Lettori fissi

lunedì 23 gennaio 2023

GUERRA E RIVOLUZIONE
(PREFAZIONE)


Il testo che anticipo in questo post è la Prefazione del libro "Guerra  e rivoluzione" il cui primo volume, "Le macerie dell'impero" sarà in libreria fra pochi giorni per i tipi di Meltemi, mentre il secondo, "Elogio dei socialismi imperfetti" seguirà fra un paio di mesi. 







L'autore del lavoro che vi apprestate a leggere verrà verosimilmente accusato di eccessiva ambizione: sia per le dimensioni dell'opera (due volumi per un totale di diverse centinaia di pagine), sia per la vastità dei temi trattati (presa di distanza da certi dogmi cari alla tradizione marxista; impatto della controrivoluzione neoliberale sulla mutazione dei sistemi politici e della composizione di classe, nonché sulla morte delle sinistre in Occidente; rinascita del progetto socialista in Oriente e nel Sud del mondo; abbozzo di linee strategiche per la ricostruzione di un movimento comunista occidentale). Forse l'accusa non è priva di fondamento, tuttavia ritengo che la mia vera colpa consista nel non essere stato abbastanza ambizioso, considerato che la situazione del movimento anticapitalista in Occidente è oggi talmente tragica da poter essere affrontata solo coltivando un'ambizione smisurata. A discolpa del fatto di essere rimasto al di sotto di quanto richiederebbe la situazione, posso addurre due giustificazioni: in primo luogo, i miei limiti soggettivi mi hanno impedito di approfondire ulteriormente l'analisi; inoltre, quand'anche le mie capacità fossero state maggiori, le sfide con cui ardisco qui misurarmi richiederebbero l'apporto di una mente collettiva che oggi, dopo decenni di sistematico smantellamento di partiti, istituzioni, centri di ricerca (nonché di frammentazione organizzativa di quanto ne restava), non esiste più. 


Perché mi sono imbarcato in cotanta impresa? Perché sono convinto che sia urgente trovare il coraggio (non dubito che molti lo definiranno piuttosto arroganza) di porvi mano. Mi si potrebbe obiettare che non mancano corposi - e ben più autorevoli del mio - contributi sugli argomenti sopra citati: da Gyorgy Lukács e Costanzo Preve sui fondamenti del marxismo a Giovanni Arrighi, David Harvey, Samir Amin e molti altri sull'evoluzione del capitalismo; da Alvaro Linera sulle rivoluzioni latinoamericane a Domenico Losurdo sulle chance di rinascita di un comunismo occidentale, per tacere delle decine di autori che troverete citati nel libro, fra cui Vladimiro Giacché, Onofrio Romano, Alessandro Somma e Alessandro Visalli, ai quali sono debitore per i loro suggerimenti e contributi critici (Giacché è autore della Postfazione, Romano, Somma e Visalli dei saggi pubblicati in Appendice al Secondo Volume). Cionondimeno rivendico il merito di essermi impegnato a fondo per interpretare criticamente le teorie, le analisi e le ipotesi di tutti questi autori  (aggiungendovi spero non poco del mio) per costruire una visione coerente della grande transizione epocale che stiamo vivendo in questo primo quarto di secolo. In che misura vi sia riuscito giudicherà il lettore. 


Passo a una sommaria descrizione dei contenuti. Il primo capitolo ragiona sulla cassetta degli attrezzi indispensabili per condurre un'analisi del presente, e sulla esigenza di tagliare certi rami secchi (1) che appesantiscono il plurisecolare albero del marxismo. In particolare, seguendo le lezioni di Lukács e Preve (2), viene messa in discussione l'idea del socialismo come esito necessario di presunte leggi immanenti alla storia, una visione che nasce da una lettura “economicista” del marxismo che, da un lato sopravvaluta il peso di fattori oggettivi quali lo sviluppo delle forze produttive, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ecc. e subisce l'influenza del progressismo e dello scientismo positivista borghesi, dall'altro lato sottovaluta il ruolo del fattore soggettivo, il solo in grado di sfruttare la possibilità (non la necessità) di trasformazione sistemica associata alle situazioni di crisi radicale, economica, politica e culturale. 


Veniamo agli altri quattro capitoli della Prima Parte (che occupa interamente il Primo Volume). Nel secondo vengono descritti gli scenari della guerra di classe dall'alto (3) che, a partire dagli anni Ottanta, le élite capitalistiche occidentali hanno scatenato contro le classi subalterne, i cui effetti devastanti si sono evidenziati con particolare evidenza e crudezza durante la crisi del 2008, hanno subito un ulteriore aggravamento con la pandemia del Covid19 e hanno trovato una prevedibile conseguenza in quella guerra russo-ucraina che, mentre segna la fine della globalizzazione, minaccia di essere il prodromo di una nuova guerra mondiale. Il terzo ricostruisce le radici storico ideali del neoliberalismo moderno dalla fine della Prima guerra mondiale ad oggi, un avversario che le sinistre occidentali sono state incapaci di fronteggiare, prima perché lo hanno scambiato per una recrudescenza del liberalismo classico, senza coglierne il potenziale dirompente e innovativo, poi perché si sono arresi alla sua fascinazione, al punto di sposarne i principi teorici e i valori ideologico-culturali. Nel quarto capitolo si respingono le tesi di coloro che hanno abbandonato la categoria dell'imperialismo, ritenendola superata dal processo di globalizzazione, dopodiché si ricostruisce il ciclo egemonico dell'imperialismo americano dalle origini al trionfo degli anni Novanta che, grazie alla caduta dell'Unione Sovietica, sembrava averne decretato l'irreversibile e incontrastato dominio. Si descrive poi come questo nemico dell'umanità stia reagendo alla sfida mortale lanciatagli dall'ascesa cinese, vale a dire cementando un blocco occidentale con le ex colonie britanniche e la UE per imporre con la forza delle armi la continuazione del proprio ciclo egemonico. Quanto al processo di unificazione europea, ne viene evidenziata la natura di progetto anti popolare e antisocialista, finalizzato a espropriare le classi subalterne dei singoli Paesi degli  strumenti istituzionali per difendere i propri interessi. Un progetto ispirato all'ordoliberalismo tedesco che, mentre è riuscito a ridurre le nazioni mediterranee allo status di semi periferia, ha fallito l'obiettivo di costruire un blocco imperiale autonomo dagli interessi statunitensi, come conferma il ruolo subalterno che la Ue sta svolgendo nel conflitto russo-ucraino. 


Il quinto capitolo avanza una tesi radicale: per le classi lavoratrici, e per tutti i soggetti interessati a ricostruire una prospettiva comunista, le sinistre occidentali, - sia quelle socialdemocratiche, che oggi sarebbe più corretto definire social-liberali, sia quelle “radicali - sono a tutti gli effetti dei nemici. Nemici di classe, in quanto rappresentano gli interessi materiali degli strati sociali medio alti che abitano i centri delle grandi metropoli gentrificate, nemici ideologici in quanto alimentano culture – femminismo liberale, pacifismo ed ecologismo depurati da qualsiasi velleità anticapitalista, retorica del politicamente corretto, priorità dei diritti individuali e civili sui diritti sociali, celebrazione della democrazia borghese quale unico modello possibile di democrazia, ecc. - che appaiono non solo compatibili con, ma perfettamente funzionali alla, conservazione dell'esistente. Per tale motivo non è più possibile considerare tali forze come compagni di strada (e nemmeno come alleati, se non per limitate e contingenti esigenze tattiche) di un progetto di emancipazione dal dominio del capitale. 


Mentre la Prima Parte rappresenta la pars destruens dell'opera, la Seconda e la Terza (che nell'indice del Secondo Volume compaiono in realtà come Prima e Seconda Parte) ne rappresentano, assieme alla Postfazione e ai tre saggi in Appendice, la pars construens, nella misura in cui analizzando lo stato attuale, le prospettive di tenuta e le possibilità di sviluppo futuro del processo di costruzione del socialismo nel mondo attuale. 







La Seconda Parte si articola su tre capitoli. Il primo è interamente dedicato alla Cina ed è finalizzato a rovesciare l'immagine di questo Paese che la cultura occidentale, senza distinzione fra destre e sinistre, si sforza di accreditare attraverso le narrazioni di leader politici, media ed “esperti” di ogni risma, vale a dire l'immagine di un esperimento socialista fallito, regredito a forme di capitalismo selvaggio e sfociato in un regime oppressivo e totalitario. Partendo dalle straordinarie intuizioni di Giovanni Arrighi (4) e avvalendomi delle analisi di altri autori, sia cinesi che occidentali, cerco di dimostrare come le riforme degli anni Settanta, che per gli “esperti” di cui sopra hanno segnato l'inizio della fine del progetto socialista, siano stati viceversa il punto di partenza di un grandioso esperimento che, pur fra successi e sconfitte, avanzate e ritirate, contraddizioni e conflitti di ogni genere, ha saputo raccogliere i frutti dell'era maoista superandone gli errori e la ricerca di scorciatoie illusorie, dando vita a una originale forma di economia mista in cui ai capitalisti viene lasciata la libertà di accumulare profitti evitando tuttavia che possano tradurre la loro ricchezza in potere politico. Questa impresa, che ha consentito di riscattare 800 milioni di cittadini dalla povertà, è stata possibile mantenendo il ferreo controllo del Partito sullo Stato, e di quest'ultimo sui settori strategici dell'economia (a partire dalle banche). Il tutto senza rinunciare a garantire – contrariamente a quanto ventilato dalla propaganda occidentale – ampi margini di partecipazione democratica a livello locale. L'esperimento cinese impone ai teorici marxisti di analizzare scientificamente le dinamiche di formazioni sociali in cui la politica mantiene il controllo e il comando sull'economia. È quanto ha tentato di fare Rita Di Leo (5) nella sua indagine sulle ragioni del crollo dell'Unione Sovietica. Delle sue riflessioni mi avvalgo nel secondo capitolo per abbozzare un tentativo (necessariamente embrionale) di analisi storica del socialismo reale, con l'obiettivo di farla finita  con la damnatio memoriae - tutta ideologica – del grandioso esperimento della Rivoluzione bolscevica e di avviare una indagine scientifica sulle radici lontane della tragedia dell'89-91. 


Nel terzo capitolo vengono prese in esame le rivoluzioni bolivariane in America Latina, con particolare attenzione ai casi di Venezuela, Bolivia ed Ecuador e al contributo teorico dell'ex vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera (6). Prendendo spunto da queste esperienze, cerco  di aggiornare il dibattito sull'opposizione fra via rivoluzionaria e via riformista al socialismo (un tema “classico” che, fra fine Ottocento e primo Novecento, ha visto la partecipazione, fra gli altri, di Federico Engels e Rosa Luxemburg, e successivamente ha provocato la rottura di Lenin con la Seconda Internazionale) ragionando sulle differenti sfide che devono affrontare regimi come quelli latinoamericani, nati dalla conquista del potere per vie legali, rispetto a quello cinese, frutto della vittoria militare sul nemico di classe.


La Terza Parte credo sia quella destinata a suscitare più controversie, nella misura in cui affronta l'impegnativo compito di definire le premesse teorico-pratiche di una possibile ricostruzione del movimento comunista occidentale. Finché si parla del resto del mondo la discussione può restare nei limiti di un confronto di idee relativamente pacato, ma quando de te fabula narratur, non appena cioè si mettono i piedi nel piatto, affrontando le cause e gli errori soggettivi, e non le cause oggettive (o presunte tali) della disastrosa sconfitta del movimento comunista in Europa, il dibattito è destinato a surriscaldarsi, tanto più se chi lo innesca non esita a mettere in discussione consolidati articoli di fede teorico-ideologici e a chiamare in causa responsabilità ed errori di intellettuali e leader storici “canonizzati”. Ciò premesso, passo a riassumere il contenuto dei quattro capitoli che lo compongono. 


Il primo parte da un assunto a mio avviso irrinunciabile: se è vero che il partito comunista deve essere un partito di classe, e se è vero che decenni di controrivoluzione neoliberale e di tradimenti delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio hanno ridotto il proletariato occidentale a un coacervo di soggetti sociali espropriati di qualsiasi identità condivisa e anzi in conflitto reciproco (generazionale, di genere, etnico, culturale, ideologico, ecc.) se non addirittura a una massa indistinta fatta di singolarità individuali, è chiaro che costruire il partito di classe è un compito  indistinguibile da quello di ricostruire un'identità e una coscienza di classe. Di tale compito si discute tanto nel primo quanto nel quarto capitolo, ma con taglio differente. Nel primo si abbozza un ritratto schematico della composizione di classe emersa da decenni di offensiva del nemico. Si tratta necessariamente di primi appunti, preliminari a una ricerca scientifica che potrà essere realizzata solo da un intellettuale collettivo a stretto contatto con l'oggetto della ricerca (cioè con la classe stessa: è quanto un tempo si chiamava conricerca). Nel quarto – di cui dirò più avanti - si mettono sotto accusa quei micropartiti che, invece di dedicarsi alla costruzione del partito di classe, preferiscono spendere le proprie energie in fallimentari imprese elettorali, anche stringendo alleanze spurie e praticando in modo spregiudicato l'arte del compromesso per conquistare a ogni costo “un posto al sole” nelle pieghe del sistema istituzionale borghese. 


Il secondo capitolo smonta i concetti di populismo e sovranismo, che la narrazione del partito unico neoliberale e dei media sotto il suo controllo sfrutta per demonizzare le forme che il conflitto politico e sociale tende ad assumere in assenza di forze capaci di elaborare una strategia antisistema. Polemizzando con le tesi di Ernesto Laclau (ma anche riconoscendone il contributo di analisi empirica delle forme che il conflitto tende ad assumere nell'attuale contesto postdemocratico), sostengo che il populismo è una forma spuria di lotta di classe senza coscienza di classe, il che la espone al costante rischio di convertirsi in “rivoluzione passiva” (7). Analoga considerazione vale per il cosiddetto sovranismo che, più che una ideologia che ripropone anacronistiche velleità nazionaliste, rappresenta una forma di reazione popolare all'uso capitalistico delle istituzioni sovranazionali per sottrarre alle classi subalterne la capacità/possibilità di utilizzare lo stato-nazione come terreno di contrattazione delle proprie condizioni di lavoro e di vita. Contestualmente il capitolo ritorna su alcuni nodi della discussione teorica sulla questione nazionale che ha attraversato l'intera storia del marxismo, da Marx ai giorni nostri passando per Lenin. 


Il terzo capitolo, dopo una discussione introduttiva in merito alla necessità di riformulare in termini più realisti e concreti il processo di transizione al socialismo, sfrondandolo dell'afflato profetico che lo ha spesso caratterizzato, si addentra in due questioni strettamente intrecciate fra loro: il rapporto fra socialismo e democrazia e quello fra ideologia comunista e ideologia liberale. In particolare, viene rigettata l'idea secondo cui alla rivoluzione socialista spetterebbe il compito di attuare le promesse di emancipazione umana già formulate ma mai messe in atto dalle rivoluzioni borghesi, idea cui oppongo la tesi della sostanziale incommensurabilità fra i due processi rivoluzionari: mentre la borghesia conquista il potere politico dopo essersi già impadronita di quello economico, sociale e culturale, il proletariato, non essendo nella condizione di far crescere progressivamente il proprio controllo su economia, società e cultura nell'ambito dei rapporti di produzione capitalistici fino a consentire una transizione relativamente indolore a un nuovo tipo di formazione sociale, è indotto a perseguire una discontinuità radicale del processo storico; il che comporta, fra le altre cose, che la democrazia socialista debba assumere forme necessariamente diverse da quella borghese. Infine contesto la tesi secondo cui il movimento comunista dovrebbe riconoscere e far proprie le conquiste e i valori della miglior tradizione liberale, a partire dall'affermazione dei diritti universali dell'uomo e della necessità di una rigorosa tutela della libertà individuale. Contro tale visione richiamo l'irriducibile differenza fra libertas minor, l'idea di libertà sulla quale si fonda l'ideologia liberale, e libertas maior, l'idea di libertà propria di un movimento come quello comunista, che dà maggior peso alla rivendicazione dei diritti collettivi rispetto a quella dei diritti individuali; un punto di vista più volte ribadito da Marx, il quale metteva in luce come porre al centro la libertà individuale significhi non saper guardare al di là di una società di imprenditori privati. È per avere rimosso questa verità che i comunisti occidentali hanno creato le premesse della propria disfatta: stipulando alleanze e compromessi con le destre liberali per sbarrare la strada alle destre estreme (una scelta assurda in una fase storica in cui la vera minaccia è il potere oligarchico delle élite neoliberali); sposando i principi e i valori individualisti dei nuovi movimenti (femministe, ecologisti, pacifisti generici, Lgbt, ecc.) nell’illusione di poterli egemonizzare e finendo al contrario per venirne egemonizzati; associandosi al coro dei partiti liberali e dei media occidentali che definisce totalitari Paesi come Cina, Cuba; Venezuela, Bolivia, Corea e Vietnam; infine non riuscendo, di fronte alla guerra imperialista che Stati Uniti, Ue e NATO stanno conducendo contro la Russia e tutti i Paesi che non accettano l’egemonia occidentale, ad andare al di là di un generico pacifismo e a schierarsi senza ambiguità con il fronte mondiale della resistenza antimperialista.


Torno al quarto capitolo e a quanto ne avevo anticipato poc'anzi. Denunciando i vizi di elettoralismo e opportunismo dei partitini sedicenti comunisti, sostengo che si tratta di deviazioni  che hanno radici lontane, nella misura in cui non risalgono solo alla svolta eurocomunista, ma chiamano in causa le contraddizioni intrinseche alla visione togliattiana del partito di massa e ai concetti di democrazia progressiva e di lunga marcia attraverso le istituzioni. In particolare, a proposito dell'alternativa partito di massa/partito di quadri, parto dalla già citata tesi secondo cui costruzione del partito e ricostruzione della classe sono processi intrecciati. L'idea di costruire la classe può apparire controintuitiva a chi è abituato a concepirla come un'entità astratta, che esiste a priori, ma ciò significa ignorare gli effetti della radicale destrutturazione cui il proletariato occidentale è stato sottoposto. Per essere all'altezza dell'impresa il partito dovrebbe nascere e crescere reclutando i soggetti più coraggiosi e capaci fra i nuclei di resistenza che permangono malgrado lo stato di arretramento delle lotte. Ciò non significa teorizzare una costruzione “dal basso”, perché la concezione leninista (e gramsciana) del partito resta sostanzialmente valida, significa però che il vertice del partito, fatto di intellettuali organici e dirigenti organizzativi, dovrà poggiare su una solida base di quadri intermedi di estrazione quanto più possibile proletaria (8). Partito di quadri e non partito di massa dunque, almeno nelle sue prime fasi di vita (per inciso: tutti i partiti comunisti che hanno vinto una rivoluzione sono diventati partiti di massa dopo la vittoria).Ma soprattutto non è il caso di nutrire velleità di costruzione di un blocco sociale prima che la classe abbia raggiunto livelli di unità e autocoscienza politica sufficienti a garantirne l'egemonia nei confronti di eventuali alleati: i populismi di sinistra hanno fallito proprio perché si sono posti quale  obiettivo prioritario l'alleanza con le classi medie, finendone sistematicamente egemonizzati. 


Ragionare sul programma politico di un partito che oggi non esiste, rischia di essere un esercizio puramente letterario. Tuttavia in quest'ultimo capitolo ho ugualmente voluto tratteggiare alcune linee possibili (generalissime) di un programma di transizione a una primissima fase socialista (pensate per il contesto italiano, ma soprattutto ancorate alla visione pragmatica che emerge dalle esperienze di costruzione del socialismo nel mondo non occidentale). Qui di seguito ne sintetizzo alcune: 1) puntare a un'economia mista in cui lo Stato detenga il controllo pieno e diretto sulla Banca centrale, sui movimenti di capitale, sui settori produttivi strategici e sui servizi essenziali; programmazione flessibile orientata alla realizzazione della piena e buona occupazione; politica fiscale fortemente progressiva e potenziamento del welfare con priorità a sanità, educazione e sistema assistenziale; 2) un’Assemblea Costituente che riscriva la Carta fondamentale approfondendo, ampliando e aggiornando i principi di quella del 48 e depurandola dalle pseudo riforme introdotte dai regimi liberali; 3) promuovere istituzioni di democrazia diretta e partecipativa e tornare a un sistema elettorale fondato sul sistema proporzionale; 4) uscire dalla NATO e dalla UE per recuperare quella piena autonomia nazionale che è condizione irrinunciabile sia per difendere la sovranità popolare e la democrazia, sia per riscattare la nostra economia dalla colonizzazione di cui è stata oggetto negli ultimi decenni. Si tratta di punti inspirati in particolare dalle esperienze delle rivoluzioni pacifiche avvenute in America Latina, la cui praticabilità presuppone una crisi sistemica tanto radicale da impedire alle élite dominanti di stroncare sul nascere il processo di trasformazione. Parliamo ovviamente di tempi lunghi, caratterizzati dal rischio permanente di una riconquista del potere da parte delle classi dominanti, che quindi presuppongono una formidabile capacità egemonica necessaria a conservare il consenso popolare anche nei momenti critici, capacità che solo un partito forte, organizzato e radicato nella società sarebbe in grado di garantire. 


Per sintetizzare, le tesi avanzate in questo lavoro possono essere raggruppate in tre grandi aree tematiche. In primo luogo: a 175 anni dalla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels, e dopo una lunga sequenza di rivoluzioni socialiste fallite (tutte quelle avvenute nei Paesi sviluppati) e riuscite (tutte avvenute in Paesi in via di sviluppo ed ex coloniali) dovrebbero indurci a prendere atto del fatto che la rivoluzione ha vinto (Lenin docet) solo negli anelli più deboli della catena del mondo capitalista, mentre nei punti più alti di sviluppo delle forze produttive le élite dominanti sono riuscite a mantenere l'egemonia sulle classi subalterne (anche e soprattutto grazie ai sovraprofitti garantiti dall'oppressione e dallo sfruttamento dei Paesi periferici e semiperiferici). Ciò impone di abbandonare definitivamente sia il dogma che associa la possibilità di trasformazione rivoluzionaria a “condizioni oggettive” di natura prevalentemente, se non esclusivamente, economica (economicismo), sia quel groviglio di evoluzionismo, progressismo, eurocentrismo (giustificabili ai tempi di Marx, demenziali nella attuali condizioni storiche) che sostanzia l'illusione di un processo storico orientato da una sorta di necessità immanente. Non avendo compiuto questo passo, le sinistre occidentali, tanto moderate che radicali, da un lato non hanno capito letteralmente nulla del salto storico compiuto dal capitalismo contemporaneo (considerando irreversibile il processo di globalizzazione, non comprendendo che l'imperialismo non era finito ma aveva solo cambiato forma e sottovalutando sia la novità ideologica che la potenza manipolatoria del  neoliberalismo); dall'altro lato hanno intensificato piuttosto che superato la propria vocazione eurocentrica (riconoscendo la democrazia liberale quale unica forma possibile di democrazia; condannando come totalitari i regimi socialisti dell'Est e del Sud del mondo; sposando senza riserve tutti i diversivi ideologici che le élite dominanti hanno adottato per dividere le classi subalterne: femminismo liberale; ecopacifismo depurato da ogni velleità antisistemica; linguaggio politicamente corretto; retorica del “diritto di avere diritti” (9)). Secondariamente: contrariamente a chi le considera fallite in quanto “degenerate” in regimi autoritari, rivoluzioni come quella cinese, vietnamita, cubana, venezuelana e boliviana, pur non potendo essere assunte a modello (dato che ogni Paese può e deve costruire il proprio processo rivoluzionario in base alle sue concrete caratteristiche storiche, sociali e culturali) ci offrono insegnamenti fondamentali sia sul piano teorico che pratico. In particolare: la transizione al socialismo è un processo lungo complesso e contraddittorio, in cui permangono la lotta di classe e in cui l'economia di mercato può svolgere un ruolo positivo, a condizione che resti sotto il controllo dello Stato; il proletariato non è necessariamente l'unico soggetto rivoluzionario ma anche le grandi masse contadine, i popoli oppressi e altre classi subalterne possono giocare un ruolo strategico, a condizione che il partito comunista sia in grado di egemonizzarle; infine, nell'attuale contesto di scontro frontale fra l'imperialismo americano e il suo vassallo europeo e il resto del mondo, i Paesi socialisti – e in particolare la Cina – devono essere difesi e sostenuti con ogni mezzo. In terzo luogo: il movimento comunista occidentale va ricostruito letteralmente da zero, e il suo primo compito sarà  ricostruire un'avanguardia delle lotte in grado di incarnare l'unità e la coscienza di strati di classe riscattati dalla condizione di frammentazione dovuta a decenni di sconfitte. Ciò significa liquidare i vizi di elettoralismo e opportunismo ereditati dalla deriva eurocomunista e superare la mentalità di piccola setta degli attuali micropartiti; significa non accodarsi a movimenti di massa a carattere prevalentemente piccolo-medio borghese, nell'illusione di egemonizzarli pur non avendone la capacità né la possibilità; significa assumere una chiara posizione antimperialista in campo geopolitico, schierandosi senza se senza ma a fianco di tutte le forze che lottano contro il progetto di conservare con la forza l'egemonia mondiale di Stati Uniti ed Europa; significa infine impegnarsi in un serio lavoro di analisi e ricerca scientifica sull'attuale composizione di classe, sulle prospettive programmatiche di una transizione nella concreta situazione storica dei Paesi occidentali e sulle riforme istituzionali che dovrebbero accompagnarne il processo.  


Post scriptum. In merito ai commenti, agli arricchimenti e alle osservazioni critiche contenute nei contributi di Vladimiro Giacché, Onofrio Romano, Alessandro Somma e Alessandro Visalli, che ancora ringrazio, rinvio alla mia Postilla finale inserita nell'Appendice al Secondo Volume.


Carlo Formenti

 

Genova, Novembre 2022   


Note

(1) Cfr. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi, Roma 2019.

(2) Vedi, in particolare, G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Pigreco, Milano 2012 (una nuova edizione dell’opera è in via di pubblicazione presso Meltemi con una mia Prefazione) e C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.

(3) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.

(4) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XX secolo, Feltrinelli, Milano 2008.

(5) Cfr. R. Di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011; Cent’anni dopo. 1917-2017 da Lenin a Zuckerberg, Futura, Roma 2017; L’età della moneta, Il Mulino, Bologna 2018.

(6) Cfr. Á.G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

(7) Questo concetto, coniato da Gramsci, si riferisce a quei moti sociali delle classi subalterne che, in quanto privi di una prospettiva rivoluzionaria, finiscono egemonizzati dalle élite dominanti e sortiscono effetti contrari ai loro stessi interessi.

(8) Vedi quanto scrive in merito Alvaro Cunhal ne Il partito dalle pareti di vetro, La Città del Sole, Napoli-Potenza 2020.

(9) Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.

sabato 21 gennaio 2023

TOTALITARISMO LIBERALE E STRUZZI DI SINISTRA



Il governo Meloni cade come il cacio sui maccheroni per una sinistra alla disperata ricerca di un nemico di comodo su cui dirottare l'attenzione delle masse, nella speranza che queste non le chiamino a rispondere delle loro responsabilità. Così si evoca  l'immagine anacronistica di un fascismo da operetta, con tanto di orbace, saluti romani e inni al nuovo duce in gonnella, associandola a una forza politica che incarna piuttosto l'ala più duramente e coerentemente neoliberale della borghesia, mentre opera in piena coerenza e continuità con tutti (senza distinzioni  ideologiche) i governi che l'hanno preceduta negli ultimi decenni: attacco ai salari e all'occupazione, smantellamento dello stato sociale, privatizzazioni, svendita degli interessi nazionali al "partito dello straniero" come lo chiamava Gramsci, infeudamento agli interessi strategici della NATO e d'una UE totalmente allineata (contro i suoi stessi interessi) ai comandi di Washington. 


Mentre milioni di francesi sfilano per le strade di Parigi contro la riforma delle pensioni voluta da Macron, e mentre i lavoratori inglesi tornano a scioperare contro la politica economica imposta dal governo conservatore, le preoccupazioni della sinistra de noantri sono tutte per l'arretramento dei diritti civili e individuali, che considerano la più grave, se non l'unica, minaccia generata dalla svolta a destra sancita dalle ultime elezioni. Svolta  dovuta al fatto che milioni di proletari, avendo ormai perso fiducia nelle sinistre, hanno preso sul serio le esternazioni "populiste" e "sovraniste" della destra, o hanno comunque sperato che sarebbero state seguite dai fatti, (considerati gli ultimi sondaggi, sembra non abbiano ancora perso le illusioni in merito).


Ma torniamo al grido "allarmi son fascisti". Questa  mistificazione ideologica non si spiega solo con la giovane età di molti di coloro che la alimentano, cioè con il fatto che quasi nessuno di essi ha la minima idea di cosa sia stato il  fascismo storico, per tacere del nazismo. Le radici vanno piuttosto cercate nella svolta culturale di mezzo secolo fa, allorché le sinistre radicali iniziarono ad accusare l'Unione Sovietica e i Paesi socialisti dell'Est Europa di essere regimi totalitari, liberticidi e sostanzialmente "di destra", con la benedizione del proclama berlingueriano sull'esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre. Calmate le smanie antagoniste, e liquidate le residue velleità rivoluzionarie, le generazioni dei giovani intellettuali post sessantottini si sono imbevutele delle idee dei vari Deleuze, Guattari, Derrida, Foucault,  nonché dei loro cascami in salsa Nouveau Philosophe e delle loro varianti para marxiste, ispirate alle teorie postoperaiste di Antonio Negri. 


Se la caduta del Muro di Berlino è stata celebrata come il trionfo della libertà e della democrazia, e non compianta come la morte dell'idea stessa che sia possibile una civiltà alternativa a quella capitalista, o come la catastrofe che ha generato un arretramento generale dei rapporti di forza, delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di proletari occidentali (quelli di Asia, Africa e America Latina si sono fortunatamente incamminati in tutt'altra direzione), ciò è avvenuto perché quegli strati intellettuali si erano già trasformati in una "sinistra nietzscheana", individualista, libertaria, sostanzialmente antisocialista e organicamente funzionale alla cultura mainstream liberal-progressista, associata al progetto cosmopolita della pax imperiale americana. Una cultura che ha partorito i movimenti single issue come il femminismo, l'ecologismo, il movimento lgbt e la retorica del politicamente corretto, sancendo il divorzio fra "ceti medi riflessivi" e classi subalterne che, dagli anni Ottanta a oggi, ha causato il progressivo spostamento del consenso di queste ultime verso i movimenti populisti-sovranisti e/o il loro ripiegamento in una sorta di rassegnata apatia politica. 


Solo questa evoluzione può spiegare la sostanziale indifferenza con cui le cosiddette sinistre hanno accolto la Risoluzione del parlamento europeo del 19 settembre 2019, che ha equipara nazismo e comunismo, rinnegando il ruolo decisivo svolto dall'Unione Sovietica nella sconfitta dell'orrore nazifascista. Quell'aberrante atto di revisionismo storico (la storia la scrivono sempre i vincitori, ha detto qualcuno, e, dopo la caduta dell'Urss,  l'Occidente capitalista la sta riscrivendo a proprio uso e consumo) significa, di fatto, avallare le tesi del filosofo  revisionista Ernst Nolte, il quale, pur non negando i crimini nazisti, li ha giustificati in quanto reazione, ancorché "eccessiva", alla minaccia bolscevica. 


Se in Europa esistono ancora partiti comunisti degni di questo nome (alcuni ne esistono, ma sono pochi e deboli) uno dei loro compiti consiste nello spiegare che, se oggi una minaccia di totalitarismo pende sulla nostra testa, non è quella incarnata da figure come Meloni e Le Pen, bensì quella associata alla piena attuazione dei principi e dei valori dell'ordoliberalismo tedesco (che ha il suo pendant nell'ideologia neocons americana, e del quale le destre alla Meloni sono rappresentanti di secondo piano). Il totalitarismo liberale è una realtà in atto, incarnata dai vertici della UE e della NATO, che organizzano la sistematica aggressione contro  tutte le nazioni, le  idee, le formazioni politiche e i movimenti che si oppongono alla messa in pratica delle politiche economiche e sociali formalizzate nel consenso di Washington. In nome dell'imposizione manu militari di questo consenso, l'Europa si è fatta trascinare nella guerra contro la Russia al fianco del regime neonazista di Kiev. 


Il pacifismo "di sinistra" ignora le ragioni che hanno indotto la Russia a scendere in guerra per pura necessità di autodifesa di fronte all'aggressività di una NATO che, in barba agli impegni presi all'atto dell'unificazione tedesca, si è spinta a pochi chilometri dai confini di Mosca (a riconoscerlo è persino papa Francesco), si beve la propaganda occidentale che punta il dito contro il "mostro" Putin e regala una improbabile aura di difensore della democrazia a un cialtrone come Zelensky, ultimo rampollo di una dinastia di leader ucraini di ascendenza nazifascista inaugurata dall'eroe nazionale Bandera. Così non riesce ad andare, nella migliore delle ipotesi, oltre una blanda equidistanza fra le forze in campo, e sottovaluta  il rischio di un Terzo conflitto mondiale, che gli Stati Uniti si preparano a scatenare per contrastare la propria perdita di egemonia a livello mondiale. 


Questa sinistra è incapace di assumere un ruolo coerentemente antimperialista perché dall'altra parte del fronte ci sono Paesi "totalitari" come la Cina, il Vietnam, Cuba, la Bolivia, il Venezuela e la Russia, che socialista non è ma si oppone alla colonizzazione dell'Asia Occidentale e Centrale da parte della NATO. Ne è incapace perché l'anticomunismo che da quattro decenni penetra come un veleno nelle sue ossa la rende cieca di fronte alla realtà, e questo è lo stesso motivo che le ha impedito di cogliere la gravità della Risoluzione del parlamento europeo sopra richiamata, e che oggi le impedisce di cogliere la gravità di quanto sta succedendo in queste settimane a Praga, dove è in atto una inedita e inaudita operazione di repressione giuridico ideologica descritta da un articolo della rivista Marx21 di cui riporto qui di seguito uno stralcio.   


Il primo febbraio si svolgerà a Praga il processo contro Josef Skála e gli studiosi di Praga incriminati per aver sollevato dubbi sui responsabili del massacro di Katyn. Il 31 ottobre 2022, Tomáš Hübner, giudice unico del Tribunale distrettuale di Praga 7, ha condannato a otto mesi di reclusione Josef Skála, noto intellettuale marxista, ex vicepresidente del Partito comunista di Boemia e Moravia (KSCM), insieme con Vladimír Kapal, e Juraj Václavík, tutti e tre incriminati, in base all’articolo 405 del Codice penale della Repubblica ceca, per aver messo in discussione la versione che attribuisce alla dirigenza sovietica il massacro di Katyn (l’uccisione di migliaia di prigionieri di guerra polacchi sul territorio dell’URSS, occupato dalla Wehrmacht nell’estate del 1941).  Due anni prima, il 2 luglio 2020, i tre avevano partecipato al forum di discussione pubblica – organizzato, su richiesta degli ascoltatori, da www.svobodne.radio.czsul massacro di Katyn, divenuto uno dei principali argomenti della crociata antisovietica e anticomunista delle forze politiche e sociali andate al potere nel 1989, la cui versione dei fatti scarica sui sovietici premeditazione ed esecuzione del crimine. Tale versione, sulla base dell’analisi dei documenti e delle prove disponibili fino al 2020, è contestata da ricercatori e studiosi di diversi Paesi, che l’hanno attribuita agli occupanti nazisti. Nel forum del 2 luglio 2020 J. Skála ha sottolineato che l’obiettivo era quello di stimolare ulteriori discussioni senza alcuna affermazione dogmatica. Né lui né gli altri relatori hanno negato o messo in dubbio il massacro dei prigionieri polacchi, né tantomeno lo hanno avallato o giustificato in alcun modo. Sono entrati esclusivamente in un dibattito, che dura da oltre tre quarti di secolo, sull’attribuzione delle responsabilità. La loro colpa è quella di essersi opposti alla versione oggi spacciata come canone inviolabile, argomentando con riferimento a fonti e documenti, compresi quelli emersi dagli archivi nel periodo successivo al crollo dell’URSS. La trasmissione ha avuto molti commenti positivi e non ha sollevato polemiche. Il 18 marzo 2022 – quasi due anni dopo – tutti e tre i partecipanti al forum sono stati convocati dal Comando nazionale per la lotta alla criminalità organizzata della Polizia della Repubblica Ceca per fornire spiegazioni. Era la fase iniziale del procedimento penale, che ha avuto il suo primo epilogo nella condanna a 8 mesi del 31 ottobre, alla quale hanno fatto opposizione. Il processo si svolgerà l'1 febbraio 2023.


E' evidente il filo rosso che lega l'atto del parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo alle leggi approvate nei Paesi dell'Est Europa, già socialisti e oggi governati da forze anticomuniste e filo americane, leggi che pongono sullo stesso piano il negazionismo nei confronti delle persecuzioni naziste contro il popolo ebraico (già di per sé criticabile in quanto, come ha scritto Stefano Levi Della Torre, è “aberrante colpire per legge reati di opinione, anche perché ciò propone indirettamente che esista una verità ufficiale sancita per legge. La falsità per legge presuppone una verità per legge, e questa è un’idea familiare alle inquisizioni e ai totalitarismi, e ostica per la democrazia e per la ricerca scientifica") al negazionismo nei confronti dei presunti crimini commessi dal regime sovietico. Eppure le sinistre europee preferiscono ignorare questo filo rosso che pure in prospettiva è foriero di minacce anche nei loro confronti. 


Infine devo purtroppo prendere atto che anche molti partiti comunisti, in Italia e in Occidente, non appaiono meno timidi nel denunciare questa tendenza, quasi non si rendessero conto che la criminalizzazione di certe opinioni è il primo passo verso la criminalizzazione - e la conseguente messa fuori legge, ciò che in vari Paesi europei dell'est è già avvenuto - delle organizzazioni politiche che le professano. O forse se ne rendono conto fin troppo bene e optano per la politica dello struzzo, nascondendo la testa sotto la sabbia invece di tenerla ben alta per denunciare quanto avviene.  A voler essere maligni, si potrebbe dubitare che la scelta di nascondere la propria identità dietro sigle genericamente "nazional popolari" in occasione delle elezioni, faccia parte di tale politica: se non ci facciamo troppo vedere corriamo meno rischi. Beata illusione: meno si difende in campo aperto la propria identità più si accelera la sua totale delegittimazione ed espulsione dal discorso pubblico.       




         

mercoledì 4 gennaio 2023

SULLA CRISI DEL MOVIMENTO COMUNISTA IN ITALIA



Un anno e mezzo fa (maggio 2021) spiegavo su questa pagina le ragioni per cui, dopo qualche decennio in cui, pur non avendo mai smesso di professarmi comunista, non ho svolto militanza attiva, sentivo l'esigenza di impegnarmi concretamente in un progetto politico. A sollecitare tale scelta, scrivevo, era lo spettacolo degli effetti che quarant'anni di controrivoluzione liberale hanno prodotto in termini di degrado della qualità della vita e dei livelli di coscienza civile e politica di miliardi di esseri umani. Dopodiché esprimevo la convinzione che, per cambiare le cose , non occorresse ricostruire una "sinistra", termine che ha perso ogni valenza positiva agli occhi delle masse popolari, ma rilanciare l'obiettivo del superamento della società capitalista verso il socialismo. 


Nello stesso post analizzavo le ragioni del  fallimento delle esperienze ascrivibili all'area dei populismi e sovranismi di sinistra, un'area che, per motivi che ho descritto in alcuni  miei  libri, mi era parsa più vitale delle formazioni neo/post comuniste residuate dal tracollo del PCI prima e di Rifondazione Comunista poi (1). Infine, interrogandomi su quali requisiti minimi avrebbe a mio avviso dovuto avere una formazione politica all'altezza delle sfide del nostro tempo, ne elencavo cinque: 1) un forte impegno nella ricostruzione dell’unità del proletariato distrutta da decenni di guerra di classe dall’alto, a partire dal lavoro teorico di ridefinizione del concetto stesso di classe finalizzato ad analizzare le nuove forme dell’oppressione e dello sfruttamento capitalistici, ma soprattutto non fine a sé stesso ma alla ricostruzione del partito di classe; 2) una radicale presa di distanza  dalle sinistre liberali e/o presunte “radicali”, a partire  dal ripudio dell’ideologia antistatalista e antipolitica che è il tratto distintivo della cultura dei movimenti post sessantottini - un'ideologia demenziale che rinuncia alla lotta per il potere politico (bollato come l'incarnazione del male) e sogna di poter cambiare il mondo “a partire da sé”; 3) una chiara consapevolezza della incompatibilità fra quel cosmopolitismo borghese che è oggi la cifra del progressismo di sinistra, e l’internazionalismo proletario da intendere come rapporto di solidarietà attiva fra proletari e popoli oppressi e sfruttati, il che implica che la sovranità popolare e la democrazia non possono prescindere dalla sovranità nazionale, perché nessun popolo privato della sua sovranità può decidere liberamente del proprio futuro (l'opposizione più radicale alla Ue è corollario imprescindibile di tale punto); 4) Una coerente posizione antimperialista che identifichi negli Stati Uniti il nemico principale, in quanto superpotenza incapace di gestire il proprio declino egemonico e di accettare un mondo multipolare, e disposta, onde evitare tale declino, a scatenare una nuova guerra mondiale contro Cina, Russia e tutti i Paesi che non accettano i diktat occidentali. Nessuna aggressione imperialista – motivata con la difesa dei "diritti umani" da parte di potenze che quei diritti hanno sempre calpestato – contro qualsiasi Paese può essere tollerata. Ciò vale per la Russia, l’Iran, la Siria, che socialisti non sono, ma vale a maggior ragione per i Paesi socialisti come Cuba, il Vietnam, la Bolivia, il Venezuela e – soprattutto – quella Cina che le sinistre liberal progressiste considerano un Paese autoritario e neocapitalista (dal punto in questione deriva, da un lato, una chiara presa di posizione in favore della Russia nello scontro in corso con il regime neonazista ucraino e il rilancio della parola d'ordine dell'uscita dell'Italia dalla Nato, dall'altro lato una ridefinizione del concetto stesso di transizione al socialismo a partire dall'esperienza cinese e dagli insegnamenti che essa offre in merito alle ragioni del fallimento dell'Urss); 5) il rifiuto di assumere una posizione “codista” nei confronti del movimento femminista (e più in generale della cultura del politicamente corretto) nella misura in cui del femminismo anticapitalista delle origini è rimasto poco o nulla, laddove l'attuale femminismo mainstream mette al centro della propria agenda politica il riconoscimento dei diritti individuali ed è divenuto parte integrante dell'establishment neoliberale (2). Concludevo scrivendo che il Partito Comunista guidato da Marco Rizzo mi sembrava la formazione politica che più si avvicinava a soddisfare i requisiti appena elencati. Dopodiché in un post pubblicato pochi giorni dopo, annunciavo di avere accettato di presentarmi come capolista del PC alle elezioni comunali di Milano. 


Dopo diciannove mesi, molta acqua politica è passata sotto i ponti. Sul piano internazionale, abbiamo assistito allo scoppio della guerra in Ucraina e alla sua rapida degenerazione nel prodromo della Terza guerra mondiale, con gli Stati Uniti, l'Europa e la Nato direttamente impegnati al fianco del regime neonazista di Kiev (mentre la tensione nei mari prospicienti la Cina è pericolosamente aumentata). Abbiamo avuto la più clamorosa conferma del ruolo subalterno della Ue nei confronti degli Usa: pur pagando il prezzo più alto della guerra tanto in termini di contraccolpi economici, quanto in termini di ridimensionamento del proprio ruolo geopolitico (con Germania e Francia ridotte a muoversi al traino del blocco anticomunista e russofobo  dei Paesi est europei), l'Europa non è stata capace di ritagliarsi il minimo margine di autonomia nei confronti degli Stati Uniti, mentre i suoi media e i suoi partiti di destra, centro e sinistra (a partire da quelli di casa nostra) sono più impegnati di quelli d'oltreoceano ad alimentare una forsennata campagna bellicista. Sul piano nazionale, il governo "tecnico" del proconsole atlantista Draghi (remake ancora più ferocemente antidemocratico di quello di Monti) ha lasciato il posto al governo Meloni, il primo governo dichiaratamente di destra radicale dalla fine della Seconda guerra mondiale (che incarna una sorta di neoliberalismo in salsa Tatcher de noantri più che un regime neofascista, come una certa retorica di "sinistra" va predicando). Ciò è avvenuto dopo una tornata elettorale anticipata che ha visto, a destra il trionfo della Meloni a spese di  Salvini e Berlusconi, a "sinistra" il tracollo del PD e una timida ripresa dell'M5S. E all'estrema sinistra?


Purtroppo ho avuto ragione - contro l'infondato ottimismo di alcuni amici e compagni - nel prevedere che la somma di tutti i partitini neo comunisti (camuffati dietro sigle para populiste/para sovraniste o neo arcobaleno) non avrebbe raggiunto il 3%. Ma il punto non è questo, almeno per chi come il sottoscritto da tempo va predicando che compito principale di un partito comunista nell'attuale contesto storico dovrebbe essere impegnare le sue esigue risorse nell'affondare radici nel corpo di classe, invece di sprecarle in velleitarie campagne elettorali. Il vero punto è il marasma teorico e ideologico che ha accomunato tutti i protagonisti di questa poco nobile gara. Sorvolo su ciò che resta di Rifondazione, su Unione Popolare e sul Partito Comunista Italiano guidato da Alboresi, ultime incarnazioni della deriva inarrestabile in cui sono affondati i resti del PCI negli ultimi vent'anni.  Mi preme invece accennare ai motivi della mia profonda delusione nei confronti del PC di Rizzo, nel quale avevo riposto qualche speranza per le ragioni sopra esposte. In due post usciti sul mio profilo Facebook ho espresso la mia radicale perplessità in merito all'operazione Italia Sovrana e Popolare: mi è parsa sbagliata la scelta di sacrificare l'identità simbolica del partito a una mini-coalizione che, non solo ha riproposto la fallimentare logica delle liste arcobaleno, ma lo ha fatto alleandosi con una forza dagli ambigui connotati ideologici; mi è parso sbagliato il tentativo di intercettare i confusi fermenti di scontento di strati piccolo borghesi, con la motivazione che oggi sono i soli ad agitarsi mentre le classi lavoratrici sonnecchiano, per tacere della motivazione ancora peggiore - frutto di uno scoraggiante pressapochismo teorico che rinuncia a priori a qualsiasi serio tentativo di analisi di classe - secondo cui questi strati sarebbero oggi compiutamente "proletarizzati" (3); mi è parso sbagliato proseguire su questa strada ignorando lo sfascio organizzativo che ha provocato, causando la fuoriuscita di molti compagni; mi è parso sbagliato "annacquare" quei temi di politica internazionale che mi avevano indotto a vedere in quel partito un'alternativa credibile agli altri "cespugli"; mi è infine parso sbagliato compiere l'ennesimo infruttuoso investimento di tutte le energie sul terreno elettorale invece di concentrarle sulla costruzione del partito di classe. 


Non è mio costume esprimere il dissenso con dichiarazioni e gesti  "teatrali", che servirebbero solo a esacerbare i rapporti con compagni nei confronti dei quali continuo a nutrire amicizia e rispetto, mi limito quindi a formalizzare la mia decisione di defilarmi rispetto a qualsiasi organizzazione pretenda di rappresentare il nucleo di un nuovo partito comunista. D'ora in poi il mio impegno sarà rivolto a contribuire ai difficili, faticosi ma indispensabili tentativi di costruire una rete di relazioni fra gli spezzoni della diaspora comunista che lo sfascio degli ultimi anni si è lasciato alle spalle.  Non si tratta di fondare un ennesimo partitino, né tanto meno un ennesimo mini cartello elettorale, ma di gettare le basi di un lungo, paziente lavoro di costruzione di un'avanguardia di classe. Nelle pagine che seguono trovate un estratto di alcune pagine dell'ultima parte del secondo volume di Guerra e rivoluzione  (il primo sarà in libreria il prossimo 27 gennaio per i tipi di Meltemi) nelle quali abbozzo un'analisi delle radici lontane della crisi del movimento comunista italiano (in questa anticipazione ho effettuato alcuni tagli, segnalati dai puntini di sospensione fra parentesi, cambiato alcune brevi frasi rispetto al testo originale e introdotto due titoli di paragrafo che nel libro non esistono).    


Sull'eredità eurocomunista 

Ciò che più colpisce della galassia dei partitini nati dalla dissoluzione del PCI (...) è il loro scarso, per non dire inesistente, impegno nell’indagare le cause di un evento sorprendente: come mai il più grande partito comunista occidentale ha potuto trasformarsi, praticamente dalla sera alla mattina, nemmeno in un partito socialdemocratico, bensì direttamente in un partito liberale. Al posto delle riflessioni ci sono state rabbia, delusione, risentimento, accuse di tradimento nei confronti del gruppo dirigente. Ma quali fattori politico culturali hanno favorito la selezione di quel gruppo dirigente? A confermare che su ciò si è ragionato poco o nulla è il fatto che, discutendo con i compagni, capita di ascoltare nostalgici panegirici di un leader come Enrico Berlinguer, vale a dire dell’uomo che ha officiato il compromesso storico con la DC; che, dopo avere proclamato l’esaurimento della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’ottobre, ha dichiarato di sentirsi al sicuro sotto l’ombrello protettivo della NATO; che, prima di presentarsi ai cancelli della Fiat nell’80, quando la battaglia era già persa, aveva benedetto la svolta opportunista di Lama - svolta che nei decenni successivi è divenuta aperta resa nei confronti di tutte le “riforme” volute dai padroni e dai loro rappresentanti politici.  

Se non si riesce a fare i conti con la figura del fondatore dell’eurocomunismo, figurarsi se ci si possono aspettare riflessioni critiche nei confronti dell’eredità teorico politica del “migliore”. Eppure la discutibile interpretazione del concetto gramsciano di “nazional popolare” elaborata da Palmiro Togliatti, è senza dubbio alla radice di molti errori successivi. Per decenni la base del partito si è illusa che la tesi della “lunga marcia attraverso le istituzioni” fosse un diversivo tattico. In realtà si trattava di una svolta che cambiava le regole del gioco rispetto allo storico dibattito sull’alternativa riforme-rivoluzione (...). Per contestualizzare tale dibattito nell’attuale fase storica, occorre chiarire che il punto non è  l’alternativa fra rivoluzione violenta e presa del potere attraverso le elezioni, bensì è il seguente: si va al potere per governare il sistema esistente, sia pure “democratizzandone” certi dispositivi, oppure perché lo si concepisce come il primo passo verso un cambiamento sistemico? Rivoluzioni come quelle venezuelana e boliviana sono del secondo tipo, come confermano le Costituzioni alle quali hanno dato vita; l’ascesa al potere del PCI immaginata da Togliatti, prevedeva viceversa una cogestione con i partiti borghesi (a partire dalla DC), che mai avrebbe consentito di avviare un cambio di sistema (ritenuto impossibile anche a causa della collocazione geopolitica del Paese (...). Si tratta di capire come e perché quel riformismo, che non metteva in discussione la natura, le funzioni e gli obiettivi di questo Stato, limitandosi a rivendicare un’applicazione più rigorosa dei principi della Costituzione, abbia ispirato infiniti compromessi con il nemico di classe (...). 


Questo mix di elettoralismo ed opportunismo è il marchio indelebile che i partitini neocomunisti hanno ereditato dal PCI. A mano a mano che perdevano voti ed iscritti, riducendosi a “cespugli”, secondo l’ironica definizione degli avversari, cresceva il loro spasmodico impegno per conquistare uno straccio di deputato, senatore, consigliere regionale o municipale. Le scarse risorse organizzative ed economiche venivano spese per realizzare tale obiettivo, piuttosto che per ricostruire il partito di classe. Questa ossessione, associata alle piccole ambizioni di un personale politico di qualità decrescente, in quanto non più forgiato dal fuoco delle lotte, ha innescato la competizione che ha alimentato la frammentazione, fino all’esito grottesco della pletora di marchi con la falce e il martello che ci siamo abituati a vedere sulle schede elettorali. Inutile aggiungere che l’abbassamento del livello culturale di quadri e gruppi dirigenti ha fatto sì che, oltre a ereditare i difetti del vecchio PCI, queste formazioni non hanno mai avviato una seria riflessione sul rinnovamento teorico del marxismo, sulle ragioni del crollo sovietico e del successo cinese, sull’evoluzione del sistema capitalistico globale, sulla sua crisi, né tanto meno,  sulle trasformazioni sociali e culturali subite dalle classi lavoratrici occidentali.  


In una certa misura, anche i partitini della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta, poi confluiti nei movimenti “post politici” dei decenni successivi, sono il prodotto della svolta eurocomunista. Dopo averla contrastata riproponendo pappagallescamente i principi del marxismo leninismo (in forme che Lenin avrebbe liquidato come estremino infantile), e dopo essere stati asfaltati dal riflusso delle lotte operaie e dalla controffensiva capitalista, si sono convertiti a loro volta al neoliberalismo, sia pure in versione “progressista” (...). Una parabola che si sovrappone in buona parte a quella di Rifondazione comunista, esperienza politica che, non fosse oggi ridotta a un patetico e ininfluente residuo, meriterebbe una riflessione ad hoc, nel senso che rappresenta un originale (qui l’aggettivo non ha connotati elogiativi) tentativo di far confluire in un unico calderone i peggiori difetti del vecchio PCI (elettoralismo e tatticismo opportunistico) con i peggiori difetti del movimentismo postsessantottino (estremismo parolaio, individualismo, democraticismo piccolo borghese, autoreferenzialità delle classi medie “riflessive”).



Partito di massa/partito di quadri 


Se è vero che costruzione della classe e costruzione del partito dovrebbero essere processi intrecciati, mi sembra chiaro che porre la questione del blocco sociale rivoluzionario prima che questi due processi abbiano raggiunto un adeguato livello di maturazione è sbagliato e controproducente, in quanto rischia di regalare l’egemonia agli strati superiori di classe media, creando le condizioni per una rivoluzione passiva. Il successo delle rivoluzioni socialiste realizzate da alcuni movimenti populisti latinoamericani sembrerebbe smentire tale tesi. La contraddizione è però apparente, in quanto i movimenti in questione sono il prodotto di condizioni socioeconomiche, culturali e storiche ben diverse dalle nostre. In particolare: 1) si tratta di rivoluzioni antiliberiste, antimperialiste e di emancipazione nazionale e razziale, realizzate  in contesti regionali che hanno favorito la convergenza di interessi fra masse contadine di etnia india, classe operaia e sottoproletariato urbani, piccola e media borghesia progressiva su obiettivi radicali di riforma costituzionale, redistribuzione della ricchezza e cambiamento di matrice produttiva; 2) a guidarle sono stati leader rivoluzionari di grande capacità politica come Chávez; Morales e Linera, temprati da lunghe e dure esperienze di lotta, i quali hanno saputo innovare creativamente la teoria socialista e mobilitare avanguardie politiche altrettanto esperte e affidabili; 3) infine il processo rivoluzionario ha potuto usufruire di strutture di democrazia diretta e partecipativa sorte nel corso di lotte precedenti. Per inciso: i partiti comunisti locali, caratterizzati da posizioni teoriche e ideologiche dogmatiche, sono stati incapaci di assumere un ruolo egemonico, finendo per venire assorbiti e  integrati in nuovi partiti rivoluzionari come il PSUV venezuelano e il MAS boliviano.


Il progetto di replicare queste esperienze nei Paesi a capitalismo avanzato messo in atto da movimenti populisti di sinistra come Podemos, è fallito perché ispirato al tentativo del filosofo argentino Ernesto Laclau di “universalizzare” il modello delle rivoluzioni latinoamericane: si è puntato a “costruire un popolo”, cioè un blocco sociale rivoluzionario, prima di lavorare all’unificazione delle classi lavoratrici e alla costruzione d’un partito rivoluzionario radicato nel sociale; si è tentato di egemonizzare i movimenti di massa contro le politiche neoliberiste  attraverso l’uso dei nuovi media e non reclutandone e organizzandone politicamente le avanguardie; si è mirato a ottenere in tempi brevi una maggioranza elettorale in grado di conquistare il governo, senza capire che la guida del governo in assenza di un progetto di mutamento sistemico sarebbe stata di breve durata, né avrebbe consentito di modificare i rapporti di forza fra le classi. Questa linea politica, oltre a produrre gravi compromessi su temi strategici, come l’atteggiamento nei confronti del blocco atlantico e delle sue guerre imperialiste e la mancata tutela degli interessi nazional popolari nei confronti delle politiche neoliberiste della UE, ha progressivamente eroso il consenso delle masse popolari fino ad azzerare le velleità maggioritarie. Anche in questo e altri casi, i comunisti organizzati nei partiti tradizionali hanno svolto un ruolo marginale, muovendosi a rimorchio dei populisti.  


In Italia, a fronte della riduzione delle sinistre nella migliore delle ipotesi a opposizione del re nella peggiore a agenti diretti degli interessi delle élite dominanti, lo spazio politico liberato dal loro fallimento è stato per alcuni anni occupato da un movimento come l’M5S, il quale, più che una sinistra populista è stato, sul piano organizzativo il collettore delle velleità “sovversive” di strati piccolo borghesi vecchi e nuovi, penalizzati dalla crisi e in stato di agitazione permanente fin dai tempi di Tangentopoli, sul piano elettorale e dell’opinione pubblica, un megafono della rabbia delle classi subalterne schiacciate dalla crisi. Allorché questa falsa alternativa si è ridimensionata a causa delle sue grottesche contorsioni di linea politica, nella galassia dei partitini neo comunisti sì è diffusa l’illusione di poterne ereditare l’effimero consenso popolare. 


Suggestionata dalle sirene populiste, frammentata sul piano organizzativo e penalizzata dal mancato rinnovamento teorico, la piccola famiglia dei comunisti italiani tenta di mettere il carro davanti ai buoi, punta cioè alla costruzione di un blocco sociale prima di avere avviato la ricostruzione della classe e del suo partito; spera di utilizzare la base elettorale dei grillini come scorciatoia per bypassare i tempi necessari a selezionare le avanguardie presenti nei  fronti di lotta, formarle come quadri politici, riunificare le disiecta membra del movimento comunista, elaborare un programma rivoluzionario e forgiare gli strumenti per metterlo in atto. Tornano i soliti vizzi – opportunismo, elettoralismo, codismo, demagogia, ecc. – aggravati dall’urgenza imposta dalla crisi economica e geopolitica mondiali. Così si gratta la pancia al movimento No Vax, evitando di depurare la sacrosanta rabbia che lo alimenta dalle scorie complottiste e dai deliri pseudoscientifici di alcuni esponenti; si strizza l’occhio ai movimenti sovranisti, senza storcere il naso di fronte ad alcune componenti chiaramente di destra;  si tessono intese elettorali con reduci dell’M5S in cerca di sponde per riconquistare un seggio. Confondendo questi frammenti semi organizzati di ceto politico con i sentimenti di frustrazione e di rabbia delle masse popolari che costoro pretendono di rappresentare, si crede di poter costruire su simili fragili fondamenta un partito di massa, senza “perdere tempo” a costruire un partito di quadri. 


Note 

I libri in cui mi sono occupato delle potenzialità politiche del populismo e del sovranismo di sinistra sono Utopie letali (Jaka Book, Milano 2013); La variante populista, (DeriveApprodi, Roma 2016) e Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano 2019) . Quanto alle esperienze di militanza cui mi riferivo nel post in questione si trattava di Eurostop, propaggine della Rete dei Comunisti riassorbita, di fatto, in Potere al Popolo e nel cartello elettorale di UP, ma soprattutto del progetto politico di Nuova Direzione che, dopo avere lasciato Eurostop in disaccordo con la scelta di confluire in PaP, avevo contribuito ad avviare assieme ad altri amici e compagni, scommettendo sull'esistenza di uno spazio politico per un movimento populista/sovranista di ispirazione esplicitamente socialista che si è rivelato inesistente.  


(2) La letteratura sulla confluenza del femminismo mainstream nell'area del liberalismo "progressista" è ormai ampia: si vedano, in proposito, gli scritti di un'autrice come Nancy Fraser.


(3) Le tesi sulla cosiddetta proletarizzazione dei ceti medi riemergono ciclicamente. Si pensi al successo che ottennero fra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta, quando i movimenti della sinistra extraparlamentare le cavalcavano per legittimare il presunto ruolo rivoluzionario dei movimenti studenteschi (da cui proveniva la grande maggioranza dei loro militanti). La storia si è poi incaricata di dimostrare come la schiacciante maggioranza di quei "nuovi proletari" - esaurito il ciclo di lotte cui avevano partecipato -  sia prontamente rientrata nei ranghi di una piccola media borghesia fatta di nuove professioni e nuovi strati tecnico-impiegatizi, se non addirittura manageriali, ben integrati nei valori, nei principi e nelle regole nell'emergente sistema neoliberista (vedasi in proposito L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014). Oggi si tenta di riproporla, associandola  all'effervescenza dei ceti medi impoveriti, impossibilitati a svolgere ruoli e mansioni all'altezza delle competenze professionali acquisite, o titolari di attività produttive messe a rischio dalla crisi economica, dagli effetti della pandemia del Covid19 e/o della guerra russo-ucraina, il tutto senza considerare che tali effervescenze sono motivate dalla speranza di riacquisire i propri privilegi più che dalla comprensione delle cause politico-economiche delle proprie paure, disagi e frustrazioni che non vengono attribuite al sistema neoliberale bensì al fatto che a tale sistema viene impedito di esercitare i suoi effetti benefici da politici disonesti e corrotti.   

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