FUREDI: SACROSANTA CRITICA DEL POLITICAMENTE CORRETTO O APOLOGIA DELL'IMPERIALISMO OCCIDENTALE?
Riprendo a scrivere su questa pagina dopo una lunga pausa, che non è purtroppo dipesa dall’essermi dedicato a sollazzi balneari o a passeggiate fra ameni boschi montani, bensì dal fatto che mi sono dedicato a tempo pieno a completare la prima stesura di un libro che uscirà dall’editore Meltemi nei primi mesi del 2026, quasi contemporaneamente a un lavoro di Alessandro Visalli. I due volumi avranno lo stesso titolo Oltre l'Occidente, benché con sottotitoli diversi, in quanto sono parte di un unico progetto al quale lavoravamo da tempo. Dirò qualcosa in merito a conclusione dell’articolo che trovate qui di seguito, soprattutto per sottolineare che le nostre riflessioni divergono di centottanta gradi rispetto a quelle dell’autore che sto per commentare.
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Una delle massime più sballate di cui io sia a conoscenza è quella che recita “il nemico del mio nemico è mio amico”. Si tratta di un principio basato su un logica binaria e paranoica. Binaria, nel senso che semplifica brutalmente la realtà, riducendola a una serie di opposizioni: questo o quello, l’uno o l’altro, sopra o sotto, destra o sinistra, un punto di vista che rispecchia lo spirito di un’epoca dominata dalla successione di zero e uno che consente il funzionamento dei computer, macchine chiamate anche calcolatori appunto perché calcolano, non pensano, ma simulano il pensiero umano. Paranoica, perché rassicura chi non riesce a comprendere la complessità del reale, con le sue contraddizioni, ambiguità e sfumature, consentendogli di distinguere a priori chi e cosa considerare amico da chi e cosa guardarsi in quanto nemico (reale, possibile o immaginario). A ricordarmi quanto sia sbagliata la massima di cui sopra è stata la lettura di un libro fresco di stampa: La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica di Frank Furedi (Fazi editore).
Il titolo mi era parso curioso: bizzarra l’idea di fare guerra a qualcosa che non esiste, se non in forma immateriale, in quanto è, appunto, passato...Ciò detto, mi aveva rassicurato il sottotitolo che spiega la metafora e, soprattutto, sembra suggerire che io e l’autore abbiamo un nemico comune (il politicamente corretto). Poi mi sono ricordato che quattro anni fa avevo pubblicato su questa pagina un articolo contro la cultura politicamente corretta, che definivo autoritaria e violenta, nel quale partivo da due libri (entrambi usciti da Meltemi) : Politicamente corretto, di Jonathan Friedman e I confini contano, dello stesso Frank Furedi.
In quel lavoro Furedi criticava l’ideologia cosmopolita celebrata dal sociologo tedesco Ulrich Beck, nella quale vedeva, giustamente, un atteggiamento elitista e aristocratico nei confronti delle masse popolari che possono trovare rappresentanza ai propri interessi solo nella cornice istituzionale dello stato-nazione. Pur condividendo tale critica, osservavo che Furedi diceva poco o nulla sulle radici di classe e sugli interessi materiali associati all’ideologia cosmopolita. Di più: asseriva di non credere alla possibilità di risalire alle cause “oggettive” che alimentano determinate ideologie, che a suo avviso sarebbero dotate di un’autonoma dinamica evolutiva.
Leggendo l‘Introduzione di Andrea Zhok a questo nuovo saggio, mi sono illuso che Furedi potesse avere superato tale punto di vista, palesemente idealista. Soprattutto perché, in alcuni passaggi, Zhok sottolinea la convergenza fra un liberalismo di destra che concepisce il progresso esclusivamente in termini di crescita economica, e un liberalismo di sinistra che celebra la necessità di emancipare l’individuo da tutti i vincoli culturali tradizionali (ottimo viatico per scatenare gli “spiriti animali” del capitalismo...). Vuoi vedere, mi sono detto, che Furedi ha capito che liberalismo di sinistra e di destra incarnano gli stessi interessi di classe? Purtroppo, dopo avere letto con attenzione, e con irritazione crescente, le trecento pagine del libro, confesso di non avere trovato traccia alcuna di tale ravvedimento metodologico. Al contrario, mi è parso, come cercherò di dimostrare, che la posizione di Furedi si sia fatta ancora più idealista, nonché connotata in senso reazionario, piuttosto che conservatore nel significato positivo che ritengo possibile attribuire al termine.
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Uno spot pubblicitario che girava qualche anno fa in tv fa mostrava una serie di scene in cui il protagonista si impegnava in un gioco competitivo contro un avversario palesemente più debole (per esempio un adulto che giocava a calcio contro un bimbo di tre anni), la scena era accompagnata da una voce in sottofondo che recitava “ti piace vincere facile?”. Dopodiché seguiva il messaggio sul prodotto (che non ricordo quale fosse, il che dimostra che, a volte, la pubblicità fallisce il bersaglio perché la narrazione che usa è così divertente da eclissare l’immagine del marchio che vuole promuovere).
Evidentemente anche a Furedi piace vincere facile. Per centinaia di pagine sciorina infatti gli esempi più assurdi, paradossali (al limite, e spesso al di là, del demenziale) della cancel culture e del linguaggio politicamente corretto. Azioni e comportamenti di personaggi e culture di epoche distanti secoli, o addirittura millenni, dalla nostra che vengono anacronisticamente denunciati come lesivi della sensibilità (o addirittura dell’equilibrio emotivo) di questa o quella minoranza: il razzismo di Aristotele, il sessismo di Shakespeare, il machismo di Giulio Cesare e via delirando. Sedicenti storici e antropologi che esibiscono la “prova” che la maggioranza degli uomini del paleolitico erano trans. Contorti equilibrismi linguistici per sostituire parole come padre e madre, marito e moglie, portatori di handicap vari. Totalitarismo linguistico: le parole bandite dal vocabolario politicamente corretto non sono solo motivo di biasimo sociale, attivatori di censura e di quella che una sociologa tedesca ha definito la spirale del silenzio (1) (evito di usare certi termini in pubblico perché temo di espormi a giudizi negativi), possono essere addirittura essere causa di licenziamento e/o di sanzioni economiche. Giovanilismo (le idee di chi ha superato una certa età sono prive di valore).
Più interessanti alcune osservazioni storico-geografiche in merito alle radici del fenomeno. In particolare: il contributo che il futurismo italiano (e il fascismo!) ha dato all’ideologia giovanilista nella prima metà del Novecento; lo slogan “il personale è politico” lanciato dal movimento femminista alla fine degli anni Sessanta come modello di “politicizzazione dell’identità” replicato da tutti i movimenti che hanno avuto come protagoniste una serie di minoranze sociali – gay, trans, lesbiche, queer, ecc.- decise a imporre i propri principi, valori, regole di comportamento e codici linguistici all’intera società; il ruolo fondamentale giocato dai movimenti progressisti e dall'ambiente accademico angloamericani nel diffondere la cancel culture e il politicamente corretto nel resto del mondo occidentale.
Molto bene. Ma quali le cause storiche, economiche, politiche e sociali del fenomeno? Furedi non dice pressoché nulla in merito. Prima, quando accennavo al suo approccio idealista all’argomento, intendevo esattamente questo: il nostro sembra convinto che tutti i fenomeni in questione sono l’esito di un’evoluzione spontanea del mondo delle idee, mutazioni ideologiche le cui cause affondano nella psicologia individuale e di gruppo, né hanno la minima relazione con la dimensione degli interessi e dei conflitti socioeconomici, con la lotta fra classi sociali e/o fra nazioni dominanti e nazioni dominate. Ciò sarebbe ancora il meno, nel senso che a Furedi si potrebbe imputare solo l’incapacità di spingere l’analisi al di sotto della superficie dei fenomeni. Il guaio è che il nostro inquadra il suo discorso in una cornice ideologica che non so definire altrimenti che reazionaria.
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Parto da una battuta allucinante che ho pescato fra altre perle: “la destra ha vinto la guerra economica, la sinistra ha vinto la guerra culturale” (!!!???). Che la destra abbia vinto la guerra economica non vi sono dubbi, ma in che senso la sinistra avrebbe vinto la guerra culturale, almeno che con ciò Furedi non si riferisca al leitmotiv delle destre neofasciste italiane che da anni denunciano la “dittatura” della cultura di sinistra che, secondo costoro, dominerebbe le redazioni di tv e giornali (peccato che siano ridotte a portavoce della Nato…), le case editrici (tutte in mano a noti sovversivi…), le università (dove Marx è sparito dai programmi d’esame), ecc.
A parte le battute, ciò che Furedi ignora, o finge di ignorare, è che le guerre di cui parla non sono due bensì una, che non è stata vinta né dalla destra né dalla sinistra, bensì dal capitale. È il neoliberismo (che è in primo luogo una prassi socioeconomica e solo secondariamente l’ideologia che la legittima) che da decenni trionfa e domina la scena occidentale, tagliando posti di lavoro, salari e welfare e allargando a dismisura il divario fra super ricchi e classi lavoratrici. Ed è il liberalismo “di sinistra” che “vince” le futili battaglie del politicamente corretto, mentre ritaglia privilegi per le classi “creative” che dominano i tradizionali partiti di sinistra, i quali hanno tradito gli interessi delle masse popolari e raccolgono i voti dei ceti medio alti che abitano i centri storici delle metropoli gentrificate.
La guerra è dunque una sola, come hanno capito Boltanski e Chiapello (2), i quali spiegano come gli strati sociali protagonisti del 68, e le successive sinistre “identitarie”, abbiano accantonato gli obiettivi per cui lottavano mezzo secolo fa, rimpiazzandoli con le demenziali “battaglie” descritte da Furedi. Battaglie che non scalfiscono minimamente gli interessi delle élite dominanti, tanto che, non a caso e come lo stesso Furedi scrive, queste sono le prime a promuovere la cancel culture sia nelle imprese che nelle istituzioni. Perciò, quando scrive che il “presentismo” (come chiama l'atteggiamento che svaluta i valori tradizionali) prescinde dalla divisioni ideologiche e partitiche, Furedi ha perfettamente ragione, ma non nel senso che dice lui, bensì nel senso che è l’ideologia comune alle élite dominanti e agli strati sociali che ne condividono gli interessi, mentre si oppongono agli interessi di quelli che stanno “sotto” (che non a caso si rivolgono ai populismi di destra).
Veniamo al vero bersaglio polemico di Furedi. Il suo cruccio non nasce dal fatto che i guerriglieri della cancel culture criticano alcuni aspetti dell’Occidente, bensì che costoro, a suo avviso, ne attaccano l’intera eredità culturale, che il loro bersaglio è l’Occidente stesso. Magari, mi viene da dire. Se ciò fosse vero non lotterebbero per cambiare qualche voce del vocabolario, per censurare a posteriori i testi di Aristotele, Shakespeare e Kant o per buttare giù qualche statua, lotterebbero contro la politica guerrafondaia della Nato e della Ue, contro il supersfruttamento dei lavoratori, contro la censura che imperversa nei media occidentali. C’è chi, qualche anno fa, nel Paese dove Furedi insegna, ha provato a rivitalizzare un progetto di trasformazione socialista della Gran Bretagna. Si Chiamava Corbyn ed era miracolosamente riuscito a diventare segretario di un Partito Laburista che, con Tony Blair, si era macchiato di complicità con l’oscena aggressione imperialista al popolo iracheno. Ma Corbyn è stato prontamente rovesciato anche grazie alle accuse di “antisemitismo”.
Il tema è interessante, perché Furedi rivolge alle minoranze identitarie che promuovono la cancel culture l’accusa di “vittimismo” (non posso ascoltare certo discorsi perché mi “danneggiano”, affondano il ferro nella piaga della mia storia di esclusione e marginalità sociale). C’è però un caso in cui, per Furedi, il vittimismo alimentato dalle persecuzioni subite in passato non è solo giustificato, ma giustifica a priori tutti i crimini che la vittima può impunemente commettere al giorno d’oggi. Mi riferisco, ovviamente, alla politica colonialista, razzista e genocida del governo fascistoide di Netanyahu nei confronti del popolo palestinese. Furedi si scaglia contro l’attrice Susan Sarandon e altri artisti, rei di avere manifestato “comprensione”nei confronti delle motivazioni di Hamas.
Per inciso, Furedi critica l’atteggiamento di chi condanna gli storici che manifestano comprensione nei confronti dei pregiudizi razzisti o sessisti di certi grandi del passato, perché ciò significherebbe giustificarli, dopodiché si comporta esattamente nello stesso modo (tipico caso di doppia morale). Non solo: ha un atteggiamento negazionista nei confronti dei genocidi perpetrati dal colonialismo occidentale nei confronti dei popoli amerindi, africani, australiani e asiatici, perché la Shoah detiene il diritto esclusivo (il copyright) di essere definito genocidio (3). Non a caso, mentre si indigna (giustamente) sul massacro commesso da Hamas, non spende una parola sulle decine di migliaia di palestinesi, in gran parte bambini, massacrati dall’esercito israeliano. Se i neri sudafricani e americani abbattono la statua di Rhodes è vittimismo (forse pensa che anche gli assassinii dei neri da parte della polizia statunitense, sistematicamente impuniti, e la memoria storica degli orrori dell’Apartheid siano vittimismo).
E ancora: l’imperialismo britannico, ammette, ha qualche crimine sulla coscienza (6), ma ciò non giustifica chi equipara tali crimini a quelli del Terzo Reich, né chi cerca di sminuire la figura storica di Churchill, che era sì un feroce reazionario (l’aggettivo ce l’ho messo io), ma non si possono dimenticare “la sua leadership carismatica e le sue gesta encomiabili”. Mi fermo qui, mentre, nell’ultima parte di questo articolo, lascerò ad alcune anticipazioni dei temi dei due libri cui accennavo sopra il compito di spiegare perché considero questo libro di Furedi uno dei più reazionari manifesti filo occidentali che mi sia capitato di leggere.
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Scrive Furedi: “i filosofi occidentali avevano pregiudizi tipici del loro tempo ma hanno sviluppato una mentalità universalistica”. Il nodo problematico da cui partono i due volumi di “Oltre l’Occidente” è esattamente questo: entrambi critichiamo l’universalismo occidentale, sia nella sua veste di universalizzazione del modo di produzione capitalistico, sia nella sua veste di universalizzazione della democrazia e dei diritti dell’uomo, descrivendone la natura di macchina da guerra che ha provato, fallendo allorché pensava di essere vicina all'obiettivo, di sottomettere l’intero pianeta ai propri valori, principi e regole. Entrambi celebriamo il tramonto di tale progetto, sia pure da punti di vista diversi (Visalli dedica ampio spazio alle teorie postcoloniali e decoloniali, tema che io tratto solo in un capitolo della Terza Parte e nell’Appendice sulle sinistre postmoderne; Visalli mette la tecnologia al centro del proprio lavoro, mentre io dedico particolare attenzione alle lotte di liberazione nazionale in Africa e all’ideologia panafricanista). Infine entrambi ci occupiamo della sfida cinese all’egemonia occidentale.
Vengo ora al paragone, che scandalizza Furedi, fra colonialismo e nazismo. Lascio la parola a un autore che scriveva in tempi non contaminati dalla cancel culture, Aimée Césaire:“Varrebbe la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di avere applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa” (4). Del resto, è arcinota l’ammirazione di Hitler per i metodi del colonialismo inglese (“nessun popolo, scrive il Furher in Mein Kampf, ha saputo preparare le sue conquiste economiche meglio che con la precisa brutalità della spada, né le ha sapute difendere con più spregiudicatezza degli inglesi”).
Si è tentato di liquidare il nazismo come un “unicum” storico che nulla ha a che fare con le liberal democrazie euroatlantiche, le quali pensano di essersi ripulite di ogni colpa celebrando il processo-farsa di Norimberga (nel quale si è taciuto sulla nuclearizzazione di Hiroshima e Nagasaki e sui bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, due infamie perpetrate malgrado la guerra fosse ormai alla fine). Sempre Césaire ricorda che i milioni di neri, arabi, indiani, amerindi, cinesi, vietnamiti, irlandesi, ecc. massacrati dalle potenze colonialiste occidentali, superano di decine di volte le vittime della Shoah, e che i metodi usati dagli imperialismi occidentali per stroncare la resistenza di altri popoli, non hanno nulla da invidiare a quelli praticati nei lager del Terzo Reich (5). La vera differenza è la ipocrisia, il ricorso a giustificazioni “ideali” al posto delle brutali rivendicazioni di dominio naziste. Infine, a proposito della celebrazione che Furedi dedica all’eroismo di Winston Churchill, lo invito a leggere con attenzione il profilo biografico che ne traccia Caroline Elkins (6): un feroce reazionario che simpatizzò per il nazismo (al pari del Duca di Windsor, di Henry Ford e di molti industriali e politici angloamericani) finché sperò di poterlo usare contro l’URSS; che rivendicò i lager per i prigionieri afrikaner durante la guerra boera; che giustificò i crimini britannici in India; che teorizzò il terrorismo aereo praticato durante nella guerra coloniale irachena (poi adottato dagli Usa in Vietnam e da Israele a Gaza), che fu complice della spietata repressione della resistenza irlandese, ecc. Insomma: un Goehring britannico con sigari e bombetta.
Chiudo con un ultima riflessione che traggo dalla Seconda Parte del libro che ho appena finito di scrivere, nella quale mi occupo di storici di lungo periodo come Braudel, Pomeranz e Arrighi. Il passato in quanto entità ideale omogenea cui sembra riferirsi Furedi - il quale in realtà ha in testa il mito della civiltà occidentale e delle sue presunte radici greco-romane ed ebraico-cristiane (7) – non esiste. O meglio, non esiste un unico passato storico, esistono molti passati, flussi temporali intrecciati, paralleli e mai unitari, se non come tempo astronomico. Segnati da conflitti e contraddizioni, caratterizzati da processi che durano nei secoli, come da rotture e discontinuità. Contro alcuni di questi passati, checché ne dica Furedi, è giusto scendere in guerra, perché pesano come macigni sulla nostra capacità di immaginare un mondo alternativo, mentre altri meritano di essere esaltati perché contengono i germi di una emancipazione possibile. Ciò detto, Furedi continui pure a celebrare la gloria dell’Union Jack, io di quel vessillo amo un solo colore. Il rosso.
Note
1) Cfr. E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio, Meltemi, Milano 2017.
2) L. Boltanski, L. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.
3) Sui genocidi coloniali cfr. L. Pegoraro, I dannati della terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australia, Meltemi, Milano 2019. Per una critica della "religione olocaustica" cfr. C. Preve, Opere, vol. II, Schibboleth, Roma 2022, pp. 105 e segg.
4) A. Césaire, Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2020, p. 57.
5) Ibidem
6) Cfr. C. Elkins, Un'eredità di violenza. Una storia dell'imperialismo britannico, Einaudi, Torino 2024.
7) Sulla costruzione del mito delle radici greche ed ebraico-cristiane della civiltà occidentale cfr. C. Preve, op. cit.; vedi anche Samir Amin, Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia, La Città del Sole, Napoli-Potenza 2008.