza, la burocrazia soffocante, l’oblomovismo. Tale suddivisione dello spazio culturale [ES] è geograficamente incorporata nella Polonia stessa, la quale è divisa in un ovest sviluppato e in un est arretrato: un retaggio attribuito alla spartizione operata da Prussia, Russia e Austria nel corso dell’800 e alle differenze rispettive nell’amministrazione pubblica e nelle politiche di sviluppo.


Quanto allo spazio IN, risultava molto chiaro come la Polonia operasse una seconda demarcazione tra un “centro” e una “frontiera”, collocandosi entro quest’ultima. Così, il grande numero di marchi e prodotti pseudo-italiani sul mercato polacco nel 2005 manifestavano un orientamento della cultura polacca, di “frontiera”, verso quella italiana, vista come “centro”, almeno in ciò che riguarda lo stile di vita della borghesia. In modo molto simile, nel periodo orleanista, la borghesia francese vedeva un modello nel parlamentarismo inglese: prendeva a prestito il lessico, la moda e perfino il modo di annodare le cravatte delle classi dominanti in Gran Bretagna (Greimas 2000).

In quanto frontiera, la cultura polacca ha il potere di scegliersi il proprio centro, ossia il proprio modello. Così, nel ‘300 i prestiti semiotici attestano un orientamento diretto al mondo germanico quanto alla stratificazione sociale e all’amministrazione cittadina (ispirata al Diritto di Magdeburgo). Nel 1518 Bona Sforza diviene regina di Polonia e il vettore cambia radicalmente, orientandosi verso l’Italia, da cui si importano architetti, urbanisti, scultori, musicisti, piante e usanze alimentari, e perfino le buone maniere: si traduce in polacco (o meglio si adatta) Il Cortegiano, di Baldassarre Castiglione. In seguito, l’aristocrazia polacca imparerà a parlare francese – precedendo di un buon secolo quella russa – e produrrà addirittura una letteratura in quella lingua, come testimonia il Manoscritto trovato a Saragozza, di Jan Potocki.


Si nota qui un’importante differenza tra la cultura polacca e quella russa. A uno sguardo superficiale, esterno, le due possono sembrare molto simili. Si parla una lingua slava; si mangiano piatti analoghi, come il barszcz; nelle fiabe la strega si chiama Baba Jaga; nelle chiese si venerano le icone … Le analogie in cui ci si imbatte, a livello fenomenico, sono davvero molte. Ma la cultura russa, come spiega bene Juri Lotman (2001), è in qualche modo double face. Ha un vettore di orientamento rivolto verso l’Europa, occidentalista, ed uno slavofilo, simmetricamente rivolto verso l’Asia. La sua bistabilità si può leggere nel campo della letteratura (Dostoevskij vs. Tolstoj); della musica (Musorgskij vs. Rimskij-Korsakov); in politica (Ivan il terribile vs. Pietro il grande) …


Al contrario della Russia, la Polonia si autorappresenta stabilmente come frontiera d’Europa. Così, il mito del risveglio dell’Asia ha un valore profondamente negativo nella letteratura polacca. Esso è auspicato nichilisticamente, alla stregua di un cupio dissolvi, in opere come Insaziabilità di Witkiewicz, Lucifero disoccupato di Aleksander Wat; in Russia esso rappresenta un mito largamente positivo e addirittura anticoloniale (Lenin 1974).


I libri di storia della mia generazione erano molto focalizzati sulla storia italiana e dell’Europa occidentale al di qua della cortina di ferro. Per motivi ideologici, sintetizzavano o ignoravano del tutto la storia di tutte le entità politiche ad est dello spazio germanico. Tra queste, la Confederazione polacco-lituana, sancita ufficialmente a Lublino nel 1569 dopo un processo di fusione delle dinastie regnanti nei due Paesi in atto da almeno due secoli. Al suo apogeo, la confederazione polacco-lituana giunse a comprendere un immenso territorio che includeva Boemia, Ungheria, Prussia orientale, Ucraina e Bielorussia occidentali. Inoltre, lo Stato polacco ha potuto affermarsi nei secoli solo a spese dello spazio culturale germanico e russo. A questo proposito si possono ricordare, per il loro valore simbolico, due grandi battaglie. Con la battaglia di Grunwald (1410) il regno polacco assoggetta lo stato teocratico dei cavalieri teutonici, destinato, dopo la riforma protestante, a trasformarsi nello Stato prussiano. Con la battaglia di Klušino (1610) le truppe polacche vittoriose entrarono a Mosca e imposero uno zar polacco ai boiardi russi.


Il mito della grande Polonia nacque, come è ovvio, dopo la sua scomparsa e fu trasmesso di generazione in generazione in primo luogo dalla letteratura. Nel corso dell’800 lo Stato polacco era stato smembrato e spartito tra Russia, Austria e Prussia. Nel corso del XIX secolo, il mito della grande Polonia venne costruito in romanzi storici come la “trilogia” di Henryk Sienkiewicz, nobel per la letteratura nel 1905. Come è noto, si tratta del periodo in cui il romanzo borghese aveva pienamente soppiantato il poema nell’espressione dell’epos. Più precisamente, nella periodizzazione proposta da Lukács (1935), il periodo in cui scrive Sienkiewicz è considerato come quello della crisi della borghesia e dei suoi eroi positivi, che prelude alla dissoluzione della forma-romanzo. Tuttavia, lo sguardo di Lukács si posa in via esclusiva sulla letteratura prodotta dai Paesi a capitalismo avanzato. Sienkiewicz è pressappoco contemporaneo di Zola, ma in Polonia il problema dell’unità nazionale prevale sul realismo sociale. In Polonia Sienkiewicz è considerato un positivista; i temi trattati e la funzione politica della sua letteratura possono ricordare romanzi italiani della generazione precedente quali Ettore Fieramosca di M. D’Azeglio (1833) (...).


In quanto “frontiera”, la cultura polacca ha inoltre ereditato il mito delle kresy. Il termine designa in particolare le terre perdute dell’Ucraina occidentale e, più in genere, Lituania e Bielorussia. Queste terre hanno dato alla Polonia i loro massimi scrittori, da Adam Mickiewicz (nato a Nowogródek, oggi in Bielorussia) a Bruno Schulz (nato e vissuto a Drohobyč, oggi in Ucraina). Lo spazio culturale polacco è dunque proiettato verso est: la Polonia pensa all’Ucraina con il medesimo atteggiamento che i Paesi occidentali hanno nei confronti delle proprie ex-colonie. I polacchi non dimenticano, ma soprassiedono sui tanti conflitti etnici di cui è costellata la storia del loro rapporto con gli ucraini. A mio parere, ciò avviene perché, fin dal primo sorgere del conflitto tra Ucraina e Russia, l’esercito ucraino ha rappresentato per i Polacchi una funzione culturale simile a quella delle truppe coloniali indigene (gli Àscari per l’Italia, i Goumiers per la Francia …): soldati leali, fidati e fedeli da utilizzare nel conflitto contro la propria nemesi storica.


Nella cultura polacca vi è un grande trauma mai superato: quello della spartizione, avvenuta in più fasi nel corso del XVIII secolo, che portò infine alla scomparsa di una statualità polacca indipendente. Russia, Prussia e  Austria suddivisero e incorporarono parte della Polonia entro i loro confini. Il romanticismo polacco culturale e politico coincide col tentativo di preservare la cultura polacca dalla germanizzazione e dalla russificazione, sotto forma di riconquista dell’indipendenza. Il più noto, se non il più grande poema epico polacco, Pan Tadeusz di Adam Mickiewicz, offre più di uno spunto di riflessione sull’attualità: i polacchi, divisi da ancestrali faide nobiliari, si uniscono per partecipare alla spedizione napoleonica contro la Russia nella speranza di ottenere l’indipendenza. La storia è inoltre ambientata in Lituania, la quale, come si è detto sopra, è una delle due “radici” del Commonwealth polacco.La Polonia coltiva tutt’oggi il mito delle sue insurrezioni fallite, del sacrificio fino all’ultimo uomo, delle struggenti Polonaise di Chopin. La partecipazione di patrioti polacchi al Risorgimento italiano è ancora viva nell’epica polacca (e pressoché dimenticata da noi). La composizione dell’inno nazionale polacco avviene a Reggio Emilia nel 1797, lo stesso luogo e lo stesso anno di nascita del Tricolore.


Il mito del grande passato polacco ha perduto il proprio valore in relazione alla riunificazione del Paese per caricarsi, in seguito, di altre valenze; è stato utilizzato dalla cinematografia socialista nel tentativo di ricostruire l’unità nazionale negli anni ’50, dopo le lacerazioni del Secondo conflitto mondiale; oggi è divenuto un mito nazionalista, che agita la paura del nemico per spingere all’attacco preventivo. Poiché dialetticamente ogni cosa si trasforma nel proprio contrario, l’epos romantico finisce così per alimentare una pericolosa torsione nazionalista. Anche in questo caso, il mito negativo della spartizione si perpetua anche attraverso le istituzioni scolastiche, le quali sono responsabili anche della sua interpretazione storica piuttosto acritica e autoassolutoria. La crisi e la scomparsa della grande Polonia viene spiegata con il complotto dei suoi nemici, e non attraverso il conflitto tra monarchia e la piccola nobiltà diffusa nelle campagne, avida di privilegi e per nulla disposta a sacrificarsi per l’ideale nazionale. Il mito negativo della spartizione continua a influire tanto sull’interpretazione del periodo comunista quanto su quello della Russia di Putin. Non è esagerato dire che, nonostante l’ingresso della Polonia nella NATO renda piuttosto improbabile questo scenario, ogni polacco considera un’invasione russa come una possibilità realistica al punto che, allo scoppio del conflitto Russa – Ucraina, alcuni giustificavano in questo modo la necessità di un attacco preventivo alla Russia, approfittando di un suo supposto indebolimento.


3. Lo spazio polacco

La Polonia è un Paese quasi del tutto privo di ostacoli naturali; nel corso della sua storia, le sue pianure sono state attraversate da ogni tipo di esercito, le città rase al suolo più volte, e nei secoli i suoi confini politici si sono spostati in continuazione. Alla fine della Seconda guerra mondiale, ad esempio, ha perduto Leopoli e Vilnius a est, incorporando, a ovest, Stettino e Breslavia. Chiusa tra due fronti, la principale direttrice della politica estera polacca è (e rimane) evitare una saldatura degli interessi russi e tedeschi, i due sottospazi in cui la cultura polacca suddivide il mondo esterno [ES], come si è detto nella sezione precedente.


Nel periodo della guerra fredda, tutte le nazioni oltre Trieste erano considerate “Paesi dell’est”. Pertanto, alla caduta del muro di Berlino, era indispensabile per la Polonia e per altri componenti del defunto Patto di Varsavia trovare un’etichetta che li distinguesse dalla Russia e al contempo non li “schiacciasse” nell’orbita della Mitteleuropa germanica. Una soluzione fu proposta da Piotr Wandycz (2001), professore emerito alla Yale University e presidente dell’Istituto Polacco di Arti e Scienze d’America, trasferitosi negli USA nel 1939, quando l’Unione sovietica ha invaso la Polonia. Egli ha coniato l’espressione geografico-culturale “Europa centro-orientale”, a significare le specificità e le similitudini storiche di Paesi come la Polonia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Tutta la storia è storia contemporanea: proprio questi tre Paesi avevano dato vita, nel 1991, al gruppo di Visegràd, che ha in seguito aderito alla NATO (1999) e all’Unione europea (2004) costituendo un blocco geopolitico omogeneo e conservatore unito fino allo scoppio della guerra Russo-Ucraina. Inoltre, nel 2016 si è tenuta l’inaugurazione del Trimarium, un forum, giunto ormai alla settima edizione, comprendente, oltre alla Polonia, Austria, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. L’idea geopolitica del Trimarium si fonda sull’Intermarium, teorizzato nel periodo tra le due Guerre dal dittatore polacco Józef Piłsudski per riunire in una confederazione i Paesi che affacciano su Baltico, Adriatico, mar Nero. Restano fuori da quest’area la Germania, a ovest; ad est, Bielorussia e Russia. L’Ucraina è divenuta partner ufficiale nel giugno 2022. Vediamo ancora una volta tornare in vita il mito della Confederazione polacco-lituana, travestito in abiti contemporanei.


Non è corretto identificare le direttrici della politica estera polacca e il governo conservatore che ha governato il Paese senza interruzioni dal 2015: le prime non cambiano a seconda dei governi e si dimostrano stabili e coerenti nel tempo: esse prevedevano l’ingresso nella NATO (e, in seguito, nella UE) per trasformare la Polonia nel bastione orientale dell’alleanza contro la Russia. Al contempo, la Polonia si è messa con successo a capo di un blocco antirusso per contare entro la NATO ed entro la UE. Si tratta ancora una volta dell’identità di frontiera della Polonia. Nel caso specifico, il vettore di orientamento della cultura polacca ha finito per selezionare gli USA come proprio centro. La talassocrazia statunitense è vista come una garanzia rispetto all’avversario russo; è inoltre un alleato per competere con la Germania, dato che gli Stati Uniti non vedono di buon occhio la sua autonomizzazione e il ruolo egemone che svolge nella UE. Nonostante le simpatie politiche e le affinità ideologiche dei conservatori polacchi per Donald Trump nel periodo della sua presidenza, al succedersi degli inquilini della Casa Bianca il vettore di orientamento non è mutato. Dunque, la fedeltà atlantica è vista come la leva per esercitare una supremazia regionale ai danni di Russia e Germania.


Il più grande fautore dell’ingresso della Polonia nella NATO fu Aleksander Kwaśniewski, l’ex leader comunista e, in seguito alla caduta del muro di Berlino, socialdemocratico il quale sconfisse Lech Wałęsa nelle elezioni del 1995 ponendo fine al governo di Solidarność, riportando così al governo una parte significativa della leadership ex socialista. Nel 2014, durante gli ultimi mesi della presidenza del liberale Donald Tusk, fu Obama ad annunciare uno stanziamento da un miliardo di dollari per spostare in Polonia il baluardo delle strutture difensive NATO contro la Russia. Tale politica non mutò dopo l’elezione di Trump: in seguito alla polemica tra il presidente USA e Angela Merkel sulle spese militari dell’alleanza, il neopresidente polacco Andrzej Duda, conservatore, invitò gli USA a ricollocare le truppe sul proprio confine orientale. Seguì un accordo, firmato il 12 giugno 2019, che comportava anche l’acquisto dei noti caccia F35 americani e una fornitura di otto miliardi di dollari del (peraltro carissimo) gas americano per far fronte ai pericoli comportati dal comune nemico, il gasdotto Nordstream tra Russia e Germania (Galofaro 2022). 


Nonostante la posizione dei democratici americani sui diritti sia quanto di più lontano dalla sensibilità degli elettori polacchi, anche il presidente Biden è elogiato nella misura in cui fornisce armi e supporto agli ucraini contro i russi. Insomma: che negli USA governino i democratici o i repubblicani e che in Polonia governino i liberali o i conservatori fa poca differenza: la politica filostatunitense della Polonia sceglie di schierarsi a favore di una talassocrazia lontana dai propri confini in funzione antirussa e antitedesca. Washington non può che vedere con favore il contrappeso polacco all’UE a trazione franco tedesca, la quale, prima della guerra, si era in qualche caso autonomizzata dagli interessi USA coltivando buoni rapporti con avversari quali Russia e Cina. Questo spiega i toni belluini cui la Polonia ci ha abituati fin dal principio del conflitto, e che hanno posto inizialmente in imbarazzo Berlino. D’altro canto, un’opera come il gasdotto Nord Stream simboleggiava – prima del misterioso sabotaggio che l’ha messa fuori uso – proprio quella convergenza russo-tedesca che la politica estera polacca ha da sempre temuto e osteggiato.


La Polonia è identitariamente anticomunista? La risposta è, a mio parere, negativa. Il comunismo è considerato alla stregua dello slavofilismo: una ideologia volta a celare, dietro un orizzonte ideale di fratellanza, nient’altro che le mire egemoniche della Russia. L’identità polacca si è mostrata estremamente flessibile proprio in reazione all’ideologia del nemico. Tra le due guerre fu una dittatura laica e anticomunista, dopo l’inglorioso conflitto polacco-sovietico (1919 – 1921) il quale fu, peraltro, voluto e scatenato proprio da Piłsudski per espandere la Polonia ai danni della Russia in piena guerra civile. Alla fine degli anni ‘70, quando si trattava di boicottare la Repubblica popolare, la Polonia si riconvertì in baluardo del cattolicesimo conservatore. A proposito di questo, il giudizio della Polonia post-comunista sul periodo del Patto di Varsavia è decisamente autoassolutorio, proprio come si è visto a proposito della spartizione. Nel discorso politico polacco, la storia della Repubblica popolare è descritta riduttivamente come un’occupazione quarantennale ad opera dei Russi e di una minoranza di collaborazionisti, trascurando del tutto l’elemento del consenso. Basandosi sulla propria esperienza personale, Hobsbawn (2011) descrive efficacemente i dirigenti polacchi della stagione politica che precedette il colpo di stato del generale Jaruzelski come una casta che, abbandonato il marxismo per il pragmatismo, riteneva di conoscere ed effettuare sempre e comunque la scelta migliore per il popolo. Detto questo, l’identificazione della Polonia comunista con uno Stato di occupazione russa con la “scusa” dell’ideologia risente ancora una volta del mito della spartizione polacca e ha lo scopo di porre un’equazione tra Vladimir Putin, Josif Stalin e la zarina Caterina II (...).


Conclusioni

Ricapitolo alcune caratteristiche della cultura polacca che ho presentato nel corso dell’articolo. La cultura Polacca si considera frontiera e baluardo dell’Europa. In quanto frontiera, nei secoli ha “scelto” il centro culturale rispetto al quale porsi come bastione: nel basso medioevo, si trattava della Germania dei Comuni medioevali; nel primo rinascimento, l’Italia; in età moderna, la Francia; oggi sceglie gli Stati Uniti d’America, in coerenza con la direttrice storica della sua politica estera, che cerca di affermare la propria esistenza impedendo una saldatura tra gli interessi germanici e quelli russi, visti come minaccia esterna. Tale politica si rende necessaria per affermare il diritto a esistere di una cultura che in passato era minacciata di assimilazione da parte di potenti vicini; tale lotta per l’esistenza è stata spesso travestita da missione storica, della quale la Polonia si sente investita: un buon esempio è il mito di Jan Sobieski, che accorse in aiuto dell’imperatore Leopoldo I contro le forze ottomane sconfiggendole nella Battaglia di Vienna (1683).


In questa chiave la Polonia si propone oggi come leader dell’Europa centro-orientale, ammodernando formule geopolitiche ispirate al mito della Confederazione lituano-polacca, il grande stato che dominò l’Europa centro-orientale tra il XIII e il XVIII secolo. In questa chiave, nell’attuale conflitto tra Ucraina e Russia, la Polonia guida i Paesi russofobi della NATO anche con lo scopo di contendere l’egemonia tedesca sulla UE sotto un profilo politico-militare. Tale caratteristica della politica estera polacca è strutturale: non dipende cioè dall’attuale maggioranza clerico-conservatrice, al punto che essa entra per certi versi in contraddizione con il progetto dei conservatori europei, guidati da Giorgia Meloni, di sostituire i socialdemocratici nell’alleanza coi popolari alla guida dell’Unione europea: tale sostituzione ha un senso solo se ridimensiona – e non puntella – l’egemonia tedesca sulla UE.


Come si è visto, le direttrici della politica estera polacca e le sue caratteristiche culturali pongono oggi il Paese di fronte a una grave incognita. Infatti, esse impongono il sacrificio del modello di sviluppo economico vincente, perseguito fin qui, alle esigenze di autoaffermazione politico-militare della Polonia come potenza regionale leader dell’Europa centro-orientale. Inoltre, impediscono di vedere le potenzialità che la Polonia potrebbe avere come porta d’oriente, terminale della Belt and Road Initiative cinese. Tale porta oggi è chiusa: la via della seta è stata dirottata verso altre rotte commerciali. Bisognerà vedere se la Polonia potrà resistere alla fine dello sviluppo economico, alle tensioni culturali derivanti dai tre milioni di rifugiati ucraini che ospita, all’impoverimento, e al dissanguamento determinato dal trascinarsi del conflitto russo-ucraino senza prospettive.


Riferimenti

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