I POPOLI AFRICANI CONTRO L’IMPERIALISMO
1. SAID BOUAMAMA
Con questo testo inauguro un percorso in tre tappe sulle lotte africane contro l’imperialismo e sul loro contributo allo sviluppo del marxismo. In questo primo articolo discuto due libri di Said Bouamama (intellettuale marxista di origine magrebina nato in Francia - a Roubaix - sessantasei anni fa): Pour un panafricanisme révolutionnaire (Syllepse, Parigi 2023) e Des classes dangereuses a l’ennemi intérieur (Syllepse, Parigi 2021). Nelle puntate successive mi occuperò, rispettivamente, di Red Africa dell’anglo-africano Kevin Ochieng Okoth (di imminente uscita presso l’editore Meltemi, con una mia Postfazione) e di un’antologia di testi del guineense Amilcar Cabral.
I. Sul panafricanismo rivoluzionario
a) Le falsificazioni ideologiche occidentali per legittimare il colonialismo
La più diffusa mistificazione cui gli imperialisti occidentali hanno fatto ricorso per giustificare le proprie guerre coloniali di conquista, scrive Bouamama, è stata l’affermazione secondo cui l’Africa sarebbe un continente “senza storia”, che solo grazie all’integrazione negli imperi dei Paesi europei ha potuto fare il proprio ingresso nella storia “universale” (cioè europea). Questa tesi si fonda su una narrazione che presenta il continente africano come un insieme di società “primitive”, politicamente non strutturate, “senza stato”, una moltitudine di gruppi umani senza scambi reciproci, perennemente in guerra fra loro e incapaci di esprimere forme sociali più complesse della tribù e del clan famigliare (per inciso, vale la pena di sottolineare come l’immagine delle “società senza stato” evocata nelle narrazioni di alcuni antropologi occidentali, sia stata utilizzata “da sinistra” per criticare i processi di costruzione nazionale post indipendenza ed esaltare certe forme sociali premoderne in contrapposizione ai processi di modernizzazione imposti dall’esterno).
La realtà è che, prima della colonizzazione, contrariamente alle affermazioni propagandistiche occidentali, sia nell’Africa Settentrionale che nell’Africa Subsahariana, esistevano non solo stati ma addirittura veri e propri imperi per cui la colonizzazione, scrive Bouamama, non ha voluto dire l’ingresso dell’Africa nella storia, bensì l’interruzione violenta della sua storia (esattamente come la cosiddetta “scoperta” dell’America ha voluto dire l’interruzione violenta della storia di quel continente). Un’altra invenzione pseudo-storica – coltivata soprattutto in Francia ma non solo - è consistita nel gabellare la colonizzazione dell’Africa Settentrionale come una “liberazione” del popolo berbero. Quest’ultimo, presentato come l’erede della civilizzazione romana, sarebbe stato conquistato – e poi oppresso per secoli - dagli invasori arabo-musulmani. In verità, spiega Bouamama (che pure non nega l’esistenza di conflitti interetnici), non vi è mai stata una colonizzazione arabica del Nord Africa, ove intesa come colonialismo insediativo (1), mentre l’islamizzazione della regione è stato un processo lungo, ampio e complesso .
Infine, non potendo cancellare l’orrore della tratta transatlantica, cinicamente utilizzata, come sottolineato da Marx (2), per alimentare l’accumulazione primitiva del capitale angloamericano, si è tentato di accreditare la tesi relativa all’esistenza di una non meno massiccia e crudele tradizione schiavista pre-coloniale (con particolare insistenza sulla tratta gestita dagli arabi). Anche in questo caso Bouamama spiega che le forme di schiavitù tradizionali africane erano molto differenziate (servitù domestica, prigionieri di guerra, debitori insolventi, ecc.) e che spesso i figli degli schiavi, contrariamente a quanto avveniva per gli schiavi americani ridotti a beni mobili, non erano considerati a loro volta schiavi. Ma soprattutto, anche tenendo conto della tratta “orientale” alimentata da trafficanti arabi, i numeri, assai minori, e la durata, assai maggiore, del fenomeno non sono paragonabili a quelli della tratta transatlantica, alimentata dall’inesauribile sete di profitto di una forma sociale basata sull’accumulazione illimitata di capitale. Quest’ultima ha avuto un impatto destrutturante nei confronti delle società africane, impoverendone il patrimonio demografico e trasformando certe élite locali in fornitrici di schiavi.
In conclusione, il “peccato originale” della cultura colonialista, nata eurocentrica e successivamente evolutasi in occidentalocentrica, consiste nelle sue pretese “universaliste”. Pretese che oggi, in era postcoloniale, vengono accampate per giustificare le guerre condotte in nome dei “diritti universali dell’uomo” contro i popoli, i Paesi e le nazioni che osano opporsi al dominio economico, politico e culturale dell’impero occidentale unificato sotto la bandiera a stelle e strisce. Questo pseudo universalismo, argomenta Bouamama, si fonda su due postulati: la tesi dell’inesistenza di “vere” civilizzazioni prima di quella occidentale e la negazione degli apporti esterni che hanno favorito lo sviluppo di quest’ultima. La prima tesi è talmente insostenibile da non meritare confutazioni: almeno fino al secolo XV, l’Europa era economicamente marginale rispetto alle ricchezze prodotte in Asia (3) e nel Vicino Oriente, per tacere della sua arretratezza culturale nei secoli del Medioevo, quanto alla presunta superiorità culturale della grecità classica nei confronti di ogni altra tradizione (4), essa si fonda sulla rimozione del debito nei confronti della civiltà egizia e delle millenarie tradizioni culturali dell’Estremo Oriente. Del resto, queste verità erano ampiamente riconosciute dalla cultura europea prima che l’ascesa della classe borghese e le sue velleità imperiali dessero origine al moderno eurocentrismo.
Said Bouamama |
b) Il primitivismo e l’essenzialismo come malattie infantili del panafricanismo
Uno dei maggiori ostacoli che ha rallentato la formazione di una coscienza panafricanista rivoluzionaria, secondo Bouamama, è stato il mito dell’esistenza di società africane pre coloniali senza conflitti di classe e armoniosamente integrate nei rispettivi contesti ambientali, mito in ossequio del quale alcuni leader africani hanno indicato la via dell’avvenire post coloniale nel ritorno a una presunta condizione originaria. Si potrebbe dire che la prima reazione dei colonizzati all’essenzialismo della cultura dei colonizzatori sia stata quella di contrapporvi un essenzialismo dei colonizzati, ben sintetizzato dal concetto di negritudine (5). Il senegalese Leopold Senghor, profeta della negritudine e primo responsabile della feticizzazione dell’Africa pre-coloniale, descrive il nero come “ un uomo della natura” che vive in comunione con la terra e il cosmo; dotato di un carattere “sensuale” che sperimenta la realtà attraverso gusto, udito, vista, tatto e olfatto e ne deriva un modello di razionalità che non è di tipo logico-discorsivo bensì di tipo intuitivo-partecipativo (dunque non antagonistico).
Questo essenzialismo del colonizzato, simmetricamente opposto a quello del colonizzatore e fondato sull’esaltazione di tradizioni negate o svalorizzate, scrive Bouamama, può essere giustificato e svolgere un ruolo attivo nella fase iniziale del processo di emancipazione, ma diventa un ingombrante ostacolo nella fase successiva, nella misura in cui evoca un modello di “socialismo” africano ispirato a un immaginario passato senza conflitti di classe. Pur riconoscendo l’esistenza di strutture di tipo comunitario e di una tradizione di proprietà collettiva della terra in alcune aree del continente, Bouamama ricorda che tutto ciò non implicava l’esistenza di società egualitarie, tanto è vero che le potenze coloniali hanno potuto sfruttare le gerarchie sociali preesistenti al loro insediamento e metterle al servizio del proprio dominio.
Leopold Senghor |
Questa abilità nel manipolare i conflitti e le contraddizioni che attraversano il mondo dei colonizzati, si prolunga nel tempo, anche dopo che questi hanno raggiunto l’indipendenza, e una delle sue strategie più efficaci consiste appunto nel rilanciare gli argomenti essenzialisti e localisti di certi intellettuali “afrocentrici”. In questo modo vengono riproposti i miti che definiscono l’islam e il cristianesimo come religioni “importate”, imposte con la forza a popolazioni originariamente animiste. Così il Sahara viene descritto come una frontiera invalicabile che separa da sempre Africa Bianca da Africa Nera, ignorando la realtà storica (cioè il fatto che il Sahara è da secoli attraversato da una fitta rete di scambi economici, culturali e religiosi). Così si tenta di alimentare la contrapposizione fra negritudine, arabitudine e berberitudine.
Il panafricanismo è nato per contrastare questa strategia imperialista di divisione che mira a prolungare il dominio sui popoli africani dopo la fine dell’era coloniale. Le sue radici (come vedremo meglio nelle prossime tappe di questo percorso dedicato all’Africa) affondano nell’esperienza di sradicamento vissuta dai milioni di neri strappati ai rispettivi gruppi di appartenenza dalla tratta transatlantica: la comune sorte degli schiavi deportati in America genera il sentimento di una “comunità di destino”. Si tratta dunque, in questa prima fase, di un ideale “pan negrista”, associato cioè al colore della pelle, ma a mano a mano che si sviluppano le lotte di liberazione nazionale esso si evolve in un panafricanismo di respiro continentale per cui, a coltivare la visione di uno stato africano unico e indivisibile, non sono solo leader neri come Nkrumah e Nyerere ma anche leader nordafricani come Nasser, Ben Bella e, più tardi, Gheddafi, superando i progetti di aggregazione federale di tipo “regionalista”.
Panafricanismo e socialismo tendono a fondersi, nella misura in cui la realtà post coloniale dissipa le illusioni del ritorno a un passato ideale, mentre evidenzia i conflitti di classe vecchi e nuovi che scuotono le nazioni nate dalla dissoluzione degli imperi coloniali. La reazione imperialista, spalleggiata dalle nuove borghesie nazionali che costruiscono il loro potere all’ombra del neocolonialismo, è durissima tanto sul piano ideologico quanto su quello politico-militare. Sul primo sono proprio gli intellettuali afrocentrici essenzialisti ad accreditare la tesi del presunto carattere “eurocentrico” del marxismo, che sarebbe dunque inutilizzabile o addirittura controproducente nello specifico contesto sociale africano. Sia Bouamama che gli autori che discuterò nelle prossime due puntate non negano l’esistenza di una interpretazione eurocentrica del marxismo, che in Occidente è addirittura egemone, come sostenuto, fra gli altri, da chi scrive (6), ma rilanciano l’esigenza di una elaborazione teorica che attribuisca un significato più ampio al concetto di lotta di classe (7).
Amilcar Cabral |
Sul piano politico militare la reazione si sviluppa attraverso una serie di assassinii mirati dei leader rivoluzionari (da Lumumba a Cabral), di appoggio diretto e indiretto ai movimenti secessionisti che sfruttano conflitti etnici, di classe, religiosi, ecc. (il Sahel contro Algeria e Mali, il Katanga contro il Congo, il Biafra contro la Nigeria, ecc.), di sabotaggio e ingerenza economici (attraverso istituzioni nominalmente internazionali ma in realtà dominate dalle potenze occidentali, come il FMI e la Banca Mondiale) che mirano a bloccare ogni possibilità di sviluppo autonomo delle nazioni post coloniali costringendole ad adottare politiche economiche neoliberiste. Strategie facilitate dal crollo dell’Urss. Finché l’ascesa dei Brics e le aspirazioni alla nascita di un mondo multipolare ha aperto le prospettive di una nuova epoca di panafricanismo che potrà affermarsi solo basandosi su rigorosi presupposti materialisti.
c) Per un’analisi materialista delle contraddizioni del processo di emancipazione. Prospettive di un nuovo panafricanismo rivoluzionario
Esaurita la fase storica in cui si è potuto pensare a un panafricanismo basato su una immaginaria comunità di cultura, che implicava la rimozione delle disomogeneità fra le diverse realtà sociali del continente e coltivava l’illusione del ritorno a un presunto comunitarismo pre-coloniale, si ripropone oggi l’urgenza e la necessità del panafricanismo politico come comune progetto di fuoruscita dalla dipendenza neocoloniale. Le élite borghesi emerse dal processo di liberazione nazionale si sono infatti rivelate incapaci di promuovere un vero sviluppo, basato sull’aumento della produzione, sulla creazione di infrastrutture moderne, sull’innovazione tecnologica e sulla crescita dell’occupazione. Il fatto che oggi esista una (ristretta) classe di super ricchi africani non è un sintomo di sviluppo autonomo bensì del ruolo di intermediazione che questo strato sociale svolge nei confronti del grande capitale straniero. Rilanciare il progetto di un panafricanismo politico rivoluzionario, scrive Bouamama, significa contrastare i discorsi panafricanisti in chiave neoliberale che stanno proliferando in sintonia con l’entrata in vigore (2021) dello ZLECAF (Zona di libero scambio africana).
Il soggetto politico che può svolgere il ruolo di lottare contro il progetto di integrazione del continente africano nel processo di mondializzazione liberista, non sono le borghesie nazionali, che di tale processo sono complici, bensì le larghe masse popolari (torneremo sul tema discutendo il pensiero di Cabral): oggi come ieri sono solo loro, assieme a certi settori di piccola borghesia, a incarnare interessi economici e sociali di carattere antimperialista e anticapitalista.
La trasformazione della lotta antimperialista in lotta per il socialismo, argomenta Bouamama, implica la fuoruscita dal panafricanismo “culturalista” e la consapevolezza che non si dà liberazione culturale senza liberazione economica e politica. Per quanto riguarda il primo aspetto, Bouamama rilancia la tesi di Nkrumah, a sua volta debitore di Samir Amin (8), secondo cui nessuna indipendenza economica sarà possibile senza attuare una strategia di sganciamento (delinking) nei confronti dell’economia dominata dal capitalismo occidentale. Occorre garantire la possibilità di un aumento del prezzo delle materie prime (ponendo fine allo scambio ineguale fra materie prime a basso prezzo delle periferie e prodotti industriali a prezzo elevato delle metropoli), sviluppare una industrializzazione autonoma (ponendo fine alla specializzazione i produttiva in materie prime – e forza lavoro! - a basso prezzo). Si tratta cioè di dare vita a economie autocentrate, il che non significa autarchia bensì sviluppare relazioni di scambio finalizzate all’accumulazione interna (Notiamo che a questi principi si è ispirata la politica economica cinese dopo le riforme degli anni Settanta, con i formidabili risultati che tutti conosciamo). Delinking significa, fra le altre cose, riprogettare la rete dei trasporti africani per renderla funzionale agli interscambi interni, eliminare le barriere doganali fra stati (e rafforzare quelle nei confronti dei prodotti metropolitani), e lavorare in prospettiva della costruzione di una comunità monetaria africana (il progetto di allargamento dei Brics in funzione di sganciamento dal signoraggio del dollaro – è il caso di aggiungere - può essere in tal senso un fattore strategico).
Kwame Nkrumah |
Tutto ciò non può essere realizzato in assenza di un ruolo centrale dello stato, per cui Bouamama contrappone alle tesi antistataliste di destra e sinistra lo slogan: “l’Africa non soffre per troppo stato ma di troppo poco stato”. Quest’affermazione chiama in causa le critiche degli “antinazionalisti” che (come vedremo nelle prossime puntate di questo trittico africano) addebitano le contraddizioni del processo di liberazione al fatto di avere ingabbiato le energie della lotta per l’indipendenza nel modello dello stato-nazione. Gli antinazionalisti, argomenta Bouamama, dimenticano una serie di aspetti fondamentali del processo di liberazione dal dominio coloniale e neocoloniale:
Uno. Anche i regimi più reazionari e infeudati all’imperialismo sono stati costretti a soddisfare almeno in parte le esigenze popolari, per cui l’affermazione secondo cui in certi Paesi africani la gente starebbe oggi peggio di quando erano colonie è una boutade priva di fondamento che fa oggettivamente il gioco degli interessi imperialisti.
Due. La mancata costruzione di un senso di solidarietà e appartenenza nazionali lascia campo libero ad altre forme di solidarietà comunitaria che, se in certe condizioni possono articolarsi fra loro nella stessa opposizione al colonizzatore, possono anche essere sfruttate come strumenti di divisione del fronte antimperialista.
Tre. Per quanto giustificata, la critica della palese artificialità delle frontiere che separano i Paesi africani (tracciate con la riga e il compasso dalle potenze coloniali che si sono spartite l’Africa fra fine Ottocento e primo Novecento) non tiene conto della realtà storica concreta in cui si è realizzato il processo di de-colonizzazione. Il discorso sulla intangibilità delle frontiere è stato una scelta obbligata per i leader della lotta indipendentista, nella misura in cui la loro azione politica si svolgeva nel contesto di un mondo caratterizzato dalla guerra fredda fra grandi potenze e dai tentativi di strumentalizzare i conflitti interni ed esterni dei Paesi di recente indipendenza per dividerli e sottometterli ai progetti neocoloniali.
Quattro. L’antinazionalismo di certe sinistre occidentali è ispirato alla visione eurocentrica del nazionalismo (e alla storia dei conflitti fra stati occidentali) per cui non coglie il significato emancipatorio che il nazionalismo assume per i Paesi dominati.
Cinque. Non vi è contraddizione fra emancipazione nazionale a panafricanismo: la prima è il punto di partenza imposto dalle condizioni storiche concrete della dominazione coloniale, il secondo è l’obiettivo finale imposto dalla necessità di accumulare forze sufficienti per spezzare la dipendenza del continente dal dominio neocoloniale.
Quanto appena esposto non vuol dire che Bouamama ignori i conflitti e le contraddizioni che hanno accompagnato i processi di costruzione nazionale post indipendenza. Posto che l’artificialità di certe entità nazionali generate dalla de-colonizzazione non rappresenta di per sé un ostacolo insuperabile per il processo di costruzione politica di una nazione, è evidente che ciò può essere fatto in modi diversi. E in tal senso va preso atto che sono stati commessi errori. Spesso, ammette Bouamama, si è concepito il nuovo stato-nazione sul modello di quelli dell’Europa capitalista: unicità di lingua, centralizzazione amministrativa, rimozione delle differenze etniche e culturali. Inoltre le nuove classi dominanti africane hanno altrettanto spesso strumentalizzato i fattori etnici e tribali come strumenti di ripartizione ineguale della ricchezza e di gestione di favori clientelari. Contro questi errori occorre che si formino élite dominanti capaci di rispettare e proteggere gli interessi delle minoranze e di non confondere l’esigenza di promuovere lo sviluppo di una cultura e di un linguaggio comuni con l'imposizione di una cultura e di lingua uniche. L’obiettivo, conclude Bouamama, dovrebbe essere imboccare la via dell'aggregazione federale sia a livello nazionale che continentale, per arrivare alla costruzione di uno stato plurinazionale unitario sul modello di quello prospettato dalle Costituzioni introdotte dalle rivoluzioni bolivariane in America Latina (9).
II. Immigrazione, razzismo e costruzione del nemico interno
Il secondo libro di Bouamama di cui mi occupo in questo articolo sposta l’attenzione dalla realtà del continente africano a quella di una nazione europea, la Francia, che ha svolto un ruolo importante nel processo di colonizzazione e che resta tuttora una delle potenze occidentali più impegnate nel conservare il dominio neocoloniale sull’Africa. Se il libro precedente analizza la lotta dei popoli africani per liberarsi dal dominio coloniale, e per contrastare i tentativi occidentali di continuare – anche dopo la de-colonizzazione - ad appropriarsi delle loro risorse naturali e umane per alimentare la propria inesauribile sete di profitto, questo secondo lavoro ha come protagonisti i milioni di immigrati che hanno raggiunto la Francia per garantirsi la sopravvivenza esaudendo la domanda di lavoro a buon mercato di un paese che soffre di un cronico deficit demografico. Un paese nel quale non solo i sans papier, ma anche le seconde e terze generazioni dei discendenti delle prime ondate migratorie, pur nominalmente “promossi” a cittadini francesi, continuano a vivere una realtà di supersfruttamento economico ed emarginazione sociale.
a) Capitalismo e immigrazione. Le cause strutturali del fenomeno
La narrazione liberista presenta il fenomeno migratorio come il prodotto di “leggi” economiche oggettive: è il gioco della domanda e dell’offerta (nel caso specifico di quella peculiare “merce” – che in realtà non è tale, come ci ha spiegato Marx – che è la forza- lavoro) che, sul lungo periodo e sia pure al prezzo di inevitabili costi umani, genera una situazione ottimale per ogni individuo e ogni nazione. Bouamama smonta questa narrazione rilanciando un punto di vista marxista che analizza il fenomeno adottando una prospettiva storica di lungo periodo. Il modo di produzione capitalistico è nato e ha potuto svilupparsi solo distruggendo le altre forme produttive e riproduttive, in particolare le economie contadine a carattere comunitario e famigliare basate su un’economia di sussistenza. Ciò è stato magistralmente descritto dai padri fondatori del marxismo, Marx ed Engels, così come dai grandi critici dell’economia politica borghese, come Polanyi, Samir Amin, Arrighi e altri, fra cui quel David Harvey che ha coniato la categoria di “accumulazione per espropriazione” per descrivere questo evento originario, ma costantemente ri-attualizzato, del capitalismo (10).
La forza lavoro “liberata” dalla distruzione dei modi di produzione tradizionali alimenta i flussi migratori interni ai singoli paesi capitalisti: milioni di individui sono costretti ad abbandonare le periferie e affluire nei centri industriali in cerca di mezzi di sussistenza. Ma il processo supera presto i limiti nazionali, nella misura in cui, argomenta Bouamama, non è mai esistito un capitalismo non mondializzato, bensì un processo progressivo di mondializzazione: il capitalismo nasce imperialista, spinto dalla necessità di allargare costantemente le basi della propria accumulazione, esso è cioè indotto ad esportare il processo di “accumulazione per espropriazione” colonizzando i paesi in cui vigono ancora rapporti sociali di tipo tradizionale. In questo modo il capitale non omogeneizza il mondo, come pretende la narrazione liberista, ma lo polarizza fra aree sviluppate e sottosviluppate, instaurando una brutale divisione ineguale del lavoro. In poche parole, la mondializzazione imperialista garantisce al capitale l’accesso a larghe masse di forza lavoro supersfruttabile, prima esportando il proprio modo di produzione, poi importando la forza lavoro “liberata” dagli effetti di tale esportazione. Così il processo iniziato su scala nazionale si ripete su scala mondiale.
David Harvey |
Descritto il meccanismo nella sua forma generale-astratta, storica, Bouamama passa ad analizzare alcuni suoi “corollari” e ad aggiornare le forme concrete che esso tende ad assumere nella realtà attuale (con particolare riferimento al contesto francese). In primo luogo, i flussi migratori sono indispensabili per fronteggiare il deficit demografico europeo e bilanciare gli effetti dell’invecchiamento della popolazione europea (un problema particolarmente grave in Francia, con il più basso tasso di incremento demografico a livello continentale). Inoltre l'immigrazione è uno dei principali – se non il principale - strumento che consente di mantenere il controllo sulle masse lavoratrici “segmentando” il mercato del lavoro, suddividendolo cioè per settori economici, tipi di impiego, ecc. Infine, la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori generata dalla stratificazione appena descritta consente di realizzare l’obiettivo di disporre di una forza lavoro ad elevata mobilità, facilmente trasferibile da un settore, un impiego e un luogo all’altro.
L’accelerazione del processo di mondializzazione degli ultimi decenni ha introdotto una serie di fattori inediti che hanno aumentato la complessità dei fenomeni fin qui descritti, a partire dal massiccio processo di decentramento produttivo verso i paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, che ha fatto sì che l’83% della forza lavoro manifatturiera viva oggi nel Sud del mondo, il che, invece di generare una redistribuzione della ricchezza a favore di quest’ultimo – come teorizzato dagli apologeti della globalizzazione -, ha generato un aumento della povertà in entrambi i contesti. Inoltre il fatto che gli “aiuti” del mondo occidentale ai paesi del Sud siano stati associati alle “riforme strutturali” imposte dal FMI e dalla Banca mondiale (privatizzazioni dei servizi pubblici, tagli alla spesa sociale, ecc.), ha fatto sì che la forza lavoro periferica “liberata” e resa disponibile alla migrazione verso il centro, non riguardi più solo i lavoratori dell’economia tradizionale ma anche strati delle classi medie urbanizzate, che non hanno più trovato impiego nel settore pubblico falcidiato dalle riforme. Non più solo contadini sradicati ma anche medici, insegnanti, ingegneri, colletti bianchi, ecc. In questo modo competenze formatesi a spese delle periferie sono andate ad alimentare la forza lavoro a basso costo per i servizi pubblici dei paesi dominanti (Bouamama cita, in particolare, il massiccio impiego di personale medico di origine extracomunitaria nel servizio sanitario francese. E questa nuova migrazione, per ragioni che esamineremo nei prossimi paragrafi, non è solo destinata al supersfruttamento ma è condannata a restarvi stabilmente.
b) Prima dell’ondata di origine africana. Le migrazioni interne e infraeuropee
Bouamama dedica un’ampia sezione del volume che stiamo discutendo alla storia delle migrazioni interne in Francia. Anche qui parte da una premessa teorica di tipo generale, che consiste nell’affermazione secondo cui il processo di costruzione nazionale, lo sviluppo di una classe operaia moderna e i flussi migratori costituiscono un insieme indissociabile. Ciò deriva, oltre che dalla relazione di interdipendenza fra distruzione delle forme sociali periferiche e accumulazione primitiva nei centri descritto nel precedente paragrafo, dal fatto che nell’Esagono la natalità è sempre stata più bassa che nel resto d’Europa, il che ha reso questa regione una calamita che, a mano a mano che cresceva la domanda di forza lavoro, ha attratto masse di migranti prima dalle periferie interne, poi dai paesi limitrofi, infine dall'Africa.
Ragionando sulla migrazione interna del periodo successivo alla Rivoluzione del 1789, Bouamama avanza la tesi secondo cui, nel processo di costruzione nazionale, si è costantemente fatta confusione fra unità politica e unicità culturale. Tipica, in questo senso, la promozione a lingua nazionale del francese “parigino” che viene imposto distruggendo le lingue delle “nazioni primarie”, come quella bretone. I Bretoni, fra gli altri, sono stati bersaglio di irrisione e disprezzo per il loro linguaggio “barbaro” e per la loro “inciviltà”, e fatti oggetto di un processo di “etnicizzazione” che ha consentito di stratificare la classe operaia francese in formazione, assegnando a queste etnie “arretrate” le mansioni produttive più faticose, puramente esecutive e “sporche” e confinandole nei settori economici a più elevato tasso di sfruttamento.
Nella seconda metà dell’Ottocento le migrazioni interne non bastano più a soddisfare l’insaziabile sete di forza lavoro a basso prezzo dell’industria francese, per cui si spalancano le porte ai flussi migratori provenienti dai paesi europei: italiani, spagnoli, polacchi, ecc. Oggi le élite borghesi alimentano il mito della presunta ”integrazione armoniosa” di questi migranti europei (e dei loro discendenti) che viene contrapposta alla mancata o incompleta integrazione delle successive migrazioni provenienti dai paesi extracomunitari (soprattutto africani). Un mito che Bouamama smonta ricordando l’emarginazione, i tassi di sfruttamento e le persecuzioni razziste di cui furono oggetto soprattutto i lavoratori italiani che già allora furono rappresentati, come avviene oggi con gli immigrati extracomunitari, come una minaccia di “sostituzione” della popolazione autoctona. Oggi, dopo che i flussi migratori dall’Italia si sono fermati da tempo, e le generazioni successive appaiono pienamente assimilate dalla cultura francese, si alimenta il mito di un’integrazione riuscita in ragione di una sostanziale prossimità culturale, laddove la distanza culturale degli immigrati postcoloniali giustificherebbe il fatto che il trattamento discriminatorio nei loro confronti si estende anche alle generazioni successive alla prima, benché queste ultime siano ormai costituite in maggioranza da cittadini francesi. Ma questa teoria della distanza culturale, come stiamo per vedere, è la forma specifica che il razzismo ha assunto nell’era della globalizzazione postcoloniale.
c) Dal razzismo biologico al razzismo culturale
Il razzismo, argomenta Bouamama, è una modalità essenziale di classificazione sociale nella civiltà capitalista occidentale. Ma dopo gli orrori perpetrati dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, il razzismo biologico, che nell’Ottocento e nella prima parte del Novecento era ancora ampiamente utilizzato per legittimare il colonialismo imperialista, è divenuto impresentabile. La condanna morale del razzismo da parte della cultura liberal-democratica punta il dito quasi esclusivamente contro i pregiudizi individuali nei confronti dell’altro, per cui affida la soluzione del problema all’educazione, mentre ignora gli interessi materiali (economici e politici) che producono e riproducono il razzismo. Così, sparito il razzismo che riguarda l’eredità biologica, se ne inventa un altro, ovvero quel “razzismo senza razza” che si fonda sulla tesi della irriducibilità delle differenze culturali (per la precisione delle differenze fra culture del centro e culture delle periferie, cioè fra Occidente e resto del mondo).
Di fronte al fatto che gli immigrati post coloniali di seconda e terza generazione, benché francesi a tutti gli effetti, continuano a essere percepiti e trattati come stranieri; di fronte al fatto che il tasso di disoccupazione dei figli dei migranti è il doppio di quello dei loro coetanei bianchi; di fronte al persistere delle discriminazioni in materia di alloggi, per cui i migranti sono “confinati” in luoghi riservati agli strati inferiori delle classi subalterne (questa segregazione è così intensa che la maggioranza assoluta dei nuovi migranti vive in una trentina di quartieri dell’Ile de France), tracciando le frontiere di quella che Bouamama definisce “la linea del colore”; di fronte al fatto che anche i figli dei migranti che riescono ad accedere ai livelli di educazione più elevati faticano a ottenere lavori adeguati al grado di istruzione raggiunto. Di fronte a tutto ciò, viene costruita la narrazione dell’incompatibilità di questi soggetti con l’ambiente culturale di adozione. Costoro, si argomenta, non sono discriminati, bensì, nella misura in cui scelgono di aggregarsi in comunità culturalmente omogenee, danno vita a un “separatismo delle minoranze” che rifiutano di integrarsi nella nazione che li ospita. Questo “comunitarismo” che altro non è, scrive Bouamama, che il prodotto sociale delle discriminazioni, viene così trasformato in scelta consapevole e in caratteristica culturale.
La spiegazione “culturalista” tende proiettare un’immagine omogenea di gruppi sociali anche profondamente diversi fra loro, a offrirne una rappresentazione antistorica che rimuove completamente le interazioni ambientali a cui sono esposti. Le popolazioni delle banlieues divengono oggetto di una rappresentazione “neo-orientalista” (11) che si riferisce in particolare alla religione islamica. E il modo in cui viene affrontata la questione islamica, è un sintomo della tendenza – tipica dell’attuale fase avanzata della mondializzazione – ad attribuire al razzismo culturalista una connotazione “civilazionista”, dove il riferimento è, ovviamente, alla tesi dello “scontro di civiltà” formulata da Samuel Huntington (12).
Il discorso di Huntington è fin troppo noto perché sia necessario spendervi più di poche battute riassuntive. Il politologo americano è il guru di una nuova guerra fredda che, diversamente da quella economica, politica e ideologica che ha opposto Stati Uniti e Unione Sovietica fino alla caduta del socialismo in Russia, assumerebbe oggi la forma di uno scontro fra valori di civiltà. Da un lato la civiltà liberal democratica dell’Occidente“cristiano” (l’aggettivo merita di essere messo fra virgolette in quanto i valori evocati sono soprattutto quelli delle sette protestanti angloamericane), dall’altro le civiltà confuciana islamica, cristiano ortodossa, cattolico “ispanica”, tanto diverse fra loro quanto unificate dal rifiuto dei valori occidentali. Huntington ignora la complessità di queste tradizioni quanto le loro differenze omogeneizzandole e presentandole come altrettanti blocchi monolitici. Ecco perché le sue tesi hanno svolto un ruolo determinante per trasformare l’immagine dei migranti post coloniali in Francia – in maggioranza musulmani – da classi pericolose in veri e propri nemici interni.
Questa operazione è ovviamente in conflitto con gli interessi delle élite borghesi francesi che non possono fare a meno della forza lavoro degli immigrati. Tuttavia, a mano a mano che le seconde e terze generazioni, esasperate dal perpetuarsi della propria condizione di emarginati anche dopo la “promozione” a cittadini della Repubblica, hanno iniziato a radicalizzare le loro rivendicazioni economiche, sociali e politiche, e le banlieues sono diventate terreno di scontro violento al pari dei ghetti afroamericani negli Stati Uniti, anche il discorso del potere si è radicalizzato, facendo propri i discorsi della destra fascista e razzista.
In questo modo la logica culturalista e “integrazionista”, che ha sempre guidato le politiche governative nei confronti dei migranti, è divenuta sempre più simile a quella applicata in Algeria e nella altre colonie prima della loro emancipazione: l’integrazione ha assunto il carattere di una versione eufemistica dell'assimilazione dei popoli colonizzati, e lo scontro sociale trasfigurato in scontro di civiltà ha assunto forme sempre più simili a quelle delle guerre coloniali. Si è iniziato a parlare di “soglia di tolleranza”: così come il corpo umano può tollerare solo una certa quantità di determinate sostanze, il corpo sociale sarebbe in grado di tollerare solo una certa quantità di migranti (si sottintende di migranti di religione musulmana, nel senso che il discorso non viene applicato ai migranti di origine est europea). Si ricorre al concetto di “crisi” migratoria, per evocare l’immagine di uno squilibrio demografico brusco e pericoloso: torna il fantasma, già evocato nell’Ottocento a proposito dell’immigrazione italiana, della “sostituzione” della popolazione autoctona o almeno della “corruzione” dei suoi valori civili e culturali.
L’islamofobia, alimentata dai media e dalle campagne elettorali delle destre, partorisce il fantasma di un presunto islamo-gauchismo (alimentato dal fatto che le sinistre difendono le ragioni sociali e politiche delle minoranze migranti). Gli islamo-gauchisti sono presentati come una sorta di quinta colonna di un nemico interno ed esterno al tempo stesso, riproponendo paradossalmente lo stereotipo del “bolscevismo giudaico” agitato fra le due Guerre mondiali (paradossalmente perché oggi Israele è parte integrante del blocco bianco-occidentale e la propaganda filo-palestinese è considerata espressione tipica della cultura islamo-gauchista). Infine i raggruppamenti “comunitari” dei migranti nelle banlieues in cui vengono confinati (vedi sopra) sono rappresentanti come aree sottratte alla sovranità repubblicana, nei confronti delle quali è necessario procedere a una “riconquista territoriale”.
È soprattutto quest’ultima narrazione a legittimare una progressiva militarizzazione delle forze di polizia e delle armi a loro disposizione, un fenomeno che ha attribuito alle operazioni repressive il carattere di una vera propria guerra interna sul modello di quella combattuta in Algeria. Una evoluzione favorita dalla crescente penetrazione di quadri di estrema destra nelle forze di polizia, sul modello di quanto era accaduto nel dopoguerra, con la permanenza al loro interno di quadri del regime fascista e con l’arruolamento di ex coloni e combattenti della guerra coloniale. In conclusione: il razzismo “culturalista”, nato per evitare il riproporsi degli squalificati pregiudizi del razzismo biologico, ha partorito il mostro di una guerra coloniale combattuta sul territorio della metropoli.
Avvertenza finale: questo articolo non prevede una conclusione, in quanto mi riservo di scriverne una relativa a tutte e tre le puntate del trittico africano inaugurato dal testo che avete appena finito di leggere.
(
Nessun commento:
Posta un commento