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lunedì 17 marzo 2025

LA STORIA UMANA È STORIA DEL LAVORO
LUKÁCS COME ANTIDOTO AL LIBERAL-FASCISMO EUROPEO



Premessa


“La guerra è pace la pace è guerra” questo slogan, che Orwell attribuisce all’immaginario regime totalitario che descrive in 1984 non è più un parto della fantasia dello scrittore inglese: la “neolingua”, creata per manipolare le coscienze dei cittadini cambiando il significato di ogni parola nel suo opposto, è ormai la lingua ufficiale dell’Unione Europea lanciata verso la Terza guerra mondiale. Una lingua che non viene più parlata solo dagli oligarchi di Bruxelles, ai quali già dovevamo l’affermazione secondo cui nazismo e comunismo sono un’unica cosa, ma anche dai media, dagli intellettuali e, soprattutto, dai leader politici europei di destra e di “sinistra”, a partire da quei Democratici italiani che, nati dalla conversione del PCI in partito liberale, si sono progressivamente evoluti in ala militante del liberal fascismo europeo, come abbiamo potuto constatare durante la manifestazione dello scorso 15 marzo, dove, fra lo sventolare di bandiere dell’Unione e dell’Ucraina nazista, abbiamo ascoltato inneggiare alla superiorità della civiltà “indoeuropea” (cioè ariana!) del Vecchio Continente, in perfetta sintonia con l'ideologia razzista e suprematista bianca (ribattezzata “democrazia” dalla neolingua). 


Grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione, almeno qui da noi, non è, come auspicava Mao a suo tempo, eccellente. Al contrario: è pessima, soprattutto per i gruppuscoli neo, post comunisti e per una sinistra radicale che non riescono a organizzare uno straccio di opposizione popolare alla guerra che infuria dall’Ucraina al medio Oriente e che già richiede, se non – finora - un tributo di sangue, pesanti sacrifici in materia di reddito e diritti sociali e civili anche alle nostre latitudini. Non ci riescono perché il marxismo occidentale si avvita da decenni in una sterile ripetizione di dogmi anacronistici che non consentono di interpretare la nuova realtà del mondo capitalista, dalla mutazione neoliberale all'attuale tramonto della globalizzazione e del secolo americano. 


Dalla fine della Seconda Guerra mondiale, le uniche novità teoriche e pratiche in campo marxista sono state partorite dai processi rivoluzionari in Asia, Africa e America Latina, sui quali ho cercato di ragionare in alcuni lavori recenti. Per riprendere a pensare anche qui da noi occorre partire da alcuni nodi fondamentali che coinvolgono il metodo stesso della teoria marxista, liberandola dagli equivoci, dagli errori e dalle incrostazioni dogmatiche che si sono accumulate in un secolo e mezzo di storia. Per affrontare il compito ritengo indispensabile lo studio dell'opera di Lukács, l’unico grande pensatore marxista che l’Europa occidentale abbia partorito nell’ultimo secolo. Dopo avere dedicato vari libri ed articoli all’impresa, uso anche questo canale per dare il mio contributo. Qui di seguito trovate una versione leggermente ridotta e parzialmente rivista della Prefazione che ho scritto per la nuova edizione della Ontologia dell’essere sociale recentemente pubblicata da Meltemi e, in coda alle Note, i link a tre lezioni sul pensiero di  Lukács che ho registrato per il Centro Studi Losurdo. Un quarto video dev’essere ancora realizzato. 


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Se la Ontologia dell'essere sociale fosse stata pubblicata nel 1971 (l'anno di morte dell'autore) avrebbe certamente influito sulla percezione della grandezza di Lukács, certificandone il ruolo di più importante filosofo marxista - e fra i maggiori filosofi in generale – del Novecento. Invece quest'opera monumentale, la cui stesura richiese un decennio di lavoro, tardò a vedere la luce sia perché l'autore continuava a rimaneggiare il testo dei Prolegomeni che, malgrado la loro funzione di sintesi introduttiva ai temi della Ontologia, furono scritti per ultimi (1),  sia perché gli allievi che ebbero a disposizione il manoscritto dopo la sua morte ne ritardarono la diffusione (la traduzione italiana della seconda parte uscì nel 1981, mentre la versione originale apparve in tedesco dal 1984 al 1986), ma soprattutto alimentarono un pregiudizio negativo nei confronti dell'opera prima che fosse resa disponibile ai lettori (2). Questi motivi, unitamente al clima storico, ideologico e culturale antisocialista e antimarxista degli anni Ottanta generato dalla rivoluzione neoliberale, dalla svolta eurocomunista di quei partiti europei che interpretarono la crisi del socialismo sovietico come “crollo del marxismo”, nonché dalla svolta libertaria e individualista dei “nuovi movimenti” post sessantottini, ha fatto della Ontologia una delle opere più sottovalutate del Novecento. Al punto che il pensiero di Lukács, mentre è rimasto oggetto di culto per minoranze intellettuali non convertite al mainstream neoliberale, ha continuato ad essere identificato con opere precedenti come la Distruzione della ragione  (3) e Storia e coscienza di classe (4), un libro che lo stesso autore considerava superato. Nella prima parte del testo che segue affronterò alcuni nodi fondamentali del pensiero filosofico dell'ultimo Lukács, avvalendomi delle sue riflessioni autocritiche sulle tesi sostenute in Storia e coscienza di classe, nonché di una lunga conversazione del 1966 registrata da tre intervistatori tedeschi (5); nella seconda analizzerò brevemente l’approccio lukacsiano alle teorie leniniste.



La svolta ontologica


Ad alimentare la diffidenza con cui l'ultimo lavoro di Lukács venne accolto è probabile che abbia contribuito il titolo: i concetti di ontologia ed essere suonavano sospetti per la“moda” allora prevalente in campo marxista, cioè per il progetto di “depurare” il pensiero di Marx dall'eredità hegeliana e dalle sue implicazioni “idealiste” e “metafisiche”. Il che è tanto più paradossale, in quanto l'intento dell'ultimo Lukács era proprio quello di superare il proprio punto di vista giovanile, rinnegato in quanto più hegeliano di Hegel: “Il proletariato come soggetto-oggetto identico della storia dell'umanità, scrive Lukács nel 67, non è quindi una realizzazione materialistica che sia in grado di superare le costruzione intellettuali idealistiche: si tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di Hegel, di una costruzione che intende oggettivamente oltrepassare il maestro nell'audacia con cui si eleva con il pensiero al di sopra di qualsiasi realtà” (6). Il bersaglio è qui il modo in cui Storia e coscienza di classe tratta il tema dell'emergenza di una coscienza di classe che non sarebbe altro “che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale”, per cui il proletariato viene assimilato a una entità ideale investita del compito di attuare “la cosciente realizzazione dei fini dello sviluppo oggettivo della società”. Si tratta di una rappresentazione che rispecchia i canoni della logica hegeliana, per cui il proletariato ridotto a oggetto dal processo di valorizzazione del capitale si fa soggetto di sé stesso ascendendo allo stato di soggetto-oggetto identico. Ma “il soggetto-oggetto identico è qualcosa di più che una costruzione puramente metafisica?”. “E' sufficiente porre questo interrogativo con precisione, risponde Lukács, per constatare che ad esso occorre dare una risposta negativa. Infatti, il contenuto della conoscenza può anche essere retro-riferito al soggetto conoscitivo, ma non per questo l'atto della conoscenza perde il suo carattere alienato” (7) . 


L'ultimo Lukács prende le distanze anche dal modo in cui, in Storia e coscienza di classe, venivano  presentati i concetti di estraneazione e di totalità. L'estraneazione era posta sullo stesso piano dell'oggettivazione, ma così, argomenta Lukács, si rischia di giustificare il pensiero borghese che fa dell'estraneazione una eterna “condizione umana”, infatti, dal momento che il lavoro stesso è una oggettivazione e che tutti i modi di espressione umana, come la lingua, i pensieri e i sentimenti, sono tali, “è evidente che qui abbiamo a che fare con una forma universalmente umana dei rapporti degli uomini fra loro”( 8) ; per cui occorre ammettere che “l'oggettivazione è un modo naturale – positivo o negativo – di dominio umano del mondo, mentre l'estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali”(9). 


Passiamo al concerto di totalità. In Storia e coscienza di classe leggiamo: “l'isolamento astrattivo degli elementi, sia di un intero campo di ricerca sia dei particolari complessi problematici o dei concetti all'interno di un campo di ricerca è certamente inevitabile. Ma il fatto decisivo è se si intende questo isolamento soltanto come mezzo per la conoscenza dell'intero...oppure se si pensa che la conoscenza astratta del campo parziale mantenga la propria “autonomia”, resti fine a se stessa...per il marxismo non vi è in ultima analisi una scienza autonoma del diritto, dell'economia, della storia, ecc. ma soltanto una scienza unica e unitaria – storico-dialettica – dello sviluppo della società come totalità” (10). E ancora: “l'aspetto che fa epoca nel materialismo storico consiste nel riconoscimento del fatto che questi sistemi (economia, diritto e stato) apparentemente del tutto indipendenti, definiti ed autonomi, sono meri momenti di un intero ed è perciò possibile sopprimere la loro apparente autonomia” (11). Viceversa, nella Ontologia la totalità sociale è concepita come un “complesso di complessi”, nel quale ogni complesso appare eterogeneo rispetto agli altri e risponde ad una propria logica, irriducibile a quelle altrui. Se in Storia e coscienza di classe la visione determinista del processo storico appariva già parzialmente corretta attraverso il concetto di possibilità (dopo avere citato il detto di Marx che recita “l'umanità si pone solo dei compiti che è in grado di assolvere”, il giovane Lukács aggiungeva che “anche in questo caso è data solo la possibilità. La soluzione stessa può essere soltanto il frutto dell'azione cosciente del proletariato”), l'ultimo  Lukács si spinge ben al di là, negando l’esistenza stessa di una necessità storica assoluta, alla quale sostituisce una successione di catene causali del tipo “se questo...allora quello”, senza trascurare l'irriducibile ruolo del caso.


Ma la svolta ontologica è caratterizzata soprattutto dalla scelta di porre la categoria del lavoro a fondamento di una corretta interpretazione della storia umana. Storia e coscienza di classe, scrive  Lukács nella Prefazione del 67, “tendeva ad interpretare il marxismo esclusivamente come teoria della società, come filosofia del sociale, e ad ignorare o a respingere la posizione in esso contenuta rispetto alla natura” (12). Pur sforzandosi di rendere intelligibili i fenomeni ideologici a partire dalla loro base economica, quel testo sottraeva all'ambito dell'economia la sua categoria fondamentale, vale a dire “il lavoro come ricambio organico della società con la natura”. Invece di partire dal lavoro, Storia e coscienza di classe prendeva le mosse dalle strutture complesse dell'economia merceologica evoluta, ma così l'esaltazione del concetto di praxis, privato del lavoro come sua forma originaria e modello, si converte in contemplazione idealistica. Solo prendendo le mosse dal lavoro come fondamento e modello si può assumere un corretto approccio genetico all'analisi del processo storico: “Dobbiamo tentare di cercare le relazioni nelle loro forme fenomeniche iniziali e vedere a quali condizioni queste forme fenomeniche possano divenire sempre più complesse e sempre più mediate” (13). 


 Ne La filosofia imperfetta (14) Costanzo Preve scrive che il percorso evolutivo del pensiero di Lukács da Storia e coscienza di classe alla Ontologia può essere descritto come conversione a uno dei tre “regimi narrativi” utilizzati da Marx, scartando gli altri due. Secondo Preve il corpus teorico marxiano è infatti caratterizzato dai discorsi grande-narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale. Nel primo la categoria di soggetto è titolare di un’essenza che contiene in sé, in modo immanente, una teleologia necessaria, per cui il proletariato sarebbe “per sua stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico. Il secondo coincide  con una sorta di antropomorfizzazione della storia, nella misura in cui, alla narrazione dell’esistenza di un soggetto collettivo capace di imprimere una direzione al processo storico, associa l’ipotesi che tale processo sia animato da una necessità immanente. Viceversa l'ultimo Lukács approda a quel filone ontologico-sociale del pensiero di Marx che esclude qualsiasi automatismo teleologico inscritto nella storia: in quest'ultimo regime narrativo teleologia e causalità sono infatti compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire finalistico dell’uomo e costituisce nel contempo quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società. 



Per concludere: Preve sintetizza la svolta ontologica di Lukács in quattro punti : 1) il lavoro, in quanto attività umana volta a modificare la natura al fine di realizzare un prodotto che esiste già come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è l’unica via attraverso cui il fattore teleologico penetra nel mondo reale; 2) il lavoro, inteso non solo come ricambio organico uomo-natura, ma come somma di decisioni dirette a influenzare la coscienza di altri uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente”, gli atti lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che producono effetti irreversibili, nonché imprevedibili da coloro che le mettono in atto; 3) la realtà sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo causale naturalistico, bensì come l'insieme delle possibilità generate dal combinato disposto delle decisioni umane e delle catene causali da esse generate; 4) tali possibilità non possono essere realizzate senza l’intervento della posizione teleologica umano sociale (dal che deriva che la trasformazione rivoluzionaria del presente non è l’esito di automatismi, “oggettivi”, ma può avvenire solo grazie alla conversione della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole).


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Per  Lukács, il contributo di Marx alla comprensione della storia umana può dunque essere compreso solo se si parte dal fatto che il lavoro è la categoria centrale del suo pensiero, nella quale tutte le altre determinazioni sono contenute in nuce. Parliamo qui del lavoro utile, del lavoro come formatore di valori d’uso che “è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini” (vol. II, p. 265. Da qui in avanti tutte le citazioni della Ontologia e rispettivi riferimenti di volume e pagina si riferiscono all’edizione Pgreco del 2012, NdA). Il lavoro così inteso non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico in generale, ma è “l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale” (vol. III, p. 23).  Il ricambio organico fra uomo e natura differisce da quello delle altre specie viventi in quanto non è governato dall’istinto, ma dalla posizione consapevole dello scopo, ed è appunto per questa via che l’agire finalistico entra a far parte della realtà materiale, perdendo l’aura di fenomeno trascendente, ideale. Per Marx, argomenta Lukács, il lavoro risulta dunque il modello di ogni prassi sociale e solo tenendo conto di ciò la definizione del pensiero marxiano come “filosofia della prassi” può essere colta nel suo significato più rigoroso. 





Nella misura in cui l'economia, intesa come  processo di produzione e riproduzione della vita umana, entra a fare parte del pensiero filosofico, diviene possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica, ma ciò non significa che l'immagine marxiana del mondo sia fondata sull'economismo. Se infatti il pensiero considerasse il lavoro isolandolo dalla totalità del fenomeno sociale, rimuoverebbe il fatto che “ la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente” (vol. III, p. 14). Da un lato, nessuno dei fenomeni sociali appena evocati può essere compreso ove lo si consideri isolato dagli altri; dall'altro lato non vanno dimenticati, sia la loro scaturigine originaria dal lavoro, sia il fatto che, benché il lavoro continui a essere il momento soverchiante, non solo non sopprime queste interazioni ma al contrario le rafforza e le intensifica. 


L’ultimo passaggio ci fa capire come l'ontologia materialistica di Lukács sia esente da tentazioni meccaniciste. Vedi laddove scrive: “Solamente nel lavoro, quando pone il fine e i suoi mezzi, con un atto autodiretto, con la posizione teleologica, la coscienza passa a qualcosa che non è un semplice adattarsi all’ambiente, - dove rientrano anche quelle attività animali che oggettivamente, senza intenzione, trasformano la natura – ma invece un compiere trasformazioni nella natura stessa che a partire di qui, dalla natura, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”. A partire da tale momento, la coscienza non può più essere considerata un epifenomeno ed è prendendone atto che il materialismo dialettico si separa da quello meccanicistico. Va infine preso atto del fatto che, per Lukács, ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza, mentre influisce  sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro come ricambio organico fra uomo e natura: per quanto radicali possano essere gli effetti trasformatori generati dalla progettazione cosciente, scrive, “la barriera naturale può solo arretrare, mai scomparire completamente” ( vol. III, p. 103). 


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Per Lukács il principio della determinazione in ultima istanza della coscienza da parte del fattore economico non esclude il riconoscimento della relativa libertà del fattore soggettivo: il metodo dialettico, scrive, “riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva (…) né uno sviluppo storico privo di leggi (…) né un dominio meccanico 'per legge' dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo la funzione di momento soverchiante” (vol. II, pp. 290/91). Il modo in cui l'economia svolge tale ruolo di momento soverchiante va ulteriormente approfondito: Marx non sostiene che l'economia determina la coscienza, bensì che non è la coscienza degli uomini a determinarne l'essere sociale ma è piuttosto l'essere sociale a determinarne la coscienza; tuttavia, precisa Lukács, per Marx il mondo delle forme e dei contenuti di coscienza non è prodotto direttamente dalla struttura economica, bensì dalla totalità dell'essere sociale. La funzione soverchiante dell'economia si esercita dunque in modo indiretto, attraverso la mediazione della totalità dell'essere sociale, totalità di cui fanno parte sia l'economico che l'extraeconomico. 


La versione meccanicista del marxismo, nella misura in cui assume in modo unilaterale il principio del ruolo soverchiante dell'economia nel processo storico, attribuisce allo sviluppo delle forze produttive un peso determinante, se non esclusivo, nel processo di emancipazione dell'umanità dal regno della necessità; viceversa Lukács ribatte che il processo di sviluppo economico non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità perché ciò avvenga: “Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente libero, giacché il suo sì o no è legato ad esso soltanto sul piano delle possibilità” (vol IV, p. 511). In altre parole, la libertà che la filosofia della prassi concede al soggetto consiste nella facoltà di decidere in un campo di alternative date: “La determinazione (della coscienza) da parte dell’essere sociale è dunque sempre 'soltanto' la determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che nella natura non compare mai” (vol. I, p. 325).. Non sfugga l'ironia di quel “soltanto”, che sta a significare come sia più che giustificato definire soverchiante il potere di condizionamento dell'economia, senza dimenticare, al tempo stesso, che la libertà del soggetto umano, ancorché vincolata, è smisurata rispetto alla rigida legalità dei processi naturali. 


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La critica di  Lukács alla concezione meccanicista del marxismo implica, fra le altre cose, la negazione dell'esistenza di finalità immanenti al processo storico, contesta cioè la visione di quei teorici marxisti che cedono alla tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un obiettivo finale predefinito. Secondo costoro, “il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo,  porta al socialismo, sarebbe nella sua necessità in qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico)” (vol. III, p. 30). Contro questa tendenza Lukács ribadisce, da un lato, che non esistono processi teleologici immanenti alla storia, dall'altro lato che l'agire umano finalizzato (che ha nel lavoro la propria radice e il proprio modello) mentre è certamente in grado di mettere in atto processi causali, e anche di trasformare il carattere causale del loro movimento, non è tuttavia in grado di prevedere i propri risultati in misura tale da indirizzarli in modo univoco, dal momento che “le conseguenze causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto”(vol IV, p. 511). 





Marx non avrebbe quindi scoperto e descritto le “leggi” di sviluppo della storia umana? La verità, risponde Lukács, è che per Marx le leggi economiche oggettive “hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di 'se…allora'. La loro forma generalizzata, la loro elevazione al concetto non è la forma più pura della necessità, e nemmeno una mera generalizzazione intellettuale, ma invece una possibilità generale, un campo reale di possibilità per le realizzazioni legali concrete 'se…allora'” (vol. IV, p. 344). In altre parole, le “leggi” storiche si distinguono da quelle della natura in quanto sono conoscibili solo post festum, il che non esclude la possibilità di riconoscere l’esistenza di nessi generali, ma impone di ammettere che questi ultimi “si esplicitano nell’essere processuale, non 'come grandi bronzee leggi eterne', che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, 'atemporale', ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce” (vol. I, p. 308).


Se si nega l'esistenza di ogni fattore teleologico immanente al processo storico, che ne è del concetto di “progresso”? In effetti, diverse parti della Ontologia contengono una rigorosa critica dell'ideologia progressista. In particolare, Lukács si accanisce contro quelle che definisce le “concezioni volgar-meccanicistiche del progresso”, le quali fanno dello sviluppo delle forze produttive il presupposto non solo necessario, ma anche sufficiente, dell'emancipazione umana. Ciò significa appiattire l'essere sociale sulla dimensione economica, dimenticando che “lo sviluppo delle forze produttive è necessariamente anche sviluppo delle capacità umane, ma (…) lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana” (vol. IV, p. 562). Nel ribadire quest'ultimo concetto Lukács  rinfaccia agli “illusionisti del progresso” l'incapacità di prendere atto del fatto che “lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale, non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo, al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsele con intensità sempre maggiore, in maniera sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana” (vol. IV, p.670).


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Nel dialogo del 66 (15) Lukács, rispondendo alla domanda di uno dei tre intervistatori, afferma: “Credo che Gramsci avesse ragione quando osservava che noi usiamo in generale la parola 'ideologia' in due significati distinti. Da un lato si tratta del dato di fatto che nella società ogni uomo esiste in una determinata situazione di classe, cui naturalmente appartiene l'intera cultura del suo tempo, non può esserci nessun contenuto di coscienza che non sia determinato dall'hic et nunc. D'altro lato si originano certe deformazioni per cui ci si è abituati a intendere l'ideologia anche come una certa reazione deformata alla realtà...una coscienza cosiddetta libera da legami sociali non esiste”. 


Nel IV° volume della Ontologia citando un'opera sul pensiero di Croce (16),  Lukács reitera il giudizio positivo sulla tesi di Gramsci, tuttavia precisa che, mentre è vero che i marxisti intendono con ideologia la sovrastruttura ideale che necessariamente sorge da una base economica, dall'altro lato “è fuorviante interpretare il concetto peggiorativo di ideologia, che rappresenta una realtà sociale indubbiamente esistente, come un'arbitraria elucubrazione di singole persone”. Quindi prosegue affermando che, affinché un pensiero possa meritarsi la definizione di ideologia, non può essere  espressione ideale di un singolo ma deve svolgere una funzione sociale ben determinata, per cui occorre chiarire che cosa colleghi, in termini ontologici, i due concetti di ideologia cui allude Gramsci, quindi scrive: “L’ideologia è anzitutto quella forma di elaborazione ideale della realtà che serve a rendere consapevole e capace di agire la prassi sociale degli uomini. Deriva da qui la necessità e l’universalità di taluni modi di vedere per dominare i conflitti dell’essere sociale” ( vol. IV, p. 446).


Ogni reazione umana all'ambiente sociale può diventare ideologia, ma Lukács associa la genesi del fenomeno alla nascita di gruppi sociali differenti che condividono interessi comuni contrapporti a quelli di altri gruppi: “In questa situazione è contenuto per così dire il modello generalissimo della genesi delle ideologie, giacché questi conflitti si possono dirimere con efficacia nella società solo quando i membri dell’un gruppo riescono a persuadere se stessi che i loro interessi vitali coincidono con gli interessi importanti della società nel suo intero” (vol. IV, pp. 452-453); in altre parole, la nascita delle ideologie è il connotato generale della società di classe. 


Una cosa è che un gruppo sociale persuada sé stesso del fatto che i propri interessi coincidano con gli interessi generali della società, altra è cosa che riesca a persuaderne anche gli altri gruppi: è nel caso che ciò riesca, argomenta Lukács, che si può ricorrere appropriatamente al termine di ideologia, dopodiché aggiunge che tale pretesa ha successo se e quando l'ideologia in questione è quella dominante, e cita il noto passaggio della Ideologia tedesca che recita: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante” (17). Estendendo il discorso al conflitto di classe come conflitto fra ideologie, Lukács scrive poi che:  “una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per quello strato sociale anche un’ideologia efficace” (vol. I, p.245). In altre parole, per essere una forza materiale in grado di trasformare la realtà, una teoria deve assumere la forma di una ideologia. Ecco perché, al pari di Gramsci, Lukács respinge il punto di vista che attribuisce all'ideologia un carattere necessariamente negativo: a determinare la natura negativa o positiva di una ideologia è in ultima istanza il fine verso il quale essa indirizza l'azione, il fatto se esso coincide con gli interessi delle classi che lottano per emanciparsi dal dominio, o con quelli che intendono conservarlo. 




Una volta assunto tale punto di vista non è più possibile accettare le tesi di coloro che condanno a priori l'ideologia in quanto tale. Tesi sospette, argomenta Lukács, ricordando il fatto che le classi dominanti dell'Occidente post fascista, con la complicità delle socialdemocrazie, hanno trasformato  il rifiuto dell'ideologia fascista in rifiuto dell'ideologia tout court, dopodiché “ogni ideologia, ogni tentativo di dirimere conflitti sociali con l’ausilio di ideologie risulta a priori sotto accusa (…) non ci sono più veri conflitti, non c’è più campo di manovra per le ideologie: le differenze sono soltanto 'pratiche' e quindi regolabili 'praticamente' con accordi razionali, compromessi ecc. La deideologizzazione significa perciò illimitata manipolabilità e manipolazione dell’intera vita umana” (vol. IV, p. 770). Il discorso deideologizzante, ironizza Lukács, si fonda su quella “ideologia dell'anti-ideologia” che coincide con l'esaltazione della categoria astratta di “libertà” quale valore salvifico per tutte le questioni della vita.


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Descrivere il modo in cui Lukács tratta la questione del socialismo come transizione dal regno della necessità al regno della libertà non è facile. Ci provo partendo dalla questione della libertà in generale. Secondo il filosofo il problema della libertà può essere posto solo in un rapporto complementare con la necessità per cui il pensiero che mette in opposizione i due termini va respinto in quanto “identifica semplicemente il determinismo con la necessità, in quanto generalizza ed estremizza in termini razionalistici il concetto di necessità, dimenticando il suo carattere ontologico autentico di 'se…allora'. In secondo luogo, la filosofia premarxiana, anzitutto quella idealistica (…) per la massima parte estende in modo ontologicamente illegittimo il concetto di teleologia alla natura e alla storia, per cui ha grandissima difficoltà a impostare il problema della libertà nella sua forma vera, autentica, reale” (vol. III, p. 117). Viceversa tale problema, argomenta Lukács, può essere affrontato correttamente solo ricercandone il fondamento nella decisione concreta fra diverse possibilità concrete. 


Ciò detto, è possibile immaginare una società in cui la relazione fra necessità e libertà assuma  forme più avanzate? La risposta di Lukács prende ancora le mosse dalla categoria del lavoro: a fondare la possibilità (non la necessità!) di una forma sociale più avanzata del capitalismo è il fatto che “il lavoro teleologicamente, consapevolmente, posto contiene in sé fin dall’inizio la possibilità (dynamis) di produrre più di quanto è necessario per la semplice riproduzione di colui che compie il processo lavorativo”. Questa possibilità, prosegue Lukács, ha creato la base oggettiva della schiavitù, prima della quale esisteva solo l’alternativa di uccidere o di adottare il nemico fatto prigioniero; così come ha consentito la nascita delle successive forme economiche fino al capitalismo, nel quale il valore d’uso della forza-lavoro è la base dell’intero sistema, dal che si deduce che “anche il regno della libertà nel socialismo, la possibilità di un tempo libero sensato, riposa su questa fondamentale peculiarità del lavoro di produrre più di quanto occorra per la riproduzione del lavoratore” (vol. III, p. 136). 


Tuttavia il regno della libertà potrà essere effettivamente realizzato solo nel comunismo, come scrive Marx nel III libro del Capitale: “il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria”, mentre (sempre secondo Marx) nel socialismo in quanto prima fase del comunismo la libertà “può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca (…) Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa”. In sintonia con queste parole di Marx, Lukács ritiene che l'economia sia destinata a rimanere anche nel socialismo il regno della necessità, nella misura in cui la lotta dell'uomo con la natura per soddisfare i suoi bisogni non può finire, dato il suo fondamento ontologico. (vol IV, p. 510). 


A questo punto sorge l'interrogativo di come si configuri il “salto” dal socialismo al comunismo. Ricordiamo che, per Marx, l'uomo nuovo sarà emancipato da ogni genere di estraneazione, nella misura in cui tutti i sensi e le qualità umane verranno emancipate: “perché questi sensi e qualità sono divenuti umani sia soggettivamente che oggettivamente (in altre parole i sensi così 'umanizzati') si rapportano sì, alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento ha perciò perduto la sua natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento che l’utile è divenuto utile umano” (18). 





Lukács crede davvero in questo avvento dell'uomo autentico, che un autore come Ernst Bloch ha tradotto nella visione mistica del comunismo come paradiso in terra? (19) Mi sia consentito esprimere più di un dubbio. È pur vero che Lukács critica le correnti filosofiche, come l'esistenzialismo, che considerano l'estraneazione come una “condizione umana” eterna e universale, per cui evidentemente ritiene che la specifica forma storica che l'estraneazione assume nella società capitalistica debba e possa essere superata, ma ciò significa che pensa anche che ogni e qualsiasi tipo di estraneazione sia destinato a sparire nel comunismo realizzato? Se così fosse, saremmo di fronte a una profezia di “fine della storia” che appare in stridente contraddizione con la visione lukacsiana del processo storico che abbiamo fin qui tentato di ricostruire. Personalmente, ritengo che Lukács considerasse l'utopia marxiana, più che come una possibilità reale, concretamente attuabile, come una “ideologia” nel senso positivo chiarito poco sopra, vale a dire come una potenza materiale in grado di trasformare la realtà. Il fatto che una utopia abbia scarse o nulle probabilità di concretizzarsi, scrive per esempio,  “non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato (…) l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità(vol. IV, p. 522).



Nota sul leninismo di Lukács  


Lukács non è stato solo un filosofo: la sua biografia non è quella di un intellettuale engagé, bensì quella di un militante politico. Convertitosi al marxismo dopo la Prima guerra mondiale, si iscrisse al Partito comunista ungherese e partecipò alla rivoluzione del 1919, ricoprendo la carica di commissario all'istruzione per la Repubblica sovietica ungherese. Dopo il fallimento della rivoluzione, riparò a Vienna e pendolò fra Berlino e Mosca, dove rimase dopo l'avvento del nazismo e fino alla liberazione del suo Paese. Nel '56 partecipò al governo Nagy e, dopo l'intervento sovietico, fu allontanato dall'Ungheria e “confinato” per qualche tempo in Romania. Malgrado la sua convinzione in merito alla necessità di procedere a una riforma radicale del socialismo reale, e di condurre con più decisione e coerenza il processo di destalinizzazione, non espresse mai posizioni antisocialiste e filo occidentali. Questa coerenza di comportamento non è senza relazioni con il fatto che il tema del partito rivoluzionario sia uno dei pochi su cui le idee di Lukács sono rimaste immutate da Storia e coscienza di classe alla Ontologia, restando fedeli al pensiero di Lenin. 


Parto dal principio leninista secondo cui “la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti fra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi”. Secondo Lukács, tale principio non vale solo nelle condizioni di un Paese “arretrato” qual era la Russia del 1917, con un proletariato di recente formazione, ma appare ancora più giustificato nelle società a capitalismo avanzato del secondo dopoguerra, nelle quali gli strumenti di manipolazione delle masse proletarie da parte delle classi dirigenti si sono fatti immensamente più potenti. 


Lenin viene inoltre assunto da Lukács quale esempio del ruolo decisivo che il fattore causale può assumere nella storia, nel senso che solo il caso regala di tanto in tanto dei leader dotati di doti straordinarie sia sul piano teorico che sul piano politico. Una delle virtù fondamentali di queste figure consiste nella capacità di cogliere e sfruttare le opportunità offerte dalla drastica semplificazione delle decisioni che si accompagna alle situazioni rivoluzionarie: “Mentre nella quotidianità normale ciascuna decisione che non sia ancora divenuta completa routine viene presa in una atmosfera di innumerevoli se e ma (nelle situazioni rivoluzionarie) questa cattiva infinità di questioni singole si condensa in poche decisioni centrali” (vol. IV, p. 506). La parola d’ordine terra e pace, che giocò un ruolo decisivo nel 1917, in teoria appariva realizzabile anche nella società borghese, ma la genialità politica di Lenin fu quella di cogliere la contraddizioneper cui esse, da un lato, rappresentavano una aspirazione irreprimibile e appassionata di larghissime masse, dall’altro per la borghesia russa erano in pratica inaccettabili e in quelle date circostanze non potevano trovare appoggio, anzi neppure un’accoglienza passiva, neanche fra i partiti piccolo-borghesi. Cosicché finalità politiche che in sé non dovevano obbligatoriamente abbattere la società borghese, diventavano un materiale esplosivo, il veicolo per produrre una situazione nella quale la rivoluzione socialista poté essere attuata con successo” (vol. IV, p. 486). 


Se la Rivoluzione riuscì a vincere, argomenta Lukács, ciò fu reso possibile dall'approccio enti-economicista di Lenin: nessuna delle parole d'ordine con cui fu rovesciato il capitalismo russo era socialista, ma Lenin era consapevole che la rivoluzione non è il frutto della maturazione di presunte condizioni oggettive (sviluppo delle forze produttive, ecc.), ma diviene possibile quando “gli 'strati inferiori' non vogliono più il passato e gli 'strati superiori' non possono più vivere come in passato” (20). Mettendo in luce questa opposizione fra volere e potere, commenta Lukács, Lenin intende attirare l'attenzione sul modo opposto di presentarsi da parte della prassi politica ai suoi due poli, nella misura in cui “alla classe dominante basta la riproduzione normale, anzi la riproduzione non troppo anormale della vita per mantenere in piedi lo status quo, mentre gli oppressi hanno bisogno di un energico e unitario atto di volontà”. Questa “debolezza” strutturale della posizione  del proletariato rispetto a quella borghese è il motivo per cui, anche quando si è impadronito del potere “il proletariato continua a lottare con la borghesia con armi impari, fino al momento in cui non ha acquisito ingenua sicurezza nel proprio ordinamento giuridico come unico legittimo”(vol. IV, pp. 503-504). 


Il contributo di Lenin, secondo Lukács, è fondamentale anche in merito al problema della continuazione della lotta di classe dopo la presa del potere: vedasi quando, all'inizio degli anni Venti, si oppose a quegli esponenti dell'ala sinistra del partito bolscevico che invocavano la transizione immediata al socialismo. Lenin liquidò come “estremismo infantile” questa posizione in quanto era consapevole che, per consolidare il potere socialista, sarebbe occorso un lungo processo di transizione anche attraverso compromessi come quelli associati alla Nuova Politica Economica, che instaurava di fatto una inedita forma di capitalismo di stato. Compromessi accettabili a condizione che il controllo dello stato restasse saldamente in mano al proletariato e al suo partito. 


Note


(1) Nella sua Introduzione il filosofo rumeno Nicolas Tertulian, fondandosi sullo scambio epistolare che intrattenne con l'autore fino alla di lui morte, rivela come Lukács ritenesse di dover ulteriormente rimaneggiare i Prolegomeni e progettasse di dare seguito alla Ontologia scrivendo una Etica dedicata ai temi dell'ultima parte dell'opera. Sempre Tertulian ipotizza che i Prolegomeni siano stati scritti anche perché Lukács nutriva dei dubbi sulla suddivisione della Ontologia in una parte storica e una parte teorica, suddivisione superata nei Prolegomeni che contengono le idee di base della Ontologia in forma condensata (il che, per inciso, ne rende più difficile la fruizione rispetto agli altri volumi).


(2) Le annotazioni critiche degli allievi sono apparse alla fine degli anni Settanta sulla rivista aut aut. Tertulian ritiene che Lukács abbia scritto i Prolegomeni anche per rispondere alle critiche che gli erano state rivolte da coloro che avevano potuto leggere in anteprima il manoscritto, ma è convinto che il filosofo non abbia accolto gli argomenti dei critici; ritiene inoltre che tanto i ritardi nella pubblicazione quanto le critiche rispecchino la volontà degli allievi di prendere distanza dalle idee del maestro in un momento storico in cui il marxismo era sotto tiro (la successiva conversione di un'autrice come Agnes Heller al liberalismo conferma questa ipotesi).


(3) G.  Lukács, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano-Udine 2011.


(4) Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1970.


(5) Cfr. W. Abendroth, H. H. Holz, L. Kofler, Conversazioni con Lukács, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.


(6) “Prefazione”, a Storia e coscienza...cit., p. XXIV.


(7) Ivi, p. XXIV.


(8) Ivi, p. XXVI.


(9) Ivi, p. XL.


(10) Storia e coscienza di classe, cit., pp. 36, 37.


(11) Ivi, pp. 285-286.


(12) “Prefazione”, cit., p. XVI.


(13) Conversazioni con Lukács, op. cit., p. 17.


(14) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Proposta  di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.


(15) Conversazioni..., op. cit. p. 44.


(16) A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1949.


(17) K. Marx, L'ideologia tedesca, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947.


(18) Marx, MEGA, I. 3, p.120 (trad. it. Manoscritti economico-filosofici, cit. p. 329).


(19) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, 3 voll., Milano 2019. 


(20) V.I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale, in Opere complete XXI, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 191.



Tre video conferenze sul pensiero di  Lukács


https://www.youtube.com/watch?v=imObTk1vabQ

https://www.youtube.com/watch?v=z6q7KhmGK5g 

https://www.youtube.com/watch?v=PDZyxskQixs    

venerdì 7 marzo 2025

ANCORA SUL MARXISMO NERO
ANGELA DAVIS







Stimolato dal lavoro di traduzione del libro di K. Ochieng Okoth, RedAfrica (1), negli ultimi mesi ho accompagnato i lettori in una esplorazione del pensiero radicale nero discutendo i lavori di otto autori: Bouamama, Du Bois, Cabral, Rodney, Williams, James, Padmore, Césaire. Quest’ultimo lo avevo già incontrato, avendolo letto in parallelo agli scritti di Franz Fanon; di Bouamama avevo avuto occasione di ascoltare una videoconferenza nel corso di un recente convegno organizzato dalla Rete dei Comunisti; Cabral lo avevo letto diversi anni fa, ma a quel tempo ne avevo sottovalutato l'importanza, tutti gli altri sono stati invece straordinarie novità, e ringrazio Okoth per avermele fatte conoscere. 


Da marxista occidentale – ancorché eretico - ho cercato di entrare “in punta di piedi” in questo ambito ideale di cui ignoro molte cose, adottando lo stesso atteggiamento di rispettoso ascolto che che in passato ho assunto avvicinandomi al pensiero rivoluzionario asiatico e latinoamericano (nell’ultimo caso aiutato da alcuni viaggi in Sud America). Il confronto con gli autori rivoluzionari del Sud del Mondo implica affrontare una sfida fondamentale che consiste nel cercare di capire come sia avvenuto l’incontro fra una teoria come il marxismo – che accampa pretese universaliste ed eredita una serie di principi e valori  razionalisti/progressisti/illuministi che lo connotano  in senso eurocentrico - e tradizioni storiche, culturali, civili e religiose non meno antiche ma profondamente diverse dalle nostre. 


Laddove questo incontro si è rivelato possibile e fecondo (per esempio in Cina, nel Vietnam, a Cuba) ha forgiato armi formidabili per la lotta antimperialista e anticapitalista, e ha contribuito a innovare una teoria irrigidita da schematismi e dogmatismi che l’hanno resa incapace di interpretare e contrastare l’offensiva neoliberista nei centri metropolitani. Il caso africano è più complesso, sia perché una serie di esperienze che avrebbero potuto imboccare nuove vie di fuga dalla “normalità” del dominio occidentale sono state stroncate sul nascere (2), sia perché i contributi teorici più ricchi e interessanti (spesso frutto del pensiero nero diasporico, antillano e nordamericano) sono stati rimossi e neutralizzati dall’accademismo postcoloniale: vedi in proposito il già citato libro di Okoth (3). Ad onta di queste sconfitte, il marxismo nero ha accumulato un prezioso potenziale creativo e innovativo che aspetta solo di essere ri-attualizzato e valorizzato. 


Il tema di quest’ultima puntata - dedicata a una grande marxista afroamericana, Angela Davis - è apparentemente eccentrico rispetto a quelli trattati negli articoli precedenti. Apparentemente perché, se questi ultimi esploravano il rapporto fra conflitti di classe e conflitti di razza, convergendo nella critica della lettura “essenzialista” del razzismo, e mettendo a fuoco le radici “strutturali”, di classe, di tale ideologia, Donne razza e classe (4) è un invito ad abbandonare la lettura “essenzialista” del sessismo, cioè di un modo di analizzare il conflitto di genere a partire da un soggetto-donna presuntamente omogeneo. A questo approccio, tipico dell’ideologia tardo femminista, la Davis oppone un approccio marxista che parte dal rapporto strutturale fra capitalismo americano e oppressione delle donne di colore. 


una foto recente della Davis




Contro gli stereotipi sulle schiave nere


Generalmente, le femministe bianche tendono a dare per scontato che le donne nere condividano la loro stessa esperienza di oppressione di genere all’interno degli spazi domestici. Le cose non stanno così, replica la Davis. Le donne nere, scrive infatti, hanno sempre lavorato al di fuori delle loro abitazioni domestiche, e se oggi il lavoro sans phrase occupa nelle loro vite uno spazio enorme, ciò non rappresenta una novità rispetto ai tempi della schiavitù, allorché il lavoro coatto ne divorava quasi tutto il tempo. Chiunque voglia affrontare seriamente il tema della condizione delle donne nere sottoposte al regime della schiavitù, argomenta, deve prendere le mosse dal loro ruolo in quanto lavoratrici. Qui la Davis segue dunque la linea tracciata da autori come Eric Williams (5): allo stesso modo in cui costoro esaminano la condizione dello schiavo in quanto forza lavoro, prima di considerarne l’identità razziale, Davis esamina la condizione della schiava nera in quanto forza lavoro, prima di considerarne l’identità sessuale: in quanto entità lavorative che generavano profitto, scrive, esse potevano essere prive di genere. 


Nel secolo XIX sette schiavi su otto erano braccianti, maschi o femmine che fossero (e gli industriali schiavisti si servivano di uomini donne e bambini, quando i proprietari terrieri glieli offrivano) . In questo senso si potrebbe dire che esisteva una parità sessuale negativa, nella misura in cui entrambi i sessi vivevano le stesse condizioni di oppressione e sfruttamento da parte del padrone bianco. Certo, se erano fertili, le donne avevano una funzione produttiva in più: partorivano nuovi schiavi, bambini che potevano essere venduti e separati dalle madri “come si fa con i vitelli della vacca” ma, a parte questo, la schiavitù in quanto specifica forma economica del capitalismo ignorava i ruoli che governavano i rapporti di genere incorporati nell’ideologia della famiglia bianca ottocentesca (gli uomini al lavoro le donne in casa). 


Di più: la supremazia maschile nell’ambito delle comunità degli schiavi era scoraggiata perché il sistema non ammetteva “rotture nella catena di comando” che scendeva dall’alto in basso: padroni (uomini e donne), sorveglianti e schiavi, questi ultimi senza distinzioni di genere per non alimentare perniciose ambizioni di comando nel maschio nero. I nuclei familiari venivano spesso distrutti con la forza, aggiunge la Davis, anche se uomini e donne tentavano disperatamente di difendere proprie vite familiari dentro i risicati margini di autonomia di cui potevano disporre e, nell’ambito di queste precarie vite famigliari, vigevano relazioni egualitarie: per esempio, il lavoro domestico era equamente distribuito (anche in questo caso si può parlare di parità sessuale negativa, nel senso che tale lavoro rappresentava un peso comune che si aggiungeva a quello sfiancante dei campi). 


Parità anche nei ruoli e nelle forme di resistenza. Come tutti gli intellettuali neri radicali di cui mi sono occupato in post precedenti (6), anche Angela Davis sottolinea come, tanto nelle Antille quanto nelle Americhe continentali del  Nord e del Sud, le donne tentassero spesso di unirsi alle comunità degli schiavi fuggiaschi (maroons) anche se venivano più facilmente catturate, soprattutto quando cercavano di portarsi dietro i piccoli. E nelle piantagioni non era raro che assassinassero i padroni con il veleno e compissero sabotaggi come i loro compagni maschi. Era quando questi “delitti” venivano puniti che entrava in gioco la differenza sessuale. A parte i casi di infrazioni particolarmente gravi, che prevedevano la pena di morte sia per gli uomini che per le donne, lo stupro era una delle punizioni più frequenti per le donne, un atto, commenta Angela Davis, che fungeva, più che da soddisfazione degli appetiti sessuali dei maschi bianchi, da arma di dominio e repressione, da un lato fiaccando la volontà di resistenza delle donne, dall’altro demoralizzando gli uomini.



Una battaglia fra ex schiavi e soldati bianchi a San Domingo




Sulle donne bianche: razzismo e differenze di classe.


L’abolizione della schiavitù riduce la differenza fra donne di colore e donne bianche delle classi medie? Solo in minima parte, risponde Angela Davis: mentre a un quarto di secolo dall’emancipazione un gran numero di nere continuava a lavorare nei campi (7), e le poche che erano riuscite a diventare operaie svolgevano le mansioni più sporche e meno pagate, la condizione delle “sorelle” bianche subisce una trasformazione profonda: molte delle mansioni femminili che precedentemente erano svolte nell’ambito familiare (come lavoro a domicilio e/o lavoro riproduttivo complesso: fabbricazione di oggetti, tessitura, orticoltura, ecc.) vengono industrializzate, per cui le donne si ritrovano confinate nei ruoli riproduttivi più “bassi” e associati al lavoro di cura, divengono cioè “massaie” che non lavorano più fuori casa, una mutazione che, argomenta la Davis, produce “una nozione più rigorosa dell’inferiorità femminile”. 


Diverso il discorso per le donne bianche delle classi medio-alte: queste ultime, ancorché particolarmente attive nella campagna contro la schiavitù,  non erano quasi mai obbligate a lavorare per un salario, in quanto mogli di dottori, avvocati, giudici, commercianti e industriali. È in questo strato sociale che prende corpo il movimento suffragista che, osserva Angela Davis, produce documenti “proto-femministi” che propongono un’analisi della condizione femminile che trascura quella di tutte coloro che non appartengono alla classe delle autrici. 


Gli abolizionisti avevano contestato la schiavitù in quanto pratica ignobile e immorale, senza metterla in relazione con la sua funzione economica, vale a dire con il ruolo che aveva svolto nell’accumulazione primitiva (8), per cui le loro critiche non si estendevano al sistema capitalista; allo stesso modo, scrive la Davis, molte sostenitrici dei diritti delle donne consideravano il suprematismo maschile come una pecca di una società per il resto accettabile. E se le donne operaie avevano ogni diritto di paragonare la propria condizione a quella degli schiavi, aggiunge, le bianche di classe media che confrontavano la propria servitù domestica a quella dei Neri, implicitamente affermavano così che la schiavitù non era tutto sommato peggio del matrimonio. 


Quando iniziarono – più o meno nello stesso periodo - le lotte per il diritto di voto alle donne e ai Neri poteva sembrare che l’emancipazione avesse reso gli ex schiavi uguali alle donne bianche, ma questa idea rimuoveva quale terribile precarietà fosse associata alla “libertà” che il popolo nero aveva ottenuto: dal dissolversi del sogno dei “quaranta acri di terra e un mulo”,  al moltiplicarsi delle manifestazioni di odio razziale tanto al Sud che al Nord (dopo l’istituzione della leva militare al Nord vi furono rivolte nelle grandi città che causarono il massacro di centinaia di Neri, mentre al Sud il numero dei linciaggi crebbe esponenzialmente nei primi decenni successivi all’'emancipazione), all’uso sistematico del lavoro coatto dei carcerati neri (in continuo aumento anche per reati irrisori: una tendenza che perdura ai giorni nostri) per rimpiazzare il lavoro degli schiavi.  


Fin qui le analisi storiche e i ragionamenti critici della Davis non mi sono sembrati particolarmente sorprendenti, benché tutt’altro che scontati, devo invece confessare di essere rimasto scosso laddove l’autrice rivela che, tanto il movimento abolizionista, quanto quel movimento suffragista che le femministe di oggi rivendicano orgogliosamente fra le proprie radici storiche e ideologiche, erano intrisi del più bieco razzismo. Nella seconda metà dell’Ottocento, ricorda la Davis, fra le suffragiste e i loro simpatizzanti maschi era opinione comune che chiunque – intellettuali, politici, cenacoli culturali, ecc. - promuovesse il suffragio femminile fosse utile alla causa anche se manifestava opinioni apertamente razziste. Del resto gli abolizionisti avevano sempre sostenuto che le donne bianche, colte e nate negli Stati Uniti, avevano più diritto di votare dei Neri e degli immigrati (uomini e donne), in quanti questi ultimi – “barbari”, incolti e spesso analfabeti – non erano in grado di nutrire opinioni politiche razionali e motivate (9). Angela Davis cita in merito l’autorevole opinione di tale Elizabeth Cady Stanton che dichiarò in più occasioni che si sarebbe dovuto impedire qualsiasi progresso per i Neri se questo non avesse procurato immediati benefici per le donne bianche. 


In particolare, scrive ancora la Davis, per le femministe bianche le “sorelle” nere erano sacrificabili quando si trattava di fare la corte alle donne bianche del Sud per riceverne sostegno politico per i propri obiettivi: così la campagna per il voto alle donne sfruttava l’argomento che il voto delle donne bianche colte del Sud avrebbe neutralizzato gli effetti “sovversivi” della concessione del diritto di voto ai Neri. Si capisce perciò perché, non solo le donne nere, ma anche le lavoratrici bianche non fossero particolarmente affascinate dalla lotta per ottenere un diritto di voto che le avrebbe rese uguali ai loro uomini sfruttati e sofferenti. Del resto il conflitto di classe fra donne aveva altre validissime ragioni: per esempio, le bianche che lavoravano come domestiche erano immigrate europee che, come le ex schiave, erano costrette ad accettare qualsiasi lavoro, e le loro padrone della classe media bianca – femministe incluse -hanno sempre manifestato (anche oggi e non solo negli Stati Uniti: vedi più avanti l’Appendice) una forte riluttanza ad appoggiarne le lotte e a riconoscerne i diritti. Peggio: in caso di sciopero, le bianche dell’upper class incitavano le operaie a praticare il crumiraggio, in quanto ritenevano che, in questo modo, avrebbero rafforzato la propria posizione contrattale in quanto donne (10). Infine, sempre in materia di classismo femminista, la Davis ricorda la posizione di alcune esponenti del movimento in merito al tema della contraccezione: il controllo della nascite, rivendicato come un mezzo delle classi medie per agevolare la propria carriera lavorativa, era al tempo stesso indicato come uno strumento per ridurre la proliferazione della classi inferiori, cioè come un diritto nel primo caso e un dovere nel secondo, anche per impedire che il popolo americano corresse il rischio di essere sostituito da Neri e stranieri migranti grazie ai loro alti tassi di natalità (vi ricorda qualcosa?)


Per concludere questo piccolo museo degli orrori, resta da citare l’atteggiamento di alcune intellettuali del movimento femminista americano nei confronti del fenomeno del continuo aumento del numero di Neri mutilati, uccisi e/o condannati a morte per false accuse di stupro: queste anime candide non esitavano a rilanciare lo stereotipo secondo cui i Neri sono più propensi alla violenza sessuale, per cui, fingendo di perorare la causa di tutte le donne, si ergevano a paladine delle donne bianche minacciate dalla libidine nera (la Davis cita in merito il caso agghiacciante di una distinta madama che, di fronte al caso del massacro di un tredicenne accusato di molestie su una bianca, se la cava dicendo che sicuramente deve avere avuto le sue colpe). 



Appendice. Femminismo señorial; Butler sulla notte di Colonia; Davis sul salario al lavoro domestico.


I.

Poco sopra citavo la critica di Angela Davis alle proto-femministe americane di classe media che si sono ben guardate dal sostenere la lotta delle lavoratrici domestiche (nere e bianche immigrate) per il riconoscimento dei propri diritti. Si tratta di un’osservazione che non ha perso di attualità nel mondo occidentale contemporaneo, mentre assume sfumature razziste e classiste ancora più evidenti in certi Paesi Latinoamericani. Per esempio, mentre mi trovavo in Ecuador per una ricerca sulla Revolucion Ciudadana di Rafael Correa mi sono imbattuto in un articolo di M. Cabezas Fernández (11) che definisce femminismo señorial l’atteggiamento di alcune deputate boliviane sulla lotta delle lavoratrici domestiche di etnia india. Riporto qui di seguito integralmente quanto scrivevo in merito in Utopie letali (12): 


M. Cabezas Fernández racconta la lotta delle lavoratrici domestiche boliviane: indie affidate in tenera età a famiglie della borghesia bianca di città, costrette a lavorare sedici ore al giorno senza retribuzione (ricevono solo vitto e alloggio), finché vengono rispedite alle famiglie di origine nelle stesse condizioni in cui avevano lasciato la foresta amazzonica. Queste donne si sono organizzate in sindacato per chiedere un salario minimo garantito e il riconoscimento dello status di lavoratrici. La lentezza con cui hanno ottenuto giustizia è dipesa dall’opposizione incontrata da parte di alcune parlamentari femministe di sinistra perché: le ragazze non erano trattate come serve bensì come “figlie” e del resto molte famiglie non sarebbero state in grado di pagarle. La Fernández contrappone a questo atteggiamento un femminismo critico che non consideri le donne una categoria omogenea e riconosca che la “sorellanza” non è un presupposto naturale, bensì il risultato di una costruzione politica che tenga conto delle differenze di classe e di identità culturale.


II.

Il noto episodio della notte del 31 dicembre 2015, durante la quale una folla di immigrati musulmani ha invaso il centro di Colonia e molestato alcune cittadine tedesche che festeggiavano il capodanno, ha innescato un duro scontro fra femministe tedesche e la filosofa americana Judith Butler il cui commento sull’evento in questione è stato accusato di relativismo culturale e indulgenza nei confronti del maschilismo islamico. Ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo (13) ho difeso le ragioni della Butler con la seguente argomentazione:


Judith Butler



Le critiche che Butler rivolge all’universalismo femminista riguardano il mancato riconoscimento: 1) del fatto che le donne non sono l’unico segmento di popolazione esposto a condizioni di precarietà e di privazione dei diritti; 2) del fatto che la popolazione sussumibile sotto la denominazione minoranze di genere e sessuali (come gli/le appartenenti alle comunità LGBTQ) è differenziata al proprio interno in termini di classe, razza, religione, appartenenze comunitarie, linguistiche e culturali. Da questa duplice presa d’atto, la Butler fa derivare la seguente conseguenza: il movimento femminista deve diffidare delle forme di riconoscimento pubblico, soprattutto se e quando tali riconoscimenti servono a deviare l’attenzione dal disconoscimento dei diritti di altri soggetti. In breve: se Butler parla della necessità, in casi come quello della notte di Colonia, di portare avanti un discorso antisessista che sia al tempo stesso antirazzista, non lo fa per negare la gravità dell’episodio, bensì perché si propone di indagare le vie attraverso le quali “la precarietà potrebbe operare come luogo di alleanza fra gruppi di persone che, al di là di essa, hanno poco in comune, o tra i quali c’è talvolta persino diffidenza o antagonismo”.


III.

A metà degli anni Settanta, trovandomi a Padova per completare il mio percorso di studi in Scienze Politiche, ho avuto occasione di discutere con un gruppo di amiche femministe guidato da Mariarosa Dalla Costa, le quali teorizzavano la necessità di lottare per ottenere un salario per il lavoro domestico. Leggendo a decenni di distanza il libro di Angela Davis, ho potuto constatare che le ragioni con cui critica questa linea politica coincidono in larga misura con quelle da me allora avanzate. Le sintetizzo qui di seguito 


1) La rigenerazione della forza lavoro, scrive la Davis, non è parte integrante del processo di produzione sociale ma un suo prerequisito. Qui è sollevato un punto teorico complesso che chiama in causa la progressiva sussunzione di tutti gli aspetti della vita sociale – compresa la rigenerazione della forza lavoro - sotto il processo di valorizzazione del capitale - vedi in merito le tesi di Nancy Fraser (14). Si tratta di una questione che non ho qui modo di approfondire, perché richiederebbe una discussione assai ampia. Mi limito ad osservare che il punto di vista della Davis si riferisce al processo di produzione sociale in generale, mentre quello della Fraser si riferisce specificamente al processo di produzione capitalistico nella sua fase avanzata di terziarizzazione del lavoro. Quindi il dilemma diventa: la colonizzazione capitalistica di tutti i mondi vitali e la conseguente monetizzazione di ogni attività umana è un dato di fatto da accettare (Fraser) o è giusto opporvisi (Davis)? 


2) Nella misura in cui opta per il rifiuto della sussunzione capitalistica dei mondi vitali, Angela Davis considera la rivendicazione del salario al lavoro domestico una forma di adattamento alla logica interna al capitalismo, e quindi la giudica una mossa politica controproducente nella prospettiva di una opposizione antagonista al sistema (si tratta dunque di una critica analoga a quella rivolta agli abolizionisti e alle femministe – vedi sopra – laddove questi assumono atteggiamenti che, mentre rifiutano sul piano morale determinate ingiustizie, lasciano intendere che, una volta che esse siano state eliminate, il sistema può essere accettato così com’è). 


3) Quante sarebbero, si chiede Angela Davis, le donne davvero disposte a occuparsi per sempre di faccende domestiche pur di ottenere un salario? Le donne di servizio sono quelle che conoscono sulla loro pelle che cosa significhi avere un salario in cambio del lavoro domestico, una consapevolezza che evidentemente manca alle donne della classe media che avanzano questa rivendicazione.


4) Invece del salario al lavoro domestico, sostiene infine la Davis, sarebbe meglio rivendicare la sua industrializzazione, creando una serie di servizi pubblici accessibili ale classi lavoratrici. 



Note


(1) K. Ochieng Okoth, Red Africa, Meltemi, Milano 2024. 


(2) L’elenco dei leader di governi e movimenti di liberazione rovesciati o fatti assassinare dagli agenti dell’imperialismo occidentale è interminabile (Lumumba, Cabral, Nkrumah ecc.). Lo stesso dicasi dei leader dei movimenti neri radicali nelle Americhe (Malcolm X, Carmichael, Rodney, ecc.).


(3) Vedi in particolare i capitoli dedicati alla critica dell’Afro pessimismo 2.0 e dei teorici del postcoloniale in K. O. Okoth, op. cit.


(4) A Davis, Donne razza e classe, Alegre, Roma 2018.


(5) Cfr. E. Williams, Capitalism and Slavery, University of North Carolina Press 1944 – 1994.


(6) Oltre a quello su E. Williams, vedi i post su Amilcar Cabral, William Du Bois, George Padmore, Walter Rodney, Cedric Robinson e C. L. R. James.


(7) Sullo svanire del sogno di un lavoro decente (quaranta acri di terra e un mulo) subito dopo l’emancipazione, vedi i racconti di W. Du Bois sulla condizione di donne e uomini ridotti a lavorare come braccianti in condizioni non molto migliori di quelle degli schiavi di un tempo (Les âmes du peuple noir, Editions Rue d’Ulm, Paris 2004). 


(8) Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIV, “La cosiddetta accumulazione originaria”.


(9) Con gli stessi argomenti, le attuali élite borghesi dei Paesi occidentali (senza distinzione fra destra e sinistra) si scagliano contro gli elettori “incolti”che “votano male”.


(10) Anche in questo caso troviamo una corrispondenza con l’atteggiamento attuale di certe élite femministe piccolo-medio borghesi che antepongono i propri interessi di carriera a qualsiasi motivazione politico-ideologica.


(11) M. C. Fernandez, “19 años de lucha por la ley 11 en el parlamento”, Iconos, n. 44, settembre 2012.


(12) C. Formenti, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013.


(13) C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.


(14) Cfr. N. Fraser, Fortune of Feminism; Verso, New York 2013; vedi anche Capitalism (con R. Jaeggi), Polity Press, Cambridge 2018.

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