Lettori fissi

martedì 30 marzo 2021


GLOSSE SULLA “ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE“ DI LUKACS (III)





4. L’ideologia come forza materiale 

Questa sezione propone un estratto delle riflessioni lukacsiane sull’ideologia come forza trasformativa della realtà sociale, tema cui l’ Ontologia dedica ampio spazio. Per comodità espositiva, ho raggruppato il materiale in quattro sotto-sezioni dedicate, rispettivamente, al doppio significato del termine ideologia, all’ideologia come strumento rivoluzionario, al diritto e alla religione. 


a) Il doppio significato del termine ideologia 

Lukacs inizia il terzo capitolo del quarto volume citando Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce di Antonio Gramsci (1), a proposito del quale scrive: Gramsci parla di un doppio significato del termine ideologia. Nel suo interessante discorso non possiamo però non rilevare una carenza, e cioè che egli contrappone la sovrastruttura necessaria soltanto alle idee arbitrarie di singole persone. Ciò nondimeno ha il merito di aver messo in evidenza il doppio significato che sta sempre nello sfondo di questo importantissimo termine. Ma purtroppo cade subito vittima di una astrazione convenzionale. Da un lato è certamente vero che i marxisti intendono con ideologia la sovrastruttura ideale che necessariamente sorge da una base economica, ma dall’altro è fuorviante interpretare il concetto peggiorativo di ideologia, che rappresenta una realtà sociale indubbiamente esistente, come un’arbitraria elucubrazione di singole persone (vol. IV, p. 445).  Dopodiché motiva la critica affermando che se un pensiero resta espressione ideale di un singolo non può essere definito come un’ideologia, né una sua più ampia diffusione basta a renderlo tale. Perché ciò possa avvenire, esso deve svolgere una funzione sociale ben determinata. Ciò stabilito aggiunge: diventa subito chiaro che cosa in termini ontologici collega i due concetti di ideologia citati da Gramsci. L’ideologia è anzitutto quella forma di elaborazione ideale della realtà che serve a rendere consapevole e capace di agire la prassi sociale degli uomini. Deriva da qui la necessità e l’universalità di taluni modi di vedere per dominare i conflitti dell’essere sociale. Ne consegue: che ogni reazione degli uomini al loro ambiente economico sociale può in determinate circostanze diventare ideologia (vol. IV, p. 446). Una volta che abbia assunto tale forma, tuttavia, tanto il suo contenuto quanto la sua forma conservano segni incancellabili della sua genesi. Che tali segni appaiono evidenti, o impercettibili, dipende da quale funzione svolgono nei conflitti sociali, dal momento che l’ideologia è anche e soprattutto uno strumento della lotta sociale che caratterizza ogni società (ed è in queste lotte che) acquista anche il significato peggiorativo divenuto storicamente tanto importante (vol. IV, p. 447).

Poche pagine dopo, Lukacs approfondisce la questione della genesi delle ideologie associandola all'esistenza di differenti gruppi sociali, i quali condividono interessi comuni contrapposti a quelli di altri gruppi: In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle ideologie, giacché questi conflitti si possono dirimere con efficacia nella società solo quando i membri dell’un gruppo  riescono a persuadere se stessi che i loro interessi vitali coincidono con  gli interessi importanti della società nel suo intero (vol. IV, pp. 452-453). La genesi in  questione, dunque, presuppone strutture sociali in cui operino gruppi diversi e interessi contrapposti che tendono a opporsi come interesse generale dell’intera società. Insomma: la nascita e la diffusione delle ideologie sono il connotato generale della società di classe (vol. IV, p. 453). 

A questo punto è chiaro il motivo per cui Lukacs non può condividere l’approccio che identifica l’ideologia negativa con le espressioni ideali dei singoli: l’ideologia è tale nella misura in cui fonda la pretesa secondo cui gli interessi di un gruppo sociale, in conflitto con altri gruppi sociali, rappresenterebbero gli interessi dell’intera società. In effetti, tale pretesa riesce a imporsi se e quando l’ideologia in questione è quella della classe dominante, nella misura in cui, scrive Lukacs citando L’Ideologia tedesca di Marx, <<Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante>> (2). Infine, per concludere su questo argomento, vale la pena richiamare quest’altro passaggio: L’imposizione intransigente dell’interesse globale della classe dominante può benissimo trovarsi in contrasto con molti interessi di persone che appartengono a quella medesima classe (vol. III, p. 209). Questi ultimi possono opporsi agli interessi globali della propria classe ma, finché la loro posizione resta isolata e individuale, non si può parlare di ideologia. 

Lukacs affronta il tema dell’ideologia in quanto forza materiale che svolge un ruolo cruciale nel conflitto di classe anche da altri punti di vista, in particolare laddove analizza il rapporto fra teoria e ideologia. In un passaggio che potremmo definire una  glossa al detto marxiano “i filosofi finora hanno solo interpretato il mondo ma si tratta di cambiarlo”, Lukacs scrive: una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per quello strato sociale anche un’ideologia efficace (vol. I, p. 245). E altrove specifica, più icasticamente, che la teoria diventa una forza materiale quando si impadronisce delle masse (vol. IV, p. 529). Inutile aggiungere che, per impadronirsi delle masse, deve essere “tradotta” in discorso ideologico. La necessità di tale trasposizione è conseguenza della forma stessa che ogni agire orientato allo scopo – alla trasformazione della realtà - tende inevitabilmente ad assumere: Il momento determinante immediato di ogni azione intenzionata non può non presentarsi come dover-essere, non fosse altro perché ogni passo avanti nella realizzazione viene deciso stabilendo se e come esso favorisca il raggiungimento del fine (vol. III, p. 71). Il fine è nella coscienza (nel momento ideale) prima della sua realizzazione (come si vede, per Lukacs il modello di ogni agire teleologico resta il lavoro – vedi sezione I) e nel processo che vi conduce ogni passo, ogni movimento viene guidato dalla posizione del fine (ivi). Da tutto quanto fin qui esposto deriva che, a determinare il carattere positivo o negativo dell’ideologia, è in ultima istanza la natura del fine verso il quale essa indirizza l’azione, cioè il fatto se tale fine coincide con gli interessi di coloro che lottano per emanciparsi dal dominio, o con quelli di coloro che lo vogliono difendere.

In una folgorante pagina situata nella parte finale del quarto volume, Lukacs ricorda poi che le classi dominanti dell’Occidente post fascista (non senza la complicità, vale la pena di sottolineare, delle sinistre socialdemocratiche) sono riuscite a trasformare il rifiuto dell’ideologia fascista in rifiuto dell’ideologia tout court, per cui ogni ideologia, ogni tentativo di dirimere conflitti sociali con l’ausilio di ideologie risulta a priori sotto accusa (…) non ci sono più veri conflitti, non c’è più campo di manovra per le ideologie: le differenze sono soltanto <<pratiche>> e quindi regolabili <<praticamente>> con accordi razionali, compromessi ecc. La deideologizzazione significa perciò illimitata manipolabilità e manipolazione dell’intera vita umana (vol. IV, p. 770). 

Ironia vuole, aggiunge Lukacs qualche riga sotto, che questa deideologizzazione in ultima analisi non possa sussistere senza una ideologia: quella della libertà come <<salvifico>> valore-chiave per tutte le questioni della vita. Lukacs definisce “conformismo non conformistico” la critica puramente teorica nei confronti di questa “ideologia dell’anti ideologia”, cioè la critica di quegli intellettuali che temono di essere a loro volta accusati “di fare dell’ideologia”, atteggiamento che descrive come il comportamento adottato da quello strato relativamente ampio di individui nel quale il disagio di fronte ai poteri dominanti comincia già a svilupparsi in inizi di rifiuto teorico, ma che usa esprimere questo suo intendimento (…) in forme che non vogliono né possono in alcun modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo. Questi conformisti non-conformistici, perciò, nonostante le manifestazioni pubbliche verbalmente di forte critica e addirittura di opposizione, rimangono di fatto apprezzati collaboratori della manipolazione universale (vol. IV, p. 782). 


Lukacs durante la rivoluzione ungherese del 1919 



b) Ideologia e rivoluzione

Un tratto distintivo della concezione lukacsiana del processo rivoluzionario è la convinzione che la rivoluzione, per quanto radicale sia, non segna mai una discontinuità totale e assoluta nella vita dell’essere sociale: L’atto più risolutamente rivoluzionario è nel suo contenuto, nelle sue forme, nella sua specifica qualità, legato con mille fili alla continuità storica oggettiva, nasce dalle possibilità oggettive di questa (vol. III, p. 264). Il che non significa che la sua posizione sia “oggettivista”, ma significa piuttosto che – e qui Lukacs cita Lenin definendolo “il grande teorico del fattore soggettivo” - che le situazioni rivoluzionarie si verificano <<quando gli “strati inferiori” non vogliono più il passato e gli “strati superiori” non possono più vivere come in passato>> (3). 

Questa contrapposizione fra volere e potere, chiosa Lukacs, esprime anzitutto il modo opposto di presentarsi da parte della prassi politica ai suoi due poli, in quanto alla classe dominante basta la riproduzione normale, anzi la riproduzione non troppo anormale della vita per mantenere in piedi lo status quo, mentre gli oppressi hanno bisogno di un energico e unitario atto di volontà (vol. IV, pp. 503/504). Questo punto di vista implica due convinzioni: 1) che nessun dominio crolla da se stesso perché in politica non vi sono mai situazioni assolutamente senza vie di uscita, e ciò implica ovviamente anche il contrario, vale a dire che non sono mai possibili soluzioni favorevoli automatiche; 2) che l’essere sociale non si trasforma semplicemente ma viene sempre trasformato, perché lo sviluppo economico può bensì creare situazioni oggettivamente rivoluzionarie, ma non produce affatto insieme ad esse obbligatoriamente il fattore soggettivo che nei fatti e nella pratica è determinante (ivi). 

Queste considerazioni – che Lukacs prende ancora in prestito da Lenin – ci aiutano a compiere ulteriori passi avanti nella comprensione del ruolo del fattore soggettivo (ideologico) nel processo rivoluzionario. In primo luogo, non dev’essere sottovalutato il ruolo dei singoli: quella che Marx chiama “la classe per sé”, scrive Lukacs, si costituisce solo nella lotta, ma la genesi immediata di quest’ultima  non può essere compresa senza la continua presenza di decisioni alternative di singoli uomini (vol. I, p. 62). Anche se altrove precisa che da ciò non deriva alcun “irrazionalismo storico”, nessun <<caos>>, dove soltanto il <<genio>> riesce a trovare la giusta via. Infatti le divergenze, le contraddizioni, le incertezze che non possono mancare nel fattore soggettivo sono anch’esse, tutte e sempre, condizionate causalmente e quindi possono venir interpretate – almeno post festumin termini perfettamente razionali (vol. III, p. 505). 

Secondariamente, occorre tenere presente, sul lato del fattore oggettivo, che un tratto essenziale delle situazioni rivoluzionarie consiste nel semplificare, ridurre a sintesi, generalizzare, in specie nei momenti alti, le alternative umano sociali. Mentre nella quotidianità normale ciascuna decisione che non sia ancora divenuta completa routine viene presa in una atmosfera di innumerevoli <<se>> e ><ma>> (…) nelle situazioni rivoluzionarie, e spesso già nei processi che le preparano, questa cattiva infinità di questioni singole si condensa in poche decisioni centrali, che però si presentano alla grande maggioranza degli uomini come problemi che segnano il destino della loro vita (vol. IV, p. 506). 

Infine, è proprio sulla capacità di sfruttare tale semplificazione che si misura la genialità d’un leader rivoluzionario. La parola d’ordine <<terra e pace>>, che giocò un ruolo decisivo della rivoluzione del 1917, era apparentemente “banale”, nel senso che, in teoria, appariva realizzabile anche nella società borghese,  la genialità politica di Lenin, però, consisté nel vedere la contraddizione per cui esse, da un lato, rappresentavano una aspirazione irreprimibile e appassionata di larghissime masse, dall’altro per la borghesia russa erano in pratica inaccettabili e in quelle date circostanze non potevano trovare appoggio, anzi neppure un’accoglienza passiva, neanche fra i partiti piccolo-borghesi. Cosicché finalità politiche che in sé non dovevano obbligatoriamente abbattere la società borghese, diventavano un materiale esplosivo, il veicolo per produrre una situazione nella quale la rivoluzione socialista poté essere attuata con successo  (vol. IV, p. 486). 





Non va tuttavia dimenticato che l’esito positivo del processo rivoluzionario non sarebbe stato possibile se, oltre alla genialità di Lenin,  il quale seppe cogliere e sfruttare una contraddizione che la borghesia russa non era oggettivamente in grado di risolvere, non vi fosse stato il processo di costruzione organizzativa e ideologica che consentì di forgiare il partito bolscevico come avanguardia cosciente della lotta di classe. Questa costruzione è potuta avvenire solo perché Lenin – e più in generale la direzione del partito – non delimitava, diversamente dagli ideologi economisti e tradeunionisti, la lotta di classe agli antagonismi diretti fra borghesia e proletariato, bensì era consapevole che si dà una genuina coscienza di classe proletaria, solo laddove venga alla luce consapevolmente la priorità del politico (vol. IV, p. 502). Quindi Lukacs cita la seguente, celeberrima frase di Lenin: <<la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti fra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi>> (4). 


c) Ideologia e diritto

Affrontando la questione del diritto Lukacs distingue fra due livelli: quello del diritto come specifico complesso (sistema o struttura, secondo altri linguaggi disciplinari) della totalità dell’essere sociale (che, come si è visto, descrive come “complesso di complessi”); e quello della “giustizia” come valore ideologico (borghese). Partiamo dal primo. La genesi del diritto, sostiene Lukacs, va messa in relazione con il superamento della fase di sviluppo dell’essere sociale in cui gli antagonismi possono ancora essere risolti con l’uso diretto della forza: man mano che l’essere sociale va socializzandosi, il dominio della mera forza si attenua, anche se non scompare mai del tutto nella società di classe (…) A questo punto deve prendere il sopravvento quella complicata unità di forza scoperta e forza mascherata, rivestita dei panni della legge, che prende figura nella sfera giuridica. Per offrire un’immagine metaforica di questa transizione di fase storica, Lukacs cita la frase di Talleyrand con le baionette si può far tutto, meno che starci seduti sopra (vol. III, p. 207).


Talleyrand



L’enfasi originaria che accompagna la genesi del diritto – la “maestà” della legge - si indebolisce a mano a mano che esso si trasforma nel normale e prosaico regolatore della vita quotidiana, allorché divengono prevalenti gli elementi manipolatori del “diritto positivo”: Il diritto diviene così una sfera della vita sociale dove le conseguenze degli atti, le possibilità di riuscita, i rischi di perdite sono calcolati in modo analogo a quel che accade nel mondo economico (vol. III, p. 212). Detto altrimenti: l’essenza ideologica della giustizia come prestazione del sistema giuridico viene alla luce quanto più la prassi giuridica si allontana dalle sue origini intrise di violenza, cioè quanto più assume forma economica. È a questo punto che arriviamo a comprendere che <<Il diritto non è che il riconoscimento ufficiale del fatto>> (citazione da Marx) cioè a dire il riconoscimento della priorità ontologica dell’economico (vol. III, p. 213). 

Le tracce della genesi violenta del diritto, della sua stretta relazione con il dominio di classe, si attenuano senza mai sparire del tutto. Il loro indebolimento può alimentare il sogno dei sottoposti di ottenere giustizia ma, fintanto che il sogno viene inteso in termini giuridici, non può situarsi oltre una concezione in definitiva economica dell’eguaglianza (vol. III, p. 218). Il diritto non sfugge quindi all’indissolubile intreccio fra dimensione economica e dimensione extraeconomica, che caratterizza la totalità dell’essere sociale. E ciò appare chiaramente nella relazione di compravendita della forza-lavoro. Dalla specifica qualità della merce forza lavoro (che Marx identifica con il fatto che il suo valore d’uso consiste nel generare plusvalore) deriva la presenza continua di momenti extraeconomici nella realizzazione della legge del valore anche nella compravendita normale di questa merce. Così il compratore (il capitalista) rivendica il proprio diritto a prolungare quanto più possibile la giornata lavorativa, mentre il venditore (il lavoratore) rivendica il proprio diritto a limitarne la durata: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti uguali decide la forza (vol. III, p. 291). Qui la genesi violenta del diritto non riemerge malgrado la sua conversione nelle leggi dell’economia, bensì in ragione di tale conversione. 

Infine Lukacs mette in luce il fatto che la critica marxiana nei confronti nella concezione giuridico borghese dell’uguaglianza si estende al di là della stessa società capitalista, per investire la fase iniziale del socialismo, come emerge da questa citazione della Critica al Programma di Gotha (5): <<Questo diritto uguale è un diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, per suo contenuto un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto>>. Anche dopo l’espropriazione degli sfruttatori, commenta Lukacs, il diritto uguale resta in sostanza un diritto borghese (vol. III, pp. 218/219). 

Non è possibile concludere questa sotto sezione senza accennare al tema dei diritti dell’uomo. Nelle Glosse ci occuperemo della dimensione esorbitante che la questione è venuta assumendo in questa fase storica, a mano a mano che diviene l’arma strategica della guerra dell’Occidente capitalistico contro i Paesi socialisti, e contro tutte le nazioni che non compiono atto di sottomissione al suo dominio. Per Lukacs il concetto nasce dalla separazione fra il citoyen e l’homme: i diritti dell’uomo che si presentano nelle costituzioni delle rivoluzioni borghesi, scrive, sono appunto i diritti del homme, che ne sanciscono la separazione e l’autonomia dalla sfera dello Stato, della società, della politica, offrendo all’uomo la piena libertà di estraniarsi a suo arbitrio sul piano sociale e naturalmente anche su quello ideologico (vol. IV, p. 623). Una libertà che Marx definisce così: <<Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità>>. (6)





d) Ideologia e religione

Nel IV volume dell’Ontologia Lukacs dedica ampio spazio al tema della religione. Qui mi limiterò a evocare sinteticamente tre momenti di questa complessa elaborazione: la religione come fattore della prassi sociale reale; l’illusorietà dell’idea illuminista secondo cui il progredire delle conoscenze scientifiche dovrebbe inevitabilmente emancipare l’uomo dalle credenze religiose; la dialettica fra chiese e movimenti settari. Partiamo dal primo aspetto. Dopo un passaggio in cui afferma che l’arte e la filosofia sono le forme più pure dell’ideologia in quanto non intendono e non possono esercitare alcuna azione diretta sull’economia e sulle strutture sociali con essa collegate, indispensabili per la sua riproduzione sociale, Lukacs prende le distanze da Hegel, il quale le associa alla religione laddove tratta dello spirito assoluto: Noi qui invece la lasceremo da parte, perché essa come fattore della realtà sociale non è mai stata e non è una pura ideologia nel senso ora detto, ma rappresenta anche e soprattutto un fattore diretto della prassi sociale reale degli uomini. E poche righe più in basso, la definisce una forma intermedia sintetica fra la politica e la filosofia (vol. IV, p. 518). Dopodiché motiva questa importanza accordata al fattore religioso nella concreta esperienza umana con la obiettiva difficoltà di controllare le conseguenze impreviste - e imprevedibili in linea di principio – dell’agire teleologico: La prassi quotidiana è sempre avvolta da una cerchia di ignoto che è impossibile padroneggiare completamente. Quale meraviglia, allora, se in questa situazione che varia di continuo sul piano qualitativo e quantitativo, ma che resta costante per il suo tratto di fondo, nella vita degli uomini – nell’immediatezza della quotidianità – la trascendenza coesiste con l’immanenza dell’ambiente conoscibile e viene sentita come realtà in ultima istanza decisiva? (vol. IV, p. 637). 

Ma se il bisogno sociale della religione è relativamente semplice da spiegare, non va dimenticato che nessuna religione socialmente davvero attiva può mai essere un’ideologia a sé, interiormente ben differenziata, come per esempio il diritto e la morale. Piuttosto essa deve costituirsi in una entità complicata, assai articolata e multiforme, per gettare un ponte fra i particolarissimi interessi singoli degli uomini quotidiani e i grandi bisogni ideali di quella data società nella interezza del suo essere-in-sé (vol. IV, p. 672). Dal che si comprende il motivo della definizione della religione come “forma intermedia sintetica fra la politica e la filosofia”; concetto che viene ribadito nel seguente passaggio: Ogni religione comprende in sé tutti i contenuti che in una società normale sono di solito presenti nel sistema complessivo della sovrastruttura, nell’insieme delle ideologie (vol. IV, p. 673)

Questa sua proprietà di lanciare un ponte fra vita particolare del singolo e questioni generali della società, aggiunge tuttavia Lukacs poche righe sotto, non dovrebbe mai farci dimenticare che tali finalità della vita quotidiana sono, nel loro contenuto, mondane, terrene. Nessuna persona desidererebbe mettere in moto delle potenze trascendenti (cioè non crederebbe alla loro esistenza) se non sperasse di ricevere da loro un aiuto per le sue finalità terrene (vol. IV, p. 672). Questa considerazione può suonare scontata e vagamente banale,  ma appare meno banale ove si consideri che questa relazione di do ut des rispecchia una forma consolidata nella totalità delle relazioni sociali: nel cristianesimo, si chiede Lukacs, che altro è la salvezza dell’anima, se non un – pur spiritualizzato – valore di scambio (vol. IV, p. 659).  

È per questo radicamento materiale nelle concrete esigenze e aspettative della vita quotidiana, che la fede non può essere indebolita dalla vita mondana di quegli aderenti a una Chiesa che può anche sembrare un arbitrario non senso nell’ottica dei veri credenti. Ciò perché resta comunque il fatto che un comportamento che sia divenuto sociale non può rimanere in vigore e funzionare in nessuna società – religiosa o laica – se esso in qualche modo, magari con motivazioni distorte, non soddisfi un bisogno sociale reale (vol. IV, p. 631). A maggior ragione - e qui siamo al secondo dei punti anticipati – è priva di qualsiasi fondamento l’aspettativa che la religione debba ritrarsi dal mondo a mano a mano che in esso cresce il livello delle conoscenze scientifiche: quantunque il processo di incivilimento produca di continuo conoscenze nuove intorno alla natura e alla società, cadrebbe di nuovo vittima delle illusioni illuministiche chi pensasse che esse di per sé costituiscano delle armi spirituali contro le estraniazioni, anche contro quella religiosa. Si potrebbe quasi affermare che avviene il contrario (vol. IV, p. 643). 

Quest’ultima affermazione, apparentemente paradossale, si spiega con la complessa analisi storica che Lukacs dedica all’evoluzione del rapporto fra scienza e religione, a partire da quello che definisce il “compromesso bellarminiano”, in ragione del quale il cardinale Bellarmini avrebbe risparmiato Galileo in virtù di un tacito accordo che, mentre concede alla scienza la conoscenza della realtà, ridotta alla mera utilità pragmatica e dunque privata di ogni valenza ontologica, conferma la validità ontologica delle verità della teologia. Un compromesso, argomenta Lukacs, che è stato ulteriormente consolidato da quella svolta neopositivista in campo epistemologico che nega qualsiasi interesse scientifico agli interrogativi “metafisici” sulla realtà (7). 

Passiamo all’ultimo punto che intendo affrontare in questa sotto sezione, vale a dire al rapporto fra chiese e sette. L’elemento politico che distingue la religione dall’arte e dalla filosofia, sostiene Lukacs, consiste nel fatto che la prima, a differenza delle seconde, si dota di strumenti organizzativi attraverso i quali esercita un potere temporale oltre che spirituale. Ciò che distingue le sette dalle chiese è il fatto che esse percepiscono questi apparati di potere, ma soprattutto il loro situarsi oltre il limite di un’azione solo morale, come contrari all’essenza stessa della religione (vol. IV, p. 519). Lukacs approfondisce e articola così – in un passaggio che richiama certe argomentazioni di Max Weber (8) - questa differenza: posto che setta e religione si fondano entrambe sulla fede in una verità rivelata, la loro diversità  consiste semplicemente nel fatto che le sette sono legate all’immediatezza, all’azione permanente e profonda delle loro dottrine sulla vita personale, per cui riconoscono come propri membri soltanto coloro che accolgono senza riserve le loro dottrine, facendone il filo conduttore della propria vita. Viceversa la religione divenuta chiesa, nella misura in cui punta a una propria diffusione universale per un verso deve organizzare oggettivamente l’appartenenza ad essa mediante istituzioni, per l’altro è costretta (…) a fare di continuo grosse concessioni ai propri aderenti nel campo della fede e soprattutto nella condotta di vita (vol. IV, p. 674). 

Uno degli esempi storici concreti di queste logiche contrapposte, secondo Lukacs, coincide con l’evoluzione storica dal cristianesimo originario al cristianesimo istituzionalizzato, evoluzione in ragione della quale la religione cristiana perde la sua carica “sovversiva”, associata all’attesa della parusia come evento imminente, per convertirsi in una istituzione interclassista e universalista: le speranze sociali degli strati inferiori erano legate alla vicinanza della parusia per cui è evidente come solo lo spostamento all’infinito della sua data potesse garantire il predominio nella religione di un orientamento che li staccava dalla sovversione sociale. Con ciò, naturalmente, si attenuava anche l’originario settarismo plebeo, per far posto a un più organizzato modus vivendi con i proprietari (vol. IV, p. 676). 

Per inciso, Lukacs rimprovera alla critica marxista della religione l’avere trascurato questo originario potenziale sovversivo (senza dimenticare, aggiungerei, il suo periodico ripresentarsi in forme rinnovate). La vitalità e il fascino che la figura di Gesù è riuscita a esercitare nel corso dei millenni è frutto della capacità di evocare tale potenziale. Al tempo stesso, nella vitalità di questa immagine, scrive Lukacs, si esprime il carattere duplice della religiosità settaria: insieme la sua forza e la sua debolezza. La forza deriva dal fatto che le sette autentiche, capaci di muovere e spesso di scuotere a fondo la società, si basano sulle contraddizioni reali che mettono in forte movimento gruppi alquanto estesi fra le persone più avvertite e cercano per essi una via d’uscita degna dell’uomo (…) Di qui, come plasticamente appare nell’opera di Gesù, il loro orientamento in prevalenza plebeo (vol. IV, p. 681).  


Glosse alla quarta sezione. 

Non so fino a che punto la critica di Lukacs alla formulazione gramsciana del concetto di ideologia sia giustificata. Certamente il tema meriterebbe un approfondimento che, tuttavia,  va oltre gli scopi di questa riflessione. Ciò che mi pare chiaro è che la versione che Lukacs ci offre del concetto appare ancora più radicale ed “eretica” rispetto a quella del marxismo volgare, nel senso che, se si accetta il suo punto di vista, l’ideologia non può in alcun modo essere ricondotta a mera “illusione”, a una sorta di travestimento puramente ideale, intessuto di parole e immagini, che sottrae allo sguardo la cruda realtà fattuale dell’economico, dei rapporti di produzione. Nella misura in cui il processo di socializzazione avanza, emancipandosi dalla determinazione immediata da parte delle esigenze del processo di riproduzione dell’essere sociale (che tuttavia non perdono mai il ruolo di elemento soverchiante in ultima istanza), sorgono bisogni sociali che devono essere risolti tramite la costruzione di sovrastrutture ad hoc le quali svolgono precise funzioni riproduttive di tipo materiale, non si limitano cioè ad assolvere esigenze puramente ideali. 

Ancora più importante mi pare il criterio che Lukacs adotta per distinguere fra il significato positivo e quello negativo del concetto. Per fissare tale confine (mai definibile a priori ma sempre storicamente determinato, a partire dall’analisi concreta di una specifica fase di sviluppo dell’essere sociale) Lukacs ci riconduce alla genesi del fattore ideologico in quanto prodotto dell’articolazione dell’essere sociale in gruppi portatori di interessi in conflitto reciproco. Una volta superata la fase in cui il conflitto si risolve con la violenza, a partire cioè dal momento in cui la complessità delle relazioni sociali impone di elaborare nuovi modi per gestirlo, emerge l’elemento ideologico, il quale si manifesta come auto convinzione della classe dominante che i suoi interessi coincidono con quelli della società intera. L’ideologia rivela quindi fin dalle origini la sua natura di strumento indispensabile della lotta di classe, e la sua caratterizzazione positiva e negativa riflette tale essenza, nella misura in cui dipende da quali sono gli interessi di classe che esprime: serve alla conservazione dello status quo o al suo superamento verso una fase superiore dello sviluppo dell’essere sociale? La lotta ideologica – che in termini gramsciani si declina come lotta per l’egemonia – è quindi direttamente e materialmente lotta di classe. 

Come abbiamo visto, il discorso vale anche per la teoria. Il richiamo alla celebre tesi marxiana su Feuerbach – finora i filosofi hanno interpretato il mondo si tratta ora di cambiarlo – va di pari passo con l’insistenza con cui Lukacs caratterizza il marxismo come filosofia della prassi (vedi la prima sezione), facendoci capire che, dal suo punto di vista, la teoria serve solo se e quando la classe se ne impadronisce, facendone una propria arma di lotta, cioè solo se e quando essa si converte in forza materiale al servizio delle masse. Il che, come già detto,  può avvenire solo nella misura in cui si fa essa stessa ideologia. 

Passando dalla prima alla seconda sottosezione, abbiamo visto come Lukacs, nell’affrontare questi temi, segua un filo rosso che conduce direttamente da Marx a Lenin, senza indulgere ai distinguo che altri filosofi marxisti hanno voluto stabilire fra questi due “classici” del pensiero rivoluzionario. Lukacs segue quasi pedissequamente la lezione delle opere fondamentali di Lenin, dimostrando, da un lato, l’inconsistenza delle letture “soggettiviste” del suo pensiero,  tipiche di chi si limita ad esaltarne - come anche Lukacs non manca di fare nella pagine che stiamo commentando - il genio rivoluzionario, senza tenere conto delle rigide condizioni oggettive che lo stesso Lenin giudicava indispensabili per poter parlare di situazione rivoluzionaria; ma dimostrando anche, dall’altro lato, come nel modo stesso in cui egli descriveva tali condizioni – la compresenza fra la volontà di cambiamento delle classi inferiori e la impossibilità di mantenere lo status quo di quelle superiori – fosse già inscritta la necessità del fattore attivo, soggettivo, il quale si esprime necessariamente attraverso la elaborazione di un discorso ideologico. 

Discorso che, per scatenare la sua forza materiale di trasformazione dell’esistente, deve tuttavia a sua volta incarnarsi in organizzazione. È facile prevedere quanto indigesta appaia l’adesione lukacsiana alla concezione leninista del partito come coscienza politica trasportata alla classe dall’esterno, in un’epoca come quella attuale, nella quale anche le sinistre “radicali” rifiutano qualsiasi visione gerarchica dell’organizzazione politica, se non del politico in generale, e in particolare della sua concrezione in potere (9). Eppure è evidente come Lukacs non possa non aderire a tale concezione, visto che il modo in cui Lenin descrive l’esterno in questione – cioè il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo – coincide con la sua idea della totalità dell’essere sociale come “complesso di complessi”, e della lotta ideologica come sforzo di presentare gli interessi di classe come interessi della società intera. Per inciso questo è lo stesso motivo per cui il pensiero di Gramsci, in barba a tutte le sue letture post strutturaliste, post coloniali ecc. resta irrimediabilmente leninista: i concetti gramsciani di egemonia e blocco sociale, infatti, alludono precisamente a questa capacità dell’ideologia rivoluzionaria di divenire egemone nei confronti della totalità del corpo sociale, e lo strumento di tale capacità è il partito, come Gramsci ribadisce in più occasioni nei Quaderni  (10). 





Posto che difendere la concezione leninista – ma anche lukacsiana e gramsciana – del partito non comporta la riproposizione dogmatica delle particolari forme organizzative che esso ha assunto storicamente (le stesse funzioni possono essere svolte da strutture organizzative più efficaci in un contesto storico, socioeconomico e culturale radicalmente cambiato come l’attuale), resta la profonda differenza fra quella concezione e la visione “orizzontalista” della politica che caratterizza le sinistre occidentali contemporanee, la quale ha dimostrato in ogni occasione la sua assoluta incapacità di incidere sui rapporti di forza fra le classi sociali.  

Restando in tema di pensiero e ideologia “deboli”, credo valga la pena di insistere sulla critica del processo di “deideologizzazione” che, nato nel secondo dopoguerra e dilagato dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ha provocato il trionfo di quella paradossale “ideologia dell’anti ideologia” che, come nota Lukacs, si regge in realtà su un’ideologia “forte”, in quanto eletta a pensiero unico e universalmente condivisa, vale a dire sulla esaltazione della “libertà” come salvifico valore chiave per tutte le questioni della vita. Un sintomo inquietante del salto di qualità che il processo di deideologizzazione ha compiuto in tempi recenti è stata la scandalosa approvazione – che ha incontrato scarsa opposizione – di una risoluzione del parlamento europeo che equipara fascismo e comunismo. 

Questa incredibile falsificazione della realtà storica sarebbe apparsa inconcepibile ancora vent’anni fa, eppure si tratta del coronamento  di un processo iniziato – come giustamente sottolinea Lukacs – subito dopo la Seconda guerra mondiale. Il primo passo è consistito nella solenne condanna dell’ideologia nazifascista celebrata a Norimberga, un processo ai crimini di guerra dei vinti celebrato dai vincitori (che nel contempo si assolvevano implicitamente dei loro crimini, a partire dalla nuclearizzazione di Hiroshima) e che aveva lo scopo di negare qualsiasi relazione fra forme “normali” e forme dittatoriali del dominio di classe. A questo punto le prime, identificate con la democrazia borghese, non erano più classificabili – né tampoco criticabili - come ideologie, termine che veniva viceversa identificato con le idee del fascismo e irreversibilmente negativizzato. L’estensione della condanna al comunismo non era ancora praticabile perché quest’ultimo, oltre ad avere offerto un contributo decisivo alla vittoria contro il nazifascismo, era ancora troppo forte, e soprattutto godeva ancora di troppe simpatie da parte delle masse popolari occidentali. Anche se va detto che i presupposti filosofici di tale estensione erano già tutti presenti: basti pensare alla categoria di “totalitarismo” coniata da Hannah Arendt (11) che mirava esattamente a tale obiettivo, esattamente come la sua contrapposizione fra la Rivoluzione americana, democratica e liberale (cioè anti-ideologica), e la Rivoluzione francese, macchiata dal terrore giacobino (denunciato come una vera e propria orgia ideologica) (12).

A completare il lavoro hanno provveduto le evoluzioni parallele dei partiti eurocomunisti (PCI in testa) e delle sinistre radicali nate sulle rovine dei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta. Dopo le rivolte ungherese e cecoslovacca, queste forze politiche hanno preso congedo dalla ideologia (termine ormai compiutamente negativizzato) marxista-leninista ed abbracciato versioni più o meno “radicali” della democrazia borghese garante della “libertà” come valore assoluto, non più analizzabile né criticabile da un punto di vista di classe. Il crollo dei sistemi socialisti ha contribuito a dare il colpo di grazia: il passo successivo è stato infatti aderire senza riserve all’intero apparato concettuale e valoriale della liberal-democrazia (a partire dalla concezione neoliberista dell’economia). 

Né a invertire la tendenza sono valsi la guerra di classe dall’alto (13) scatenata dal capitalismo globale, liberato dal “ricatto” dell’alternativa socialista, né quello che Wolfgang Streeck ha definito il divorzio fra democrazia e liberalismo (14), riferendosi al progressivo smantellamento delle istituzioni democratiche generate dal compromesso fordista del trentennio postbellico. Oggi l’ideologia liberale, non più riconosciuta come tale ed eletta a principio di civiltà unico, indiscutibile e universale (o declinata, nella migliore delle ipotesi, in senso “libertario”, antigerarchico e antipatriarcale e tutti gli altri “anti” previsti dal corredo lessicale politically correct) trova la sua sintesi definitiva nella crociata per l’esportazione con ogni mezzo possibile – guerra compresa – dei “diritti universali dell’uomo” dalla loro culla occidentale a tutti quei Paesi – Cina comunista in  testa – che rivendicano la loro autonomia storica, culturale e politica da un dominio occidentale tanto più aggressivo quanto più in crisi. 

Ritengo che sui cosiddetti diritti dell’uomo e sull’ideologia liberale che in essi si sostanzia non vi sia molto da aggiungere ai passaggi di Lukacs e Marx citati in precedenza. Vale forse solo la pena di approfondire un paio di aspetti. Il primo riguarda il loro carattere squisitamente individuale, il loro riferirsi a quello che Marx chiama, come abbiamo visto, “l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità”. In effetti, se analizziamo la pletora dei diritti che sorgono a getto continuo dalle più disparate richieste di riconoscimento da parte dei gruppi più diversi, i quali rivendicano, per dirla con Stefano Rodotà il diritto di avere diritti (15), ci rendiamo facilmente conto che essi, non solo non rispecchiano più interessi di classe, ma non rispecchiano nemmeno più interessi collettivi di sorta. Non è un caso se Rodotà identifica il soggetto portatore di questi nuovi diritti con una persona che evoca la figura di un astratto cittadino cosmopolita, privo di qualsiasi concreto connotato nazionale, culturale, di genere, religioso, socioeconomico, ecc., con un inesistente “cittadino del mondo” (inesistente perché il mondo in questione –unificato e pacificato dalla globalizzazione economica - è puramente immaginario, per cui non può ospitare citoyens ma solo hommes altrettanto immaginari, svuotati di ogni determinazione). Del resto questa evoluzione era implicita nella parola d’ordine femminista il personale è politico, o nelle tesi di autrici come Judith Butler secondo le quali l’identità sessuale, una volta mondata di ogni condizionamento culturale, si riduce a libera scelta individuale, o ancora nell’uso di termini eufemizzanti per evitare discriminazioni nei confronti di questo o quell’individuo “diversamente abile”, motivate dal fatto che costui deve essere appunto riconosciuto come persona, come essere singolare, unico, ecc. ecc.  

Il secondo aspetto su cui vale spendere qualche parola in più è quell’atteggiamento che Lukacs definisce “conformismo non conformistico”, riferendosi a quella tipologia di intellettuali che, temendo di essere accusati “di fare dell’ideologia”, esprimono il proprio disagio nei confronti dello status quo e del modo in cui i poteri dominanti lottano per conservarlo in forme che non vogliono né possono in alcun modo disturbare l’oliato funzionamento del meccanismo manipolativo. Chi come il sottoscritto ha avuto modo di frequentare a lungo gli ambienti dell’accademia, del giornalismo e più in generale dell’industria culturale, sa benissimo di cosa si parla. Tutti coloro la cui carriera professionale, o più banalmente - ove si tratti di soggetti che non nutrono particolari ambizioni in tal senso - la cui quotidiana sopravvivenza dipende dalla benevolenza delle istituzioni culturali – pubbliche o private – per cui lavorano, sono perfettamente consapevoli dei limiti che le loro manifestazioni di indipendenza critica non devono oltrepassare. La “libertà” di opinione che tanto venerano dev’essere esercitata cum grano salis, in modo da garantirsi la possibilità di rimanere apprezzati collaboratori della manipolazione universale. 

Quanto appena ricordato suggerisce una ulteriore riflessione, stimolata dall’atteggiamento di quei militanti populisti – penso in particolare all’M5S italiano – che manifestano orrore nei confronti del professionismo in politica (salvo cambiare idea quando rischiano di perdere il proprio ruolo istituzionale). Se torniamo al tema della concezione leninista del partito che, com’è noto, prevede una struttura di rivoluzionari di professione – struttura che, in maggiore o minore misura, viene tuttora adottata dai partiti socialcomunisti al potere - mi pare evidente che, nel caso di questi quadri professionali di partito, il rischio di subire una limitazione della propria libertà di giudizio e di espressione non è superiore a quello che corrono i “liberi” intellettuali di cui sopra. Anzi direi che, paradossalmente, è minore, nel senso che, mentre si ritiene che i primi condividano per definizione l’ideologia del partito cui appartengono, e una linea politica che contribuiscono a definire, i secondi, anche se e quando non condividono l’ideologia e la prassi dell’istituzione cui appartengono, non possono discostarsene se non al prezzo di compromettere il proprio ruolo professionale. Forse l’entusiasmo e il senso d’identificazione che costoro manifestano nei confronti dei dissidenti dei regimi “totalitari”, potrebbe non essere altro che l’altra faccia della frustrazione che provano di fronte ai limiti della “libertà” che vorrebbero regalare ad altri (e che, spesso, alla schiacciante maggioranza dei cittadini di quei regimi non interessa minimamente (16)).

Passando dal tema metafisico dei diritti dell’uomo alla critica marxiana della giustizia  borghese, mi pare importante riprendere il concetto che stabilisce, quale condizione dell’allontanamento del diritto dall’esercizio violento del dominio di classe, la sua trasformazione in un corpus di principi e procedure che assumono la forma dello scambio economico. Come si è detto, per Marx (e per Lukacs), l’illusione delle classi subalterne in merito alla possibilità di ottenere “giustizia” restando nei confini del sistema giuridico, si basa sull’incomprensione del fatto che tale sistema non può, in linea di principio, derogare da una concezione in definitiva economica dell’uguaglianza. Ciò non rappresenta ovviamente una novità rispetto alla “classica” denuncia dell’essenza ideologica (cioè di classe) del diritto. La novità sta piuttosto nel fatto che Lukacs rispolvera un aspetto relativamente poco frequentato del pensiero di Marx sull’argomento, laddove cita quella parte della Critica al Programma di Gotha, in cui si afferma che nel socialismo come fase di transizione al comunismo il diritto uguale (cioè il criterio per cui ciascuno riceve in proporzione al proprio lavoro) resta in sostanza un diritto borghese. Questo ovviamente perché la capacità produttiva varia in relazione alla forza, all’intelligenza e al talento individuali, per cui applicare a tutti i lavoratori un diritto uguale significa di fatto applicare un diritto disuguale per lavoro disuguale. La questione è cruciale in relazione alla valutazione della natura, dei limiti attuali e delle prospettive di sviluppo dei Paesi socialisti esistenti. In Cina, ad esempio, gli intellettuali aderenti al PCC ne discutono apertamente, riconoscendo la fondatezza della critica di Marx e sostenendo, nel contempo, che il problema potrà essere risolto soltanto con la transizione dal socialismo al comunismo, in una prospettiva di lungo periodo. Tornerò sulla questione nelle Glosse alla quinta sezione, dedicata appunto ai temi dell’utopia e del socialismo.  

Venendo ai temi della critica della religione: non mi soffermerò sui passaggi in cui Lukacs ricostruisce le profonde radici che il fenomeno religioso affonda nella prassi sociale, svolgendo la funzione di “ponte” fra interessi quotidiani del singolo e grandi bisogni ideali - motivo per cui lo definisce come una “forma intermedia fra politica e filosofia”; né riprenderò la sua critica nei confronti della sottovalutazione “illuminista” della potenza materiale del religioso – sottovalutazione associata all’illusione secondo cui le scoperte scientifiche – e più in generale l’avanzamento di tutte conoscenze umane sulla realtà e sul mondo - sarebbero fatalmente destinate a spegnere la fede religiosa; mi concentrerò invece sull’analisi della differenza fra logica settaria e logica istituzionale. 

La parte in cui Lukacs ricostruisce le differenze “idealtipiche” (anche se non usa questo termine) fra chiesa e setta mi pare non si discosti molto dal contributo che Max Weber ha dato a tale argomento (17). In effetti, si potrebbe anche sostenere che Weber è andato più a fondo nell’evidenziare, non solo le differenze, ma anche il rapporto dialettico fra i due fenomeni: da un lato la setta come fattore di rinnovamento e rivitalizzazione della fede “assopita” nella routine della prassi ecclesiale, dall’altro la chiesa come esito dell’inevitabile processo di assestamento/consolidamento istituzionale, successivo all’esaurirsi della “spinta propulsiva” della rivelazione profetica. Viceversa l’analisi di Lukacs è più consistente laddove affronta il tema dei rapporti di forza fra classi sociali implicati in questo gioco dialettico. In particolare, Lukacs evidenzia il carattere sovversivo e “plebeo” dell’originario messaggio cristiano, nonché la sua successiva neutralizzazione, dovuta all’allontanamento della parusia (18): finché questa era annunciata come imminente inspirava una visione egualitaria del mondo, alimentando speranze, aspettative e rivendicazioni degli “ultimi”; il suo allontanamento verso un orizzonte temporale indefinito, tendenzialmente coincidente con l’infinito, ha viceversa consentito l’instaurazione di un modus vivendi con gli strati sociali superiori, fino a convertirsi in culto “ufficiale” del potere politico, economico e culturale. 

Tuttavia Lukacs aggiunge che il fascino della figura di Cristo, immutato nel corso dei millenni, è associato alla persistenza, sia pure sotto traccia, dell’originario messaggio “classista”, alla sua capacità di rispondere alle contraddizioni reali che mettono in movimento gruppi estesi. Questo contenuto ideologico potenzialmente “rivoluzionario” riaffiora periodicamente: Lukacs cita in merito la Guerra dei contadini in Germania (19), ma si pensi anche ai movimenti ereticali del Medioevo e alla figura di San Francesco, senza dimenticare il ruolo fondamentale che la “teologia della liberazione” ha svolto – e tuttora svolge - in tutte le rivoluzioni sociali dell’America Latina (20). 


L'omaggio di Chavez a Cristo "socialista"



Questa oscillazione temporale fra potere delle chiese e insorgenze settarie ed ereticali presenta evidenti analogie con certi passaggi della storia del marxismo, e più in generale del movimento operaio negli ultimi due secoli: dopo il consolidamento del potere socialdemocratico, proseguito fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, e caratterizzato dal progressivo rafforzamento delle strutture organizzative di partiti e sindacati, e dalla conquista di rapporti di forza tali da migliorare le condizioni materiali di vita del proletariato, e da ottenere l’allargamento degli spazi democratici all’interno del sistema capitalistico, è arrivata la crisi della Seconda Internazionale e il diffondersi dell’eresia comunista in Russia e in altri Paesi europei, così come dopo la normalizzazione riformista dei partiti comunisti dell’Europa Occidentale, culminata con la svolta eurocomunista, sono arrivati i movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta e i loro tentativi di ricostruire una soggettività rivoluzionaria orientata al superamento del sistema capitalistico. Dopo la trasformazione dei partiti ex comunisti in chiese liberal democratiche associate al culto universale del libero mercato, siamo invece ancora in attesa di un sussulto capace di rivitalizzare l’ “annuncio” del Manifesto di Marx ed Engels. 


Note

(1) A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, Einaudi 1949.

(2) Cfr. K. Marx, L’ideologia tedesca, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947. 

(3) V. I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale, in Opere complete, XXI, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 191. 

(4) V. I. Lenin, Che fare, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma, pp. 389-390.

(5) K. Marx, Critica al Programma di Gotha, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma pp. 961, 962. 

(6) Cfr. K. Marx, La questione ebraica, Editori Riuniti, Roma 1971.

(7) E tuttavia, sostiene Lukacs, quello di Bellarmino non è l’unico modo in cui la religione tenta di adattarsi alla “concorrenza” della scienza sul piano della definizione dell’immagine del mondo. Un’altra via per affrontare la sfida è quella imboccata, fra gli altri, da Karl Barth, il quale, in Dogmatik im Grundriss (Berlino 1948), scrive: <<Non è faccenda che riguardi né la Sacra Scrittura, né la fede cristiana…difendere una determinata immagine del mondo. La fede cristiana non è legata né a quella antica né a quella moderna (…) è per principio libera di fronte a tutte le immagini del mondo, cioè di fronte a tutti i tentativi di interpretare l’ente sul metro e con i mezzi della scienza che domina in quel momento>>. In questo modo, commenta Lukacs, si finisce tuttavia per interrompere qualsiasi legame fra religione e realtà. Ma questo, aggiunge, non è in fondo che l’altro polo della soluzione di Bellarmino. Con gli sforzi moderni di “demitologizzare”  la Bibbia si sacrifica il carattere di realtà di ogni conoscenza del mondo per salvare teoricamente il dominio ontologico assoluto della ideologia religiosa… si rinuncia a ogni realtà della predicazione della Chiesa (inclusa la bibbia) per salvare comunque il sogno, l’apparenza della sua validità mediante un distacco radicale da ogni nesso reale (vol. IV, p. 699). Nichilismo neopositivista e nichilismo teologico si specchiano l’uno nell’altro. 

(8) Cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982.

(9) Pierre Rosanvallon ritiene che la rinuncia a priori a lottare per il potere sia un tratto distintivo dei nuovi movimenti sociali, i quali, piuttosto che impegnarsi a conquistarlo, preferiscono esercitare nei suoi confronti forme di pressione e condizionamento che egli definisce “democrazia della sfiducia e del controllo” (cfr. Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012; vedi anche La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2013). È interessante il fatto che questo autore sostiene che le sue posizioni sul potere non sono lontane da quelle di Antonio Negri, a dimostrazione della convergenza fra riformismo liberale e ideologie libertarie della cosiddetta sinistra “antagonista”. Per una critica di questa posizione politica delle nuove sinistre, con riferimento specifico al contesto della rivoluzione boliviana, cfr. A. G. Linera,  Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

(10) Cfr. A Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, 4 voll. , Einaudi, Torino 2014.  

(11) Cfr. H. Arendt,  Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.   

(12) Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983. 

(13) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.

(14) Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.

(15) Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.

(16) In merito alla radicale indifferenza dei cittadini della Repubblica Popolare Cinese nei confronti della democrazia di tipo occidentale cfr. D. A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.

(17) Cfr. M. Weber, op. cit.

(18) Secondo Koselleck la moderna concezione lineare del tempo sarebbe il frutto della secolarizzazione del tempo escatologico, cioè della visione medievale-cristiana che vive nel  tempo sospeso dell’attesa della parusia, ma in effetti il processo di allontanamento indefinito della parusia era iniziato in precedenza, e comunque il cristianesimo aveva già preparato il terreno alla visione moderna del tempo, liquidando la visione circolare del mondo classico (cfr. R. Koselleck, Futuro passato, Marietti, Genova 1986).

(19) Cfr. F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Edizioni Rinascita, Roma 1949.

(20) Cfr. H. Assmann, F. Hinkelammert, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia, Castelvecchi, Roma 2020.




              


   



  

        



 

mercoledì 24 marzo 2021



IL CONCETTO DI NAZIONE. OVVERO, UNA PATATA BOLLENTE PER IL MARXISMO 



Spulciando il catalogo online de El Viejo Topo  https://www.elviejotopo.com/  editore storico della sinistra iberica (al quale devo due edizioni di altrettanti miei saggi e la conoscenza di importanti materiali teorici in lingua spagnola), mi sono imbattuto in un titolo che ha catturato la mia attenzione: La base material de la nación. El concepto de nación en Marx y Engels, di Carlos Barros (dal profilo biografico dell’autore ho appurato che si tratta di uno storico medievista, fra i fondatori del partito comunista galiziano e membro del comitato centrale del PCE). 

A intrigarmi, ancor più dell’argomento scottante (la questione nazionale è sempre stata fonte di problemi irrisolti e di conflitti teorici e ideologici in campo marxista), è stato il sottotitolo, il quale, come mi è stato confermato da un breve video di presentazione del libro registrato dall’autore, allude all’esistenza di un discorso sistematico e coerente, se non di una vera e propria teoria, dei due fondatori del materialismo storico sull’argomento in questione. La cosa mi è parsa sorprendente, non essendo a conoscenza di scritti di Marx ed Engels dedicati alla questione nazionale di peso e dimensioni paragonabili a quelli di altri mostri sacri del pensiero socialcomunista, Lenin su tutti (1). 

Tuttavia, dopo avere acquistato e letto l’e.book di Barros, ho avuto conferma che il mio difetto di informazione non è frutto di disattenzione o ignoranza: effettivamente Marx ed Engels non hanno scritto nulla di sistematico sul concetto di nazione. Eppure Barros, a compimento di un minuzioso  lavoro di ricerca su una massiccia mole di materiali, non solo navigando fra le pagine delle opere più conosciute, ma anche fra quelle di numerosi testi minori e di occasione (soprattutto articoli di giornale e lettere) in cui due autori affrontano il tema, è convinto di essere riuscito, non solo a dimostrare che in Marx ed Engels esiste una vera e propria teoria della nazione, ma anche che essi ci forniscono un metodo di analisi che resta tuttora valido, benché l’attuale contesto storico, sociale, economico e geopolitico appaia assai lontano da quello del secolo XIX. 

In che misura la sua convinzione è giustificata? Come cercherò di dimostrare nelle pagine seguenti, resto del parere che l’immagine che emerge dal mosaico pazientemente ricostruito da Barros è difficilmente descrivibile come una coerente costruzione teorica, e nutro seri dubbi anche sul fatto che possa offrirci un insegnamento metodologico in grado di sciogliere i nodi complessi e aggrovigliati che ci consegna l’attuale scenario geopolitico. Al tempo stesso, cercherò di mettere in luce come dallo scrupoloso lavoro di ricerca di Barros emergano una serie di riflessioni che aiutano a fare piazza pulita dei luoghi comuni che infestano, sia il marxismo volgare e meccanicista, sia le narrazioni ideologiche di quei movimenti di sinistra che liquidano la realtà nazionale come un fenomeno meramente sovrastrutturale, negandogli consistenza ontologica.

Prendo le mosse da quest’ultimo aspetto. Marx, scrive Barros, era consapevole che la società concreta è nazionale. Il punto è cruciale, in quanto consente di liquidare le astrazioni (frutto di idealismo puro) che analizzano la concreta realtà capitalista di questo o quel Paese a partire da modelli idealtipici “universali”, applicabili indifferentemente a qualsiasi contesto nazionale, ignorando quindi il concreto percorso storico sociale e culturale attraverso il quale una determinata borghesia arriva a costituirsi come classe. Nel suo sforzo di “costruire un concetto materialista di nazione”, Barros contrappone a questo approccio, che si fonda esclusivamente sul concetto astratto di modo di produzione, quei passaggi in cui Marx parla di “condizioni nazionali di produzione”, facendo riferimento a tre fattori interconnessi – condizioni economiche, naturali e storiche (società, politica e cultura) – sia in relazione alla produzione nazionale che alla comunità nazionale.  In questo modo, l’attenzione si concentra in primo luogo sulla base materiale e storica della nazione, per cui il nazionale si presenta come un tipo di totalità concreta, in cui gli elementi soggettivi e oggettivi si intrecciano in modo specifico per ogni singolo caso.

Borghesia e nazione nascono assieme, argomenta Barros, citando sia Engels, laddove scrive che in nessun paese si dà dominio della borghesia in assenza di indipendenza nazionale, sia Marx, allorché pone alle radici del processo nazionale la volontà politica della borghesia commerciale, la quale, fin dalla fase mercantilista, è cosciente del fatto che i suoi interessi si fondano sulla potenza della nazione. Ma ciò implica il riconoscimento che anche il proletariato può costituirsi come classe solo se e nella misura in cui riesce ad elevarsi a classe nazionale (come si dice nel Manifesto, aggiungo io, benché la lettura ortodossa abbia costantemente rimosso questo aspetto, limitandosi a estrarre da questo testo fondativo lo slogan “il proletariato non ha nazione”).  

Sono quindi del tutto d’accordo con Barros, laddove richiama l’attenzione sul fatto che i marxisti hanno quasi sempre sottostimato l’elemento nazionale come fattore di coesione del corpo sociale, riducendolo a un fenomeno meramente sovrastrutturale, “illusorio”, al prodotto esclusivo della dominazione borghese. La nazione, replica Barros, non è qualcosa che cade dal cielo delle idee, una sovrastruttura ideologica, ma incarna un intreccio di vincoli  (interessi comuni, relazioni di mutua dipendenza, volontà generale, ecc.) che uniscono tutti gli individui di una data comunità. Dopodiché conclude che le radici di questo nesso social-nazionale affondano nelle relazioni economiche, per cui quest’ultimo è, in ultima istanza, un fatto economico. 

Anche quest’ultima affermazione mi vede concorde, ma solo a condizione che si chiarisca il senso della formula “in ultima istanza”. Nella sua opera matura (2), Lukacs pone ad esempio l’accento sull’aggettivo “ultima”, nel senso che, dal suo punto di vista, la determinazione dei complessi sovrastrutturali (politica, cultura, diritto, ideologie, ecc.) sì fa sempre più indiretta e meno cogente a mano a mano che progredisce lo sviluppo dell‘essere sociale. Non sono del tutto sicuro che lo stesso si possa dire di Barros, anche se è possibile che la mia limitata conoscenza dello spagnolo mi abbia impedito di cogliere tutte le sfumature del suo discorso. Ma prima di approfondire questo aspetto, vorrei motivare i miei dubbi in merito all’esistenza di una teoria marxiana della nazionalità e, soprattutto, sulla presunta attualità del metodo su cui essa si fonderebbe. 

Carlos Barros


A un certo punto, Barros osserva che, negli scritti da lui presi in considerazione (che non elenco perché sono decine e decine), Marx ed Engels usano nella stessa pagina termini come nazione, paese, popolo e patria come fossero sinonimi, “per evitare ripetizioni”, scrive. Aggiunge poi che in altri contesti la voce popolo/popolare è usata col senso (distinto da nazione e nazionale) di soggetto sociale o congiunto di classi dominanti; che nazione e nazionalità sono termini talora equivalenti e talora distinti; che sia Marx che Engels condividono l’idea che le nazioni moderne si formano riunendo nazionalità diverse di origine precapitalista, generalmente medioevale; infine che normalmente Stato (potere pubblico, governo, amministrazione) si distingue da nazione intesa come società civile. 

Premesso che tanta variabilità semantica dei termini citati, mi pare che mal si concili  con la cassetta degli attrezzi di un dispositivo teorico coerente, provo a procedere per gradi. In  primo luogo, occorrerebbe verificare se l’intercambiabilità fra le parole nazione, paese, popolo e patria sia esclusivamente ascrivibile a un artificio stilistico (evitare ripetizioni nella stessa pagina) e non piuttosto a una carenza di definizione delle reciproche differenze concettuali (per inciso, aggiungo che dubbi analoghi nascono laddove Barros scrive che nei testi che prende in esame “nazione e nazionalità sono termini talora equivalenti e talora distinti”). Barros se la cava suggerendo di usare come denominatore comune di tutte le varianti in questione la parola nazione perché si presta meno delle altre a confusioni terminologiche, ma è chiaro che in questo modo si sovrappone ai testi originali. Manipolazione motivata o arbitraria? Sospendo il giudizio perché occorrerebbe verificare caso per caso. Ma veniamo agli altri punti.  

La distinzione fra popolo e nazione è importante in quanto concorre a tracciare il confine che separa la visione marxista dell’elemento nazionale – secondo cui la nazione, scrive Barros,  è “un fatto storico in continua mutazione, non una costante inalterabile lungo i secoli” - da quella conservatrice e reazionaria che rinvia alle sue presunte radici metafisiche e metastoriche. Altrettanto importante ritengo la distinzione fra Stato e nazione intesa come società civile, soprattutto laddove Barros precisa che lo Stato – che per le correnti anarcocomuniste del marxismo è una “comunità illusoria” – è sì un elemento sovrastrutturale (anche se io preferisco parlare di costruzione politica, il che non è esattamente la stessa cosa) ma fondato sulla base reale di vincoli familiari, di lingua, divisione del lavoro e interessi di classe differenti in ogni conglomerato umano (e qui il riferimento è chiaramente all’Engels di Origini della famiglia, della proprietà privata e dello stato).  

Restando sul piano terminologico, va infine segnalata la contraddizione fra l’asserzione dell’assoluta storicità del processo nazionale e l’uso del concetto di nazione nei confronti di comunità storiche preborghesi (nazioni antiche, asiatiche, feudali ecc.) da parte di Marx ed Engels. Barros difende tale uso criticando le tesi di Samir Amin, secondo il quale la nazione moderna è un fatto squisitamente borghese, né avrebbe senso parlare di nazioni nell’Europa feudale. Qui mi schiero decisamente dalla parte di Samir Amin, perché ritengo che la visione di Marx, ma ancor più quella di Engels, contenga residui d’una logica hegeliana che induce a proiettare sulle forme sociali precapitalistiche i germi embrionali delle forme moderne, le quali appaiono così come il risultato di “leggi” immanenti al processo storico. Personalmente, ritengo che questi residui vadano superati adottando il punto di vista dell’ultimo Lukacs, il quale afferma che l’analisi scientifica della storia può identificare i nessi causali dei processi solo post festum, ricostruendone le determinazioni materiali (socio-economiche) senza trascurare i fattori contingenti, casuali e specifici di ogni singola realtà spazio temporale. 

Con questo siamo alle ragioni per cui, oltre a dubitare della possibilità di estrarre una teoria della nazione dagli scritti sparsi in cui Marx ed Engels si occupano del tema, dubito anche che questi ci consegnino un metodo per analizzarne le sfide attuali. A meno che il metodo in questione si riduca alla necessità di interrogarsi, ogniqualvolta ci si trovi di fronte a una concreta “questione nazionale”, su quale soluzione risponda meglio agli interessi delle classi subalterne coinvolte. Ma, se la risposta è questa, è evidente come le soluzioni appariranno le più diverse e contingenti in relazione ai concreti contesti economici, socioculturali, politici e geopolitici, ecc. Del resto, questo è proprio quanto emerge dalle posizioni assunte da Marx ed Engels in un contesto ottocentesco caratterizzato, fra i vari fenomeni, 1) dai processi di formazione di nuove entità nazionali per aggregazione di entità minori (Italia e Germania), 2) dai movimenti irredentisti di popoli europei colonizzati da altre nazioni europee (Irlanda, Polonia) o incorporati in imperi multietnici come l’austroungarico; 3) dalla resistenza di grandi nazioni asiatiche (India e Cina) alle aggressioni coloniali occidentali.

In questa cornice, come ricorda Barros, Marx ed Engels si interrogarono di volta in volta su chi appoggiare per dare vita a un nuovo Stato (anche assorbendo altre nazionalità), e risposero che occorreva sostenere i movimenti nazionali che più favorivano lo sviluppo delle forze produttive, accelerando la formazione della classe operaia e quindi le condizioni di una rivoluzione proletaria. In base a questo criterio sostennero in particolare l’irredentismo polacco e quello irlandese (3). Analizzando l’occupazione coloniale dell’India, Marx alimentò poi l’illusione – smentita dalla realtà storica – che essa avrebbe riscattato l’India dalla sua “arretratezza” (4) favorendone lo sviluppo industriale, civile e sociale. Infine Engels fu duramente contrario agli irredentismi slavi, sia perché li riteneva portatori di un’ideologia panslavista che li rendeva manovrabili dalla Russia zarista, rafforzandone il ruolo di gendarme d’Europa, sia perché avrebbero portato alla frammentazione dei Balcani in staterelli troppo piccoli per consentire un adeguato sviluppo delle forze produttive (vedi sopra), senza dimenticare la sua inclinazione verso sentimenti slavofobi non esenti da una sfumatura razzista (5). 

Posizioni eterogenee come si vede, ma soprattutto posizioni che non mi pare dicano molto oggi, dopo un secolo e mezzo di trasformazioni radicali sul piano economico, socioculturale e geopolitico. Ci divide dallo scenario che ispirò le riflessioni di Marx ed Engels il lungo ciclo di lotte di liberazione dei popoli coloniali e post coloniali dal giogo occidentale, lotte che hanno avuto il pieno sostegno dei Paesi socialisti sulla base di una riformulazione teorica dei rapporti fra lotta di classe e lotta fra nazioni (riformulazione che ha implicato il riconoscimento in linea di principio del diritto all’autodeterminazione dei popoli). Ci divide il fallimento delle previsioni marxiane secondo cui la rivoluzione sarebbe avvenuta nei paesi industrialmente avanzati, laddove le sole rivoluzioni socialiste sono avvenute in paesi periferici e semiperiferici, ad opera di classi operaie in formazione alleate con le masse contadine. Ci divide la sconfitta del proletariato occidentale generata dalla rivoluzione liberale e dal processo di globalizzazione successivi al crollo dell’Unione Sovietica. Ci divide l’attuale crisi dello stesso processo di globalizzazione e il prepotente ritorno di uno stato nazione dato per morto e sepolto, mentre riprendono i conflitti interimperialistici e la guerra fredda fra occidente capitalistico e Cina socialista. 

Se già ai tempi di Marx era impossibile fissare criteri universalmente validi per rispondere alla domanda su quali lotte nazionali sostenere, oggi l’impresa è ben più ardua: è giusto sostenere l’irredentismo catalano anche se assume i connotati di un “separatismo dei ricchi” (6); è giusto appoggiare le rivendicazioni di tibetani, uiguri e abitanti di Hong Kong contro il governo centrale della Cina Popolare, anche se è alimentato e sostenuto dall’imperialismo occidentale e ha caratteri esplicitamente antisocialisti? E ancora: ha senso attribuire un significato progressivo all’integrazione europea in nome dell’accelerazione dello sviluppo economico, anche se il costo di tale sviluppo è la subordinazione e l’impoverimento delle nazioni (e delle classi subalterne!) mediterranee da parte della Germania? È giusto considerare ideologicamente regressivo il carattere patriottico delle rivoluzioni bolivariane dell’America Latina? Rispondere a ognuna di queste domande richiede di svolgere un’analisi concreta di tutti i fattori economici, socioculturali, storici e geopolitici implicati in ogni singola situazione, dopodiché l’unico fattore di cui tenere conto - in ultima istanza - per dare loro risposta resta a mio avviso quello della valutazione degli interessi di classe in campo; certamente non quello dello sviluppo delle forze produttive.   

Note

(1) Cfr. V. I. Lenin, L’Europa arretrata e l’Asia avanzata. Sul diritto delle nazioni all’autodecisione; vedi anche L’imperialismo come fase suprema del capitalismo; vedi infine Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, in Opere scelte (2 voll.), Edizioni in lingue estere, Mosca 1947/48.  

(2) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, (4 voll.) PGRECO; Milano 2012.

(3) Barros ricorda che Marx cambiò radicalmente posizione sulla questione irlandese, scrivendo di avere a lungo pensato che l’Irlanda si sarebbe potuta liberare solo dopo il trionfo della classe operaia inglese, ma di avere finito per convincersi che, al contrario, la classe operaia inglese si sarebbe liberata solo dopo la liberazione dell’Irlanda. Questa autocritica è cruciale sia perché segna la fine della fiducia “ingenua” di Marx sulla vocazione “naturalmente” rivoluzionaria del proletariato, sia perché coincide con la sua presa di consapevolezza del ruolo soporifero del colonialismo nei confronti della coscienza operaia. In merito Barros ricorda che Marx a chi gli chiedeva cosa pensassero gli operai inglesi della politica coloniale rispondeva “lo stesso che pensano della politica in generale, cioè quello che pensano i borghesi”, e che questo avveniva in quanto “partecipano allegramente al festino del monopolio inglese sul mercato mondiale e coloniale”. 

(4) In merito ai pregiudizi eurocentrici che Marx ed Engels manifestavano nei confronti delle civiltà asiatiche vedi quanto ho scritto in un  altro post di questo blog  https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021_02_14_archive.html dedicato all’antologia di scritti dei due fondatori del materialismo storico India, Cina, Russia (il Saggiatore, Milano 1960).

(5) A esprimere giudizi particolarmente duri su certe gaffe razziste di Engels è Hosea Jaffe in Davanti al colonialismo. Engels, Marx e il marxismo, Jaka Book, Milano 2007.

(6) Cfr. M. Monereo, H. Illueca, Por un nuevo proyecto de Pais, El Viejo Topo, Barcellona 2018; vedi anche M. Monereo, Oligarquía o Democracia. España, nuestro futuro, El Viejo Topo, Barcellona 2020.      

     

    


    

venerdì 19 marzo 2021

GLOSSE ALL’ “ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE” DI LUKACS (II) 



La pubblicazione delle mie Glosse alla "Ontologia" di Gyorgy Lukacs prosegue con questa seconda puntata che raggruppa la seconda e la terza sezione tematica. 

 2. Critica del materialismo meccanicista 

La critica delle interpretazioni meccaniciste e deterministe del pensiero di Marx è un filo rosso che attraversa tutta l’Ontologia, per cui lo ritroveremo in tutte le sezioni in cui sono articolate queste Glosse. In questa seconda sezione, tuttavia, intendo concentrare l’attenzione soprattutto su due aspetti: 1) il modo in cui, nel pensiero di Lukacs, il principio della determinazione (in ultima istanza!) della coscienza da parte del fattore economico si associa all’affermazione della (relativa!) libertà del fattore soggettivo ; 2) la critica della feticizzazione oggettivistica della tecnica. 

Parto da un passaggio particolarmente illuminante per quanto riguarda il primo punto: il metodo dialettico, scrive Lukacs, riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva (…) né uno sviluppo storico privo di leggi (…) né un dominio meccanico <<per legge>> dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo la funzione di momento soverchiante (vol. II, pp. 290/91). Il passaggio è denso e ricco di aspetti degni di rilievo. In primo luogo, l’affermazione secondo cui economico ed extraeconomico si convertono di continuo l’uno nell’altro, fa eco alla concezione dell’essere sociale come complesso di complessi descritta nella prima sezione: nessuna dimensione dell’essere sociale è separata dalle altre da un confine rigido, per cui il gioco dialettico delle interazioni reciproche è continuo, e soprattutto non è mai unidirezionale, nel senso che nessuna dimensione condiziona le altre senza venirne a sua volta condizionata. Dopodiché questo complesso gioco di interazioni reciproche non giustifica la visione di un processo storico privo di determinazioni causali, di “leggi” (anche se sappiamo, vedi quanto esposto nella prima sezione, che queste leggi non hanno nulla a che vedere con quelle che governano i processi naturali, dal momento che i loro nessi causali sono ricostruibili solo post festum). Infine ci viene detto che alle “rigide leggi dell’economia” (che sono tali solo nel contesto dell’economico inteso come pura astrazione) spetta la funzione di momento soverchiante. 

Il modo in cui l’economico svolge tale funzione richiede tuttavia approfondimento. In effetti, Marx non sostiene che l’economia determina la coscienza, sostiene piuttosto che “non è la coscienza degli uomini che determina l’essere sociale, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”, dove il mondo delle forme di coscienza e dei loro contenuti, commenta Lukacs subito dopo la citazione, non è visto come prodotto direttamente dalla struttura economica, ma dalla totalità dell’essere sociale (vol. II, p. 288). In altre parole, la funzione soverchiante dell’economico si esercita in modo indiretto, attraverso la mediazione della totalità dell’essere sociale (totalità di cui fanno parte sia l’economico che l’extraeconomico). 

 Lukacs chiarisce ulteriormente il senso di quest’ultima affermazione laddove ragiona sulle potenzialità emancipative del processo di sviluppo economico in quanto presupposto della liberazione dell’umanità dal regno della necessità: Il processo in quanto tale, però, dal punto di vista ontologico non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità affinché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente libero, giacché il suo sì o no è legato ad esso soltanto sul piano delle possibilità (vol. IV, p. 511). 

La relativa libertà che la filosofia della prassi concede all’agire soggettivo consiste dunque in una relazione che si configura come la facoltà di decidere in un campo di alternative predefinite. Questa formulazione non offre spazio né a una sottovalutazione della libertà del fattore soggettivo né a una sottovalutazione della forza vincolante del fattore oggettivo, come ben chiarisce il seguente passaggio: La determinazione (della coscienza) da parte dell’essere sociale è dunque sempre  <<solo>> la determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che nella natura non compare mai (vol. I, p. 325). Da un lato, le virgolette che racchiudono – quasi ironicamente – quel solo stanno a significare che è più che giustificato definire “soverchiante” il potere di condizionamento dell’economico, nella misura in cui limita il campo delle alternative possibili; dall’altro lato, Lukacs evidenzia come la libertà del soggetto umano, ancorché vincolata, appaia smisurata ove paragonata alla rigida legalità dei processi naturali. Attenzione però: questa libertà di decisione, tanto limitata in termini di alternative concrete, quanto pregna di sviluppi inediti, non può essere imputata a un soggetto trascendentale, perché vale sempre il detto marxiano non sanno di far ciò ma lo fanno, o per dirlo con le parole di Lukacs, L’agire sociale, l’agire economico degli uomini dà via libera a forze, tendenze, oggettività, strutture, ecc. che certo nascono esclusivamente ad opera della prassi umana, ma il cui carattere resta in tutto o in gran parte incomprensibile per chi le ha prodotte (vol. II, p. 298). 

Delle implicazioni di quest’ultima affermazione ci occuperemo soprattutto nella sezione “Ideologia e lotta di classe”. Veniamo ora alla critica della feticizzazione della tecnica. Lukacs attribuisce questa tendenza, fra gli altri, a Bukharin, che accusa di avere indicato nella tecnica l’elemento fondamentale dell’economia (cfr. vol. III, p. 341), tuttavia ribadisce a più riprese che non è lui l’unico autore in capo marxista a commettere questo errore: è accaduto e accade spesso anche all’interno del marxismo, scrive, che i rapporti economici non vengono intesi come relazioni fra uomini, ma sono invece feticizzati, <<reificati>> - ad esempio identificando le forze produttive con la tecnica presa a sé, pensata come autonoma (vol. II, p. 316). Questa concezione, che già si era diffusa durante le prime due rivoluzioni industriali – e alla cui diffusione lo stesso Marx ha involontariamente contribuito con le sue ammirate descrizioni della potenza produttiva del macchinismo della grande industria (1) – ha ricevuto ulteriore impulso con la rivoluzione digitale che, come vedremo nelle “Glosse” a questa sezione, ha generato una vera e propria esplosione di entusiasmo tecnofilo in certi ambienti delle sinistre radicali. 

La conseguenza più grave di queste deviazioni ideologiche è la perdita di consapevolezza della complessità dei molteplici fattori che convergono nel concetto di forze produttive. Lukacs estende questa riflessione anche nelle pagine in cui ragiona sulla sopravvalutazione del ruolo della tecnologia militare nella storia: Da un punto di vista generale in tutti questi casi abbiamo che – entro determinati confini prescritti dall’intera struttura economico-sociale – la difesa dell’esistenza, le tendenze espansive prodotte dall’economia, ecc. fanno diventare realtà talune possibilità che nel processo riproduttivo normale sarebbero rimaste possibilità. E proprio qui sarebbe molto pericoloso lasciarsi andare al feticismo della tecnica. Esattamente come nell’economia stessa la tecnica è una parte importante, ma sempre derivata, dello sviluppo delle forze produttive, e anzitutto degli uomini (il lavoro) e delle relazioni interumane (divisione del lavoro, stratificazione di classe, ecc.), così anche le categorie militari specifiche, come tattica e strategie, non derivano dalla tecnica ma da rivolgimenti che intervengono nelle fondamentali relazioni economico-sociali tra gli uomini (vol. III, pp. 238/39). 

A prescindere dal contesto del discorso (il rapporto fra storia e economico-sociale e storia militare), il punto è chiarissimo: le forze produttive – e a maggior ragione l’economia in generale - non sono mai riducibili alla tecnica, nella misura in cui rispecchiano l’intera complessità delle relazioni interne all’essere sociale. L’economia e la tecnica sono bensì, nello sviluppo del lavoro, in uno stato di coesistenza indissociabile, hanno continue interrelazioni fra loro, ma questo fatto non ne sopprime la eterogeneità, che si manifesta (…) nella dialettica contraddittoria fra fine e mezzo (vol.III, p. 43) - contraddizione che abbiamo già evidenziato in quel passaggio, citato nella prima sezione, in cui Lukacs punta il dito contro il feticismo associato all’inversione gerarchica nella relazione fine-mezzo. 




Glosse alla seconda sezione 

La descrizione che Lukacs fa delle interazioni fra economico ed extraeconomico o - se si preferisce seguire la classica contrapposizione – fra struttura e sovrastruttura, fa piazza pulita di tutte le letture “crolliste” della fine del modo di produzione capitalista. Tipica, in questo senso, la tesi secondo cui la caduta tendenziale del saggio del profitto destinerebbe necessariamente il capitalismo all’estinzione (tesi che, per inciso, ignora l’esistenza di controtendenze alla caduta tendenziale evidenziate da Marx). 

Ma il punto di vista di Lukacs consente di liquidare anche tutte quelle visioni “oggettivistiche” che, a ogni crisi, rilanciano la diagnosi secondo cui il capitalismo starebbe vivendo la sua “fase terminale”, un approccio che Giorgio Ruffolo ha criticato con l’ironica battuta “il capitalismo ha i secoli contati” (2). La verità è che, come aveva ben compreso Lenin, le premesse di un superamento del capitalismo si danno solo quando le classi dirigenti non appaiono più in grado di conservare/difendere lo status quo, vale a dire quando la crisi trascende la dimensione economica per divenire crisi istituzionale, politica e culturale (crisi di egemonia in senso gramsciano), quando, cioè, coinvolge la totalità dell’essere sociale (non a caso, come abbiamo appena visto, Lukacs chiarisce che l’economico può svolgere il ruolo di fattore determinante nei confronti degli altri complessi sociali esclusivamente attraverso la mediazione della totalità sistemica che abbraccia sia la struttura che la sovrastruttura). 




Altrettanto efficace appare il punto di vista di Lukacs in quanto arma critica nei confronti delle torsioni soggettiviste del discorso marxiano, la più significativa delle quali è quell’ideologia operaista e post operaista che ha svolto un ruolo significativo, se non egemonico, nei confronti dei movimenti dell’ultimo mezzo secolo, a partire dalle teorizzazioni ospitate dalla storica rivista Quaderni rossi (3). La peculiarità di questa scuola teorica, consiste nell’aver sviluppato un punto di vista in cui il soggettivismo che convive con l’esaltazione oggettivista del fattore economico – un paradosso che si spiega con il fatto che quest’ultimo viene sostanzialmente identificato con le tecniche produttive. Infatti è alla particolare organizzazione del lavoro fondato sulle tecnologie produttive fordiste, che si attribuisce il merito di avere favorito la nascita di uno strato di classe – l’operaio massa incatenato alla catena di montaggio – capace di sviluppare spontaneamente una coscienza antagonistica nei confronti del capitale. 

In altre parole, l’inestricabile intreccio fra economico ed extraeconomico che Lukacs proietta nell’essere sociale in quanto totalità, per il paradigma operaista si realizza all’interno stesso del processo produttivo, la coscienza rivoluzionaria appare quindi come una scaturigine spontanea, immanente alla stessa produzione capitalistica. Di qui la tesi di Tronti (4) secondo cui la nuova classe operaia non ha più bisogno del partito come strumento di una coscienza rivoluzionaria che le viene inoculata dall’esterno (cioè dal campo totale delle relazioni politiche e sociali, secondo la visione di Lenin (5) ), dal momento che ora è lei stessa il partito, in quanto esprime direttamente e spontaneamente tale coscienza. Viene così a mancare del tutto la consapevolezza del fatto che, per quanto duramente conflittuali, certi comportamenti di classe rappresentano una prassi che resta – per usare le parole di Lukacs – in tutto o in gran parte incomprensibile ai loro stessi protagonisti. Consapevolezza che Tronti riacquisterà in un secondo tempo, autocriticando le sue tesi originarie e riaffermando il principio della “autonomia del politico” (6), riconoscendo cioè che l’interdipendenza fra economico ed extraeconomico non mette in questione i reciproci margini di libertà dei due ambiti. 




Accennavo poco sopra alla riduzione dell’economico alle tecniche produttive. Questa tendenza dell’operaismo (condivisa da altri intellettuali marxisti) è sopravvissuta alla transizione dalla produzione fordista alla produzione postfordista, e si ulteriormente rafforzata con l’avvento delle tecnologie digitali. Un ruolo fondamentale ha svolto in tal senso una certa lettura del celebre “Frammento sulle macchine” contenuto nei Grundrisse, laddove lo stesso Marx, come ricordavo in precedenza, si è abbandonato alla fascinazione della potenza produttiva del general intellect, cioè della potenza produttiva incorporata nel sistema delle macchine della grande industria capitalistica. 

In quelle pagine (7) Marx ipotizzava che, raggiunto un determinato livello di sviluppo tecnologico, tale da determinare un formidabile salto qualitativo della produttività del lavoro sociale, la legge del valore-lavoro non sarebbe stata più in grado di regolare l’economia, né tanto meno l’insieme dei rapporti sociali. I tecnoentusiasti di sinistra (nei quali Lukacs avrebbe probabilmente riconosciuto dei nipotini di Bukharin – vedi sopra) hanno elevato a dogma questa profezia marxiana, intravedendo le condizioni del suo inveramento nelle narrazioni dei guru della New Economy negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila. 

Costoro – una variopinta comunità di hacker dell’hardware e del software, ricercatori dei dipartimenti universitari di informatica, fondatori di startup, giornalisti specializzati, futurologi, ecc. – annunciavano l’avvento di un imminente futuro in cui 1) le startup, grazie alla rapidità di innovazione e alla libertà dai rigidi vincoli imposti dai grandi investimenti in capitale fisso e forza lavoro, avrebbero sbaragliato la concorrenza dei vecchi monopoli high tech; 2) i lavoratori della conoscenza, abituati alla cooperazione spontanea e alla condivisione di informazioni e conoscenze, si sarebbero emancipati dal comando capitalistico sviluppando nuove forme di produzione di beni comuni svincolate dal mercato (8); 3) tutti questi soggetti non avrebbero solo dato vita a una nuova forma di democrazia economica, ma si sarebbero progressivamente liberati anche dal controllo politico dello Stato, inventando nuove forme di aggregazione sociale di tipo orizzontale (9). 

 A sinistra, questa utopia anarco capitalista è stata tradotta in progetto “benecomunista” dai movimenti libertari eredi del ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, i quali hanno rimpiazzato l’operaio massa con i lavoratori creativi nel ruolo di portatori di una coscienza politica spontaneamente anticapitalista. In entrambi i casi, l’agente di questo miracolo della transustanziazione è un soggetto immanente a un fattore economico che, da un lato viene appiattito sulla tecnica, dall’altro viene accreditato della capacità di fungere da incubatore di una coscienza politica spontaneamente antagonista e tendenzialmente egemonica (10) . Gli sviluppi successivi alla crisi dei titoli tecnologici dei primi anni del Duemila sono noti: formidabile concentrazione monopolistica della New Economy, con conseguente subordinazione/marginalizzazione dei progetti “alternativi”; cooptazione degli strati superiori dei knowledge workers nel sistema di comando, controllo e sfruttamento degli strati inferiori della forza lavoro (e contestuale proletarizzazione degli strati inferiori); integrazione fra industrie high tech e colossi della finanza in un complesso capace di accelerare mostruosamente la “guerra di classe dall’alto” (11) contro le classi subalterne. Così quella “dialettica contraddittoria fra fine e mezzo” nella quale Lukacs inquadra il rapporto fra economia e tecnica si è presa la sua rivincita sui sogni neo proudhoniani di una certa sinistra. 

Note 

(1) Cfr. il “Frammento sulle macchine”, che si trova nella parte conclusiva dei Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1970). 

(2). G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2008. 

(3) La ristampa integrale dei “Quaderni rossi” curata dalle Edizioni Sapere nel 1970 è oggi introvabile, ma in Rete se ne possono scaricare ampi stralci in versione pdf. 

(4) Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966. 

(5) Cfr. Che fare, vedi anche Stato e rivoluzione, in V. I. Lenin, Opere scelte in due volumi, Edizioni in lingue estere, Mosca 1947. 

(6) Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009. 

(7) vedi nota (1) 

(8) La formulazione più organica e coerente di questa profezia si trova in Y. Benkler, La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007. 

(9) Delle narrazioni sulla presunta vocazione democratica e libertaria della Rete mi sono occupato in varie occasioni. Vedi, in particolare il mio Cybersoviet, Cortina, Milano 2008. 

(10) Ho analizzato criticamente queste posizioni in diversi lavori. Vedi, in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011, e Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013. 

(11) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012. 




3. Se…allora. Storia e necessità 

Abbiamo già evidenziato l’atteggiamento critico di Lukacs nei confronti dei tentativi di depurare Marx degli “orpelli” filosofici, salvando solo le parti “scientifiche” del suo pensiero (1) (ridotte sostanzialmente alla critica dell’economia politica). Contro questa concezione, Lukacs ribadisce a più riprese che Marx riconosce una sola scienza, quella della storia, che investe sia la natura che il mondo degli uomini (vol. II, pp. 264/65), e, in un altro passaggio, particolarmente significativo, rafforza questa affermazione scrivendo che la questione fondamentale della teoria marxiana è la storia come principio fondamentale di ogni essere. In termini generali e precisi esso venne enunciato da Marx già molto presto (nell’Ideologia tedesca), ma di fatto è il principio che dall’inizio alla fine domina le sue argomentazioni sull’essere (vol. I, pp. 234/35). Parimenti abbiamo già evidenziato il principio che deriva dall’imprevedibilità del processo storico – principio che distingue la forma delle sue “leggi” da quelle delle scienze naturali - riassumibile nell’assunto per cui la sola conoscenza veramente scientifica, dal punto di vista marxiano, è post festum

La domanda è: ciò significa che non è possibile attribuire al processo storico alcun tipo di legalità? Dai due seguenti passaggi vedremo che non è questo ciò che Lukacs vuol dire con le affermazioni sopra citate. Per Marx, scrive Lukacs, le leggi economiche oggettive hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di <<se...allora>>. La loro forma generalizzata, la loro elevazione al concetto, tuttavia, non è – in contrasto con Hegel – la forma più pura della necessità, e nemmeno, come pensano i kantiani o i positivisti, una mera generalizzazione intellettuale, ma invece, nel senso meramente storico, una possibilità generale, un campo reale di possibilità per le realizzazioni legali concrete <<se...allora>> (vol. IV, p. 344). Il carattere post festum di queste ultime, insomma, non esclude la possibilità di riconoscere l’esistenza di nessi generali, Questi ultimi, tuttavia, si esplicitano nell’essere processuale, non <<come grandi bronzee leggi eterne>>, che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, <<atemporale>>, ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce (vol. I, p. 308). 

L’ultimo passaggio è di chiarezza cristallina, e consente di afferrare pienamente il senso di tutto quanto siamo venuti fin qui affermando nel seguire passo passo i ragionamenti di Lukacs: la scientificità del discorso marxiano è ascrivibile esclusivamente alla sua capacità di afferrare i nessi storici che innervano lo sviluppo della totalità dell’essere sociale (e non solo delle sue componenti economiche!) e di descrivere le catene causali che essi mettono in moto, senza elevarle a “leggi bronzee eterne”, ma anche senza ridurle a meri idealtipi, a puri modelli conoscitivi (2). Come ora vedremo, assumere tale punto di vista implica il superamento di qualsiasi attribuzione di finalità immanenti al processo storico. 

Naturalmente a Lukacs non sfugge come la cultura marxista non sia esente dalla tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un obiettivo finale predefinito. Il fatto che lo sviluppo della storia europea sembra presentare una successione di tappe apparentemente ordinate verso il “progresso” (3) (come vedremo, per Lukacs il senso di questo termine non è privo di elementi problematici) suggerisce la possibilità che esso sia direzionato da un qualche fattore teleologico, ma Lukacs scrive che occorre tenersi ben lontani da simili rappresentazioni e aggiunge che ciò va sottolineato proprio perché simili tendenze aleggiano anche negli atteggiamenti di taluni marxisti, secondo cui, per esempio, il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo, porta al socialismo, sarebbe nella sua necessità in qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico) (vol. III, p. 300). Contro questa tendenza va ribadito fermamente che non esistono processi teleologici: la posizione teleologica (cioè l’agire finalizzato. Ndr) è bensì in grado, ponendo praticamente il fine e i mezzi (ricordiamo che per Lukacs il modello cui si rifanno tutte le posizioni teleologiche è il lavoro – vedi sezione I), di modificare largamente i processi causali messi in movimento, ma non di trasformare il carattere causale di questo movimento. Esistono, appunto, solo processi causali, quelli teleologici semplicemente non esistono (vol. I, p. 201). Le concezioni della storia che attribuiscono priorità all’azione intenzionale del soggetto, da un lato, ignorano il fatto che le conseguenze causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto (vol. IV, p. 347), dall’altro approdano inevitabilmente a un qualche tipo di irrazionalismo trascendente, se non di vero e proprio profetismo religioso (ritroveremo questo tema nelle prossime sezioni), nella misura in cui da un soggetto isolato, basato su se stesso, non è possibile far derivare un comportamento consapevolmente attivo, pratico, verso la realtà, senza un aiuto trascendente (vol. I, p. 179). 

In conclusione, la concezione teleologica della storia (al pari di quella della natura) implica che il suo procedere sia indirizzato/guidato da un attore consapevole, e il suo successo nasce dal fatto che svolge una funzione consolatoria, ci protegge cioè dall’orrore dell’insensatezza: quel che fa nascere queste concezioni del mondo non solo nei filistei facitori di teodicee del secolo XVII, ma anche in pensatori lucidi e profondi come Aristotele e Hegel, è un bisogno umano elementare e primordiale: il bisogno che l’esistenza, il corso del mondo, giù giù fino ai fatti della vita individuale – e questi in primo luogo – abbiano un senso (vol. III, p,.20). 

Può il concetto di progresso sopravvivere a questa negazione dell’esistenza di qualsiasi fattore teleologico immanente al processo storico? La risposta di Lukacs a tale dilemma (come vedremo nell’ultima sezione) non è scevra da una certa ambiguità - un’ambiguità che si rispecchia nella seguente affermazione Noi parliamo di progresso in senso oggettivo-ontologico e non in senso valutativo (vol. III, p. 154). È verosimile che per progresso in senso oggettivo-ontologico qui si intenda l’evoluzione dell’essere sociale, la quale, al pari dell’evoluzione biologica, non dovrebbe implicare alcun giudizio di valore. In realtà, e lo vedremo laddove Lukacs ragiona sulla prospettiva della transizione dal capitalismo al socialismo, questa distinzione non è facile da mantenere, nella misura in cui il giudizio di valore fa capolino nel momento stesso in cui viene evocato il termine di progresso.

Ciò detto, è innegabile che Lukacs, in varie parti dell’Ontologia, svolga una rigorosa critica dell’ideologia progressista. Il processo della storia, scrive nei “Prolegomeni”, è causale, non teleologico, è multistrato, mai unilaterale, semplicemente rettilineo, è sempre una tendenza evolutiva posta in movimento da interazioni e interrelazioni reali dei complessi ogni volta attivi. Gli indirizzi che in tal modo si presentano nelle trasformazioni non devono perciò mai essere subito giudicati come progresso o come regresso (vol. I, p. 35). E ancora più chiaro appare il seguente passaggio: La irreversibilità dei processi (…) non ha nulla a che vedere né con le ideologie del tipo <<irresistibilità del progresso>> (qui il dito è implicitamente puntato sia nei confronti del progressismo liberal borghese sia nei confronti del progressismo del marxismo volgare), né con quelle che, per occultare le necessarie conseguenze del processo, parlano di <<fine della storia>>, di storia come ciclo, ecc. con un ritorno, più o meno apertamente confesso, al passato (vol. I, p. 107) (qui il bersaglio sono invece le filosofie dell’ "eterno ritorno dell'eguale", tuttavia, come vedremo nelle Glosse a questa e alla quinta sezione, anche certi aspetti dell’utopia marxiana potrebbero finire sotto tiro, anche se questa non è l’intenzione di Lukacs). 

Particolarmente significativa appare la critica di Lukacs nei confronti delle “concezioni volgar meccanicistiche del progresso”, le quali, scrive, sono teoricamente impotenti di fronte alla coazione economico-sociale con cui forme nuove e – anche quanto al grado – più perfette di reificazione subentrano al posto di quelle invecchiate (vol. IV, p. 650) . La trappola in cui cadono le concezioni in questione, nella misura in cui fanno dello sviluppo delle forze produttive il presupposto non solo necessario, ma anche in qualche misura sufficiente, dell’emancipazione umana, nasce ancora una volta dall’appiattimento dell’essere sociale sulla dimensione economica (e di quest’ultima sulla tecnica): lo sviluppo delle forze produttive è necessariamente anche sviluppo delle capacità umane, ma – e qui emerge plasticamente il problema dell’estraniazione – lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana (vol. IV, p. 562). 

Nelle parti conclusive dell’opera che stiamo discutendo, in cui esamina, fra gli altri, i concetti di alienazione, reificazione ed estraniazione, la preoccupazione di Lukacs non è molto lontana, come vedremo da quella degli autori della Scuola di Francoforte (4), i quali, in quegli anni (ricordiamo che Lukacs scrive queste pagine negli anni 60/70) concentrano l’attenzione sulle mutazioni antropologiche indotte dal consumismo e dall’industria culturale e sulla loro proprietà di abbassare il livello di coscienza politica delle masse e neutralizzare il conflitto sociale. Così, contro gli illusionisti del (ma rivolto anche agli illusi dal) progresso, Lukacs ricorda che lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale, non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo, al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsele con intensità sempre maggiore, in maniera sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana (vol. IV, p. 649). I “progressi” economico sociali disgregano certamente vecchie forme di reificazione ma, al tempo stesso ne formano di nuove, ammodernate, ben funzionanti (vol. IV, p. 670). 

Horkheimer e Adorno



Glosse alla terza sezione 

Rivendicando la concezione storico-filosofica delle leggi di sviluppo dell’essere sociale, Lukacs si pone agli antipodi di tutti quegli intellettuali marxisti – perlopiù appartenenti alla corporazione accademica degli economisti – che hanno progressivamente abbandonato il punto di vista marxiano della critica dell’economia politica per sposare quello dell’economia politica intesa come “scienza” tout court (non di rado elevata alla dignità di scienza pura e dura, in opposizione alle scienze sociali). Conseguenze di tale scelta sono: da un lato, la pretesa di competere con gli economisti borghesi sul terreno della definizione delle leggi di funzionamento dell’economia - rappresentate come indipendenti/autonome dalle altre determinazioni dell’essere sociale (diritto, politica, cultura, ecc.) -; dall’altro lato, il crescente condizionamento delle scelte politiche di partiti e sindacati di sinistra da parte dei vincoli “oggettivi” associati a presunte leggi economiche. 

Allargando la prospettiva dalle leggi economiche alle leggi di sviluppo dell’essere sociale in quanto totalità, la forma delle quali, come si è visto, viene sintetizzata da Lukacs con la formula <<se...allora>>, vale a dire con il concetto di “campo di possibilità”, è interessante notare come sia lo stesso Marx a contestare le interpretazioni che gli attribuiscono l’intenzione di formulare le “bronzee leggi eterne” della storia umana, allorché replica alla recensione critica che l’economista Zukowski aveva dedicato all’edizione russa del Capitale con le seguenti parole: “Zukowski sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria teorico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto”. Subito dopo, per chiarire il senso di quest’ultima affermazione, ricorre all’esempio dei piccoli contadini liberi dell’antica Roma: costoro, dopo essere stati espropriati dei loro pezzetti di terra, non divennero salariati ma “plebaglia fannullona”, mentre, nel contempo, veniva sviluppandosi il modo di produzione bastato sulla schiavitù, non quello capitalistico, benché, in teoria, non sarebbero mancate le condizioni affinché ciò potesse avvenire; quindi conclude:” eventi di un’analogia sorprendente, ma verificatisi in ambiti storici affatto diversi, produssero risultati del tutto diversi” (5). 

Veniamo alla critica del progressismo. Ho già sottolineato come Lukacs non sia esente da una certa ambiguità sul tema - ambiguità che approfondiremo nella sezione dedicata ai temi dell’utopia socialista, ma che nei brani analizzati in questa sezione resta sullo sfondo, soverchiata dalla radicale condanna nei confronti di tutti i cedimenti nei confronti delle concezioni teleologiche del processo storico. In particolare, ritengo significativi i passaggi in cui viene messa in luce l’inspirazione mistico/trascendente che aleggia in tali visioni, anche quando associata a ideologie rivoluzionarie. Non è un caso se il marxismo è stato spesso accusato di “profetismo” (6), anche se non va dimenticato il fatto che la tendenza ad assumere una certa coloritura “salvifica” non manca mai nelle narrazioni dei progetti politici di emancipazione, né va trascurata la funzione positiva che essa può svolgere in quanto mito fondativo (torneremo sul tema nella prossima sezione dedicata al ruolo dell’ideologia). 

Un altro argomento cui Lukacs ricorre spesso nella sua denuncia del carattere illusorio dei miti progressisti, prende le mosse dagli inevitabili effetti controintuitivi associati all’agire orientato allo scopo. Il punto appare complesso e problematico. La sua critica al volontarismo soggettivistico (deviazione che Lukacs attribuisce in particolare all’ideologia stalinista, e che si alimenta della convinzione che il proprio agire sia giustificato dalla necessità storica) rischia infatti di alimentare un errore di segno opposto. Si è detto che la visione lukacsiana dell’essere sociale come “complesso di complessi” presenta una certa analogia con la teoria sistemica di Luhmann (7), il quale descrive il sistema sociale come un insieme complesso di sottosistemi. Ebbene: uno dei rischi della teoria della complessità è che, a partire dalla tesi secondo cui gli esiti delle interazioni reciproche fra sistemi, e fra sistemi ed ambiente, sono per definizione imprevedibili, si arriva a sostenere che qualsiasi progetto politico di trasformazione/manipolazione dei meccanismi sistemici – tanto più quanto più radicale e ambizioso – è a priori votato allo scacco (a causa appunto degli effetti controintuitivi che inevitabilmente innesca). 

 Ho la sensazione che Lukacs non tematizzi a sufficienza questo rischio (o forse lo risolve in un modo che mi è sfuggito). Personalmente ritengo che la dialettica fra progetto politico (che rappresenta la quint’essenza del porre teleologico) e ambiente socioeconomico, vada gestita nel modo più pragmatico possibile, accantonando i principi dogmatici e ricorrendo piuttosto alla ricerca di soluzioni attraverso la sperimentazione per tentativi ed errori. Per esempio, sono convinto che l’esperimento socialista cinese abbia avuto più fortuna di quello sovietico – fra i vari motivi – anche e soprattutto per aver adottato una concezione più flessibile e pragmatica della pianificazione (8). 

Meno interessanti, in quanto più scontate, mi paiono le considerazioni che Lukacs dedica alle critiche conservatrici al concetto di progresso (nei brani che ho selezionato per questa sezione emergono evidenti allusioni a Nietzsche e ai suoi emuli, come segnala il riferimento alle concezioni cicliche dei processi temporali che negano l’irreversibilità). Tuttavia vale la pena di sottolineare il fatto che, nei passaggi in questione, Lukacs associa queste visioni conservatrici al concetto di “fine della storia”. Il punto non è tanto che in questo modo anticipa l’annuncio di Fukuyama (9) che sarebbe arrivato decenni dopo, quanto il fatto che questo immaginario è innegabilmente presente anche in quelle tendenze “profetiche” del marxismo cui facevo riferimento poco sopra. Tornerò sul tema ragionando sui passaggi dedicati all’utopia socialista nell’ultima sezione. Qui mi limito ad abbozzare l’idea che questa paradossale convergenza fra visioni ideologicamente opposte, abbia più di una qualche relazione con l’eredità hegeliana che tali tendenze condividono con un autore come Fukuyama. 

Vengo ora a un nodo teorico che mi sta particolarmente a cuore, e che ho avuto modo di affrontare assieme all’amico Onofrio Romano in un nostro libretto a quattro mani (10): mi riferisco alla sopravvalutazione del ruolo progressivo dello sviluppo delle forze produttive che accomuna la stragrande maggioranza degli autori del campo marxista. Lukacs – lo si è visto poco sopra – ascrive questo errore di prospettiva alle “concezioni volgar meccaniciste del progresso” e ne denuncia l’incapacità di riconoscere gli effetti della coazione economico-sociale in ragione della quale “forme nuove e più perfette di reificazione subentrano al posto di quelle vecchie”. E altrove ammonisce che, se è vero che lo sviluppo delle forze produttive è anche sviluppo delle capacità umane, è altrettanto vero ”che lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana” (11). 

Qui il contributo lukacsiano è cruciale. Come ho già ricordato, gli anni in cui Lukacs scrive queste pagine sono gli stessi in cui la Scuola di Francoforte ragiona sul paradosso per cui l’espansione della produttività del lavoro, associata all’innovazione tecnologica, e il conseguente aumento esponenziale della ricchezza materiale e dei consumi di massa, non generano più elevati livelli di coscienza sociale e politica, ma un generale impoverimento culturale e una crescente omologazione ai valori della società capitalista occidentale (in primis americana). Allo sviluppo della capacità umana non corrisponde per l’appunto quello della personalità umana. 

Eppure questa lezione resterà inascoltata dalla generazione del 68 e dai suoi eredi, protagonisti dei successivi movimenti sociali, i quali continueranno ad esaltare l’avanzamento sempre più rapido (fino al parossismo della rivoluzione digitale) del progresso tecnologico come un fattore di illimitata estensione delle libertà individuali, ignorando sistematicamente le “forme nuove e più perfette di reificazione subentranti a quelle vecchie”. La feticizzazione del general intellect tipica della narrazione dei teorici post operaisti (12) ha contribuito a diffondere l’idea che le nuove tecnologie incorporino l’insieme delle relazioni sociali assieme alla possibilità di dispiegarne il potenziale emancipativo. Viceversa il principio di coazione economico sociale ad esse associato viene sistematicamente ignorato, o ridotto a un residuo giuridico (la proprietà privata) agevolmente liquidabile (13). 

Il dogma secondo cui il superamento del capitalismo diviene possibile nel momento in cui lo sviluppo delle forze produttive genera una contraddizione insanabile con i rapporti di produzione, si converte così in una infernale trappola ideologica, impedendo di riconoscere la necessità di “costruire politicamente” quel livello di sviluppo della personalità umana indispensabile a trasformare il mondo. 



Note 

(1) Capofila di questa velleità di “scientificizzare” il pensiero di Marx è indubbiamente Louis Althusser (cfr. Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967. 

(2) Sulla categoria gnoseologica di idealtipo cfr. M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Torino 1999. 

(3) E’ sintomatico che l’idea stessa di progresso venga associata alla storia europea. In questo senso, Lukacs non è esente dal peccato di eurocentrismo che Hosea Jaffe (cfr. Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo, Jaka Book, Milano 2007) rimprovera a Marx ed Engels (critica che il sottoscritto ha  rilanciato in un post apparso su questo blog https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021_02_14_archive.html ). 

(4) Cfr. in particolare M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010. 

(5) La citazione si riferisce a una lettera di Marx alla redazione di un giornale russo datata 1877, consultabile in K. Marx, F. Engels, India Cina Russia (a cura di B. Maffi), Il Saggiatore, Milano 1960, pp. 235-36. 

(6) Sul carattere profetico delle utopie politiche cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982. Ad accusare esplicitamente Marx di gnosticismo è invece E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1990. 

(7) Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979; vedi anche Illuminismo sociologico, il Saggiatore, Milano 1983 e Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983. 

(8) Delle caratteristiche del socialismo in stile cinese mi sono occupato in Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020. 

(9) F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2002. 

(10) C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019. 

(11) A svolgere un’interessante riflessione sul ritardo dello sviluppo della personalità umana rispetto ai tempi dello sviluppo economico (e sull’impatto che tale ritardo ha avuto sulle difficoltà dei socialismi latinoamericani) è A. G. Linera in Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020. 

(12) Della feticizzazione operaista del concetto di general intellect mi sono occupato in diversi lavori. Cfr. in particolare, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013. 

(13) Una critica radicale dell’idea secondo cui la rivoluzione digitale creerebbe di per sé le condizioni per una transizione diretta al comunismo si trova in P. Dardot, C. Laval, la nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.

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