Lettori fissi

lunedì 13 settembre 2021

 DALLA NEP DI LENIN ALLE RIFORME CINESI DEL 1978

Rita di Leo



Se Lenin avesse avuto il tempo di proseguire sulla via della Nep

La storia non si fa con i se e con i ma. Tuttavia, dopo avere letto i tre libri di Rita di Leo: in ordine cronologico, L’esperimento profano e Cent’anni dopo. 1917-2017, usciti da Ediesse, e L’età della moneta, pubblicato dal Mulino, non ho potuto fare a meno di pormi la seguente domanda: come sarebbe cambiata la storia dell’Unione Sovietica se Lenin avesse vissuto abbastanza per proseguire l’esperimento avviato con la NEP?

Nei testi appena citati Rita di Leo ricorda in più occasioni come – dal 1918 al 1924 -  il leader bolscevico, con la sua straordinaria capacità di valutare realisticamente le possibilità associate a una situazione storica concreta, si fosse reso conto del fatto che, per usare le parole dell’autrice, “gli uomini del lavoro non erano in grado di gestire i luoghi del lavoro appena conquistati”. Di conseguenza frena con decisione sia lo spontaneismo della base operaia, sia l’estremismo di quei dirigenti del partito che pensavano fosse possibile realizzare dalla notte al giorno la transizione al socialismo (1). Nel contempo, studia una strategia che tenga conto del fatto che gli uomini del capitale, gli “esperti” che fino alla rivoluzione lo avevano gestito per conto dei padroni, una volta eliminati questi ultimi, sono i soli  disporre delle conoscenze necessarie ad assicurare il funzionamento dell’amministrazione del paese. Di conseguenza il lavoro dovrebbe “comprarne” la tecnica, la scienza dell’organizzazione, lo spirito imprenditoriale, in una parola la cultura.

In base a questa visione gli operai, in contrasto con la loro aspirazione a lavorare il meno possibile,  avrebbero dovuto rientrare nelle fabbriche – che molti avevano abbandonato - per rimetterle in funzione, mentre i tecnici, messi fra parentesi i principi dell’egualitarismo, avrebbero dovuto essere invogliati  a continuare a svolgere il proprio ruolo, concedendo loro salari elevati. Ai funzionari di partito sarebbe spettato il compito di controllare tanto i primi che i secondi. Infine ai contadini si sarebbe dovuto concedere di vendere al mercato il sovrappiù prodotto. Ovviamente, perché tutto ciò fosse possibile, occorreva anche che il governo garantisse il funzionamento della macchina amministrativa e dei relativi servizi (comunicazioni, trasporti, educazione, sanità, ecc. ). È chiaro che questo significava riconoscere che il Paese avrebbe dovuto attraversare le fasi del capitalismo industriale, perché l’idea che fosse possibile saltarle era illusoria. In breve, secondo Rita di Leo, Lenin “andava in cerca di una teoria del socialismo che non poteva essere quella classica”, e il suo programma prevedeva in buona sostanza una sorta di “uso bolscevico del capitalismo” (2). Più avanti proverò a ragionare sulla straordinaria somiglianza fra questa svolta dell’ultimo Lenin e la via delle riforme che il governo cinese ha intrapreso dopo il 1978. Per il momento mi limito a seguire l’analisi della di Leo sulla via che l’Unione Sovietica imboccò dopo la sua morte, e sulle conseguenze di lungo termine – fino al crollo dell’89 - che essa ebbe per il sistema.  





L’operaismo di Stalin

Vinta la battaglia per il controllo del partito, Stalin sceglie una strategia diversa da quella studiata dall’ultimo Lenin. Andando contro i luoghi comuni della sovietologia occidentale (anche nelle versioni “di sinistra”), secondo cui le scelte di Stalin sarebbero state inspirate dalla brama di potere e da una personalità crudele e paranoica, l’autrice ci restituisce l’immagine di uno Stalin motivato da una visione utopista e operaista. Utopista in quanto, diversamente da Lenin, è convinto che sia non solo possibile ma necessario passare alla costruzione del socialismo senza transitare da una fase capitalistica. Operaista in quanto il suo obiettivo primario è costruire nel più breve tempo possibile una nuova élite di estrazione proletaria, perché possa sostituire i vecchi quadri intellettuali, non solo quelli appartenenti al regime prerivoluzionario, ma anche gli stessi dirigenti storici del partito bolscevico. 

Alla base di questa impostazione, sostiene di Leo, ci sono anche ragioni biografiche: Stalin è il solo leader bolscevico di estrazione popolare, laddove l’intero gruppo dirigente del partito era di estrazione borghese, motivo per cui ha sempre guardato con diffidenza agli “uomini dei libri”, pensando che fosse pericoloso e sbagliato delegare a costoro il compito di dirigere il paese per conto e nel nome degli “uomini del lavoro”. Il suo punto di vista potrebbe essere sintetizzato con lo slogan lanciato decenni dopo da Mao: “la classe operaia deve dirigere tutto”. Di conseguenza, oltre a mettere in atto un gigantesco sforzo per la formazione di quadri di estrazione proletaria, si procede alla emarginazione degli intellettuali che erano stati alla guida tecnica (gli esperti borghesi) e politica (i vecchi rivoluzionari di professione) del lavoro manuale. Il partito punta ad accumulare conoscenze tecnologiche e scientifiche con le quali sostituire la cultura borghese. Inoltre, dopo che si è entrati nella fase della costruzione del socialismo, le capacità fondamentali non sono più quelle relative allo studio della società e delle sue contraddizioni, bensì quelle che servono a costruire e a far funzionare ponti e canali, fabbriche e dighe, scuole e ospedali. Mentre una quota enorme di risorse tecnologiche, scientifiche e umane va necessariamente impiegata nel difendere l’unica nazione socialista dall’assedio da parte dell’intero mondo capitalista, tutto il resto rappresenta il secondo fronte strategico del conflitto fra socialismo e capitalismo: il primo deve dimostrare di poter competere con il secondo anche sul piano dello sviluppo delle forze produttive. 

In tale contesto diventano più comprensibili, sul piano degli obiettivi se non su quello dei metodi adottati per realizzarli, fenomeni quali la dura repressione nei confronti dei kulaki ( i contadini ricchi) nel corso del processo di collettivizzazione forzata delle campagne, l’emarginazione dei vecchi intellettuali borghesi (attraverso il ricorso sistematico alla “rieducazione” nei campi di lavoro), e la persecuzione dei vecchi dirigenti bolscevichi, che agli occhi della nuova élite appaiono intellettuali “cacadubbi” che, con le loro critiche, mettono in difficoltà il governo (anche se ciò non giustifica le accuse di tradimento e collusione con il nemico esterno, con cui in molti casi si è provveduto a liquidarli). A mano a mano che i vecchi rivoluzionari di professione vengono eliminati, il loro posto viene preso dai “confezionatori di norme”, cioè dai pianificatori, i quali stabiliscono gli obiettivi e li trasmettono ai dirigenti politici che, a loro volta, li trasmettono ai dirigenti economici o amministrativi che devono farli attuare dagli esecutori finali.  

Gli effetti di questa logica si dipanano in due fasi distinte, prima e dopo la morte di Stalin. Partiamo dalla prima. La classe operaia russa, al momento della rivoluzione, era numericamente esigua, ma cresce in conseguenza del processo di industrializzazione forzata, concentrato soprattutto nel settore dell’industria pesante, determinante sia ai fini militari, sia per la creazione delle infrastrutture della nuova Russia.  In conseguenza di questo processo, i nuovi operai (contadini inurbati, ex artigiani e soldati) diventano per il partito lo strato sociale di riferimento, assai più della preesistente classe operaia (un’aristocrazia del lavoro che in diverse circostanze era entrata in conflitto con la élite bolscevica). Questa nuova classe, dalla quale vengono selezionati in quadri che dovranno gestire il potere, è fatta di operai che vogliono lavorare il meno possibile e controllare il processo di estrazione del proprio plusvalore. Nasce così una “autonomia operaia” che impone le proprie esigenze ai capi brigata e ai capi reparto che, mentre dovrebbero imporre l’esecuzione degli obiettivi del piano, si arrabattano mediando con le resistenze della base attraverso aggiustamenti ad personam. 

È per questo motivo che nel paese si sviluppano – e divaricano progressivamente gli uni dagli altri - due distinti piani di produzione: quello ufficiale descritto dagli obiettivi del piano, e quello informale, realizzato attraverso i compromessi tra coloro che devono fare eseguire le norme e coloro che devono metterle in pratica. Non ci si lasci ingannare dai successi dell’industrializzazione nei primi decenni del regime sovietico e/o dall’esaltazione degli “eroi del lavoro”, ammonisce la Di Leo: la verità è che nelle fabbriche si lavora poco e male, soprattutto perché la resistenza operaia rallenta, o addirittura impedisce, la sostituzione della forza lavoro con le macchine, per cui il lavoro di tipo artigianale resta al centro del mondo industriale. Al punto che, secondo l’autrice, negli anni Settanta, le nuove fabbriche funzionavano ancora come quelle degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. 

Nel frattempo un’altra contraddizione socioeconomica viene a sommarsi a questo scollamento fra paese ideale e paese reale: i successi dell’industrializzazione alimentano crescenti aspettative popolari in merito alla fine dello stato di eccezione e all’aumento del tenore di vita, ma queste aspettative vengono frustrate dalla strategia diseguale fra produzione di beni di consumo e produzione di mezzi di produzione, in quanto l’esigenza di proteggere l’Unione Sovietica dalla minaccia dei paesi capitalisti impone di privilegiare i secondi a spese dei primi, per cui i livelli dei consumi crescono assai lentamente, o addirittura ristagnano. 





Verso il crollo

Questi problemi, cui forse si sarebbe potuto trovare soluzione fino agli anni precedenti e immediatamente successivi alla II Guerra mondiale, si aggravano pesantemente, tano  da divenire irreversibili, dopo la morte di Stalin. Anche nell’analizzare questa ulteriore fase, Rita di Leo si discosta nettamente dai luoghi comuni della sovietologia ufficiale che impera nelle università occidentali. Non bisogna farsi ingannare dalla virulenza delle critiche ideologiche allo stalinismo successive al XX congresso del PCUS, scrive, perché, al netto delle accuse strumentali con cui si celebra la liquidazione di ciò che resta della vecchia guardia bolscevica, le nuove élite politiche – da Kruscev a Brezhnev – sono fatte di figure che, anche sul piano biografico, incarnano la promozione del proletariato a classe dirigente voluta da Stalin. Costoro aggiungono tuttavia ingredienti del tutto nuovi – e destinati a produrre effetti disastrosi – alla vecchia ricetta con cui si era fino ad allora governato il paese. 

In primo luogo, l’idea secondo cui fare politica si riduce in sostanza a realizzare il piano viene condotta alle estreme conseguenze: dal momento che la sfida con il capitalismo dev’essere vinta anche se non soprattutto sul piano economico, viene a cadere progressivamente il principio secondo cui la politica deve stare al posto di comando e, benché il partito non rinunci formalmente al primato, la macchina statale si autonomizza progressivamente dal suo controllo, come dimostra il fatto che ai funzionari viene data la possibilità di fare la propria carriera interamente nei rispettivi ambiti professionali. Ancora: il paradosso dei decenni precedenti, in ragione del quale, da un lato la paura dell’URSS aveva indotto i paesi capitalisti a coltivare il welfare e l’economia del benessere, dall’altro lato la paura del boom capitalistico e dell’accerchiamento aveva spinto l’URSS a consolidare il settore strategico-militare a scapito degli altri comparti dell’economia, si acuisce e diviene stridente a mano a mano che la corsa agli armamenti accelera (armi nucleari, missili, gara spaziale, sottomarini atomici, ecc.) e richiede risorse sempre più ingenti. 

Nel contempo le aspirazioni popolari, a mano a mano che cresce la distanza fra partito e masse (distanza occultata da una narrazione ufficiale che parla di partito e stato di tutto il popolo, di socialismo realizzato, ecc.), vengono sempre più assumendo la forma di concreti interessi individuali: “un buon lavoro, un appartamento e non una stanza in un appartamento comune, beni di consumo per la massa”, aspirazioni che il potere non traduce in programma politico. A venire incontro a queste esigenze ed aspettative di una società che sviluppa una propria vita autonoma, indipendente dalle autorità formali, è un’economia ombra fondata sulla diffusione di denaro guadagnato in nero, un’economia che ha le proprie gerarchie, le quali appaiono sempre più simili a quelle dei paesi capitalisti. Il lavoratore sovietico si distingue sempre meno dall’individuo consumatore occidentale. Negli ultimi anni del regime, scrive l’autrice, “Operai e tecnici lavoravano per gli uomini della moneta in terra sovietica. Essi erano ricomparsi perché erano più utili degli uomini del piano, rimasti intrappolati nella scelta degli anni trenta per cui il compito primario era battere il capitalismo sul suo terreno”.  Così si spiega la rapidità con la quale, dopo che Gorbachov e Eltsin hanno sottoscritto la vergognosa capitolazione di fronte al mondo capitalista, sono spuntati come funghi gli “uomini del capitale”, i quali atro non erano se non gli ex direttori dei kombinat di stato, i mediatori di affari in nero, i segretari regionali di partito, ecc. tutta gente che già da tempo aveva assunto la gestione dell’economia informale che cresceva come un cancro dietro la facciata di un paese che ancora si dichiarava socialista. 





Il tradimento dei chierici

Torniamo all’interrogativo iniziale: avrebbe potuto andare diversamente se Lenin avesse avuto il tempo di mettere in atto il suo progetto di “uso bolscevico del capitalismo”? La storia avrebbe potuto assistere, con mezzo secolo abbondante di anticipo, a un evento paragonabile al trionfo del socialismo in stile cinese? Prima di azzardare una risposta, vale la pena di esaminare un altro aspetto dell’analisi che Rita di Leo dedica all’esperimento sovietico, un aspetto che abbiamo sin qui tenuto da parte in quanto si tratta di un livello autonomo - ancorché altrettanto importante – rispetto al livello socioeconomico: mi riferisco al ruolo degli strati intellettuali in tutta la vicenda. 

Ovviamente l’analisi deve partire dal 1917. L’élite forgiata dalla rivoluzione era composta quasi esclusivamente di rivoluzionari di professione, che di Leo descrive così: “l’intellettuale che lascia il nido lo fa sospinto dall’impegno illuminista di stare combattendo per migliorare lo stato di cose presenti e cioè dal fervore morale e religioso verso gli ultimi, ma soprattutto nella certezza di aver scelto il futuro contro il passato”. Il passaggio è significativo soprattutto per l’accenno al fervore morale e religioso e per la convinzione di costruire il futuro (non solo del proletariato russo ma dell’umanità intera, è il caso di aggiungere), elementi che ritroviamo nel fervore utopistico di un filosofo come Ernst Bloch (3). Per realizzare questo sogno profetico, scrive l’autrice, i bolscevichi ricorrono a una sorta di stato di eccezione permanente e applicano rigorosamente il principio della contrapposizione amico/nemico per annientare la resistenza del nemico di classe. Il partito dei politici di professione accentra la responsabilità di tutte le istituzioni – politiche, amministrative, governative – e le sue ragioni devono prevalere su qualsiasi altra esigenza (la politica al posto di comando, per dirla con Mao). Il tutto nel quadro di una visione etico/razionale dei rapporti sociali che si oppone a quella economica. 

In questo stadio primordiale dell’esperimento si è ancora convinti che, per cambiare il mondo, basti trasferire il plusvalore dai padroni ai produttori. Già nelle primissime fasi di vita del regime, tuttavia, emergono difficoltà tali da indurre Lenin – come si è visto – a imporre una netta inversione di rotta, liquidando le concezioni “infantili” del socialismo e avviando una riflessione sulla necessità di una transizione lunga. Nelle pagine precedenti si è descritto come la guerra di classe scatenata da Stalin contro contadini ricchi, tecnici, manager, funzionari e intellettuali del vecchio regime colpisca anche molti dei politici di professione che avevano guidato la rivoluzione, sostituendoli con quadri di origine proletaria, espressione della nuova classe operaia generata dal processo di industrializzazione. Per effetto di questa svolta, lo status sociale degli strati intellettuali precipita al di sotto di quello dei lavoratori manuali, sia sul piano salariale, sia in termini di condizioni generali di vita (abitazioni, ecc.).  Ad eccezione di coloro che riescono ad emergere nella competizione per ottenere il ruolo di consulenti del potere, tutti gli altri, scrive la Di Leo,  si ritengono vittime sacrificali di un regime che considera improduttivo il loro lavoro, ed accumulano un risentimento feroce nei confronti di operai, contadini e funzionari di partito di estrazione popolare. È per questo, argomenta l’autrice, che svolgeranno un ruolo strategico, sia all’interno che all’esterno del paese, nella demonizzazione ideologica dell’esperimento sovietico. 

A mano a mano che i loro libri escono dall’URSS e iniziano a circolare nel mondo occidentale, diventano l’arma letale dell’ideologia anticomunista. Quando poi alcuni di essi riescono a uscire dal paese e divengono esuli in occidente, assurgono immediatamente agli onori della cultura e della cronaca letteraria e mediatica, raccontando esattamente gli orrori che vuole sentirsi raccontare una società borghese nei confronti della quale provano una profonda riconoscenza, nella misura in cui ha loro restituito lo status che pensano di meritare. La loro furia antisocialista contamina progressivamente quei loro omologhi occidentali che, fino a poco tempo prima, erano entusiasti sostenitori dell’URSS. Il numero dei “pentiti” aumenta rapidamente nelle fila di questi ultimi dopo il XX Congresso del PCUS e dopo la rivolta ungherese e, anche chi non si pente e resta nei ranghi delle sinistre, tende a prendere distanza dai “vizi” del potere sovietico, denunciando la trasformazione del partito in apparato di potere burocratico, la mancanza di libertà individuali e l’incapacità di garantire condizioni di vita dignitose alle masse. 

Negli anni Settanta il processo di separazione fra marxismo occidentale e marxismo orientale (4) può dirsi compiuto: mentre le destre continuano a considerare l’Unione Sovietica una potenza anticapitalistica e antiborghese, contro la quale lotteranno senza quartiere fino a ottenerne la sconfitta, le sinistre moderate parlano apertamente di fallimento dell’esperimento socialista in Russia (il PCI arriverà a dichiarare di sentirsi protetto dalla minaccia del Patto di Varsavia grazie all’adesione dell’Italia alla Nato), e le sinistre radicali rincarano la dose contrapponendo al “socialismo reale” il ”vero” socialismo, vale a dire il socialismo ideale vagheggiato dagli intellettuali utopisti del 17 (e liquidato da Lenin come estremismo, sintomo della malattia infantile del comunismo). 

Per queste sinistre libertarie, eredi del 68, il fatto stesso che il partito bolscevico si sia fatto stato equivale ad avere rinnegato l’eredità di Marx, per cui il crollo del socialismo reale nell’89 viene celebrato entusiasticamente, come un evento positivo. Salvo dover prendere atto, nel giro di pochi anni, che quell’evento ha aperto le porte, in Occidente, al trionfo del liberal liberismo e alla più tragica sconfitta del proletariato dall’800 a oggi, in Russia alla restaurazione di un capitalismo selvaggio che consente agli intellettuali di prendersi la rivincita sul lavoro produttivo, precipitandolo in fondo alla scala sociale e ricacciandolo a condizioni non molto migliori di quelle precedenti alla rivoluzione del 17. Così il tradimento dei chierici si somma alle contraddizioni interne al sistema. 


La via cinese

Ma torniamo al dubbio da cui siamo partiti. È ovvio che chiedersi se la Russia, nel caso Lenin avesse potuto sviluppare a fondo l’esperimento della Nep, avrebbe subito un’evoluzione simile a quella della Cina di oggi è un espediente retorico. Non solo perché la storia, come già ribadito, non si fa con i se e con i ma, ma anche perché i due contesti storici differiscono profondamente. La Cina del 49 non era accerchiata come la Russia dei primi anni Venti, proprio perché poteva contare sull’appoggio politico, economico e militare dell’URSS; inoltre nel suo caso la rivoluzione aveva connotati ancora più spiccatamente contadini (l’intera classe operaia cinese è stata letteralmente costruita dalle politiche economiche post rivoluzionarie); per tacere del fatto che le dimensioni demografiche, le tradizioni culturali, la collocazione geografica, la conformazione dei territori, ecc. dei due paesi sono radicalmente diverse. La vera domanda è quindi la seguente: la strategia di Lenin sarebbe servita solo ad anticipare/ accelerare la restaurazione del capitalismo in Russia come, secondo i critici di sinistra, sta avvenendo in Cina a partire dalle riforme del 78? Che poi equivale a domandarsi: la Cina di oggi è ancora un paese socialista?     

Prendo le mosse da un  dato di fatto che ho già richiamato in varie occasioni: in tutta la storia non si è mai verificata una rivoluzione socialista in un Paese industriale avanzato: in tutti i casi (Russia, Cina, Cuba, Vietnam, ecc.) si è trattato, per dirla con Gramsci, di “rivoluzioni contro il Capitale”, visto che si sono svolte in Paesi economicamente arretrati e hanno avuto come protagoniste soprattutto le masse contadine, alleate con settori di piccola borghesia urbana ed esigui nuclei di classe operaia in  formazione.  Questo, se si accetta il principio leninista secondo cui il capitalismo si attacca a partire dall’anello più debole della catena, non dovrebbe costituire un problema. Chi viceversa identifica nella classe operaia l’unico Soggetto rivoluzionario, dovrebbe riconoscere che a esercitare tale ruolo sono stati quei partiti comunisti che ne hanno incarnato il presunto “destino” storico. Trozkisti, operaisti e socialdemocratici, che non sono disponibili a riconoscerlo, negano di conseguenza il carattere socialista di queste rivoluzioni, e ne attribuiscano il presunto fallimento al fatto che sono avvenute in Paesi economicamente arretrati, e/o al fatto che sono rimaste confinate in un solo paese.  


Tuttavia non solo chi appartiene a queste correnti ideologiche nutre dubbi sulla natura del sistema cinese. Le posizioni più critiche parlano apertamente di restaurazione del capitalismo (5); altri usano il termine capitalismo di stato, ma aggiungono che il persistere del conflitto di classe all’interno del paese fa sì che il suo futuro possa evolvere in diverse direzioni (6); altri ancora preferiscono ricorrere alla definizione di economia socialista di mercato o socialismo di mercato (7); mentre Arrighi lo inquadra in una prospettiva di lungo periodo che prevede una radicale ridefinizione degli equilibri economici e  geopolitici planetari (8). 


Personalmente ho condiviso a lungo la definizione di capitalismo di stato, finché mi sono reso conto si tratta di un termine che vuol dire tutto e niente: che tipo di capitalismo? Che tipo di stato? A confermare l’ambivalenza basterebbero le parole con cui Lenin ebbe a replicare a chi criticava la Nep: “il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato.  Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano“ (9). Ovviamente c’è chi replica che si è trattava comunque del primo passo verso la reintroduzione del capitalismo, ma le cose stanno davvero così o la questione è più complicata? 


Nel caso della Cina c’è chi ritiene che il processo degenerativo sia iniziato già alla fine degli anni Cinquanta, con la formazione di un gruppo burocratico che  avrebbe assunto il controllo sul partito per accrescere il proprio potere piuttosto che servire gli interessi del popolo. Costoro avrebbero sabotato gli sforzi di Mao per accelerare la transizione al socialismo attraverso l’istituzione delle comuni e il Grande Balzo in avanti, determinandone il fallimento. È per vincere questo ostruzionismo che Mao avrebbe lanciato la Rivoluzione culturale, ed è in seguito al fallimento di quest’ultima che, secondo questa narrativa, si sono create le condizioni per la svolta del 1978 risoltasi con la definitiva restaurazione del capitalismo. 


Che le riforme abbiano reintrodotto elementi di capitalismo in Cina è un dato di fatto: abbandono delle comuni popolari (anche se la terra è stata privatizzata solo in minima parte); autonomizzazione delle imprese di stato (con privatizzazioni di alcuni settori, soprattutto quelli dediti alla produzione di beni di consumo) nelle quali vengono introdotti criteri di gestione manageriali; decentramento e specializzazione del sistema bancario (che resta però in larga misura sotto controllo statale); allentamento del monopolio statale sul commercio estero, ma soprattutto istituzione di quelle zone speciali che hanno spalancato le porte a massicci investimenti di capitali stranieri. Né sono contestabili gli effetti sociali di tale svolta: aumento delle disuguaglianze, tagli al welfare, esodo di vaste masse contadine e loro inurbazione con pesanti conseguenze ambientali. Tutto ciò è sufficiente per parlare di fine del socialismo? Ma soprattutto: perché il sistema sovietico è crollato quasi di colpo, mentre quello cinese è asceso al rango di grande potenza mondiale? Il suo successo è dovuto alla integrazione nel sistema capitalista mondiale, o è al contrario fondato sul fatto che al suo interno permangono consistenti elementi di socialismo “in stile cinese”? 


In primo luogo, va ricordato che il “miracolo” cinese affonda le radici nell’epoca maoista, che ebbe il merito di effettuare giganteschi investimenti in irrigazioni, industria pesante, trasporti e infrastrutture, oltre a promuovere un enorme incremento dei livelli di educazione e un netto miglioramento delle condizioni generali di salute della popolazione. L’economia cinese era assai più dinamica di quella di altri paesi socialisti già prima della morte di Mao (11) grazie al fatto che non si è allineata al rigido centralismo sovietico, adottando forme più flessibili di pianificazione e lasciando fin dall’inizio margini di sviluppo ai settori governati dal mercato. Uno dei più clamorosi successi di questo stile di governance consiste nell’avere sempre garantito l’accesso alla terra per la vasta maggioranza delle masse contadine (parliamo tuttora di 450 milioni di persone). 





Altrettanto importante il fatto che le riforme siano state graduali e costantemente e controllate dal partito, smentendo le profezie occidentali secondo cui l’ingresso nel WTO ne avrebbe necessariamente scalzato il potere. A tutt’oggi il sistema presenta molteplici forme di proprietà: imprese statali, cooperative,  di proprietà collettiva (né pubblica né privata), imprese di città e di villaggio, mentre alcune imprese nominalmente private (come Huawei) hanno in realtà strutture che le rendono più simili a imprese statali (così come esistono imprese nominalmente statali ma di fatto private). In sintesi: ci troviamo di fronte a un continuum di forme proprietarie che difficilmente può essere inquadrato nelle categorie classiche. Naturalmente le forme proprietarie non sono l’unico criterio per decidere se un sistema sia o meno socialista. La questione di fondo consiste nel valutare se la presenza del mercato sia di per sé in grado di stabilire che un sistema non è socialista, interrogativo cui Arrighi dà una risposta negativa (10) argomentando che si possono aggiungere a volontà elementi di mercato in un sistema sociale ma, se e finché il mercato resta embedded in un sistema di relazioni politiche, sociali e culturali non capitaliste che ne subordinano il ruolo ad altre finalità, non è possibile parlare di capitalismo. 


Assumendo lo stesso punto di vista, altri autori considerano la Cina come un paese socialista perché mantiene una potente pianificazione ancorché flessibilizzata; è dotata di un esteso sistema di servizi pubblici al di fuori del mercato; la terra resta in larga misura pubblica e garantisce l’accesso ai contadini; è un sistema misto con differenti forme di proprietà; tende a far crescere più rapidamente i redditi da lavoro rispetto ad altre fonti di reddito; ricerca sistematicamente la pace e rapporti equilibrati con altri popoli. Questi argomenti mi sembrano convincenti, così come mi sembra convincente il fatto che gli 850 milioni di poveri del periodo pre riforme siano scesi a 14 milioni, e che i 30 milioni di disoccupati creati dalla crisi del 2008 ha generato siano stati riassorbiti in  poco più di un anno (11). E ancora: la Cina sta rapidamente evolvendo da un modello fondato sulle esportazioni verso un sistema autocentrato, fondato sullo sviluppo della domanda interna che cresce sia grazie all’aumento dei salari , sia ai colossali piani di investimenti infrastrutturali all’interno e all’esterno del Paese (vedi il progetto della Via della Seta e la crescente penetrazione nei mercati africani e centroasxatici). Infine si avvia a divenire a ritmi accelerati un colosso nei settori dell’High Tech e della IA. 


Concludo ricordando che i comunisti cinesi insistono nell’affermare che la costruzione del socialismo va concepita come un processo secolare caratterizzato da avanzate e ritirate, del quale non è mai garantito il successo definitivo. Per capire questo punto di vista occorre tenere conto della dismisura geografica e demografica e della storia millenaria della Cina. Fattori che fanno sì che, nel suo caso, il progetto di sganciamento (delinking) dall’economia capitalista globale, proposto da Samir Amin (12), potrebbe essere qualcosa di più di un sogno utopistico. Tutto ciò fa sì che la Cina, pur non essendo un modello che noi si possa imitare, ci offra nondimeno alcuni insegnamenti fondamentali: dalla consapevolezza che il socialismo assumerà forme necessariamente diverse e peculiari nei diversi contesti geografici, storici e culturali, alla necessità di rimpiazzare il mito del comunismo come paradiso in terra con il concetto di “socialismo possibile”, cui ho accennato in lavori precedenti (13) e che mi propongo di sviluppare ulteriormente in scritti futuri. 



Postilla elettorale 

Visto che questo non è un lavoro accademico, bensì un post del mio blog, mi permetto di aggiungere questa postilla elettorale. Da quando ho accettato la proposta di presentarmi alle prossime elezioni milanesi come capolista del Partito Comunista guidato da Marco Rizzo, ho ricevuto più accuse di “rossobrunismo” di quanto già non mi capitasse dopo aver pubblicato i miei ultimi libri. Ciò dipende dal fatto che questo partito non è allineato sui luoghi comuni di quella sinistra “politicamente corretta” che considera come un museo degli orrori la storia dell’esperimento sovietico, e come un paese imperialista e totalitario la Cina comunista, mettendola sullo stesso piano degli Stati Uniti. Per parte mia ho scelto il PC proprio perché, al contrario di altre formazioni che si definiscono comuniste, rifiuta di allinearsi a questi luoghi comuni che portano acqua al mulino del pensiero unico liberale.  


Note    


(1) Cfr. V. Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, edizioni Lotta Comunista, 2005.

(2) Sull’uso di rapporti di produzione di tipo capitalistico da parte di un paese socialista, vedi più avanti la parte di questo testo dedicata alle riforme cinesi. Sulla prudenza e sulla lentezza con cui avanzare sulla via del socialismo, e sulla necessità di servirsi delle conoscenze “borghesi” per ricostruire uno stato in grado di funzionare decentemente, vedi il famoso articolo di Lenin “Meglio meno ma meglio” (1923) scaricabile all’indirizzo https://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/3/megliomenomameglio.htm 

(3) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, Milano-Udine 2019.

(4) Cfr. D. Losurdo Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

(5) Cfr. M. Gaulard, Karl Marx à Pékin. Les recines de la crisi en Chine capitaliste, Demopolis, Paris 2014; vedi anche Minqi Li, The Rise of China and the Demise of the Capitalist World Economy, Pluto Press, London 2008. 

(6) Cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986. Vedi anche S. Amin, Classe et Nation, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2015.

(7) Cfr. R. Herrera – Z. Long, La Chine est-elle capitaliste?, Editions Critiques, Paris 2019; vedi anche Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, Springer, Berlino 2020

(8) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2008.  

(9) Citato in Gabriele, op. cit.

(10) Cfr. G. Arrighi, op. cit.

(11) Anche David Harvey, che pure non è particolarmente tenero nei confronti del regime cinese, valorizza questi dati nel suo ultimo lavoro: cfr. The Anti-Capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.

(12) Cfr. Samir Amin, La déconnextion, op. cit.

(13) Vedi, in particolare, C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi Milano 2019; vedi anche Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020. 





 

lunedì 6 settembre 2021

 

PERCHE’ HO ACCETTATO DI METTERCI LA FACCIA
(E PERCHE’ PENSO DI MERITARE LA FIDUCIA DEGLI AMICI CHE HANNO ANCORA IL CORAGGIO DI DIRSI COMUNISTI)





Qualche parola sulle ragioni per cui ho accettato il ruolo di  capolista per il Partito Comunista alle prossime elezioni per il comune di Milano. In primo luogo, va ricordato che questa tornata di amministrative coinvolge un quarto dell’elettorato italiano e cade in un momento di grave crisi istituzionale, che vede ridursi ulteriormente gli spazi di democrazia nel nostro Paese, per cui assume inevitabilmente un chiaro peso politico. Se l’ammucchiata dei partiti di destra, centro e sinistra che sostengono (o fungono da opposizione del re) il governo del banchiere Draghi, dovesse confermare complessivamente la propria consistenza, o se l’unica forma di protesta si riducesse a un’astensione più o meno consistente, ci saremo assicurati altri anni di “riforme” antipopolari. Se invece l’unica forza di opposizione che si colloca al di fuori di questo sistema ottenesse un significativo ampliamento della propria capacità di rappresentanza, si sarebbe compiuto un piccolo passo avanti verso un’inversione di tendenza dopo decenni di incontrastato dominio liberal liberista. 

C’è poi la specifica situazione di Milano. Una città che, dopo essere stata – fino alla fine dei Settanta, la capitale della resistenza operaia al dominio padronale – e dopo essersi trasformata – negli anni Ottanta – nella Milano da bere della svolta postmoderna, e infine dopo essere divenuta la punta di diamante – dai Novanta a oggi – della “guerra di classe dall’alto” contro i lavoratori, si pavoneggia oggi come una vecchia imbellettata che nasconde sotto il trucco pesante le sue magagne, per spacciarsi da giovin signora, avanguardia della modernizzazione, portabandiera dei diritti individuali e di superiori livelli di civiltà e cultura, culla della tecnologia avanzata, delle professioni creative e dei consumi opulenti.

Ma basta grattare un po’ il trucco per vedere il volto da megera che nasconde. Come la facciata del grattacielo bruciata come un cerino perché chi lo ha costruito non ha utilizzato materiale ignifugo (sfiorando una strage come quella del grattacielo londinese andato a fuoco qualche anno fa) simbolo di decenni di speculazione immobiliare selvaggia. Come lo sfruttamento delle migliaia di lavoratori della gig economy, dei migranti addetti ai servizi alla persona, dei lavoratori precari, part time e saltuari che tengono in piedi il terziario “avanzato”, vanto della metropoli della moda, del design, della comunicazione. Come la presunta sanità “di eccellenza”, quasi integralmente privatizzata, che ha dato pessima prova di sé di fronte alla sfida del covid 19, mettendo in luce lo stato disastroso della sanità pubblica, a partire dall’assistenza dei medici di base che, ove opportunamente supportata, avrebbe potuto evitare l’assalto ai reparti di rianimazione e il pesante bilancio di vittime. Come un sistema educativo che si è progressivamente riconvertito a serbatoio di ricambio delle élite, espellendo progressivamente i figli delle classi subalterne, e riconvertendo i programmi  per renderli funzionali alla trasmissione del pensiero unico alle giovani generazioni. Come le periferie che affondano nel degrado ignorate da chi vive e lavora “downtown” in un centro gentrificato da cui sono stati espulsi tutti coloro che non possono permettersi certi affitti. Queste e molte altre le buone ragioni per cui è importante dare forza al Partito Comunista, l’unico modo per riaprire uno spazio di democrazia e conflitto sociale (le due cose stanno insieme) in questa città invecchiata presto e male. 





Per spiegare come il PC intende affrontare concretamente questi e altri problemi lascio la parola al programma che troverete nel sintetizzato nel volantino qui sopra. Aggiungo solo che i motivi che mi hanno indotto a scegliere di correre per il PC, piuttosto che per una delle altre forze che si rifanno alla tradizione comunista,  riguardano, fra gli altri, la posizione che questo partito ha assunto sui temi della nuova guerra fredda, del conflitto sino-americano, della lotta contro la Nato e contro questa Europa, dominata dalle lobby finanziarie e pronta a equiparare – con il massimo disprezzo della realtà storica – nazismo e comunismo (vedi quanto ho scritto sul mio blog qualche settimana fa: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/search?q=cinque+buone+ragioni ). Ciò detto è il caso di spendere qualche altra parola sui motivi per cui vi chiedo di mettere una croce sul mio nome. Non sono mai stato bravo a tessere le mie lodi o a vantare i miei meriti. Quanto alle mie idee sul mondo in cui ci tocca vivere e sul modo in cui sarebbe possibile cambiarlo, chi segue questa pagina ha avuto modo di conoscerle e valutarle. L’unica differenza che mi sento di rivendicare orgogliosamente è il fatto che credo di essere uno dei pochi intellettuali di professione (che svolgano cioè attività giornalistiche, di scrittore, di docenza universitaria e/o altro) che abbia ancora il coraggio di dichiararsi chiaramente e pubblicamente comunista, invece di nascondersi pudicamente (più che altro per timore di compromettere carriere, reputazione, legittimazione, violando il senso comune e il canone politicamente corretto) dietro liste civiche, beni comuni e arcobaleni vari. Ci metto la faccia appunto. Se poi non vi pare che basti vi ringrazio ugualmente, nella speranza che il mio impegno serva comunque a qualcosa.     

domenica 8 agosto 2021

SULLA SCHIZOFRENIA POLITICA DI MARIO TRONTI


Mario Tronti



Leggo, con qualche ritardo, l’intervista che Mario Tronti ha rilasciato al “Manifesto” pochi giorni dopo il suo novantesimo compleanno (21 luglio 2021) e, come ho già più volte scritto in precedenti interventi, riprovo la stessa impressione – in questo caso, se possibile, ancora più netta – di palese schizofrenia che traspare da certe affermazioni di questo grande – anche se non “uno dei più grandi”, come pomposamente scrive l’intervistatore – filosofo politico contemporaneo.  

Non seguirò l’ordine esatto del discorso che emerge dal dialogo fra intervistatore e intervistato, ma cercherò di elencare: prima le tesi e i giudizi politici di Tronti che condivido in toto – e che ripropongono sostanzialmente quanto il nostro aveva scritto in alcuni suoi ultimi lavori (1) -, poi le tesi e i giudizi che ritengo non solo sbagliati ma francamente inconsistenti, sia perché in palese contraddizione (per nulla dialettica!) con i primi, sia perché incompatibili con il punto di vista marxiano, cui pure Tronti si rifà. 

Inizio dicendo che trovo ammirevoli gli argomenti con cui Tronti spiega perché si è sempre rifiutato di scrivere un’autobiografia – del resto sono convinto che cedere a questa pulsione narcisistica non faccia onore a nessun intellettuale o leader politico sinceramente comunista (2) -, e aggiungo che comprendo le ragioni della sua delusione e del suo sconforto, dovuti al fatto che la sua immagine è rimasta inchiodata a quello che definisce un “libro giovanile di successo”, cioè a quell’Operai e capitale le cui tesi, come ha spiegato in una lunga video-intervista rilasciata qualche anno fa al sottoscritto e pubblicata da DeriveApprodi, sono state quasi subito da lui superate (3), al punto che paragona ironicamente il proprio destino a quello di Salinger, del quale si ricorda solo Il giovane Holden. Dopodiché vengo a quanto trovo condivisibile nelle sue risposte.

1) Tronti rivendica quella che a suo parere – il che vale anche per il sottoscritto – è forse oggi l’unica vera lezione dell’esperienza operaista che resti valida, vale a dire il punto di vista di parte. Un punto di vista che non vige solo all’interno della fabbrica, dove capitale e lavoro si fronteggiano senza mediazioni, ma anche per l’insieme delle relazioni sociali, politiche e istituzionali (il che non è diverso da quanto teorizzato da Lenin e Mao nei rispettivi testi canonici).

2) Critica chi oggi ,“come gaiamente si ama dire”, sostiene che la politica moderna è polis, agorà, per ribadire che, al contrario, la politica resta “rapporto di forza, potenza contro potenza, appartenenza a un campo contro un altro campo” (il che può essere descritto come una sorta di corollario alla rivendicazione d’un punto di vista di parte di cui al punto precedente).

3) Dopo avere ricordato che oggi il lavoro appare “frantumato disperso, dimenticato alienato e pur vivo”, auspica che esso possa vivere una sua pasqua di resurrezione ma, al contempo, ammonisce che ciò non potrà avvenire per spontaneità, dal basso, ma solo grazie a un progetto capace di “riunificare socialmente, soggettivare politicamente, motivare personalmente, riarmare teoricamente” il mondo del lavoro (e qui aleggia lo spettro del partito, oggi inesistente, cui spetterebbe compiere una simile impresa)

4) Definisce “indegni eredi” della sinistra di classe quelli che vanno oggi pazzi per Biden come ieri per Clinton e Obama. Ricorda come al dibattito sul concetto di transizione dal capitalismo al socialismo, siano subentrati i concetti di transizione ecologica e digitale. Conclude dicendo che “solo con la minaccia del superamento di quello che una volta si diceva l’ordine costituito, non gridato ma praticato con relativa forza in grado di realizzare l’obiettivo, costringi il tuo avversario a concedere riforme di sistema  favore della tua parte” (qui mi limiterei  sostituire la parola avversario con la parola nemico di classe – il che non è tuttavia annotazione marginale).

5) Rivendica la necessità di chiamarsi comunista, anche se oggi “la marxiana critica di tutto ciò che è non gode certo di una sua attuale fortuna”. Quindi per rimarcare la differenza di senso fra i termini comunismo e socialismo, ricorda che i comunisti “hanno fallito, hanno sbagliato più di una cosa nel tentativo, accerchiati e combattuti, ma questo non è la prova del fallimento di un’idea. I socialisti, diventati democratici, non ci hanno nemmeno mai provato”. Giusto, se riferito alla storia del Novecento (che Tronti difende dalla sbrigative condanne delle attuali “sinistre”), ma il guaio è che il suo sguardo è qui esclusivamente rivolto all’indietro, mentre ignora una contemporaneità in cui Paesi come Cina, Vietnam, Cuba sono impegnati nella costruzione del socialismo sotto la guida di partiti comunisti, e che, in questi e altri contesti, come alcune rivoluzioni latinoamericane, il dibattito sulla transizione ha ancora il suo significato classico, contrariamente a quanto avviene in un esangue Occidente dove la parola socialismo è divenuta inservibile dopo essere stata trascinata nel fango.

Ma veniamo alle paradossali contraddizioni di cui sopra (qui mi limito a indicare le più clamorose). La prima è di tipo metodologico, squisitamente filosofica se vogliamo. A fronte delle scelte politiche che gli vengono rinfacciate (per ragioni ideologiche su cui tornerò fra breve), Tronti rivendica il suo incontro con la “tradizione del realismo politico moderno”, in nome della quale afferma la necessità di operare continui “adattamenti al mutare delle condizioni oggettive”. Posto che la tradizione cui si riferisce è, presumibilmente, quella incarnata da Carl Schmitt, e posto che lo stesso Schmitt arruolava – non senza ragioni – Lenin nel campo realista, resta la differenza di fondo: il realismo leninista non transigeva di un centimetro dai principi e dagli obiettivi del marxismo, cioè dall’abbattimento della società capitalistica; viceversa il realismo di Schmitt era realismo senza principi, al servizio della riproduzione/conservazione del potere dello Stato a prescindere dalle sue connotazioni ideologiche e dai suoi fini di classe. Ebbene, nella misura in cui il realismo trontiano assume come irreversibile, se non progressivo, il processo storico che ha condotto al trionfo delle ragioni del mercato su tutte le altre, il suo punto di vista scade inevitabilmente in un cattivo  determinismo hegeliano (il reale è razionale) sul piano filosofico, e in un pessimo determinismo economico, per cui la contraddizione va agita sempre e comunque al più alto livello raggiungo dallo sviluppo delle forze produttive (tesi ampiamente falsificata dalla realtà storica).  La sua, insomma, è una visione determinista/meccanicista lontana chilometri dalla ontologia sociale dell’ultimo Lukacs (4), che ha riscattato la scienza marxiana della storia al realismo pseudoscientifico dei filosofi reazionari che incantano Tronti. 


Carl Schmitt



Imboccata questa strada, lo scivolamento sul piano inclinato dell’opportunismo è inevitabile: così si può sostenere la necessità di usare la civilisation borghese per imporre la kultur operaia, secondo la ritrita formula che affida alla rivoluzione socialista il compito di “condurre a compimento” la rivoluzione borghese (con chiaro cedimento a una visione evoluzionista/progressista della storia che lo stesso Tronti ha più volte contestato). Così, dopo avere giustamente marchiato l’infamia di una sinistra che inneggia ai vari Biden, Obama e Clinton, si giustifica il fatto di avere militato tutta la vita in quella sinistra (anche dopo la sua conversione in forza dichiaratamene liberal-liberista, anticomunista e antipopolare) in ragione della necessità di non scadere nel minoritarismo. Come se stare dalla parte della maggioranza (ed evocare, come fa Tronti, la parola bolscevismo riferita a quella maggioranza è pura bestemmia), avesse comportato la possibilità di meglio servire gli interessi di parte cui Tronti vuole rifarsi. Certo quella forza ha servito interessi di parte, ma erano quelli del nemico, come conferma il fatto che è votata ormai solo più dai ceti medio ricchi e dai ceti medi "riflessivi", mentre i proletari le hanno voltato le spalle da decenni, dopo avere subito un'infinita successione di tradimenti culminati con l’abolizione dell'articolo 18. 

Concludo con i punti del Che Fare elencati alla fine dell’intervista. Bene i primi sei (rimettere al centro il conflitto sociale; lavorare a una nuova forma di partito che assicuri radicalità e durata; sconfiggere il virus dell’antipolitica; recuperare memoria storica delle lotte e farla finita con la demonizzazione del Novecento; basta con le litanie su giovani e donne; costruire popolo (con riferimento a Laclau), anche se occorre ribadire che tutti questi punti sono in totale opposizione schizofrenica con le concrete scelte politiche operate dal nostro (e con le motivazioni filosofiche e ideologiche con cui tenta di giustificarle). 

Nella settima e ultima però (in cauda venenum) ci risiamo. Passando alla geopolitica, infatti, Tronti parla niente di meno che di “liberazione dell’Europa dall’atlantismo”, come se questa Europa delle Merkel, dei Macron e dei Draghi non incarnasse la quintessenza dell’anticomunismo atlantista come e più del dominus americano (che lei stessa ha del resto partorito). Credo di poter dire che qui siamo, più che nell’equivoco di un malinteso realismo, nella più crassa ignoranza dei dispositivi economici, politici, sociali e istituzionali su cui è stata costruita la Ue come baluardo contro gli interessi delle classi subalterne (ciò di cui il Pci fu ben consapevole fino agli anni Settanta, come Tronti, data la sua età, dovrebbe del resto ben ricordare). 

Note

(1) Cfr. M. Tronti, Dello spirito libero, il Saggiatore, Milano 2015; vedi anche Dall'estremo possibile, Ediesse, Roma 2011. 

(2) Un'apologia particolarmente toccante delle virtù dell'eroe comunista - fra cui l'assoluta mancanza di pretese narcisiste di riconoscimento dei propri meriti - si trova nel Principio speranza (Meltemi, 2019) di Ernst Bloch. 

(3) Vedi in merito, M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009. 

(4) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell'essere sociale, (4 voll.) Pigreco, Milano 2012

venerdì 30 luglio 2021

GLOSSE AL “PRINCIPIO SPERANZA” DI ERNST BLOCH




Con questo post completo la trilogia iniziata con le Glosse all'ontologia dell'essere sociale di Gyorgy Lukacs e proseguita con la recensione alla "Filosofia imperfetta" di Costanzo Preve. Si tratta di tre testi che rappresentano la prima stesura di un libro di prossima pubblicazione il cui tema principale sarà la distinzione fra i tre regimi discorsivi che convivono nell'opera di Marx - grande-narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale - e la necessità di liberarsi dell'eredità (storicamente datata) dei primi due e rivendicare l'assoluta attualità del terzo nella prospettiva di una rinnovata progettualità di trasformazione socialista del mondo.       


1. Sogno, desiderio, speranza. Una ontologia del non ancora.  

Lukacs, pone il lavoro al centro della sua Ontologia(1) ponendolo come modello di ogni prassi sociale, e definendolo “l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale”. Nel primo volume del Principio speranza Ernst Bloch sembrerebbe incamminarsi nella stessa direzione. Cita il passaggio del primo libro del Capitale in cui Marx afferma che a distinguere il peggior architetto dalla miglior ape è il fatto che nella mente del primo il risultato dell’opera è già presente prima della sua esecuzione, commentando che “l’animale si riferisce allo scopo nei modi delle sue successive brame, l’uomo invece oltre a ciò se lo raffigura” (vol. I, p. 56). Indica nel lavoro il modello di quelle attività finalistiche che plasmano la realtà in quanto storia del soddisfacimento dei bisogni umani. Tuttavia, mentre svolge tali riflessioni, dissemina i primi segnali della sua tendenza a spingersi al di là della rigorosa impostazione materialistica di Lukacs: se costui ribadisce a più riprese che il distanziamento dalla barriera naturale, per quanto possa ampliarsi, non eliminerà mai del tutto quest’ultima, in Bloch emerge infatti la tentazione di affermare la possibilità che il processo si spinga oltre ogni limite. Così quando, per esempio, scrive che l’uomo “si trova sempre davanti a limiti che non sono limiti, percependoli (sottolineatura mia) infatti egli li oltrepassa”. Nell’identificazione fra percezione del limite e suo superamento affiora quella vena idealista che proverò a mettere a nudo a partire dal modo in cui Bloch discute della triade sogno, desiderio, speranza. 

Il ragionamento parte dall’affermazione che la vita di noi tutti è attraversata da sogni ad occhi aperti (Vol. I p. 5), cui segue, poche pagine dopo, quella secondo cui “il contrasto fra sogno e realtà non è affatto dannoso se chi sogna crede davvero (sottolineatura mia) al suo sogno” (Vol. I, p. 14). Fin da subito, quindi, la categoria religiosa della fede entra a far parte della rappresentazione blochiana del futuro, inteso come ambito della possibile emancipazione umana. Tornando ai sogni a occhi aperti: Bloch sostiene che la loro origine affonda sempre in una mancanza che si vorrebbe eliminare, “sono tutti quanti sogni di una vita migliore” (Vol. I p. 91). Dire che all’origine del sogno sta una mancanza, un vuoto di essere, equivale ad affermare che la causa del sogno – e al tempo stesso il motore della speranza di colmare il vuoto in questione – è il desiderio. Poco sopra avevamo visto riaffermare il primato ontologico del lavoro, dell’attività finalistica che si presenta come un voler fare (come la fonte primaria, secondo Lukacs, di ogni progredire – non necessariamente nel senso del progresso in quanto valore ideologico! - del processo storico), ma poi Bloch rettifica parzialmente tale punto di vista: infatti, se da un lato ammette che “nel desiderare non c’è ancora niente del lavoro o dell’attività”, subito dopo aggiunge che “non c’è però un volere che non sia preceduto da un desiderare” (Vol. I p. 57). Il desiderio dunque non è solo la fonte dei sogni ad occhi aperti, ma innesca anche la speranza che vi si associa, assieme alla fede nella sua possibilità-realtà. Quanto alla speranza, Bloch la classifica negli “affetti di attesa” (accanto a paura, timore e fede) contrapponendola agli “affetti pieni” in ragione del suo carattere anticipatorio (Vol. I, p. 89). Nel sistema blochiano la speranza viene così a rivendicare un primato ontologico, paragonabile se non superiore a quello del lavoro, in quanto fondamento di ogni prassi umana: infatti Bloch la definisce, non a caso, “il più umano di tutti i moti dell’animo e accessibile solo agli uomini” (Vol. I, p. 90). In poche parole: la filosofia di Bloch si discosta dalla filosofia lukacsiana a mano a mano che fuoriesce dalla cornice della marxiana filosofia della prassi, collocando l’aspettativa-fede nei confronti del futuro al centro del proprio pensare: “La filosofia avrà coscienza del domani, prenderà partito per il futuro, saprà della speranza o non saprà più nulla” (Vol. I, p. 10). Infine chiude il cerchio riportando l’attenzione sul ruolo del sogno ad occhi aperti: “L’interesse rivoluzionario, con la conoscenza di quanto cattivo sia il mondo, con la conoscenza di quanto potrebbe essere buono se fosse diverso, ha bisogno del sogno da desto del miglioramento del mondo” (Vol. I, p. 113).

Prima di esplorare le conseguenze ideologiche di questo assurgere del principio speranza a fondamento di ogni prassi rivoluzionaria, vale la pena di fare un  passo indietro per approfondire il significato della triade sogno- desiderio – speranza attraverso la critica blochiana della teoria psicoanalitica. Bloch analizza il pensiero di Freud (cui dedica la maggiore attenzione, riconoscendone i meriti), Jung (che liquida con particolare acrimonia, accusandolo senza mezzi termini di cripto nazismo)  e Adler (al quale attribuisce minore importanza) accusandoli dello stesso errore di prospettiva: l’inconscio della psicoanalisi non è mai un elemento di progressioni ma consiste piuttosto di regressioni: “(Freud e Jung) considerano l’inconscio unicamente come un qualcosa di passato nello sviluppo storico, come qualcosa di sprofondato in cantina e presente solo lì…conoscono soltanto un inconscio rivolto all’indietro o al di sotto della coscienza già presente, non conoscono il preconscio del nuovo” (Vol. I, p. 77). La psicoanalisi, accusa insomma Bloch, procede con la testa girata al contrario, si nega ogni possibilità di guardare in avanti, di interrogare il futuro; pur avendo avuto il merito di scoprire che un’ampia quota della nostra vita psichica è sottratta alla coscienza, relega questo tesoro all’oscuro regno del passato. In Jung questa colpa è particolarmente grave, argomenta Bloch, nella misura in cui il passato in questione è appiattito sulle immagini archetipiche inscritte in una mente collettiva razzialmente connotata (di qui l’accusa di avere contribuito alla costruzione dell’immaginario fascista). Viceversa il limite di Freud, che si propone di portare razionalmente alla luce l’inconscio in quanto frutto della rimozione, consiste in ciò che quello che viene fatto sorgere da tale svelamento “è unicamente un giorno all’interno della vita privata e del ‘disagio’ di una civiltà alla quale a quanto pare non manca altro che una brezza psicoanalitica” (Vol. I, p. 65). L’ironia contenuta nel passaggio appena citato fa presagire che la critica si avvia ad assumere toni sociali e politici. E infatti: la psicoanalisi, argomenta Bloch, è una pratica rivolta ai singoli individui, che si propone di curare un disagio associato esclusivamente alla libido, alle pulsioni sessuali e alla loro difficile convivenza con le regole della morale borghese : “libido, nient’altro che libido per tutto il tempo…e con la libido nient’altro che psicologismo, senza ambiente sociale” (Vol. I, p. 100). Non a caso la psicoanalisi non si occupa mai della fame, e per quanto questa urli, non riceve mai un nome clinico, perché, annota ironicamente Bloch, “Pazienti e medici psicoanalisti provengono da un ceto medio che poco aveva da preoccuparsi del suo stomaco” (Vol. p. 78). 

Il nostro si avvia dunque a superare le tentazioni  idealistiche associate alle sue variazioni sull’intreccio fra sogno, desiderio e speranza, per rientrare nell’ambito di una concezione rigorosamente materialistica? Così sembrerebbe laddove liquida seccamente il paradigma freudiano con queste parole: “è evidente che non c’è nessuna concezione erotica della storia in luogo di quella economica, nessuna spiegazione del mondo in base alla libido invece che in base all’economia e alle sue sovrastrutture” (Vol. I, p. 80). Tuttavia non è così. La critica della concezione psicoanalitica dell’inconscio è propedeutica a un’identificazione di quest’ultimo con il preconscio, con il non ancora conscio; sogno, desiderio, speranza tornano al centro dell’ontologia blochiana in quanto ontologia del non ancora; l’inconscio così ridefinito viene sottratto ai labirinti della libido individuale (borghese) e restituito a una dimensione, al tempo stesso, storica e collettiva (di classe): “tutte le epoche di svolta sono pertanto colme, e anche stracolme, di non ancora conscio; e se ne fa portatrice una classe in ascesa” (Vol. I, p. 141). In barba a questa affermazione che strizza l’occhio a Marx, è difficile non riconoscere qui una eco dei tanto vituperati archetipi junghiani (ancorché storicizzati e ideologizzati). 

Dopo avere introdotto il dubbio che l’elezione della speranza a fondamento ontologico del superamento del capitalismo rischi di connotare in senso idealistico il sistema filosofico blochiano, tocca verificarne la fondatezza esaminando, nell’ordine, il concetto di utopia concreta elaborato da Bloch e la sua rappresentazione del comunismo realizzato che, come vedremo, rasenta la profezia di un futuro che ha tutte le caratteristiche d’un paradiso in terra. 



Ernst Bloch




2. Utopia concreta. Logica della tendenza e principio di immanenza

Non ho qui lo spazio – né tale impresa è funzionale all’obiettivo di questo scritto – di riassumere il mostruoso sfoggio di erudizione di cui Bloch fa mostra ripercorrendo la storia dell’utopia, dall’antica Grecia ai vari Owen, Fourier e Proudhon, passando per Gioacchino da Fiore, Thomas More e Campanella. Trattando del socialismo pre marxista, Bloch definisce donchisciotteschi i loro sogni idealisti: “Don Chisciotte è il patrono dei social-idealisti onestamente astratti…(che vogliono) guarire o addirittura rovesciare con la morale ciò che è affrontabile solo con l’economia…un’anima pura senza residenza nei movimenti del mondo e senza conoscenza degli interessi meno puri che muovono il mondo” (Vol. III, p. 1209). In barba a questa critica, il nostro non può tuttavia rinunciare – pena auto smentirsi – a esaltare il ruolo rivoluzionario del sogno d’un futuro migliore, per cui rettifica parzialmente il giudizio appena citato scrivendo, poche pagine dopo: “il fattore soggettivo, per non essere disfattista, deve sempre possedere un elemento del donchisciottismo bene inteso” (Vol. III, p. 1217). 

Per cogliere il significato di questo “donchisciottismo bene inteso”, occorre spiegare a quale postura ideologica Bloch lo contrappone: il bersaglio è quella “idolatria oggettivistica dell’obiettivamente possibile che attende, facendo l’occhiolino,  che le condizioni economiche siano divenute completamente mature” (Vol. II, p. 667). Questo attendismo, che è l’esatto contrario del talento di Lenin nel cogliere il momento giusto per sferrare il colpo mortale al nemico, irrita profondamente Bloch, il quale disprezza “questa volontà troppo soppesata, troppo contemplata” in cui la volontà stessa finisce inevitabilmente per spegnersi, al punto che “persino “nell’azione rivoluzionaria e nella sua rabbia” diventa una forma di attendismo “gradita ai tiepidi” (Vol. III, p, 1092). Ma qual è, allora, secondo Bloch, il giusto punto di equilibrio fra attendismo e donchisciottismo bene inteso? Il nostro oscilla fra due riposte, la prima delle quali rischia di farlo regredire all’idolatria oggettivistica che pure spregia, mentre la seconda lo proietta verso un donchisciottismo tutt’altro che bene inteso. La prima riposta viene fatta discendere dal detto marxiano secondo cui l’umanità si pone sempre e solo compiti che può risolvere: “non tutte le conoscenze e opere sono possibili in tutti i tempi, la storia ha una sua tabella di marcia (sottolineatura mia), spesso le opere che trascendono il loro tempo non sono nemmeno concepibili, meno che mai eseguibili” ((Vol. I, p. 153). Posto che questa rischia di suonare come una tautologia, e messa da parte l’allusione alla tabella di marcia della storia (su cui torneremo a breve) veniamo alla seconda risposta: “Tutto ciò che è reale, trapassa, nel suo fronte processuale, nel possibile, è possibile è tutto ciò che in primo luogo è parzialmente condizionato, in quanto non ancora determinato in maniera compiuta o conclusa” (Vol. I, p. 231). Si oscilla insomma fra obiettivismo e soggettivismo puro. Un soggettivismo che si aggrappa alla categoria del possibile che è centrale anche nell’ontologia lukacsiana (2), con la differenza che, per Lukacs, viene giocata in opposizione alla visione determinista/immanentista fondata sulla categoria di necessità storica, laddove in Bloch apre la strada proprio a questa soluzione immanentista, nella misura in cui la mediazione fra possibilità (oggettiva) e volontà (soggettiva) viene affidata al concetto di tendenza.  

La tendenza, che è dialettica nel suo decorso, scrive Bloch, è “insita nella storia” e la speranza è “giusta”, in tanto e in quanto “mediata secondo la tendenza storica”. E la storia (vedi sopra) “ha una tabella di marcia”, viaggia cioè verso un esito necessario che è inscritto – immanente -nel processo del suo dispiegarsi. L’utopia concreta è dunque un’utopia anticipatrice che non si disperde nell’immaginario di un socialismo astratto, meramente fantasticato, ma sarebbe piuttosto “una funzione trascendente senza trascendenza”. Ma questa paradossale unità dei contrari ha poco da spartire con l’hegeliana (e marxiana) negazione della negazione, nella misura in cui scade piuttosto a mera giustapposizione verbale, dal momento che, alla fine dell’argomentazione blochiana, quel che resta è una funzione puramente immanente, per cui quel puramente che nega ogni mediazione si rovescia in trascendenza (e addirittura, come vedremo più avanti, in vera e propria rivelazione religiosa). L’utopia concreta è un “futuro illuminato dal materialismo storico, nel e a partire dal passato, come nel e a partire dal presente, a partire quindi dalle tendenze che operano e continuano a operare” (Vol. II, p. 715). Tutto è già contenuto nel grembo della storia, insomma, che qui non è scienza nel senso lukacsiano di processo mosso da catene causali conoscibili solo post festum, ma assume la natura di dispiegamento/realizzazione di un fine inscritto nella tendenza che, scrive Bloch; “sarebbe impensabile senza tale relazione di finalità” (Vol. II, p. 994). Due esempi di questa concezione della tendenza come “tensione di ciò che è maturo e impedito”, annuncio della liberazione di forme e contenuti “che si sono già sviluppati nel grembo della società presente” (Vol.  II, p. 717) si riferiscono, rispettivamente, al progresso tecnico - “l’apparato delle macchine con tutta la sua artificialità, già in questa società si presenta come un elemento di un’altra società” (Vol. II, p. 1041) - e all’idea secondo cui la rivoluzione borghese conterrebbe in potenza quell’emancipazione umana che toccherà alla rivoluzione socialista portare a compimento: “il citoyen che Marx fu il primo a distinguere da l’homme, era pensato come membro di una polis non egoistica e perciò ancora immaginaria”, e, per quanto in modo generico e spento “anticipa l’immagine guida del compagno” (Vol. III, pp. 1083-1084). 

A discolpa di Bloch occorre riconoscere che questa sua visione non è priva di agganci nell’opera di Marx, nella quale,  come ha sottolineato Costanzo Preve (3), sono presenti tre distinti regimi discorsivi: il discorso grande-narrativo, il discorso deterministico-naturalistico e il discorso ontologico-sociale. A parere di chi scrive, laddove Lukacs incarna quest’ultimo regime, Bloch resta ancorato ai primi due. In particolare, le argomentazioni di Bloch appena esaminate in merito al concetto di tendenza ricadono pienamente sotto il regime deterministico-naturalistico, rinviano cioè a quel concetto di necessità, elaborato dalla scienza ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità di anticiparne e prevederne gli esiti processuali. Anche in Marx esistono tracce di una mentalità scientifico-idealistica in ragione della quale la moderna produzione capitalistica assume il volto di una entità cosalmente impersonale,  si avverte cioè un’influenza del concetto di storia naturale che fa sì che le legalità di tipo naturalistico vengano estese sotto forma di specifici vincoli necessitanti a quella sezione della natura chiamata società. Senonché la teoria marxiana non può essere contenuta in questa cornice mitico-messianica, e gli elementi in questione sono secondari rispetto al filone fondamentale del pensiero di Marx che, come chiarito dall’ultimo Lukacs è piuttosto di tipo ontologico-sociale, per cui esclude qualsiasi teleologia automatica della storia. Se invece si resta ingabbiati in questo regime discorsivo, l’esito è inevitabilmente, come vedremo nel prossimo paragrafo, l’approdo a una visione profetico-messianica, se non esplicitamente teologica, del processo rivoluzionario.  




3. Il comunismo come paradiso in terra

Pur non ignorando la reticenza di Marx a descrivere – se non a grandi linee - le caratteristiche del socialismo, per tacere di quelle del comunismo realizzato, e pur ammettendo che lo stesso Marx non ha mai dipinto alcun paradiso in terra (Vol. II, p. 714), Bloch non si è al contrario risparmiato nel descrivere con toni enfatici le meraviglie della futura società socialista (per inciso, tanta enfasi cozza con il fatto che buona parte della sua vita si è svolta nel contesto del socialismo reale, contesto che lui stesso ha finito per rinnegare). Il primo gradino di questa ascesa verso un futuro ideale coincide con l’affermazione che si tratterà d’un mondo caratterizzato da una comunità “assolutamente non antagonistica”, di “un unico movimento in avanti nel mondo trasformabile e implicante felicità” (Vol. I p. 337). A coronamento della vittoriosa lotta di classe proletaria “brilla la pace lontana, la lontana occasione di essere solidali con tutti gli uomini, amici di tutti” (Vol. I, p. 43) , E ancora, con immagine altamente poetica (e in palese conflitto con la concezione dialettica della storia e accenti più vicini a Fukuyama (4) che a Marx): “da tutte le dissonanze del tempo s’innalza la quiete cristallina, come quiete della fine della storia” (Vol. II, p. 991). Un futuro insomma di abbondanza, pace, amore universale e felicità, non dissimile dalla terra “dove fluiscono realmente e simbolicamente latte e miele” (Vol. III, p., 1514) che tutte le religioni superiori eleggono a loro meta - meta che, secondo Bloch, sarebbe esattamente la stessa di quella ambita dall’ateismo pieno di contenuto, con la sola differenza dell’assenza di dio (ma, come vedremo fra breve, dio, o almeno la dimensione del divino, è tutt’altro che assente in questa narrazione).

Il secondo gradino di questa scala miracolosa, consiste nel rivendicare la convergenza fra anarchici e marxisti sul terreno della profezia dell’estinzione dello stato. (Vol. II, p. 660). La collettività socialista potrà infatti sbarazzarsi di questa ingombrante istituzione politica - il cui ruolo consiste nel mediare i conflitti fra gli interessi di tutte le classi sociali – nella misura in cui la collettività non si opporrà più agli individui ma promanerà da essi, non appena questi non saranno più divisi in classi dagli interessi contrapposti. Anche qui è difficile capire come Bloch, il quale, perlomeno finché non si è allontanato dal socialismo reale, aveva difeso senza se e senza ma l’esperienza dell’Unione Sovietica e degli altri Paesi del blocco socialista, possa riproporre l’utopia marxiana nei suoi termini originari (5), benché lo stesso Lenin  - che pure l’aveva rilanciata in Stato e rivoluzione (6) – ne avesse preso le distanze. Di più: l’insistenza sul venir meno della contrapposizione fra comunità e individuo, che pure può rivendicare una qualche pezza d’appoggio nella filosofia marxiana (soprattutto in quella del giovane Marx), assume qui una certa venatura liberale (7), ove si consideri che, al di là di ogni discorso sull’emancipazione individuale nella società socialista, nessun serio fondamento può essere rivendicato, all’interno del discorso marxiano, che consenta di descrivere la comunità a venire come “promanante” dagli individui che ne faranno parte, ancorché non più divisi in classi. Nel socialismo, insiste Bloch, “l’individuo scompare talmente poco da liberarsi sul serio qui soltanto, perché può diventare umano” (Vol. III, p. 1123). Posto che nessun filosofo marxista ha mai teorizzato la scomparsa dell’individuo, né il suo annullamento nella comunità, il punto è che, a un secolo e mezzo dall’apparire del progetto di trasformazione socialista e dei molteplici tentativi di metterlo in pratica,  dovrebbe essere chiaro che il superamento del conflitto di classe (che resta una meta di là da venire, come confermano le esperienze della Cina e altri paesi socialisti) non implica automaticamente il superamento di ogni tipo di conflitto sociale, culturale e politico, per cui lo Stato, in quanto luogo di sintesi e mediazione dei conflitti, non sembra destinato a estinguersi. Ma è soprattutto l’allusione a quel “divenire umano dell’individuo”, dove è sottinteso che ci si riferisce a un divenire autenticamente umano, in opposizione all’umanità alienata, estraniata e dunque “inautentica”, dell’individuo borghese, che lascia riaffiorare l’elemento teologico che regge l’intero impianto dell’utopia blochiana.

Il terzo gradino è la esplicita teologizzazionione della narrazione utopistica. L’utopia socialista viene posta da Bloch come momento culminante di un  processo di secolarizzazione/umanizzazione del messianesimo religioso (in particolare del messianesimo giudaico cristiano). Una frase come la seguente: “l’ateismo è tanto poco il nemico dell’utopia religiosa da formarne il presupposto: senza ateismo il messianesimo non ha luogo” (Vol. III, p. 1386), è da intendersi nel senso che solo l’umanizzazione della figura divina, la sua estrinsecazione in un essere di carne e sangue, consente di dar corso alla promessa messianica. La trasposizione della promessa di un paradiso che si colloca nella trascendenza, nell’aldilà , nella promessa di un paradiso in terra, che si colloca nella latenza di un possibile già presente da realizzarsi nella concretezza di un futuro storico è un processo che avviene per gradi. Il Dio di Mosè, scrive Bloch, è un Dio della fine dei giorni che fa del futuro la struttura dell’essere (Vol. III, p. 1427); “l’impulso verso l’alto diventa da ultimo impulso in avanti” (Vol. III, p. 1476) e se i profeti greci, come Cassandra, annunciavano un destino inesorabile, scritto negli astri, i profeti ebraici rivelano al contrario che il destino può essere cambiato. La fede cristiana va oltre perché, nella misura in cui vive della realtà storica del suo fondatore, “essa è essenzialmente il seguire una vita, non un’immagine di culto e la sua gnosi” (Vol. III, p. 1454), la lieta novella consiste nel “superamento dell’assoluta trascendenza di Dio attraverso la omousia, l’eguaglianza di Cristo con Dio” (Vol. III, p. 1461).  Gioacchino da Fiore completa infine l’opera: la sua teoria dei tre stadi confina la teologia del Padre in un passato di paura e servitù, “dissolve Cristo in una comune” e strappa l’epoca della beatitudine al regno della trascendenza per proiettarla in un futuro storico (Vol. II, pp. 585-587). 


Gioacchino da Fiore



Fin qui il ragionamento blochiano potrebbe essere accolto come un esercizio – più letterario che storico – di retrodatazione dei contenuti della moderna utopia sociale in un passato millenario. Una regressione, se si vuole, dalla marxiana critica della religione all’ateismo antropologico (ancora venato di idealismo) di un Feuerbach, per cui Dio appare come “ipostatizzazione dell’essenza umana non ancora divenuta nella sua realtà” (Vol. III, p. 1489). Il discorso si fa più problematico allorché l’annuncio messianico perde il carattere di futuro storico – ancorché infiocchettato di improbabili meraviglie, e sbanda pericolosamente verso una teologia evoluzionista alla Teilhard de Chardin (8), per cui l’umanità diventa, come nelle visioni del teologo gesuita, il “cervello della Terra”, “l’anima del mondo” (Vol. III, p. 1334).  Riaffiorano addirittura immagini gnostiche, laddove Bloch cita il mito che affida a un’umanità divinizzata il compito di portare a termine “tutto ciò che egli (Dio) ha iniziato e lasciato incompiuto” (vol. II, p. 992) o evoca la profezia secondo cui “nel settimo giorno saremo noi stessi” (Vol. II, p 990). Certamente Bloch intende proporre una versione secolare, laica, di queste immagini mitiche, ma costruendo tale versione a partire da un’interpretazione a dir poco opinabile delle parole di Marx in merito a un futuro in cui si compiranno, ad un tempo, i processi convergenti di umanizzazione della natura e naturalizzazione dell’uomo, rischia di attribuire a tale chiasmo un significato non meno miracoloso di quello che Teilhard de Chardin attribuisce al suo “punto omega”. Così arriva a sostenere che il materialismo dialettico “non conosce un ordine e una chiusura voluti dalla natura” (Vol. III, p,. 1282) (negando il sopracitato principio lukacsiano secondo cui l’arretramento della barriera naturale non può mai significare la sua rimozione totale). Così arriva a presupporre l’esistenza di uno scopo immanente (ancorché sui generis) nella natura come rispondenza allo scopo dell’agire umano, per cui “la parte esplicitamente soggettivo-finale della natura (il mondo umano) sta e può stare in costante scambio pratico con la parte soggettivo finale inespressa. Fino al divenire identiche di entrambe” (Vol. III, p. 1533). Una volta oltrepassato il principio che limita il regno della teleologia all’attività intenzionale umana modellata sul lavoro come ricambio organico uomo-natura, tutto diventa possibile, anche l’abolizione della morte (sogno che viene adombrato in più occasioni nei tre volumi del Principio speranza). 


4. Il rivoluzionario oltre le tentazioni mistiche        

Mi rendo conto che, da quanto finora argomentato, rischia di emergere l’immagine di un Bloch filosofo totalmente appiattito sul registro deterministico-naturalistico del discorso marxiano, e di un Bloch politico inspirato da valori mistico-religiosi, non lontano dall’ideologia peace & love delle controculture nordamericane degli anni Sessanta. Fermarsi qui significherebbe però non rendere giustizia alla figura del Bloch rivoluzionario, saldamente radicato (ancorché non sempre esente dall’influenza di tendenze contrastanti) in una prospettiva anticapitalista. In merito all’utopia sociale come trionfo dell’amore universale, ad esempio, il nostro non perde di vista il fatto che il giudizio di Marx, nei confronti di coloro che predicano il regno dell’amore, era che “quest’amore si perde in frasi sentimentali da cui non viene eliminata nessuna situazione effettiva e fattuale”, e che esso “infiacchisce l’uomo con l’enorme pappa sentimentale con cui lo ciba” (Vol. I, p. 321). Per ribadire ancora più seccamente, un paio di pagine dopo, che “senza partigianeria nell’amore, con un polo d’odio altrettanto concreto , non c’è amore autentico (sottolineatura mia: tanto per ribadire che la sinistra “buonista” d’oggidì, permanentemente mobilitata contro gli “odiatori”, non  trova sponda nel discorso blochiano); senza la parzialità del punto di vista rivoluzionario di classe c’è soltanto idealismo all’indietro invece che prassi in avanti” (Vol. I, p. 323).  Per dirla altrimenti: l’interpretazione blochiana della marxiana filosofia della prassi, a partire  dall’undicesima tesi su Feuerbach (finora i filosofi hanno soltanto, ecc. ) non va nella direzione di un banale pragmatismo (“un pensiero non è vero perché è utile ma è utile perché è vero”),  ma prende distanza da un certo irenismo filosofico, sprezzantemente equiparato alla masturbazione mentale - “ la filosofia e lo studio del mondo reale stanno fra loro come l’onanismo e l’amore sessuale” (Vol. I, p. 328) -, per cui il pensiero filosofico è legittimato solo nella misura in cui si fa arma della lotta (e dell’odio) di classe.

Un altro equivoco può nascere dal fatto che, nell’esaltare la scienza e la tecnologia come strumenti del doppio processo di umanizzazione della natura e naturalizzazione dell’uomo, Bloch sembra perdere di vista il fatto che il sapere tecnoscientifico non è affatto “neutrale”, privo di connotazioni di classe, e quindi - come pensano oggi certi entusiasti “di sinistra” della rivoluzione digitale (9) – direttamente convertibile in moneta sonante per gli obiettivi e i progetti della rivoluzione socialista. Posto che in certi passaggi della sua opera il nostro non appare esente da tale tentazione, occorre prendere atto che in altre occasioni appare capace di aggiustare il tiro, come laddove scrive che “il giubilo per grandiosi progetti tecnologici non vale nulla se non si pensa insieme alla classe e alla condizione di classe per cui tali prodigi avvengono…a progressi nel dominio della natura possono corrispondere enormi regressi nella società” (Vol. II, p. 803). In altre parole: i “miracoli” della scienza e della tecnica che Bloch immagina nell’utopistico mondo del futuro (vedi sopra), sono implicitamente attribuiti a un sapere radicalmente trasformato nei suoi metodi, nei suoi principi e nelle sue pratiche dalla rivoluzione socialista, perché la tecnica borghese “sta in un rapporto puramente commerciale, estraniato fin dalle sue radici, con le forze naturali con cui essa opera dall’esterno” (Vol. II, p. 768). Del resto Bloch è talmente consapevole di questa disfunzionalità della tecnica di classe (borghese) a una trasformazione di segno progressivo del mondo naturale, da mettere in luce, con un vero lampo di genialità, lo stretto rapporto di affinità esistente fra catastrofe tecnologica e crisi economica (Vol. II, p. 800). 

Vale la pena di segnalare un altro passaggio che, a mio avviso, contribuisce a riscattare – almeno in parte – certi svolazzi mistici su un futuro in grado di realizzare le profezie religiose di trionfo sulla morte: mi riferisco a certe laicissime riflessioni che Bloch dedica, nel terzo volume del Principio speranza, alla figura dell’eroe comunista. “Solo una specie di uomini, leggiamo, se la cava sulla via verso la morte quasi senza consolazione: l’eroe rosso” (Vol. III p. 1353). Il suo eroismo, che nulla a che fare con quello dei martiri cristiani o dei guerrieri islamici che si avviano all’olocausto in vista di un premio ultraterreno, consiste nella disponibilità a sacrificarsi senza speranza di resurrezione. Di più, scrive Bloch, ci si sacrifica anche senza speranza che il proprio eroismo venga celebrato e ricordato: “questo materialista muore come se tutta l’eternità fosse sua…la coscienza personale è talmente assunta nella coscienza di classe che per la persona non resta nemmeno decisivo essere ricordata o no sulla via verso la vittoria (Vol. III, p. 1354). 

Esiste tuttavia un tema rispetto al quale l’atteggiamento di Bloch resta costitutivamente ambiguo e, sotto vari aspetti, francamente contraddittorio: mi riferisco alla questione della libertà e dei diritti individuali. Non è che il nostro non abbia le idee chiare sulla posizione marxiana in merito. In più occasioni, infatti, ricorda come Marx, parlando di Proudhon, e più in generale degli anarchici, abbia ribadito che “l’individuo in libertà non va oltre la società di imprenditori privati “ (Vol. II, p. 655) e come, per costoro “non è il capitale ma lo stato a rappresentare il male principale” (Vol. II, p. 659) (punto di vista, noto per inciso, che appare oggi condiviso dalla stragrande maggioranza dei militanti delle cosiddette sinistre “alternative” e radicali, del tutto incapaci di cogliere la natura dello stato come terreno di scontro fra opposti interessi di classe (10) piuttosto che come incarnazione del male assoluto). Purtuttavia Bloch non riesce a far del tutto proprio questo punto di vista. Sulla questione dello stato, come si è già visto, resta fedele al dogma dell’estinzione dello stato e della sua riduzione “alla amministrazione delle cose e alla direzione dei processi di produzione”, definizione per cui si rifà più direttamente ad Engels che a Marx (11), e nella sua galleria delle utopie storiche, appare poco simpatetico nei confronti di quelle di età barocca (come la Città del Sole di Campanella) che gli appaiono autoritarie e burocratiche , in ragione della convergenza di interessi fra borghesia e monarchia assoluta, fautrici di “un ordine senza classi ma estremamente gerarchico”, nel quale “tutti i cittadini devono lavorare, non esiste sfruttamento né profitto, il benessere generale è il compito supremo” (Vol. II, p. 601).

Non sono in grado di valutare se la sua posizione in merito contenga una critica, sia pure indiretta, nei confronti dei regimi del socialismo reale. Quel che è certo è che, quando parla di libertà e dei diritti dell’uomo, con particolare attenzione alla tradizione giusnaturalista, non riesce a evitare di prendere distanza dal punto di vista di Marx che pure ben conosce. Egli è infatti consapevole della radicale ambiguità del concetto di libertà, del “suo particolarmente grande mutamento di funzione nel corso della storia”, nonché della necessità di “distinguere l’elemento formale di questa relazione: libertà da o per qualcosa” (Vol. II, pp. 606-607).  Così come è ben consapevole che il cosiddetto “diritto naturale” è “chiaramente democratico-borghese, non solo per la sua difesa della proprietà privata, ma soprattutto per la rivendicazione di universalità, di validità generale per tutti dei principi giuridici” (Vol. II, p. 614). Sa benissimo che i diritti dell’uomo francesi (oggi perfezionati dalla dichiarazione dei diritti universali dell’uomo del 1948) “sono il postulato e la sovrastruttura giuridica di una borghesia ormai matura, della vittoria del modo capitalistico-individuale contro corporazioni, società dei ceti, mercato sottoposto a vincoli” (Vol. II, p. 619). Ma così come insiste nel vedere nel citoyen l’antesignano del compagno (vedi sopra), insiste parimenti nel vedere nel giusnaturalismo (con particolare attenzione nei confronti della formulazione offertane da Rousseau) il merito di una democrazia concepita come “una aristocrazia concessa a tutti”, aggiungendo che, se è vero che è una illusione, si tratta di “un’illusione eroica di un mondo senza corruzione e oppressione, in cui vi è dignità umana” (Vol. II, p. 620). Peccato che questa illusione sia all’origine di tutti i “cittadinismi” bene intenzionati, convinti di poter sanare/rifondare la democrazia borghese senza manomettere i meccanismi dello sfruttamento capitalistico, da Giustizia e Libertà all’M5S, passando per i girotondi post Tangentopoli, per restare in ambito italiano. 

Ma se questi sprovveduti apologeti di un diritto universale liberato dai particolarismi dell’interesse di classe possono trovare conforto in certi aspetti della filosofia blochiana, non altrettanto si può dire per i militanti di quei movimenti  post sessantottini che hanno abbandonato la lotta per i diritti sociali per quella che Boltanski e Chiapello (12) hanno definito “critica artistica”, riferendosi alla variegata galassia di movimenti portatori di istanze antiautoritarie a partire da bisogni e interessi di specifici gruppi sociali. Mi piace infatti concludere questa sintetica analisi critica del capolavoro di Ernst Bloch rendendo omaggio alla straordinaria lucidità anticipatrice con cui ha saputo criticare certe tendenze dei movimenti giovanili e del femminismo. Nei programmi di questi gruppi borghesi, scrive in un passaggio in cui sta parlando di giovani e donne (ma che oggi potrebbe a buon diritto inglobare il movimento Lgbt e relative propaggini), “non campeggia la rivoluzione ma la secessione…è assente la volontà di ristrutturare l’intera società” (Vol. II, p. 671). Nelle stesse pagine ricorda inoltre che un presunto spirito “antiborghese” era marchio distintivo dei giovani hitleriani e, sempre a proposito delle smanie giovaniliste che esaltano il movimento per il movimento - condivise, sottolineerei, da certe avanguardie artistiche di ieri e oggi, nonché dalle tesi dei cosiddetti “accelerazionisti” (13) -, argomenta (in sintonia con il discorso di Benjamin sul fatto che “tirare il freno a mano della storia” (14) può essere il più radicale atto rivoluzionario) che “proprio l’amore di quiete può essere più lontano dalla frenesia capitalistica che non una gioventù che scambi l’ossessione con la vita” (Vol. I. p. 50).

Quanto al femminismo, dopo avere acutamente rilevato che anche per questa ideologia, al pari di quella giovanilista, vale l’osservazione che l’oppressione familiare “venne tanto più avvertita quanto più essa svaniva” (Vol. II, p. 673), cogliendo il nesso dialettico fra processo di individualizzazione, venir meno del ruolo delle strutture tradizionali nel garantire la tenuta del legame sociale e nuove modalità di accumulazione capitalistica, osserva che l’utopia femminista ottiene riconoscimento sociale, non a caso, “solo quando il bisogno capitalistico di forze produttive le diede via libera” (Vol. II, p. 681). Mentre poche pagine prima aveva osservato come il motore della rivolta va ricercato nel momento storico in cui “un innegabile odio per il maschio prese forma: dall’odio della persona oppressa e contemporaneamente dal riconoscimento controvoglia, di qui l’invidia, la competizione e la volontà grottesca di dimostrarsi la più forte” (Vol. II, p. 678). Per concludere con il significativo riconoscimento che “la differenza fra i sessi si trova su un terreno diverso da quello della differenza artificiale prodotta dalla società di classe, quindi non scompare con essa” (Vol. II, p. 686). Riconoscimento che riscatta, almeno in parte, quella sua visione della futura società socialista in quanto paradiso in terra in cui verrebbero meno tutti conflitti e le contraddizioni sociali. 


Note 

(1) G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Pigreco, Milano 2012.

(2) Op. cit.

(3) C. Preve, La filosofia imperfetta. Proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.

(4) F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003. 

(5) Cfr. K. Marx, Critica al programma di Gotha. E testi sulla transizione democratica al socialismo, Editori Riuniti, Roma 2021. 

(6) V. Lenin, Stato e rivoluzione, Edizioni clandestine, 2017.

(7) Cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2019. 

(8) Cfr. Teilhard de Chardin, L’energia umana tra scienza e fede, Nuove Partiche, Milano 1997.

(9) Vedi le tesi di Antonio Negri e più in generale di tutti gli autori di scuola post operaista sulla funzione obiettivamente rivoluzionaria della rivoluzione digitale (e sui lavoratori della conoscenza come nuovo soggetto rivoluzionario). Me ne sono occupato in Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013.  

10) Cfr. la critica all’antistatalismo delle sinistre radicali di A. G. Linera in   Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020. 

(11) Sulla concezione engelsiana della transizione al socialismo cfr. V. Giacché, Socialismo e fine della produzione mercantile nell’Anti-Duhring di Friedrich Engels” in MarxVentuno,  n. 1, gennaio-febbraio 2021, pp. 105-125. 

(12) Cfr. L Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014

(13) Cfr. A. Williams, N. Snricek,  Manifesto accelerazionista, Laterza, Roma-Bari 2018.

(14) Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Milano-Udine 2012. 


  

                      


 





            



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