Lettori fissi

domenica 8 agosto 2021

SULLA SCHIZOFRENIA POLITICA DI MARIO TRONTI


Mario Tronti



Leggo, con qualche ritardo, l’intervista che Mario Tronti ha rilasciato al “Manifesto” pochi giorni dopo il suo novantesimo compleanno (21 luglio 2021) e, come ho già più volte scritto in precedenti interventi, riprovo la stessa impressione – in questo caso, se possibile, ancora più netta – di palese schizofrenia che traspare da certe affermazioni di questo grande – anche se non “uno dei più grandi”, come pomposamente scrive l’intervistatore – filosofo politico contemporaneo.  

Non seguirò l’ordine esatto del discorso che emerge dal dialogo fra intervistatore e intervistato, ma cercherò di elencare: prima le tesi e i giudizi politici di Tronti che condivido in toto – e che ripropongono sostanzialmente quanto il nostro aveva scritto in alcuni suoi ultimi lavori (1) -, poi le tesi e i giudizi che ritengo non solo sbagliati ma francamente inconsistenti, sia perché in palese contraddizione (per nulla dialettica!) con i primi, sia perché incompatibili con il punto di vista marxiano, cui pure Tronti si rifà. 

Inizio dicendo che trovo ammirevoli gli argomenti con cui Tronti spiega perché si è sempre rifiutato di scrivere un’autobiografia – del resto sono convinto che cedere a questa pulsione narcisistica non faccia onore a nessun intellettuale o leader politico sinceramente comunista (2) -, e aggiungo che comprendo le ragioni della sua delusione e del suo sconforto, dovuti al fatto che la sua immagine è rimasta inchiodata a quello che definisce un “libro giovanile di successo”, cioè a quell’Operai e capitale le cui tesi, come ha spiegato in una lunga video-intervista rilasciata qualche anno fa al sottoscritto e pubblicata da DeriveApprodi, sono state quasi subito da lui superate (3), al punto che paragona ironicamente il proprio destino a quello di Salinger, del quale si ricorda solo Il giovane Holden. Dopodiché vengo a quanto trovo condivisibile nelle sue risposte.

1) Tronti rivendica quella che a suo parere – il che vale anche per il sottoscritto – è forse oggi l’unica vera lezione dell’esperienza operaista che resti valida, vale a dire il punto di vista di parte. Un punto di vista che non vige solo all’interno della fabbrica, dove capitale e lavoro si fronteggiano senza mediazioni, ma anche per l’insieme delle relazioni sociali, politiche e istituzionali (il che non è diverso da quanto teorizzato da Lenin e Mao nei rispettivi testi canonici).

2) Critica chi oggi ,“come gaiamente si ama dire”, sostiene che la politica moderna è polis, agorà, per ribadire che, al contrario, la politica resta “rapporto di forza, potenza contro potenza, appartenenza a un campo contro un altro campo” (il che può essere descritto come una sorta di corollario alla rivendicazione d’un punto di vista di parte di cui al punto precedente).

3) Dopo avere ricordato che oggi il lavoro appare “frantumato disperso, dimenticato alienato e pur vivo”, auspica che esso possa vivere una sua pasqua di resurrezione ma, al contempo, ammonisce che ciò non potrà avvenire per spontaneità, dal basso, ma solo grazie a un progetto capace di “riunificare socialmente, soggettivare politicamente, motivare personalmente, riarmare teoricamente” il mondo del lavoro (e qui aleggia lo spettro del partito, oggi inesistente, cui spetterebbe compiere una simile impresa)

4) Definisce “indegni eredi” della sinistra di classe quelli che vanno oggi pazzi per Biden come ieri per Clinton e Obama. Ricorda come al dibattito sul concetto di transizione dal capitalismo al socialismo, siano subentrati i concetti di transizione ecologica e digitale. Conclude dicendo che “solo con la minaccia del superamento di quello che una volta si diceva l’ordine costituito, non gridato ma praticato con relativa forza in grado di realizzare l’obiettivo, costringi il tuo avversario a concedere riforme di sistema  favore della tua parte” (qui mi limiterei  sostituire la parola avversario con la parola nemico di classe – il che non è tuttavia annotazione marginale).

5) Rivendica la necessità di chiamarsi comunista, anche se oggi “la marxiana critica di tutto ciò che è non gode certo di una sua attuale fortuna”. Quindi per rimarcare la differenza di senso fra i termini comunismo e socialismo, ricorda che i comunisti “hanno fallito, hanno sbagliato più di una cosa nel tentativo, accerchiati e combattuti, ma questo non è la prova del fallimento di un’idea. I socialisti, diventati democratici, non ci hanno nemmeno mai provato”. Giusto, se riferito alla storia del Novecento (che Tronti difende dalla sbrigative condanne delle attuali “sinistre”), ma il guaio è che il suo sguardo è qui esclusivamente rivolto all’indietro, mentre ignora una contemporaneità in cui Paesi come Cina, Vietnam, Cuba sono impegnati nella costruzione del socialismo sotto la guida di partiti comunisti, e che, in questi e altri contesti, come alcune rivoluzioni latinoamericane, il dibattito sulla transizione ha ancora il suo significato classico, contrariamente a quanto avviene in un esangue Occidente dove la parola socialismo è divenuta inservibile dopo essere stata trascinata nel fango.

Ma veniamo alle paradossali contraddizioni di cui sopra (qui mi limito a indicare le più clamorose). La prima è di tipo metodologico, squisitamente filosofica se vogliamo. A fronte delle scelte politiche che gli vengono rinfacciate (per ragioni ideologiche su cui tornerò fra breve), Tronti rivendica il suo incontro con la “tradizione del realismo politico moderno”, in nome della quale afferma la necessità di operare continui “adattamenti al mutare delle condizioni oggettive”. Posto che la tradizione cui si riferisce è, presumibilmente, quella incarnata da Carl Schmitt, e posto che lo stesso Schmitt arruolava – non senza ragioni – Lenin nel campo realista, resta la differenza di fondo: il realismo leninista non transigeva di un centimetro dai principi e dagli obiettivi del marxismo, cioè dall’abbattimento della società capitalistica; viceversa il realismo di Schmitt era realismo senza principi, al servizio della riproduzione/conservazione del potere dello Stato a prescindere dalle sue connotazioni ideologiche e dai suoi fini di classe. Ebbene, nella misura in cui il realismo trontiano assume come irreversibile, se non progressivo, il processo storico che ha condotto al trionfo delle ragioni del mercato su tutte le altre, il suo punto di vista scade inevitabilmente in un cattivo  determinismo hegeliano (il reale è razionale) sul piano filosofico, e in un pessimo determinismo economico, per cui la contraddizione va agita sempre e comunque al più alto livello raggiungo dallo sviluppo delle forze produttive (tesi ampiamente falsificata dalla realtà storica).  La sua, insomma, è una visione determinista/meccanicista lontana chilometri dalla ontologia sociale dell’ultimo Lukacs (4), che ha riscattato la scienza marxiana della storia al realismo pseudoscientifico dei filosofi reazionari che incantano Tronti. 


Carl Schmitt



Imboccata questa strada, lo scivolamento sul piano inclinato dell’opportunismo è inevitabile: così si può sostenere la necessità di usare la civilisation borghese per imporre la kultur operaia, secondo la ritrita formula che affida alla rivoluzione socialista il compito di “condurre a compimento” la rivoluzione borghese (con chiaro cedimento a una visione evoluzionista/progressista della storia che lo stesso Tronti ha più volte contestato). Così, dopo avere giustamente marchiato l’infamia di una sinistra che inneggia ai vari Biden, Obama e Clinton, si giustifica il fatto di avere militato tutta la vita in quella sinistra (anche dopo la sua conversione in forza dichiaratamene liberal-liberista, anticomunista e antipopolare) in ragione della necessità di non scadere nel minoritarismo. Come se stare dalla parte della maggioranza (ed evocare, come fa Tronti, la parola bolscevismo riferita a quella maggioranza è pura bestemmia), avesse comportato la possibilità di meglio servire gli interessi di parte cui Tronti vuole rifarsi. Certo quella forza ha servito interessi di parte, ma erano quelli del nemico, come conferma il fatto che è votata ormai solo più dai ceti medio ricchi e dai ceti medi "riflessivi", mentre i proletari le hanno voltato le spalle da decenni, dopo avere subito un'infinita successione di tradimenti culminati con l’abolizione dell'articolo 18. 

Concludo con i punti del Che Fare elencati alla fine dell’intervista. Bene i primi sei (rimettere al centro il conflitto sociale; lavorare a una nuova forma di partito che assicuri radicalità e durata; sconfiggere il virus dell’antipolitica; recuperare memoria storica delle lotte e farla finita con la demonizzazione del Novecento; basta con le litanie su giovani e donne; costruire popolo (con riferimento a Laclau), anche se occorre ribadire che tutti questi punti sono in totale opposizione schizofrenica con le concrete scelte politiche operate dal nostro (e con le motivazioni filosofiche e ideologiche con cui tenta di giustificarle). 

Nella settima e ultima però (in cauda venenum) ci risiamo. Passando alla geopolitica, infatti, Tronti parla niente di meno che di “liberazione dell’Europa dall’atlantismo”, come se questa Europa delle Merkel, dei Macron e dei Draghi non incarnasse la quintessenza dell’anticomunismo atlantista come e più del dominus americano (che lei stessa ha del resto partorito). Credo di poter dire che qui siamo, più che nell’equivoco di un malinteso realismo, nella più crassa ignoranza dei dispositivi economici, politici, sociali e istituzionali su cui è stata costruita la Ue come baluardo contro gli interessi delle classi subalterne (ciò di cui il Pci fu ben consapevole fino agli anni Settanta, come Tronti, data la sua età, dovrebbe del resto ben ricordare). 

Note

(1) Cfr. M. Tronti, Dello spirito libero, il Saggiatore, Milano 2015; vedi anche Dall'estremo possibile, Ediesse, Roma 2011. 

(2) Un'apologia particolarmente toccante delle virtù dell'eroe comunista - fra cui l'assoluta mancanza di pretese narcisiste di riconoscimento dei propri meriti - si trova nel Principio speranza (Meltemi, 2019) di Ernst Bloch. 

(3) Vedi in merito, M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009. 

(4) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell'essere sociale, (4 voll.) Pigreco, Milano 2012

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