GLOSSE SULLA “ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE“ DI LUKACS (III)
4. L’ideologia come forza materiale
Questa sezione propone un estratto delle riflessioni lukacsiane sull’ideologia come forza trasformativa della realtà sociale, tema cui l’ Ontologia dedica ampio spazio. Per comodità espositiva, ho raggruppato il materiale in quattro sotto-sezioni dedicate, rispettivamente, al doppio significato del termine ideologia, all’ideologia come strumento rivoluzionario, al diritto e alla religione.
a) Il doppio significato del termine ideologia
Lukacs inizia il terzo capitolo del quarto volume citando Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce di Antonio Gramsci (1), a proposito del quale scrive: Gramsci parla di un doppio significato del termine ideologia. Nel suo interessante discorso non possiamo però non rilevare una carenza, e cioè che egli contrappone la sovrastruttura necessaria soltanto alle idee arbitrarie di singole persone. Ciò nondimeno ha il merito di aver messo in evidenza il doppio significato che sta sempre nello sfondo di questo importantissimo termine. Ma purtroppo cade subito vittima di una astrazione convenzionale. Da un lato è certamente vero che i marxisti intendono con ideologia la sovrastruttura ideale che necessariamente sorge da una base economica, ma dall’altro è fuorviante interpretare il concetto peggiorativo di ideologia, che rappresenta una realtà sociale indubbiamente esistente, come un’arbitraria elucubrazione di singole persone (vol. IV, p. 445). Dopodiché motiva la critica affermando che se un pensiero resta espressione ideale di un singolo non può essere definito come un’ideologia, né una sua più ampia diffusione basta a renderlo tale. Perché ciò possa avvenire, esso deve svolgere una funzione sociale ben determinata. Ciò stabilito aggiunge: diventa subito chiaro che cosa in termini ontologici collega i due concetti di ideologia citati da Gramsci. L’ideologia è anzitutto quella forma di elaborazione ideale della realtà che serve a rendere consapevole e capace di agire la prassi sociale degli uomini. Deriva da qui la necessità e l’universalità di taluni modi di vedere per dominare i conflitti dell’essere sociale. Ne consegue: che ogni reazione degli uomini al loro ambiente economico sociale può in determinate circostanze diventare ideologia (vol. IV, p. 446). Una volta che abbia assunto tale forma, tuttavia, tanto il suo contenuto quanto la sua forma conservano segni incancellabili della sua genesi. Che tali segni appaiono evidenti, o impercettibili, dipende da quale funzione svolgono nei conflitti sociali, dal momento che l’ideologia è anche e soprattutto uno strumento della lotta sociale che caratterizza ogni società (ed è in queste lotte che) acquista anche il significato peggiorativo divenuto storicamente tanto importante (vol. IV, p. 447).
Poche pagine dopo, Lukacs approfondisce la questione della genesi delle ideologie associandola all'esistenza di differenti gruppi sociali, i quali condividono interessi comuni contrapposti a quelli di altri gruppi: In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle ideologie, giacché questi conflitti si possono dirimere con efficacia nella società solo quando i membri dell’un gruppo riescono a persuadere se stessi che i loro interessi vitali coincidono con gli interessi importanti della società nel suo intero (vol. IV, pp. 452-453). La genesi in questione, dunque, presuppone strutture sociali in cui operino gruppi diversi e interessi contrapposti che tendono a opporsi come interesse generale dell’intera società. Insomma: la nascita e la diffusione delle ideologie sono il connotato generale della società di classe (vol. IV, p. 453).
A questo punto è chiaro il motivo per cui Lukacs non può condividere l’approccio che identifica l’ideologia negativa con le espressioni ideali dei singoli: l’ideologia è tale nella misura in cui fonda la pretesa secondo cui gli interessi di un gruppo sociale, in conflitto con altri gruppi sociali, rappresenterebbero gli interessi dell’intera società. In effetti, tale pretesa riesce a imporsi se e quando l’ideologia in questione è quella della classe dominante, nella misura in cui, scrive Lukacs citando L’Ideologia tedesca di Marx, <<Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante>> (2). Infine, per concludere su questo argomento, vale la pena richiamare quest’altro passaggio: L’imposizione intransigente dell’interesse globale della classe dominante può benissimo trovarsi in contrasto con molti interessi di persone che appartengono a quella medesima classe (vol. III, p. 209). Questi ultimi possono opporsi agli interessi globali della propria classe ma, finché la loro posizione resta isolata e individuale, non si può parlare di ideologia.
Lukacs affronta il tema dell’ideologia in quanto forza materiale che svolge un ruolo cruciale nel conflitto di classe anche da altri punti di vista, in particolare laddove analizza il rapporto fra teoria e ideologia. In un passaggio che potremmo definire una glossa al detto marxiano “i filosofi finora hanno solo interpretato il mondo ma si tratta di cambiarlo”, Lukacs scrive: una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per quello strato sociale anche un’ideologia efficace (vol. I, p. 245). E altrove specifica, più icasticamente, che la teoria diventa una forza materiale quando si impadronisce delle masse (vol. IV, p. 529). Inutile aggiungere che, per impadronirsi delle masse, deve essere “tradotta” in discorso ideologico. La necessità di tale trasposizione è conseguenza della forma stessa che ogni agire orientato allo scopo – alla trasformazione della realtà - tende inevitabilmente ad assumere: Il momento determinante immediato di ogni azione intenzionata non può non presentarsi come dover-essere, non fosse altro perché ogni passo avanti nella realizzazione viene deciso stabilendo se e come esso favorisca il raggiungimento del fine (vol. III, p. 71). Il fine è nella coscienza (nel momento ideale) prima della sua realizzazione (come si vede, per Lukacs il modello di ogni agire teleologico resta il lavoro – vedi sezione I) e nel processo che vi conduce ogni passo, ogni movimento viene guidato dalla posizione del fine (ivi). Da tutto quanto fin qui esposto deriva che, a determinare il carattere positivo o negativo dell’ideologia, è in ultima istanza la natura del fine verso il quale essa indirizza l’azione, cioè il fatto se tale fine coincide con gli interessi di coloro che lottano per emanciparsi dal dominio, o con quelli di coloro che lo vogliono difendere.
In una folgorante pagina situata nella parte finale del quarto volume, Lukacs ricorda poi che le classi dominanti dell’Occidente post fascista (non senza la complicità, vale la pena di sottolineare, delle sinistre socialdemocratiche) sono riuscite a trasformare il rifiuto dell’ideologia fascista in rifiuto dell’ideologia tout court, per cui ogni ideologia, ogni tentativo di dirimere conflitti sociali con l’ausilio di ideologie risulta a priori sotto accusa (…) non ci sono più veri conflitti, non c’è più campo di manovra per le ideologie: le differenze sono soltanto <<pratiche>> e quindi regolabili <<praticamente>> con accordi razionali, compromessi ecc. La deideologizzazione significa perciò illimitata manipolabilità e manipolazione dell’intera vita umana (vol. IV, p. 770).
Ironia vuole, aggiunge Lukacs qualche riga sotto, che questa deideologizzazione in ultima analisi non possa sussistere senza una ideologia: quella della libertà come <<salvifico>> valore-chiave per tutte le questioni della vita. Lukacs definisce “conformismo non conformistico” la critica puramente teorica nei confronti di questa “ideologia dell’anti ideologia”, cioè la critica di quegli intellettuali che temono di essere a loro volta accusati “di fare dell’ideologia”, atteggiamento che descrive come il comportamento adottato da quello strato relativamente ampio di individui nel quale il disagio di fronte ai poteri dominanti comincia già a svilupparsi in inizi di rifiuto teorico, ma che usa esprimere questo suo intendimento (…) in forme che non vogliono né possono in alcun modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo. Questi conformisti non-conformistici, perciò, nonostante le manifestazioni pubbliche verbalmente di forte critica e addirittura di opposizione, rimangono di fatto apprezzati collaboratori della manipolazione universale (vol. IV, p. 782).
Lukacs durante la rivoluzione ungherese del 1919 |
b) Ideologia e rivoluzione
Un tratto distintivo della concezione lukacsiana del processo rivoluzionario è la convinzione che la rivoluzione, per quanto radicale sia, non segna mai una discontinuità totale e assoluta nella vita dell’essere sociale: L’atto più risolutamente rivoluzionario è nel suo contenuto, nelle sue forme, nella sua specifica qualità, legato con mille fili alla continuità storica oggettiva, nasce dalle possibilità oggettive di questa (vol. III, p. 264). Il che non significa che la sua posizione sia “oggettivista”, ma significa piuttosto che – e qui Lukacs cita Lenin definendolo “il grande teorico del fattore soggettivo” - che le situazioni rivoluzionarie si verificano <<quando gli “strati inferiori” non vogliono più il passato e gli “strati superiori” non possono più vivere come in passato>> (3).
Questa contrapposizione fra volere e potere, chiosa Lukacs, esprime anzitutto il modo opposto di presentarsi da parte della prassi politica ai suoi due poli, in quanto alla classe dominante basta la riproduzione normale, anzi la riproduzione non troppo anormale della vita per mantenere in piedi lo status quo, mentre gli oppressi hanno bisogno di un energico e unitario atto di volontà (vol. IV, pp. 503/504). Questo punto di vista implica due convinzioni: 1) che nessun dominio crolla da se stesso perché in politica non vi sono mai situazioni assolutamente senza vie di uscita, e ciò implica ovviamente anche il contrario, vale a dire che non sono mai possibili soluzioni favorevoli automatiche; 2) che l’essere sociale non si trasforma semplicemente ma viene sempre trasformato, perché lo sviluppo economico può bensì creare situazioni oggettivamente rivoluzionarie, ma non produce affatto insieme ad esse obbligatoriamente il fattore soggettivo che nei fatti e nella pratica è determinante (ivi).
Queste considerazioni – che Lukacs prende ancora in prestito da Lenin – ci aiutano a compiere ulteriori passi avanti nella comprensione del ruolo del fattore soggettivo (ideologico) nel processo rivoluzionario. In primo luogo, non dev’essere sottovalutato il ruolo dei singoli: quella che Marx chiama “la classe per sé”, scrive Lukacs, si costituisce solo nella lotta, ma la genesi immediata di quest’ultima non può essere compresa senza la continua presenza di decisioni alternative di singoli uomini (vol. I, p. 62). Anche se altrove precisa che da ciò non deriva alcun “irrazionalismo storico”, nessun <<caos>>, dove soltanto il <<genio>> riesce a trovare la giusta via. Infatti le divergenze, le contraddizioni, le incertezze che non possono mancare nel fattore soggettivo sono anch’esse, tutte e sempre, condizionate causalmente e quindi possono venir interpretate – almeno post festum – in termini perfettamente razionali (vol. III, p. 505).
Secondariamente, occorre tenere presente, sul lato del fattore oggettivo, che un tratto essenziale delle situazioni rivoluzionarie consiste nel semplificare, ridurre a sintesi, generalizzare, in specie nei momenti alti, le alternative umano sociali. Mentre nella quotidianità normale ciascuna decisione che non sia ancora divenuta completa routine viene presa in una atmosfera di innumerevoli <<se>> e ><ma>> (…) nelle situazioni rivoluzionarie, e spesso già nei processi che le preparano, questa cattiva infinità di questioni singole si condensa in poche decisioni centrali, che però si presentano alla grande maggioranza degli uomini come problemi che segnano il destino della loro vita (vol. IV, p. 506).
Infine, è proprio sulla capacità di sfruttare tale semplificazione che si misura la genialità d’un leader rivoluzionario. La parola d’ordine <<terra e pace>>, che giocò un ruolo decisivo della rivoluzione del 1917, era apparentemente “banale”, nel senso che, in teoria, appariva realizzabile anche nella società borghese, la genialità politica di Lenin, però, consisté nel vedere la contraddizione per cui esse, da un lato, rappresentavano una aspirazione irreprimibile e appassionata di larghissime masse, dall’altro per la borghesia russa erano in pratica inaccettabili e in quelle date circostanze non potevano trovare appoggio, anzi neppure un’accoglienza passiva, neanche fra i partiti piccolo-borghesi. Cosicché finalità politiche che in sé non dovevano obbligatoriamente abbattere la società borghese, diventavano un materiale esplosivo, il veicolo per produrre una situazione nella quale la rivoluzione socialista poté essere attuata con successo (vol. IV, p. 486).
Non va tuttavia dimenticato che l’esito positivo del processo rivoluzionario non sarebbe stato possibile se, oltre alla genialità di Lenin, il quale seppe cogliere e sfruttare una contraddizione che la borghesia russa non era oggettivamente in grado di risolvere, non vi fosse stato il processo di costruzione organizzativa e ideologica che consentì di forgiare il partito bolscevico come avanguardia cosciente della lotta di classe. Questa costruzione è potuta avvenire solo perché Lenin – e più in generale la direzione del partito – non delimitava, diversamente dagli ideologi economisti e tradeunionisti, la lotta di classe agli antagonismi diretti fra borghesia e proletariato, bensì era consapevole che si dà una genuina coscienza di classe proletaria, solo laddove venga alla luce consapevolmente la priorità del politico (vol. IV, p. 502). Quindi Lukacs cita la seguente, celeberrima frase di Lenin: <<la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti fra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi>> (4).
c) Ideologia e diritto
Affrontando la questione del diritto Lukacs distingue fra due livelli: quello del diritto come specifico complesso (sistema o struttura, secondo altri linguaggi disciplinari) della totalità dell’essere sociale (che, come si è visto, descrive come “complesso di complessi”); e quello della “giustizia” come valore ideologico (borghese). Partiamo dal primo. La genesi del diritto, sostiene Lukacs, va messa in relazione con il superamento della fase di sviluppo dell’essere sociale in cui gli antagonismi possono ancora essere risolti con l’uso diretto della forza: man mano che l’essere sociale va socializzandosi, il dominio della mera forza si attenua, anche se non scompare mai del tutto nella società di classe (…) A questo punto deve prendere il sopravvento quella complicata unità di forza scoperta e forza mascherata, rivestita dei panni della legge, che prende figura nella sfera giuridica. Per offrire un’immagine metaforica di questa transizione di fase storica, Lukacs cita la frase di Talleyrand con le baionette si può far tutto, meno che starci seduti sopra (vol. III, p. 207).
Talleyrand |
L’enfasi originaria che accompagna la genesi del diritto – la “maestà” della legge - si indebolisce a mano a mano che esso si trasforma nel normale e prosaico regolatore della vita quotidiana, allorché divengono prevalenti gli elementi manipolatori del “diritto positivo”: Il diritto diviene così una sfera della vita sociale dove le conseguenze degli atti, le possibilità di riuscita, i rischi di perdite sono calcolati in modo analogo a quel che accade nel mondo economico (vol. III, p. 212). Detto altrimenti: l’essenza ideologica della giustizia come prestazione del sistema giuridico viene alla luce quanto più la prassi giuridica si allontana dalle sue origini intrise di violenza, cioè quanto più assume forma economica. È a questo punto che arriviamo a comprendere che <<Il diritto non è che il riconoscimento ufficiale del fatto>> (citazione da Marx) cioè a dire il riconoscimento della priorità ontologica dell’economico (vol. III, p. 213).
Le tracce della genesi violenta del diritto, della sua stretta relazione con il dominio di classe, si attenuano senza mai sparire del tutto. Il loro indebolimento può alimentare il sogno dei sottoposti di ottenere giustizia ma, fintanto che il sogno viene inteso in termini giuridici, non può situarsi oltre una concezione in definitiva economica dell’eguaglianza (vol. III, p. 218). Il diritto non sfugge quindi all’indissolubile intreccio fra dimensione economica e dimensione extraeconomica, che caratterizza la totalità dell’essere sociale. E ciò appare chiaramente nella relazione di compravendita della forza-lavoro. Dalla specifica qualità della merce forza lavoro (che Marx identifica con il fatto che il suo valore d’uso consiste nel generare plusvalore) deriva la presenza continua di momenti extraeconomici nella realizzazione della legge del valore anche nella compravendita normale di questa merce. Così il compratore (il capitalista) rivendica il proprio diritto a prolungare quanto più possibile la giornata lavorativa, mentre il venditore (il lavoratore) rivendica il proprio diritto a limitarne la durata: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti uguali decide la forza (vol. III, p. 291). Qui la genesi violenta del diritto non riemerge malgrado la sua conversione nelle leggi dell’economia, bensì in ragione di tale conversione.
Infine Lukacs mette in luce il fatto che la critica marxiana nei confronti nella concezione giuridico borghese dell’uguaglianza si estende al di là della stessa società capitalista, per investire la fase iniziale del socialismo, come emerge da questa citazione della Critica al Programma di Gotha (5): <<Questo diritto uguale è un diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, per suo contenuto un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto>>. Anche dopo l’espropriazione degli sfruttatori, commenta Lukacs, il diritto uguale resta in sostanza un diritto borghese (vol. III, pp. 218/219).
Non è possibile concludere questa sotto sezione senza accennare al tema dei diritti dell’uomo. Nelle Glosse ci occuperemo della dimensione esorbitante che la questione è venuta assumendo in questa fase storica, a mano a mano che diviene l’arma strategica della guerra dell’Occidente capitalistico contro i Paesi socialisti, e contro tutte le nazioni che non compiono atto di sottomissione al suo dominio. Per Lukacs il concetto nasce dalla separazione fra il citoyen e l’homme: i diritti dell’uomo che si presentano nelle costituzioni delle rivoluzioni borghesi, scrive, sono appunto i diritti del homme, che ne sanciscono la separazione e l’autonomia dalla sfera dello Stato, della società, della politica, offrendo all’uomo la piena libertà di estraniarsi a suo arbitrio sul piano sociale e naturalmente anche su quello ideologico (vol. IV, p. 623). Una libertà che Marx definisce così: <<Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità>>. (6)
d) Ideologia e religione
Nel IV volume dell’Ontologia Lukacs dedica ampio spazio al tema della religione. Qui mi limiterò a evocare sinteticamente tre momenti di questa complessa elaborazione: la religione come fattore della prassi sociale reale; l’illusorietà dell’idea illuminista secondo cui il progredire delle conoscenze scientifiche dovrebbe inevitabilmente emancipare l’uomo dalle credenze religiose; la dialettica fra chiese e movimenti settari. Partiamo dal primo aspetto. Dopo un passaggio in cui afferma che l’arte e la filosofia sono le forme più pure dell’ideologia in quanto non intendono e non possono esercitare alcuna azione diretta sull’economia e sulle strutture sociali con essa collegate, indispensabili per la sua riproduzione sociale, Lukacs prende le distanze da Hegel, il quale le associa alla religione laddove tratta dello spirito assoluto: Noi qui invece la lasceremo da parte, perché essa come fattore della realtà sociale non è mai stata e non è una pura ideologia nel senso ora detto, ma rappresenta anche e soprattutto un fattore diretto della prassi sociale reale degli uomini. E poche righe più in basso, la definisce una forma intermedia sintetica fra la politica e la filosofia (vol. IV, p. 518). Dopodiché motiva questa importanza accordata al fattore religioso nella concreta esperienza umana con la obiettiva difficoltà di controllare le conseguenze impreviste - e imprevedibili in linea di principio – dell’agire teleologico: La prassi quotidiana è sempre avvolta da una cerchia di ignoto che è impossibile padroneggiare completamente. Quale meraviglia, allora, se in questa situazione che varia di continuo sul piano qualitativo e quantitativo, ma che resta costante per il suo tratto di fondo, nella vita degli uomini – nell’immediatezza della quotidianità – la trascendenza coesiste con l’immanenza dell’ambiente conoscibile e viene sentita come realtà in ultima istanza decisiva? (vol. IV, p. 637).
Ma se il bisogno sociale della religione è relativamente semplice da spiegare, non va dimenticato che nessuna religione socialmente davvero attiva può mai essere un’ideologia a sé, interiormente ben differenziata, come per esempio il diritto e la morale. Piuttosto essa deve costituirsi in una entità complicata, assai articolata e multiforme, per gettare un ponte fra i particolarissimi interessi singoli degli uomini quotidiani e i grandi bisogni ideali di quella data società nella interezza del suo essere-in-sé (vol. IV, p. 672). Dal che si comprende il motivo della definizione della religione come “forma intermedia sintetica fra la politica e la filosofia”; concetto che viene ribadito nel seguente passaggio: Ogni religione comprende in sé tutti i contenuti che in una società normale sono di solito presenti nel sistema complessivo della sovrastruttura, nell’insieme delle ideologie (vol. IV, p. 673)
Questa sua proprietà di lanciare un ponte fra vita particolare del singolo e questioni generali della società, aggiunge tuttavia Lukacs poche righe sotto, non dovrebbe mai farci dimenticare che tali finalità della vita quotidiana sono, nel loro contenuto, mondane, terrene. Nessuna persona desidererebbe mettere in moto delle potenze trascendenti (cioè non crederebbe alla loro esistenza) se non sperasse di ricevere da loro un aiuto per le sue finalità terrene (vol. IV, p. 672). Questa considerazione può suonare scontata e vagamente banale, ma appare meno banale ove si consideri che questa relazione di do ut des rispecchia una forma consolidata nella totalità delle relazioni sociali: nel cristianesimo, si chiede Lukacs, che altro è la salvezza dell’anima, se non un – pur spiritualizzato – valore di scambio (vol. IV, p. 659).
È per questo radicamento materiale nelle concrete esigenze e aspettative della vita quotidiana, che la fede non può essere indebolita dalla vita mondana di quegli aderenti a una Chiesa che può anche sembrare un arbitrario non senso nell’ottica dei veri credenti. Ciò perché resta comunque il fatto che un comportamento che sia divenuto sociale non può rimanere in vigore e funzionare in nessuna società – religiosa o laica – se esso in qualche modo, magari con motivazioni distorte, non soddisfi un bisogno sociale reale (vol. IV, p. 631). A maggior ragione - e qui siamo al secondo dei punti anticipati – è priva di qualsiasi fondamento l’aspettativa che la religione debba ritrarsi dal mondo a mano a mano che in esso cresce il livello delle conoscenze scientifiche: quantunque il processo di incivilimento produca di continuo conoscenze nuove intorno alla natura e alla società, cadrebbe di nuovo vittima delle illusioni illuministiche chi pensasse che esse di per sé costituiscano delle armi spirituali contro le estraniazioni, anche contro quella religiosa. Si potrebbe quasi affermare che avviene il contrario (vol. IV, p. 643).
Quest’ultima affermazione, apparentemente paradossale, si spiega con la complessa analisi storica che Lukacs dedica all’evoluzione del rapporto fra scienza e religione, a partire da quello che definisce il “compromesso bellarminiano”, in ragione del quale il cardinale Bellarmini avrebbe risparmiato Galileo in virtù di un tacito accordo che, mentre concede alla scienza la conoscenza della realtà, ridotta alla mera utilità pragmatica e dunque privata di ogni valenza ontologica, conferma la validità ontologica delle verità della teologia. Un compromesso, argomenta Lukacs, che è stato ulteriormente consolidato da quella svolta neopositivista in campo epistemologico che nega qualsiasi interesse scientifico agli interrogativi “metafisici” sulla realtà (7).
Passiamo all’ultimo punto che intendo affrontare in questa sotto sezione, vale a dire al rapporto fra chiese e sette. L’elemento politico che distingue la religione dall’arte e dalla filosofia, sostiene Lukacs, consiste nel fatto che la prima, a differenza delle seconde, si dota di strumenti organizzativi attraverso i quali esercita un potere temporale oltre che spirituale. Ciò che distingue le sette dalle chiese è il fatto che esse percepiscono questi apparati di potere, ma soprattutto il loro situarsi oltre il limite di un’azione solo morale, come contrari all’essenza stessa della religione (vol. IV, p. 519). Lukacs approfondisce e articola così – in un passaggio che richiama certe argomentazioni di Max Weber (8) - questa differenza: posto che setta e religione si fondano entrambe sulla fede in una verità rivelata, la loro diversità consiste semplicemente nel fatto che le sette sono legate all’immediatezza, all’azione permanente e profonda delle loro dottrine sulla vita personale, per cui riconoscono come propri membri soltanto coloro che accolgono senza riserve le loro dottrine, facendone il filo conduttore della propria vita. Viceversa la religione divenuta chiesa, nella misura in cui punta a una propria diffusione universale per un verso deve organizzare oggettivamente l’appartenenza ad essa mediante istituzioni, per l’altro è costretta (…) a fare di continuo grosse concessioni ai propri aderenti nel campo della fede e soprattutto nella condotta di vita (vol. IV, p. 674).
Uno degli esempi storici concreti di queste logiche contrapposte, secondo Lukacs, coincide con l’evoluzione storica dal cristianesimo originario al cristianesimo istituzionalizzato, evoluzione in ragione della quale la religione cristiana perde la sua carica “sovversiva”, associata all’attesa della parusia come evento imminente, per convertirsi in una istituzione interclassista e universalista: le speranze sociali degli strati inferiori erano legate alla vicinanza della parusia per cui è evidente come solo lo spostamento all’infinito della sua data potesse garantire il predominio nella religione di un orientamento che li staccava dalla sovversione sociale. Con ciò, naturalmente, si attenuava anche l’originario settarismo plebeo, per far posto a un più organizzato modus vivendi con i proprietari (vol. IV, p. 676).
Per inciso, Lukacs rimprovera alla critica marxista della religione l’avere trascurato questo originario potenziale sovversivo (senza dimenticare, aggiungerei, il suo periodico ripresentarsi in forme rinnovate). La vitalità e il fascino che la figura di Gesù è riuscita a esercitare nel corso dei millenni è frutto della capacità di evocare tale potenziale. Al tempo stesso, nella vitalità di questa immagine, scrive Lukacs, si esprime il carattere duplice della religiosità settaria: insieme la sua forza e la sua debolezza. La forza deriva dal fatto che le sette autentiche, capaci di muovere e spesso di scuotere a fondo la società, si basano sulle contraddizioni reali che mettono in forte movimento gruppi alquanto estesi fra le persone più avvertite e cercano per essi una via d’uscita degna dell’uomo (…) Di qui, come plasticamente appare nell’opera di Gesù, il loro orientamento in prevalenza plebeo (vol. IV, p. 681).
Glosse alla quarta sezione.
Non so fino a che punto la critica di Lukacs alla formulazione gramsciana del concetto di ideologia sia giustificata. Certamente il tema meriterebbe un approfondimento che, tuttavia, va oltre gli scopi di questa riflessione. Ciò che mi pare chiaro è che la versione che Lukacs ci offre del concetto appare ancora più radicale ed “eretica” rispetto a quella del marxismo volgare, nel senso che, se si accetta il suo punto di vista, l’ideologia non può in alcun modo essere ricondotta a mera “illusione”, a una sorta di travestimento puramente ideale, intessuto di parole e immagini, che sottrae allo sguardo la cruda realtà fattuale dell’economico, dei rapporti di produzione. Nella misura in cui il processo di socializzazione avanza, emancipandosi dalla determinazione immediata da parte delle esigenze del processo di riproduzione dell’essere sociale (che tuttavia non perdono mai il ruolo di elemento soverchiante in ultima istanza), sorgono bisogni sociali che devono essere risolti tramite la costruzione di sovrastrutture ad hoc le quali svolgono precise funzioni riproduttive di tipo materiale, non si limitano cioè ad assolvere esigenze puramente ideali.
Ancora più importante mi pare il criterio che Lukacs adotta per distinguere fra il significato positivo e quello negativo del concetto. Per fissare tale confine (mai definibile a priori ma sempre storicamente determinato, a partire dall’analisi concreta di una specifica fase di sviluppo dell’essere sociale) Lukacs ci riconduce alla genesi del fattore ideologico in quanto prodotto dell’articolazione dell’essere sociale in gruppi portatori di interessi in conflitto reciproco. Una volta superata la fase in cui il conflitto si risolve con la violenza, a partire cioè dal momento in cui la complessità delle relazioni sociali impone di elaborare nuovi modi per gestirlo, emerge l’elemento ideologico, il quale si manifesta come auto convinzione della classe dominante che i suoi interessi coincidono con quelli della società intera. L’ideologia rivela quindi fin dalle origini la sua natura di strumento indispensabile della lotta di classe, e la sua caratterizzazione positiva e negativa riflette tale essenza, nella misura in cui dipende da quali sono gli interessi di classe che esprime: serve alla conservazione dello status quo o al suo superamento verso una fase superiore dello sviluppo dell’essere sociale? La lotta ideologica – che in termini gramsciani si declina come lotta per l’egemonia – è quindi direttamente e materialmente lotta di classe.
Come abbiamo visto, il discorso vale anche per la teoria. Il richiamo alla celebre tesi marxiana su Feuerbach – finora i filosofi hanno interpretato il mondo si tratta ora di cambiarlo – va di pari passo con l’insistenza con cui Lukacs caratterizza il marxismo come filosofia della prassi (vedi la prima sezione), facendoci capire che, dal suo punto di vista, la teoria serve solo se e quando la classe se ne impadronisce, facendone una propria arma di lotta, cioè solo se e quando essa si converte in forza materiale al servizio delle masse. Il che, come già detto, può avvenire solo nella misura in cui si fa essa stessa ideologia.
Passando dalla prima alla seconda sottosezione, abbiamo visto come Lukacs, nell’affrontare questi temi, segua un filo rosso che conduce direttamente da Marx a Lenin, senza indulgere ai distinguo che altri filosofi marxisti hanno voluto stabilire fra questi due “classici” del pensiero rivoluzionario. Lukacs segue quasi pedissequamente la lezione delle opere fondamentali di Lenin, dimostrando, da un lato, l’inconsistenza delle letture “soggettiviste” del suo pensiero, tipiche di chi si limita ad esaltarne - come anche Lukacs non manca di fare nella pagine che stiamo commentando - il genio rivoluzionario, senza tenere conto delle rigide condizioni oggettive che lo stesso Lenin giudicava indispensabili per poter parlare di situazione rivoluzionaria; ma dimostrando anche, dall’altro lato, come nel modo stesso in cui egli descriveva tali condizioni – la compresenza fra la volontà di cambiamento delle classi inferiori e la impossibilità di mantenere lo status quo di quelle superiori – fosse già inscritta la necessità del fattore attivo, soggettivo, il quale si esprime necessariamente attraverso la elaborazione di un discorso ideologico.
Discorso che, per scatenare la sua forza materiale di trasformazione dell’esistente, deve tuttavia a sua volta incarnarsi in organizzazione. È facile prevedere quanto indigesta appaia l’adesione lukacsiana alla concezione leninista del partito come coscienza politica trasportata alla classe dall’esterno, in un’epoca come quella attuale, nella quale anche le sinistre “radicali” rifiutano qualsiasi visione gerarchica dell’organizzazione politica, se non del politico in generale, e in particolare della sua concrezione in potere (9). Eppure è evidente come Lukacs non possa non aderire a tale concezione, visto che il modo in cui Lenin descrive l’esterno in questione – cioè il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo – coincide con la sua idea della totalità dell’essere sociale come “complesso di complessi”, e della lotta ideologica come sforzo di presentare gli interessi di classe come interessi della società intera. Per inciso questo è lo stesso motivo per cui il pensiero di Gramsci, in barba a tutte le sue letture post strutturaliste, post coloniali ecc. resta irrimediabilmente leninista: i concetti gramsciani di egemonia e blocco sociale, infatti, alludono precisamente a questa capacità dell’ideologia rivoluzionaria di divenire egemone nei confronti della totalità del corpo sociale, e lo strumento di tale capacità è il partito, come Gramsci ribadisce in più occasioni nei Quaderni (10).
Posto che difendere la concezione leninista – ma anche lukacsiana e gramsciana – del partito non comporta la riproposizione dogmatica delle particolari forme organizzative che esso ha assunto storicamente (le stesse funzioni possono essere svolte da strutture organizzative più efficaci in un contesto storico, socioeconomico e culturale radicalmente cambiato come l’attuale), resta la profonda differenza fra quella concezione e la visione “orizzontalista” della politica che caratterizza le sinistre occidentali contemporanee, la quale ha dimostrato in ogni occasione la sua assoluta incapacità di incidere sui rapporti di forza fra le classi sociali.
Restando in tema di pensiero e ideologia “deboli”, credo valga la pena di insistere sulla critica del processo di “deideologizzazione” che, nato nel secondo dopoguerra e dilagato dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ha provocato il trionfo di quella paradossale “ideologia dell’anti ideologia” che, come nota Lukacs, si regge in realtà su un’ideologia “forte”, in quanto eletta a pensiero unico e universalmente condivisa, vale a dire sulla esaltazione della “libertà” come salvifico valore chiave per tutte le questioni della vita. Un sintomo inquietante del salto di qualità che il processo di deideologizzazione ha compiuto in tempi recenti è stata la scandalosa approvazione – che ha incontrato scarsa opposizione – di una risoluzione del parlamento europeo che equipara fascismo e comunismo.
Questa incredibile falsificazione della realtà storica sarebbe apparsa inconcepibile ancora vent’anni fa, eppure si tratta del coronamento di un processo iniziato – come giustamente sottolinea Lukacs – subito dopo la Seconda guerra mondiale. Il primo passo è consistito nella solenne condanna dell’ideologia nazifascista celebrata a Norimberga, un processo ai crimini di guerra dei vinti celebrato dai vincitori (che nel contempo si assolvevano implicitamente dei loro crimini, a partire dalla nuclearizzazione di Hiroshima) e che aveva lo scopo di negare qualsiasi relazione fra forme “normali” e forme dittatoriali del dominio di classe. A questo punto le prime, identificate con la democrazia borghese, non erano più classificabili – né tampoco criticabili - come ideologie, termine che veniva viceversa identificato con le idee del fascismo e irreversibilmente negativizzato. L’estensione della condanna al comunismo non era ancora praticabile perché quest’ultimo, oltre ad avere offerto un contributo decisivo alla vittoria contro il nazifascismo, era ancora troppo forte, e soprattutto godeva ancora di troppe simpatie da parte delle masse popolari occidentali. Anche se va detto che i presupposti filosofici di tale estensione erano già tutti presenti: basti pensare alla categoria di “totalitarismo” coniata da Hannah Arendt (11) che mirava esattamente a tale obiettivo, esattamente come la sua contrapposizione fra la Rivoluzione americana, democratica e liberale (cioè anti-ideologica), e la Rivoluzione francese, macchiata dal terrore giacobino (denunciato come una vera e propria orgia ideologica) (12).
A completare il lavoro hanno provveduto le evoluzioni parallele dei partiti eurocomunisti (PCI in testa) e delle sinistre radicali nate sulle rovine dei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta. Dopo le rivolte ungherese e cecoslovacca, queste forze politiche hanno preso congedo dalla ideologia (termine ormai compiutamente negativizzato) marxista-leninista ed abbracciato versioni più o meno “radicali” della democrazia borghese garante della “libertà” come valore assoluto, non più analizzabile né criticabile da un punto di vista di classe. Il crollo dei sistemi socialisti ha contribuito a dare il colpo di grazia: il passo successivo è stato infatti aderire senza riserve all’intero apparato concettuale e valoriale della liberal-democrazia (a partire dalla concezione neoliberista dell’economia).
Né a invertire la tendenza sono valsi la guerra di classe dall’alto (13) scatenata dal capitalismo globale, liberato dal “ricatto” dell’alternativa socialista, né quello che Wolfgang Streeck ha definito il divorzio fra democrazia e liberalismo (14), riferendosi al progressivo smantellamento delle istituzioni democratiche generate dal compromesso fordista del trentennio postbellico. Oggi l’ideologia liberale, non più riconosciuta come tale ed eletta a principio di civiltà unico, indiscutibile e universale (o declinata, nella migliore delle ipotesi, in senso “libertario”, antigerarchico e antipatriarcale e tutti gli altri “anti” previsti dal corredo lessicale politically correct) trova la sua sintesi definitiva nella crociata per l’esportazione con ogni mezzo possibile – guerra compresa – dei “diritti universali dell’uomo” dalla loro culla occidentale a tutti quei Paesi – Cina comunista in testa – che rivendicano la loro autonomia storica, culturale e politica da un dominio occidentale tanto più aggressivo quanto più in crisi.
Ritengo che sui cosiddetti diritti dell’uomo e sull’ideologia liberale che in essi si sostanzia non vi sia molto da aggiungere ai passaggi di Lukacs e Marx citati in precedenza. Vale forse solo la pena di approfondire un paio di aspetti. Il primo riguarda il loro carattere squisitamente individuale, il loro riferirsi a quello che Marx chiama, come abbiamo visto, “l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità”. In effetti, se analizziamo la pletora dei diritti che sorgono a getto continuo dalle più disparate richieste di riconoscimento da parte dei gruppi più diversi, i quali rivendicano, per dirla con Stefano Rodotà il diritto di avere diritti (15), ci rendiamo facilmente conto che essi, non solo non rispecchiano più interessi di classe, ma non rispecchiano nemmeno più interessi collettivi di sorta. Non è un caso se Rodotà identifica il soggetto portatore di questi nuovi diritti con una persona che evoca la figura di un astratto cittadino cosmopolita, privo di qualsiasi concreto connotato nazionale, culturale, di genere, religioso, socioeconomico, ecc., con un inesistente “cittadino del mondo” (inesistente perché il mondo in questione –unificato e pacificato dalla globalizzazione economica - è puramente immaginario, per cui non può ospitare citoyens ma solo hommes altrettanto immaginari, svuotati di ogni determinazione). Del resto questa evoluzione era implicita nella parola d’ordine femminista il personale è politico, o nelle tesi di autrici come Judith Butler secondo le quali l’identità sessuale, una volta mondata di ogni condizionamento culturale, si riduce a libera scelta individuale, o ancora nell’uso di termini eufemizzanti per evitare discriminazioni nei confronti di questo o quell’individuo “diversamente abile”, motivate dal fatto che costui deve essere appunto riconosciuto come persona, come essere singolare, unico, ecc. ecc.
Il secondo aspetto su cui vale spendere qualche parola in più è quell’atteggiamento che Lukacs definisce “conformismo non conformistico”, riferendosi a quella tipologia di intellettuali che, temendo di essere accusati “di fare dell’ideologia”, esprimono il proprio disagio nei confronti dello status quo e del modo in cui i poteri dominanti lottano per conservarlo in forme che non vogliono né possono in alcun modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo. Chi come il sottoscritto ha avuto modo di frequentare a lungo gli ambienti dell’accademia, del giornalismo e più in generale dell’industria culturale, sa benissimo di cosa si parla. Tutti coloro la cui carriera professionale, o più banalmente - ove si tratti di soggetti che non nutrono particolari ambizioni in tal senso - la cui quotidiana sopravvivenza dipende dalla benevolenza delle istituzioni culturali – pubbliche o private – per cui lavorano, sono perfettamente consapevoli dei limiti che le loro manifestazioni di indipendenza critica non devono oltrepassare. La “libertà” di opinione che tanto venerano dev’essere esercitata cum grano salis, in modo da garantirsi la possibilità di rimanere apprezzati collaboratori della manipolazione universale.
Quanto appena ricordato suggerisce una ulteriore riflessione, stimolata dall’atteggiamento di quei militanti populisti – penso in particolare all’M5S italiano – che manifestano orrore nei confronti del professionismo in politica (salvo cambiare idea quando rischiano di perdere il proprio ruolo istituzionale). Se torniamo al tema della concezione leninista del partito che, com’è noto, prevede una struttura di rivoluzionari di professione – struttura che, in maggiore o minore misura, viene tuttora adottata dai partiti socialcomunisti al potere - mi pare evidente che, nel caso di questi quadri professionali di partito, il rischio di subire una limitazione della propria libertà di giudizio e di espressione non è superiore a quello che corrono i “liberi” intellettuali di cui sopra. Anzi direi che, paradossalmente, è minore, nel senso che, mentre si ritiene che i primi condividano per definizione l’ideologia del partito cui appartengono, e una linea politica che contribuiscono a definire, i secondi, anche se e quando non condividono l’ideologia e la prassi dell’istituzione cui appartengono, non possono discostarsene se non al prezzo di compromettere il proprio ruolo professionale. Forse l’entusiasmo e il senso d’identificazione che costoro manifestano nei confronti dei dissidenti dei regimi “totalitari”, potrebbe non essere altro che l’altra faccia della frustrazione che provano di fronte ai limiti della “libertà” che vorrebbero regalare ad altri (e che, spesso, alla schiacciante maggioranza dei cittadini di quei regimi non interessa minimamente (16)).
Passando dal tema metafisico dei diritti dell’uomo alla critica marxiana della giustizia borghese, mi pare importante riprendere il concetto che stabilisce, quale condizione dell’allontanamento del diritto dall’esercizio violento del dominio di classe, la sua trasformazione in un corpus di principi e procedure che assumono la forma dello scambio economico. Come si è detto, per Marx (e per Lukacs), l’illusione delle classi subalterne in merito alla possibilità di ottenere “giustizia” restando nei confini del sistema giuridico, si basa sull’incomprensione del fatto che tale sistema non può, in linea di principio, derogare da una concezione in definitiva economica dell’uguaglianza. Ciò non rappresenta ovviamente una novità rispetto alla “classica” denuncia dell’essenza ideologica (cioè di classe) del diritto. La novità sta piuttosto nel fatto che Lukacs rispolvera un aspetto relativamente poco frequentato del pensiero di Marx sull’argomento, laddove cita quella parte della Critica al Programma di Gotha, in cui si afferma che nel socialismo come fase di transizione al comunismo il diritto uguale (cioè il criterio per cui ciascuno riceve in proporzione al proprio lavoro) resta in sostanza un diritto borghese. Questo ovviamente perché la capacità produttiva varia in relazione alla forza, all’intelligenza e al talento individuali, per cui applicare a tutti i lavoratori un diritto uguale significa di fatto applicare un diritto disuguale per lavoro disuguale. La questione è cruciale in relazione alla valutazione della natura, dei limiti attuali e delle prospettive di sviluppo dei Paesi socialisti esistenti. In Cina, ad esempio, gli intellettuali aderenti al PCC ne discutono apertamente, riconoscendo la fondatezza della critica di Marx e sostenendo, nel contempo, che il problema potrà essere risolto soltanto con la transizione dal socialismo al comunismo, in una prospettiva di lungo periodo. Tornerò sulla questione nelle Glosse alla quinta sezione, dedicata appunto ai temi dell’utopia e del socialismo.
Venendo ai temi della critica della religione: non mi soffermerò sui passaggi in cui Lukacs ricostruisce le profonde radici che il fenomeno religioso affonda nella prassi sociale, svolgendo la funzione di “ponte” fra interessi quotidiani del singolo e grandi bisogni ideali - motivo per cui lo definisce come una “forma intermedia fra politica e filosofia”; né riprenderò la sua critica nei confronti della sottovalutazione “illuminista” della potenza materiale del religioso – sottovalutazione associata all’illusione secondo cui le scoperte scientifiche – e più in generale l’avanzamento di tutte conoscenze umane sulla realtà e sul mondo - sarebbero fatalmente destinate a spegnere la fede religiosa; mi concentrerò invece sull’analisi della differenza fra logica settaria e logica istituzionale.
La parte in cui Lukacs ricostruisce le differenze “idealtipiche” (anche se non usa questo termine) fra chiesa e setta mi pare non si discosti molto dal contributo che Max Weber ha dato a tale argomento (17). In effetti, si potrebbe anche sostenere che Weber è andato più a fondo nell’evidenziare, non solo le differenze, ma anche il rapporto dialettico fra i due fenomeni: da un lato la setta come fattore di rinnovamento e rivitalizzazione della fede “assopita” nella routine della prassi ecclesiale, dall’altro la chiesa come esito dell’inevitabile processo di assestamento/consolidamento istituzionale, successivo all’esaurirsi della “spinta propulsiva” della rivelazione profetica. Viceversa l’analisi di Lukacs è più consistente laddove affronta il tema dei rapporti di forza fra classi sociali implicati in questo gioco dialettico. In particolare, Lukacs evidenzia il carattere sovversivo e “plebeo” dell’originario messaggio cristiano, nonché la sua successiva neutralizzazione, dovuta all’allontanamento della parusia (18): finché questa era annunciata come imminente inspirava una visione egualitaria del mondo, alimentando speranze, aspettative e rivendicazioni degli “ultimi”; il suo allontanamento verso un orizzonte temporale indefinito, tendenzialmente coincidente con l’infinito, ha viceversa consentito l’instaurazione di un modus vivendi con gli strati sociali superiori, fino a convertirsi in culto “ufficiale” del potere politico, economico e culturale.
Tuttavia Lukacs aggiunge che il fascino della figura di Cristo, immutato nel corso dei millenni, è associato alla persistenza, sia pure sotto traccia, dell’originario messaggio “classista”, alla sua capacità di rispondere alle contraddizioni reali che mettono in movimento gruppi estesi. Questo contenuto ideologico potenzialmente “rivoluzionario” riaffiora periodicamente: Lukacs cita in merito la Guerra dei contadini in Germania (19), ma si pensi anche ai movimenti ereticali del Medioevo e alla figura di San Francesco, senza dimenticare il ruolo fondamentale che la “teologia della liberazione” ha svolto – e tuttora svolge - in tutte le rivoluzioni sociali dell’America Latina (20).
L'omaggio di Chavez a Cristo "socialista" |
Questa oscillazione temporale fra potere delle chiese e insorgenze settarie ed ereticali presenta evidenti analogie con certi passaggi della storia del marxismo, e più in generale del movimento operaio negli ultimi due secoli: dopo il consolidamento del potere socialdemocratico, proseguito fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, e caratterizzato dal progressivo rafforzamento delle strutture organizzative di partiti e sindacati, e dalla conquista di rapporti di forza tali da migliorare le condizioni materiali di vita del proletariato, e da ottenere l’allargamento degli spazi democratici all’interno del sistema capitalistico, è arrivata la crisi della Seconda Internazionale e il diffondersi dell’eresia comunista in Russia e in altri Paesi europei, così come dopo la normalizzazione riformista dei partiti comunisti dell’Europa Occidentale, culminata con la svolta eurocomunista, sono arrivati i movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta e i loro tentativi di ricostruire una soggettività rivoluzionaria orientata al superamento del sistema capitalistico. Dopo la trasformazione dei partiti ex comunisti in chiese liberal democratiche associate al culto universale del libero mercato, siamo invece ancora in attesa di un sussulto capace di rivitalizzare l’ “annuncio” del Manifesto di Marx ed Engels.
Note
(1) A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, Einaudi 1949.
(2) Cfr. K. Marx, L’ideologia tedesca, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947.
(3) V. I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale, in Opere complete, XXI, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 191.
(4) V. I. Lenin, Che fare, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma, pp. 389-390.
(5) K. Marx, Critica al Programma di Gotha, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma pp. 961, 962.
(6) Cfr. K. Marx, La questione ebraica, Editori Riuniti, Roma 1971.
(7) E tuttavia, sostiene Lukacs, quello di Bellarmino non è l’unico modo in cui la religione tenta di adattarsi alla “concorrenza” della scienza sul piano della definizione dell’immagine del mondo. Un’altra via per affrontare la sfida è quella imboccata, fra gli altri, da Karl Barth, il quale, in Dogmatik im Grundriss (Berlino 1948), scrive: <<Non è faccenda che riguardi né la Sacra Scrittura, né la fede cristiana…difendere una determinata immagine del mondo. La fede cristiana non è legata né a quella antica né a quella moderna (…) è per principio libera di fronte a tutte le immagini del mondo, cioè di fronte a tutti i tentativi di interpretare l’ente sul metro e con i mezzi della scienza che domina in quel momento>>. In questo modo, commenta Lukacs, si finisce tuttavia per interrompere qualsiasi legame fra religione e realtà. Ma questo, aggiunge, non è in fondo che l’altro polo della soluzione di Bellarmino. Con gli sforzi moderni di “demitologizzare” la Bibbia si sacrifica il carattere di realtà di ogni conoscenza del mondo per salvare teoricamente il dominio ontologico assoluto della ideologia religiosa… si rinuncia a ogni realtà della predicazione della Chiesa (inclusa la bibbia) per salvare comunque il sogno, l’apparenza della sua validità mediante un distacco radicale da ogni nesso reale (vol. IV, p. 699). Nichilismo neopositivista e nichilismo teologico si specchiano l’uno nell’altro.
(8) Cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982.
(9) Pierre Rosanvallon ritiene che la rinuncia a priori a lottare per il potere sia un tratto distintivo dei nuovi movimenti sociali, i quali, piuttosto che impegnarsi a conquistarlo, preferiscono esercitare nei suoi confronti forme di pressione e condizionamento che egli definisce “democrazia della sfiducia e del controllo” (cfr. Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012; vedi anche La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2013). È interessante il fatto che questo autore sostiene che le sue posizioni sul potere non sono lontane da quelle di Antonio Negri, a dimostrazione della convergenza fra riformismo liberale e ideologie libertarie della cosiddetta sinistra “antagonista”. Per una critica di questa posizione politica delle nuove sinistre, con riferimento specifico al contesto della rivoluzione boliviana, cfr. A. G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.
(10) Cfr. A Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, 4 voll. , Einaudi, Torino 2014.
(11) Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.
(12) Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983.
(13) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
(14) Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
(15) Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.
(16) In merito alla radicale indifferenza dei cittadini della Repubblica Popolare Cinese nei confronti della democrazia di tipo occidentale cfr. D. A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.
(17) Cfr. M. Weber, op. cit.
(18) Secondo Koselleck la moderna concezione lineare del tempo sarebbe il frutto della secolarizzazione del tempo escatologico, cioè della visione medievale-cristiana che vive nel tempo sospeso dell’attesa della parusia, ma in effetti il processo di allontanamento indefinito della parusia era iniziato in precedenza, e comunque il cristianesimo aveva già preparato il terreno alla visione moderna del tempo, liquidando la visione circolare del mondo classico (cfr. R. Koselleck, Futuro passato, Marietti, Genova 1986).
(19) Cfr. F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Edizioni Rinascita, Roma 1949.
(20) Cfr. H. Assmann, F. Hinkelammert, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia, Castelvecchi, Roma 2020.
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