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lunedì 6 settembre 2021

 

PERCHE’ HO ACCETTATO DI METTERCI LA FACCIA
(E PERCHE’ PENSO DI MERITARE LA FIDUCIA DEGLI AMICI CHE HANNO ANCORA IL CORAGGIO DI DIRSI COMUNISTI)





Qualche parola sulle ragioni per cui ho accettato il ruolo di  capolista per il Partito Comunista alle prossime elezioni per il comune di Milano. In primo luogo, va ricordato che questa tornata di amministrative coinvolge un quarto dell’elettorato italiano e cade in un momento di grave crisi istituzionale, che vede ridursi ulteriormente gli spazi di democrazia nel nostro Paese, per cui assume inevitabilmente un chiaro peso politico. Se l’ammucchiata dei partiti di destra, centro e sinistra che sostengono (o fungono da opposizione del re) il governo del banchiere Draghi, dovesse confermare complessivamente la propria consistenza, o se l’unica forma di protesta si riducesse a un’astensione più o meno consistente, ci saremo assicurati altri anni di “riforme” antipopolari. Se invece l’unica forza di opposizione che si colloca al di fuori di questo sistema ottenesse un significativo ampliamento della propria capacità di rappresentanza, si sarebbe compiuto un piccolo passo avanti verso un’inversione di tendenza dopo decenni di incontrastato dominio liberal liberista. 

C’è poi la specifica situazione di Milano. Una città che, dopo essere stata – fino alla fine dei Settanta, la capitale della resistenza operaia al dominio padronale – e dopo essersi trasformata – negli anni Ottanta – nella Milano da bere della svolta postmoderna, e infine dopo essere divenuta la punta di diamante – dai Novanta a oggi – della “guerra di classe dall’alto” contro i lavoratori, si pavoneggia oggi come una vecchia imbellettata che nasconde sotto il trucco pesante le sue magagne, per spacciarsi da giovin signora, avanguardia della modernizzazione, portabandiera dei diritti individuali e di superiori livelli di civiltà e cultura, culla della tecnologia avanzata, delle professioni creative e dei consumi opulenti.

Ma basta grattare un po’ il trucco per vedere il volto da megera che nasconde. Come la facciata del grattacielo bruciata come un cerino perché chi lo ha costruito non ha utilizzato materiale ignifugo (sfiorando una strage come quella del grattacielo londinese andato a fuoco qualche anno fa) simbolo di decenni di speculazione immobiliare selvaggia. Come lo sfruttamento delle migliaia di lavoratori della gig economy, dei migranti addetti ai servizi alla persona, dei lavoratori precari, part time e saltuari che tengono in piedi il terziario “avanzato”, vanto della metropoli della moda, del design, della comunicazione. Come la presunta sanità “di eccellenza”, quasi integralmente privatizzata, che ha dato pessima prova di sé di fronte alla sfida del covid 19, mettendo in luce lo stato disastroso della sanità pubblica, a partire dall’assistenza dei medici di base che, ove opportunamente supportata, avrebbe potuto evitare l’assalto ai reparti di rianimazione e il pesante bilancio di vittime. Come un sistema educativo che si è progressivamente riconvertito a serbatoio di ricambio delle élite, espellendo progressivamente i figli delle classi subalterne, e riconvertendo i programmi  per renderli funzionali alla trasmissione del pensiero unico alle giovani generazioni. Come le periferie che affondano nel degrado ignorate da chi vive e lavora “downtown” in un centro gentrificato da cui sono stati espulsi tutti coloro che non possono permettersi certi affitti. Queste e molte altre le buone ragioni per cui è importante dare forza al Partito Comunista, l’unico modo per riaprire uno spazio di democrazia e conflitto sociale (le due cose stanno insieme) in questa città invecchiata presto e male. 





Per spiegare come il PC intende affrontare concretamente questi e altri problemi lascio la parola al programma che troverete nel sintetizzato nel volantino qui sopra. Aggiungo solo che i motivi che mi hanno indotto a scegliere di correre per il PC, piuttosto che per una delle altre forze che si rifanno alla tradizione comunista,  riguardano, fra gli altri, la posizione che questo partito ha assunto sui temi della nuova guerra fredda, del conflitto sino-americano, della lotta contro la Nato e contro questa Europa, dominata dalle lobby finanziarie e pronta a equiparare – con il massimo disprezzo della realtà storica – nazismo e comunismo (vedi quanto ho scritto sul mio blog qualche settimana fa: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/search?q=cinque+buone+ragioni ). Ciò detto è il caso di spendere qualche altra parola sui motivi per cui vi chiedo di mettere una croce sul mio nome. Non sono mai stato bravo a tessere le mie lodi o a vantare i miei meriti. Quanto alle mie idee sul mondo in cui ci tocca vivere e sul modo in cui sarebbe possibile cambiarlo, chi segue questa pagina ha avuto modo di conoscerle e valutarle. L’unica differenza che mi sento di rivendicare orgogliosamente è il fatto che credo di essere uno dei pochi intellettuali di professione (che svolgano cioè attività giornalistiche, di scrittore, di docenza universitaria e/o altro) che abbia ancora il coraggio di dichiararsi chiaramente e pubblicamente comunista, invece di nascondersi pudicamente (più che altro per timore di compromettere carriere, reputazione, legittimazione, violando il senso comune e il canone politicamente corretto) dietro liste civiche, beni comuni e arcobaleni vari. Ci metto la faccia appunto. Se poi non vi pare che basti vi ringrazio ugualmente, nella speranza che il mio impegno serva comunque a qualcosa.     

giovedì 20 maggio 2021

CINQUE BUONE RAGIONI PER ESSERE COMUNISTI 

(E NON DI SINISTRA) 


In coda a un  dibattito sulle "Prospettive del comunismo oggi" al quale ho partecipato ieri sera (trovate qui il video: https://fb.watch/5BfY9aMSQW/ ) Marco Rizzo ha annunciato la mia candidatura come capolista del Partito Comunista alle prossime elezioni municipali di Milano. I motivi che mi hanno convinto a compiere questa scelta erano già impliciti nel post "Riflessioni autobiografiche di un comunista (finora) senza partito", che avevo pubblicato non molti giorni fa su questo blog. Ma ho ritenuto che fosse il caso di ribadirle e sintetizzarle qui di  di seguito.    





Perché il comunismo è un’ideologia più giovane e vitale del liberalismo  

Chiarisco che il termine ideologia è qui inteso nel senso forte, positivo che Gramsci e Lukacs gli attribuivano: non falsa coscienza bensì l’insieme dei valori, principi, visioni del mondo, conoscenze, memorie collettive, ecc. che costituisce l’identità sociale e antropologica di una determinata classe (anche quando essa perde consapevolezza di sé dopo avere subito una dura sconfitta da parte degli avversari). Ciò posto, va ricordato che l’ideologia comunista è giovane: se ne fissiamo la nascita alla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels (1848) non ha ancora due secoli di vita (mentre il liberalismo ne ha almeno sei). I suoi fondatori furono troppo ottimisti nel prevederne il trionfo in tempi brevi. Oggi sappiamo che la via è lunga e difficile, costellata di avanzate e ritirate, vittorie (come quelle del 1917 in Russia e del 1949 in Cina) e sconfitte (come quella del 1989 che ha visto il crollo dell’Urss). Ma sappiano anche che, malgrado i cinque monopoli (Samir Amin) sui quali può contare il nemico di classe (sui mezzi di produzione, sulla finanza, sulle tecnologie, sulle conoscenze scientifiche, sui media), e malgrado il disastro dell’89, la via socialista ha dimostrato una poderosa capacità di resilienza, soprattutto nell’Oriente e nel Meridione del mondo, al punto che oggi, grazie ai trionfi dello stato/partito cinese, è di nuovo in grado di contendere al capitalismo occidentale il dominio mondiale, come dimostrano 1) la forsennata guerra fredda che Usa e Ue stanno scatenando contro il “pericolo giallo”, 2) la paura che li sta costringendo a riscoprire keynesismo e statalismo per recuperare il consenso delle classi subalterne, martoriate da decenni di neoliberismo e dagli effetti delle crisi che questo sistema criminale ha innescato. Ma non c’è solo la Cina: oggi l’America Latina (Cuba, Venezuela, Bolivia e ora il Cile che rialza la testa a mezzo secolo dal golpe di Pinochet) è di nuovo in lotta contro il neoliberalismo e gli Stati Uniti faticano a controllare il loro “cortile di casa”. 





Perché il comunismo è un’ideologia diversa (e incompatibile) con quella di una sinistra che si è meritata l’odio delle classi popolari. 

L’equivoco della identificazione fra comunismo e sinistra è nato all’inizio degli anni Settanta, quando gli strati piccolo borghesi che si riconoscevano nel movimento studentesco e nei gruppetti extraparlamentari innalzarono la bandiera dell’alleanza operai/studenti, rilanciando parole d’ordine e obiettivi del movimenti rivoluzionari del Novecento in modo astratto e libresco, usandoli come una maschera estetizzante dei loro reali obiettivi, che si riducevano a una rivoluzione dei costumi, e all’emancipazione dalle forme più arcaiche di controllo gerarchico (paternalismo famigliare, clientelismo politico, corporazioni professionali, gerarchie generazionali, ecc.), ormai superate dallo stesso sviluppo capitalistico che richiedeva una radicale modernizzazione culturale. Dissolta la spinta delle lotte operaie, stroncate dalla crisi e della ristrutturazione capitalistiche (e tradite dalle loro organizzazioni tradizionali, che in quegli anni decisero di allinearsi alle politiche neoliberiste in economia e neoliberali in politica (promuovendo il compromesso al ribasso con i padroni in fabbrica e dissociandosi dai Paesi socialisti per schierarsi a fianco del blocco occidentale e del suo braccio militare, la Nato), quegli strati piccolo borghesi sono tornati a svolgere il loro ruolo di agenti e funzionari del regime capitalistico. Hanno dato vita a movimenti (come il femminismo e l’ambientalismo) che rivendicavano riforme fondate sul riconoscimento identitario di questo o quel gruppo sociale e del tutto compatibili con il processo di modernizzazione di un sistema mai messo in discussione e hanno rinunciato completamente a porsi il problema della conquista del potere politico (di qui il rifiuto fobico nei confronti dello stato, identificato come il male assoluto, e del socialismo, condannato in quanto regime “autoritario”). Questa deriva è proseguita fino ai giorni nostri, toccando vertici deliranti con l’instaurazione della cultura autoritaria e violenta del politicamente corretto adottata, dalle sinistre di governo assieme a un’ideologia femminista ormai totalmente integrata nella cultura neoliberale. Questa deriva, assieme al fatto che queste sinistre hanno approvato leggi antipopolari - come l’abolizione dell’articolo 18 - ha fatto sì che oggi il popolo dei Paesi occidentali odi le sinistre, come dimostrano le analisi dei flussi elettorali che vedono i centri gentrificati votare a sinistra e le periferie proletarie votare a destra o astenersi. L’equivoco degli anni Settanta è stato brevemente richiamato in  vita da populismi di sinistra come Syriza, Podemos, la sinistra americana di Sanders, France Insoumise (l’Italia ha prodotto solo l’aborto dell’M5S che non è nemmeno riuscito ad accreditarsi come una nuova sinistra alternativa al PD, sia pure ultramoderata). Questi movimenti, che pure erano inizialmente sembrati in grado di smarcarsi dall’immagine deteriorata delle sinistre tradizionali, e di interpretare il ruolo di rappresentanti delle spontanee ribellioni popolari contro le politiche neoliberali, sono falliti a causa: 1) del mancato radicamento sociale, avendo assunto la forma di partiti “leggeri” fondati sulla comunicazione e sul tentativo di catturare un’opinione pubblica trasversale; 2) della scelta di fare propria la cultura politicamente corretta delle sinistre (Podemos è arrivato a qualificarsi come partito femminista – Unidas Podemos – piuttosto che come partito di classe); 3) dall’essersi alleati in posizione subordinata con le vecchie sinistre in funzione “antifascista” (anche quando tale minaccia appariva frutto della propaganda del regime neoliberale più che rappresentare un rischio reale); 4) dal fatto che, fin dalle origini, i loro quadri appartenevano perlopiù a strati sociali piccolo borghesi come era avvenuto negli anni Settanta (anche se oggi si tratta di gruppi che presentano una composizione professionale diversa, legata soprattutto alle modificazioni indotte dalle nuove tecnologie). Tutto ciò ha fatto sì che abbiano seguito rapidamente lo stesso destino delle sinistre tradizionali, guadagnandosi il rigetto delle classi popolari che si erano brevemente illuse di trovare una nuova rappresentanza per i propri interessi. In conclusione: oggi sinistra è sinonimo di liberalismo di sinistra, per cui chi si dichiara (non a parole, ma perché sinceramente intenzionato a rappresentare gli interessi delle classi subalterne e la speranza di un radicale cambiamento di civiltà, e non solo del modo di produzione) comunista non può, né deve, avere più alcunché da spartire con queste sinistre.  


Perché comunismo vuol dire dare priorità agli interessi, ai bisogni e ai valori comunitari rispetto agli interessi, ai bisogni e ai valori individuali

La propaganda anticomunista batte ossessivamente sul tasto della libertà e dei diritti individuali. Ma la presunta “universalità” dei diritti dell’individuo (borghese), come già annotava Marx, si riduce di fatto alla tutela dei diritti dell’uomo proprietario. Il diritto “uguale” fra soggetti astratti si rovescia nel diritto disuguale fra soggetti concreti, visto che solo un’infima minoranza di quest’ultimi dispone delle risorse necessarie per far valere i propri diritti, mentre per tutti gli altri questi si riducono a pure affermazioni di principio (non a caso la nostra Costituzione – tanto odiata dai liberal liberisti – afferma la necessità di garantire le condizioni per la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale fra i cittadini). Oltre che dell’individuo proprietario, il diritto borghese si premura di tutelare i diritti dell’individuo consumatore: il diritto del consumatore si afferma a danno dei diritti del lavoratore (costretto ad accettare salari bassi e ritmi di lavoro infernali per contenere il costo delle merci). Certo il lavoratore è a sua volta consumatore, ma se accetta il punto di vista borghese viene messo contro i suoi fratelli – e contro se stesso. Senza dimenticare che, in nome dei diritti del consumatore (occidentale!) si perpetrano crimini tanto ai danni dell’ambiente, quanto dei popoli schiavizzati dei Paesi poveri. E ancora: in nome del desiderio (trasformato in diritto) individuale di avere figli delle coppie gay, si legittima l’infame pratica dell’utero in affitto che riduce donne in difficoltà a ridursi a “contenitori” di bambini (a loro volta ridotti a “prodotto”) per conto terzi. E a legittimare la mercificazione del corpo femminile è, paradossalmente, proprio il movimento femminista (o almeno la sua componente neoliberale, oggi mainstream) che, del resto, da tempo ha assunto questa prospettiva, nella misura in cui considera il corpo come una sorta di oggetto, una “proprietà” (vedi sopra) individuale. Al posto degli interessi dell’individuo proprietario e consumatore, il comunismo difende gli interessi, il benessere e la sicurezza dell’individuo produttore in quanto parte organica della collettività (l’individuo non vive nel vuoto: è il prodotto di molteplici determinazioni sociali) impegnata a riprodurre se stessa e a garantire il prevalere del bene comune. Quanto diversi siano gli effetti di queste due visioni del mondo, lo abbiamo potuto misurare grazie alla differenza nella gestione della pandemia da parte della Cina rispetto a quella del mondo occidentale: da un lato, il diritto alla salute e alla sicurezza del popolo intero, dall’altro il diritto al profitto delle Big Pharma che ha richiesto, assieme allo smantellamento dei sistemi sanitari pubblici voluto dai governi neoliberali, il tributo di milioni di morti. Ma noi occidentali siamo liberi…di crepare.


Perché il comunismo è internazionalista e non cosmopolita 

Che la globalizzazione sia stata frutto di una legge economica “oggettiva”  è una mistificazione liberal-liberista fatta propria dalla sinistra. Una narrazione che nasconde come dietro il processo di internazionalizzazione dei capitali si celi la “guerra di classe dall’alto” che il capitalismo ha avviato a partire dalla dagli anni Settanta del secolo scorso. L’esercito di questa  guerra sono state le grandi imprese transnazionali, armate della loro capacità di muovere capitali, merci e persone inseguendo le condizioni più favorevoli offerte da mercati del lavoro, politiche fiscali e sistemi giuridici locali. Ma pensare che ciò significhi la fine dello stato nazione è un’idiozia, perché  le multinazionali non avrebbero potuto espandersi senza il sostegno e l’aiuto dei rispettivi stati di origine. La globalizzazione è un processo politico sostenuto e accompagnato dagli stati più potenti (Stati Uniti su tutti) che se ne servono per ristrutturare l’ordine mondiale, e l’obiettivo della globalizzazione non è liberare il capitale dal giogo degli stati, bensì da quello della democrazia. Il neoliberismo non vuole distruggere lo stato, vuole costruire uno stato forte ma non democratico. La battaglia ideologica contro lo stato nazione va di pari passo con quella contro il socialismo e ha l’obiettivo di spezzare il legame fra stato e democrazia. Così il tradizionale nazionalismo di destra cede il passo al cosmopolitismo liberale e allo pseudo internazionalismo di sinistra. L’ondata populista non è stata tanto l’esito della controffensiva di settori capitalistici arretrati che tentano di rianimare l’ideologia nazionalista, quanto della reazione popolare  agli effetti della globalizzazione. Ma la crisi della globalizzazione ha gettato nel panico le sinistre convertite al cosmopolitismo, che hanno reagito etichettando come fasciste le idee “sovraniste”. Così la parola patria oggi incute terrore negli eredi di una cultura politica che, fino agli anni Settanta, era ancora consapevole del fatto che tutte le rivoluzioni socialiste sono state rivoluzioni nazional-popolari. Le sinistre hanno adottato un internazionalismo che somiglia all’ideale cosmopolita di un mondo pacificato e unificato dagli scambi economici. Questa ideologia rispecchia valori e interessi del ceto medio riflessivo e delle sue aspirazioni di mobilità fisica e sociale, un ceto che ignora interessi e bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale che vive inchiodata al luogo di nascita. Viceversa per i comunisti la difesa della sovranità nazionale è un fattore imprescindibile: la patria è sinonimo di res publica, di una società concreta di uomini e donne che lottano per l’autogoverno dei cittadini, l’indipendenza nazionale e la sovranità popolare. I comunisti sono consapevoli che la lotta di classe non si svolge solo all’interno dei singoli Paesi, è anche lotta fra popoli oppresse e nazioni dominanti, e questa verità non vale oggi solo per i rapporti fra potenze imperialiste e Paesi ex coloniali, ma anche per quelli fra Paesi del Nord e del Sud Europa, per i quali la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada per riacquistare il controllo politico sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone. Ecco perché i comunisti non possono che essere contro  questa Europa, contro questo mostruoso esperimento politico che mira a mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberalismo moderno, von Hayek, l’uomo che sognava di spezzare il rapporto biunivoco fra politica e territorio neutralizzando, assieme alla sovranità nazionale, i conflitti sociali e la possibilità di offrire loro rappresentanza democratica. La Ue funziona come una sorta di polizia economica che sfrutta l’euro e il principio di concorrenza per sterilizzare appunto i conflitti sociali. Il sistema dei trattati è una costituzione materiale che  agisce come una costituzione senza stato e senza popolo e rimpiazza la democrazia con la governance. L’impianto filosofico che ispira questo esperimento è l’ordoliberalismo che,

contrariamente al liberismo classico, non dà per scontata la capacità dei mercati di autoregolarsi, ma affida a un potere politico forte il compito di garantire la stabilità dei prezzi (a partire da quello della forza lavoro!). Per i Paesi del Sud Europa, l’ingresso nella Ue ha voluto dire milioni di posti di lavoro e migliaia di imprese in meno, deindustrializzazione e declassamento al ruolo di subfornitori delle imprese tedesche. Una relazione asimmetrica che è stata, non solo accettata, ma addirittura promossa dalle nostre élite: i vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa e Prodi, la hanno voluta per promuovere, con la scusa del “vincolo esterno”, le riforme neoliberali: tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro e implementazione nella nostra Costituzione (attraverso il famigerato articolo 81) del Fiscal Compact, cioè del divieto costituzionale di adottare politiche economiche keynesiane. Ecco perché i comunisti dei Paesi euromediterranei dovrebbero adottare il principio del  delinking (sganciamento) teorizzato da Samir Amin: solo riconquistando la sovranità nazionale sarà possibile ridare spazio al conflitto redistributivo, invertire la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzando banche ed imprese in crisi e ri-nazionalizzando i servizi pubblici, e adottare politiche fiscali progressive. 







Perché il comunismo non è antistatalista, ma mira a far sì che le classi subalterne si facciano stato

Il rifiuto delle sinistre nei confronti della nazione va di pari passo con il rifiuto nei confronti dello stato. Il ripudio dell’esperienza storica del socialismo, e l’ideologia “orizzontalista” comune a  tutte le componenti della sinistra radicale, fanno sì che il vecchio principio marxista, secondo cui la macchina statale borghese non può essere ereditata e usata così com’è da parte delle classi subalterne, si sia trasformato nel dogma secondo cui lo stato in quanto tale non può più essere usato. Per questa ideologia neoanarchica lo stato, qualsiasi classe o forza politica ne detenga il controllo, è sempre e comunque un nemico, per cui il concetto di presa del potere è sparito dal suo orizzonte culturale. La logica del controllo subentra alla logica della conquista, e alla volontà di costruire un’alternativa globale al modo di produzione capitalistico e alle istituzioni dello stato borghese subentra una sorta di “democrazia dell’opinione” che diffida del potere ma non aspira a governare, non mira ad abolire il capitalismo bensì ad addomesticarne la ferocia. Ne è prova il ruolo svolto da Terzo settore, Ong e volontariato, i quali collaborano attivamente allo smantellamento del welfare in sintonia con la logica ordoliberale del “capitalismo sociale”. Ne è prova quel patetico surrogato dell’utopia comunista che è l’ideologia “benecomunista”, mentre dà per scontato che un partito rivoluzionario che pretenda di essere avanguardia politica dei movimenti non solo non serve, ma è controproducente. Insomma: siamo di fronte a un’ideologia che potremmo sintetizzare con la formula “cambiare il mondo a partire dal basso, (o addirittura a partire da sé!) senza prendere il potere”, che potremmo ironicamente accostare al detto di Cristo “il mio regno non è di questo mondo” (purtroppo la storia insegna che il detto cristiano che invita a tenersi alla larga dal potere non ha particolarmente contribuito a cambiare i rapporti di forza fra potenti e sudditi). Contro questa visione va rivendicata la necessità di conquistare il potere, o meglio, per dirla con Gramsci, di guidare le classi subalterne a farsi stato - stato che non va abolito in quanto tale, ma del quale occorre abolire il carattere di classe. 


Post Scriptum

Due parole sul perché ho scelto di schierarmi con Il Partito Comunista guidato da Marco Rizzo piuttosto che con un altro dei tanti partiti e movimenti italiani che si dichiarano tali. In primo luogo perché, attraverso un serrato confronto che ho avuto con questi compagni dopo avere concluso la mia esperienza nei gruppi sovranisti di sinistra, ho verificato che sono quelli con cui ho maggiori affinità su una serie di temi che considero discriminanti, poi perché sono di gran lunga i più lontani da quella cultura di sinistra della quale ho appena finito di descrivere le caratteristiche che mi inducono a valutarla come un avversario politico. Caratteristiche che, viceversa, hanno contaminato fino a snaturarne le origini una formazione come Rifondazione Comunista. Probabilmente esistono altre forze politiche che in futuro potranno contribuire alla rinascita di un forte partito comunista nel nostro Paese, ma non penso che la mia scelta sia in contraddizione con l'imnpegno di superare le ragioni che ancora ci dividono.           


martedì 29 novembre 2022

La modernizzazione cinese: percorsi, successi e sfide

 di Fosco Giannini

(con un commento di Carlo Formenti)


Verso la fine del 2021 l'Accademia delle Scienze Sociali del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese chiese al direttore di "Cumpanis", Fosco Giannini, di scrivere un libro sul "socialismo dai caratteri cinesi". Il libro, scritto prima del XX Congresso del Partito Comunista Cinese (16 al 22 ottobre 2022), sarà tra poco nelle librerie di Pechino, sia in  cinese che in inglese.  Ne anticipo qui di seguito un capitolo.


La copertina dell'edizione cinese 



Apriamo questo  capitolo sulla “modernizzazione della Cina” attraverso una citazione del grande filosofo marxista italiano Domenico Losurdo, tratta da un intervento che lo stesso Losurdo svolse al Forum europeo del 2016 dal titolo “La via cinese e il contesto internazionale”. L’intervento aveva come titolo “Washington consensus o Beijing consensus?”. In un passaggio Losurdo così si esprimeva: “La guerra di posizione condotta dalla classe dirigente del Partito Comunista Cinese ha visto negli ultimi 40 anni di Riforme e Apertura – nel contesto del più grande sviluppo economico della storia dell’umanità –  800 milioni di cinesi affrancarsi dalla povertà, un fenomeno che è stato definito dalla Banca Mondiale come uno dei più grandi racconti della storia dell’umanità. Di questi 800 milioni, 60 sono usciti dalla condizione di povertà soltanto negli ultimi 5 anni. Si tratta evidentemente di una lotta di classe che procede in direzione opposta rispetto a quella condotta in Occidente, dove assistiamo ad un processo inverso nel quale si determina un allargamento sempre maggiore della forbice sociale tra ricchi e poveri”.


“Ma questo straordinario risultato – continuava Losurdo – non induce la classe dirigente cinese a tirare i remi in barca e ad abbandonare la lotta fin qui condotta, né tantomeno a nascondere le contraddizioni irrisolte, e vorrei rammentare a proposito un’affermazione di Xi Jinping: Dobbiamo essere molto chiari: vi sono ancora molte inadeguatezze nel nostro lavoro, numerose difficoltà da affrontare. Esistono problemi acuti causati da uno sviluppo sbilanciato e inadeguato che ancora attendono soluzioni”.

Ecco: in questi stessi ultimi passaggi (nei quali Losurdo aveva evocato l’immenso sviluppo delle forze produttive cinesi dopo la Rivoluzione Culturale; gli 800 milioni di cinesi tratti fuori dalla povertà e da una condizione miserevole; il nuovo e centrale ruolo della Cina nel quadro internazionale; la consapevolezza, da parte del PCC, che le questioni non sono certo ancora tutte risolte e che dunque è la stessa fase oggettivamente contraddittoria e in divenire ad assegnare al Partito il ruolo guida rivoluzionario) è possibile rintracciare il senso ultimo di questo libro richiestomi dall’Accademia delle Scienze Sociali del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, le sue intenzioni, lo sforzo per mettere a fuoco la grandezza del progetto strategico del PCC, sia sul piano  internazionale che nazionale, i suoi obiettivi.

Un successo, quello dello sviluppo economico cinese, già così storico e planetario – come accadde all’Unione Sovietica vincente, che sconfisse il nazifascismo e impose un modello sociale che in Occidente si tradusse nel welfare e nel ruolo degli Stati nelle economie capitaliste occidentali – che sembrano, come scrive Losurdo, già remoti gli anni nei quali il Washington consensus (il liberismo totale occidentale) si offriva come unico modello, un modello oggi fortemente insidiato dal Beijing consensus, la proposta cinese segnata dal forte ruolo dello Stato nello sviluppo economico e nella costruzione sociale razionale. Un moto mondiale che, da solo, batte in breccia i tentativi volgari volti a far passare “il socialismo con caratteri cinesi” come il ritorno della Cina al capitalismo. Occorre ricordare a partire da ciò, come lo stesso Wall Street Journal abbia dovuto, con disappunto, riconoscere il ruolo “onnipresente” del Partito Comunista Cinese, il ruolo dell’economia statale in tutti settori strategici, dall’energia alle infrastrutture, dalle telecomunicazioni al sistema bancario e come, nei comunicati ufficiali cinesi, non si parli esplicitamente di “settore privato”, ma solamente di “economia non pubblica”, quasi a sottolinearne la subordinazione.

Considerazioni, si ricorda ancora, ribadite dallo stesso Xi Jinping anche al 19° Congresso del PCC (ottobre 2017): “Dobbiamo continuare a valorizzare la superiorità del nostro sistema socialista e a far valere il ruolo decisivo del Partito e del governo”.

Ma, per un lavoro dal carattere marxista, materialista, il più possibile scientifico, sarebbe il caso di cercare alcune radici dell’attuale successo cinese. Esordendo così: il 25 dicembre del 1991, alle ore 18.00, Gorbaciov si dimette da Presidente dell’Unione Sovietica, trasferendo i poteri (attraverso una scelta che si sarebbe ben presto rivelata tanto nefasta quanto drammatica per tanta parte dell’umanità, non solo per il popolo sovietico) a Boris El’cin. Alle ore 18.35 dello stesso giorno la gloriosa bandiera sovietica viene lentamente e per sempre ammainata dal Cremlino, sostituita dal tricolore russo. Il giorno dopo, 26 dicembre, il Soviet Supremo scioglie formalmente, dissolvendola, l’Unione Sovietica. Questi due giorni – 25 e 26 dicembre 1991 – sono giorni che sconvolgono il mondo e rappresentano uno spartiacque storico nettissimo: c’è una Storia precedente a questi due giorni e c’è una Storia ad essi successiva.

Con la scomparsa dell’URSS si liberano immediatamente gli spiriti animali dell’imperialismo e del capitalismo mondiale. Il nuovo e intero mondo viene da essi percepito come un totale e smisurato mercato da conquistare, con le buone o con le cattive, con la penetrazione economica o con la guerra. La stessa concezione liberale, idealistica e anti dialettica de “la fine della storia”, già messa a fuoco da studiosi del campo conservatore, come Fukuyama, viene eletta a categoria assoluta e chiave di lettura della fase presente e del divenire.

Con la sconfitta dell’URSS si afferma, da parte dell’euforico fronte imperialista e capitalista mondiale, che “la storia è conclusa” e “il socialismo si mostra ai popoli per quello che è: un’illusione irrealizzabile”; la scomparsa dell’Unione Sovietica “ratifica” formalmente, anche sul piano filosofico (per il fronte imperialista e per il pensiero borghese) che «il capitalismo è natura, eterno e immodificabile”.

In questa stessa fase temporale nella Repubblica Popolare Cinese è in atto un duro scontro tra la corrente “riformista” del Partito Comunista Cinese, guidata da Hu Yaobang e la maggioranza del Partito, guidato da Deng Xiaoping. Hu Yaobang ha messo in moto un movimento («doppio cento») che si richiama (inopinatamente) a quello dei «cento fiori», del 1956; che tende a mobilitare di nuovo quel movimento, che chiede una maggiore separazione tra Partito e Stato ma che, nella stessa dinamica politica, sociale e ideologica messa in campo nella battaglia contro il Partito, sfocia nella sfera politico-culturale liberista, nella negazione dei prodromi del progetto “denghista” dell’”economia socialista di mercato”, finendo per inclinare in senso antisocialista e filo americano. Una doppia inclinazione che porta il movimento “doppio cento” a cercare apertamente, nel 1989, il sostegno di Gorbaciov, già perdutosi, in questa fase, nel caos distruttivo dell’Unione Sovietica e dell’intero campo socialista e dunque osannato dai “doppiocentisti” durante la sua visita in Cina; sorretto, il movimento “doppiocentista”, soprattutto da una parte del movimento studentesco di Pechino, sfociato e culminato – tra il 16 e il 17 maggio 1989, in piazza Tienanmen – nella richiesta di una democrazia borghese di stampo nordamericano, che se conquistata avrebbe decretato la morte del “socialismo dai caratteri cinesi” ancora in evoluzione. Come avrebbe fatto mancare (in relazione a ciò che lo sviluppo pieno del progetto “denghista” avrebbe, nei decenni successivi, positivamente rappresentato sia per il popolo cinese che per i popoli in via di liberazione nel mondo) il pilastro fondamentale per la ricostruzione di quel fronte mondiale antimperialista che invece, in poco più di un quindicennio, si sarebbe ripresentato sulle scene internazionali.

Lo scontro tra il movimento di Hu Yaobang e la sua degenerazione liberale e la linea di Deng Xiaoping è fortunatamente vinto da quest’ultimo e dalla maggioranza del Partito Comunista Cinese.

Con la sconfitta del movimento “doppio cento” e la sconfitta della Piazza Tienanmen, la svolta politica ed economica cinese diretta ad un’ “economia socialista di mercato” s’invola. Prima con Deng, poi con Jang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping alla guida del Partito Comunista Cinese, lo sviluppo economico porta la Cina – da un’arretratezza delle forze produttive ancora segnata, alla fine dell’era maoista, persino da alcuni caratteri feudali, specie nel lavoro dei campi, nella produzione agricola, ma non solo, a conseguire la posizione di seconda più grande economia del mondo, contribuendo per più del 30 per cento alla crescita economica globale.

Gli 800 milioni di uomini e donne cinesi che nella nuova fase di sviluppo economico sono tratti fuori dalla miseria e dalla fame, dicono solo una parte della grande crescita cinese, che cambia positivamente il mondo mutandone i rapporti di forza tra poli e Stati imperialisti e poli e Stati dal carattere socialista, antimperialista e in via di liberazione anticolonialista. Uno sviluppo, quello cinese, che, incredibilmente, prende corpo in un contesto terribilmente ostile per ogni esperienza e progetto socialista e che la dice lunga sulla lungimiranza, sul senso rivoluzionario, sulla determinazione e sullo sguardo lungo dei gruppi dirigenti del Partito Comunista Cinese; un contesto segnato dalla controrivoluzione “gorbacioviana” e dalla conseguente scomparsa dell’URSS e del campo socialista; dalla scomparsa del Comecon (l’area di scambio mercantile socialista); dalla nuova aggressività economica e militare imperialista e dal fronte interno guidato da Hu Yaobang e da Piazza Tienanmen, un fronte ben visto dagli USA e dall’occidente capitalistico e obiettivamente diretto a destabilizzare il socialismo e il Partito Comunista Cinese.

A posteriori, aiutati dallo stato presente delle cose, è facile dirlo: ma se il Partito Comunista Cinese non avesse scelto e intrapreso la via del pieno sviluppo delle forze produttive, attraverso il coraggioso lancio di quel progetto autonomo, indipendente dai poli imperialisti e capitalisti mondiali e follemente grande chiamato “economia socialista di mercato” e avesse invece mutuato le scelte “gorbacioviane”, la Cina (invece di dotarsi di una propria, possente, autonomia) sarebbe stata, con ogni probabilità, preda, nella fase mondiale iperliberista successiva alla caduta dell’URSS, delle forze imperialiste; sarebbe stata penetrata da queste forze e avrebbe corso il forte rischio di una propria polverizzazione interna, di una propria implosione, a partire dall’immediata autonomia del Tibet, possibile primo mattone a cedere di un’intera struttura.

Oggi possiamo più agevolmente affermare, alla luce dei fatti compiuti, che le vittorie “denghiste” su Piazza Tienanmen e sul movimento di Hu Yaobang (con il conseguente pieno avvio di quello che sarebbe stato il più grande sviluppo economico e sociale della storia dell’umanità, lo sviluppo cinese attraverso “l’economia socialista di mercato”) si sarebbero offerte quali decisive basi materiali per giungere – da lì a pochi anni e in una fase storica così difficile per il movimento comunista, rivoluzionario e operaio mondiale da consentire alle forze imperialiste di credere davvero nella “fine della storia” – alla costituzione di un fronte antimperialista, e comunque libero dall’egemonia imperialista, in grado di cambiare i rapporti di forza mondiali a sfavore degli USA e delle altre potenze imperialiste.

Parliamo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) che a soli 18 anni (un lampo, nella storia!) dalla caduta dell’URSS si uniscono – tra il 2009 e il 2010- al fine di sviluppare una politica non subordinata alle forze imperialiste e invece solidale con i popoli e gli Stati in via di liberazione.

Ed è del tutto evidente come l’immenso sviluppo economico (e dunque politico e geopolitico) cinese sia il massimo collante di questa unione, di questo nuovo fronte tendente a “spuntare le unghie all’imperialismo”.

Il tempo che ci separa dal 26 dicembre 1991 (autoscioglimento dell’URSS) ad oggi possiamo dividerlo – seppur rozzamente, ma per far “ordine” nel quadro internazionale – in tre grandi fasi:

– la prima, quella segnata dall’euforia imperialista successiva alla caduta dell’URSS e del campo socialista;

– la seconda, quella delle grandi lotte a carattere antimperialista e socialista che si alzano (raggelando il fronte che aveva “deciso” la “fine della storia”) in tutta la loro evidenza in America Latina, che si allargano in Africa, che prendono forme antimperialiste diverse nella Russia di Putin, in India, che si consolidano in Vietnam e in altre aree dell’Asia. Tutte forme socialiste e antimperialiste che trovano nella Repubblica Popolare Cinese e nel suo sviluppo la loro prima e massima sponda, il primo alleato, il centro di gravità.

La terza fase che possiamo mettere a fuoco, in questo lasso di tempo che ci separa dal fallimento “gorbacioviano” e dalle sue catastrofiche conseguenze, è quella che oggi viviamo: la fase caratterizzata dalla risposta violenta, militare dell’imperialismo a guida USA e NATO all’”insurrezione” antimperialista internazionale, alla costituzione del fronte dei BRICS. Non è un caso, di fronte a ciò, che al 19° Congresso del PC Cinese si sia deciso un significativo rafforzamento e rimodernamento dell’esercito, che nel 2050 dovrebbe diventare «di classe mondiale».

Ed è del tutto evidente che, anche in questo caso, anche di fronte allo scatenamento militare degli USA e della NATO su di un vastissimo fronte internazionale (che va dal Medio Oriente all’Ucraina, passando per i Mari del Sud della Cina e per la Corea del Nord e per tutti gli odierni progetti USA di «golpe» in America Latina, dal Brasile all’Honduras, passando per l’Argentina e il Venezuela, è la Cina ad offrirsi come principale diga oggettivamente antimperialista.

La “legge” di Marx («il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive») trova nell’attuale potenza internazionale cinese e del Partito Comunista Cinese, la sua probante conferma. Ed è, dunque, tale, rivoluzionario, sviluppo delle forze produttive che dobbiamo indagare, mettere a fuoco. Anche per «fare legna» sul versante politico-teorico comunista generale.

Nell’affrontare “la questione cinese” e, in particolare, la relazione tra la NEP di Lenin e la “NEP” cinese, credo sia utile affidarsi ad una disciplina teorica, la massima disciplina teorica, quella secondo la quale è dalla base materiale dello sviluppo delle forze produttive e dallo sviluppo sociale generale che trovano possibilità di sviluppo le stesse “idee” e, più precisamente, le innovazioni – antidogmatiche, dunque, per la loro stessa natura di “forme” innovative – sui terreni dell’economia, della politica, della teoria, del pensiero e della prassi della trasformazione sociale, della transizione al socialismo.

Ed è indubbio che il titanico sviluppo economico e sociale intrapreso e conquistato dalla Repubblica Popolare Cinese e dal Partito Comunista Cinese, dalla fase delle «Quattro Modernizzazioni» del compagno Deng Xiaoping e dalla via al «socialismo con caratteri cinesi», si sia offerto quale immensa e solida base materiale per lo stesso sviluppo di un nuovo pensiero rivoluzionario generale, di un nuovo e denso pensiero per la trasformazione sociale e la transizione al socialismo.

È questo – la relazione tra sviluppo della materialità delle cose e lo sviluppo teorico-filosofico in senso rivoluzionario – uno degli aspetti, dei “prodotti”, della storica crescita materiale cinese, un aspetto, forse, non considerato ancora pienamente, nella sua importanza, all’interno del movimento comunista e rivoluzionario mondiale. Ma un aspetto che, invece, occorrerebbe assumere pienamente, come formidabile arricchimento del bagaglio teorico e pratico del processo rivoluzionario, specie in questa fase storica segnata – oltre che da un avanzamento del fronte antimperialista trainato proprio dallo sviluppo cinese all’interno dei BRICS – anche da processi involutivi e di indebolimento del pensiero e della prassi comunista sul piano internazionale. Specie in Europa, ove con ogni evidenza l’«eurocomunismo» ha seminato i suoi danni.

È anche da qui, dunque, dal contributo che lo sviluppo delle forze produttive cinesi, dal contributo che la «NEP» cinese ha fornito allo sviluppo dell’attuale pensiero rivoluzionario, che si può iniziare a tratteggiare un’analisi comparata tra NEP leninista, rimozione della stessa NEP leninista e «NEP» cinese, anticipando – in modo sintetico – una valutazione: come la conquista dell’obiettivo dello sviluppo delle forze produttive ha potuto darsi – in Cina – come base materiale dello sviluppo del pensiero rivoluzionario, così la troppo lunga stagnazione sovietica si è data – infine – come base materiale della cristallizzazione e dell’involuzione del pensiero e della prassi del socialismo in Unione Sovietica.

Quali sono le «categorie» centrali che, come proiezioni della propria, nuova, poderosa, forza materiale, la Cina socialista ha potuto mettere in campo?

Sinteticamente: il pieno ripristino dell’azione soggettiva e antipositivista nel processo storico (Lenin, Gramsci) e ciò in rapporto al rovesciamento del dogma secondo il quale la contrapposizione sarebbe secca: o socialismo o mercato; il superamento, nella prassi, dell’artificiosa dicotomia relativa alla “neutralità” o non “neutralità” delle forze produttive, dicotomia risolta, nell’esperienza del “socialismo con caratteri cinesi”, dal controllo del Partito Comunista sulle stesse forze produttive (esigenza già richiesta, dal Lenin della NEP, nella proposta del “controllo dalle alture strategiche”), forze produttive ridotte a pure “funzioni” del progetto del “socialismo di mercato” a guida comunista; conseguentemente a ciò, una concezione del mercato come spazio economico e politico anch’esso funzionale al progetto di necessaria accumulazione originaria, imprescindibile per la transizione al socialismo, un mercato – dunque – pienamente assunto, nella prassi e nel pensiero, come forma storica non perenne ma dialettica, cavallo di Troia materiale per il socialismo. E altre categorie: come l’internazionalismo oggettivo (e soggettivo) che scaturisce dalla stessa potenza economica, in grado di mettere in campo relazioni e grandi e positive sfere d’influenza sul piano mondiale, capaci di mutare i rapporti di forza internazionali in senso antimperialista; e, ancora, la vera e propria cancellazione della “cultura” piccolo borghese (ma tanto funzionale alla critica imperialista alla Cina socialista) tendente a mitizzare le fasi preindustriali e contadine, demonizzando lo sviluppo economico.

Sia Flaubert che Marx ed Engels avevano già fustigato tale untuosa tendenza piccolo borghese: Flaubert nel romanzo «Bouvard e Pècuchet», dove è descritto il «desiderio» della piccola borghesia di «tornare alla terra in un mondo senza più l’orrore dell’industria», un desiderio che dura il tempo di conoscere la fatica bestiale dei campi, per poi celermente scomparire; Marx ed Engels nel «Manifesto del Partito Comunista», quando scrivono dell’«idiozia di una vita rurale racchiusa nella miseria e nell’ignoranza bruta». Il punto è che per l’ideologia piccolo borghese, anche «di sinistra», nulla è contato l’aver tratto fuori dalla miseria, come ha fatto il socialismo dai caratteri cinesi, quasi un miliardo di persone dall’orrore della fame e della morte per inedia.

Come nulla è contato, per questa stessa ideologia, anche “di sinistra”, il fatto che lo sviluppo cinese abbia innestato un nuovo e potente motore nel camion dell’antimperialismo mondiale.

Marx ed Engels, per ragioni storiche, oggettive, non sono mai stati di fronte ai problemi pratici della costruzione del socialismo. E mai hanno potuto sviluppare un’analisi scientifica rispetto al rapporto tra economia di mercato e socialismo. È stato Lenin – a dimostrazione della propria inclinazione antidogmatica, la stessa che lo portò alla concezione dell’”anello debole della catena” – il primo comunista ad interessarsi alla questione. Naturalmente, il Lenin della presa del potere, dell’Ottobre, non metteva in discussione la concezione dell’incompatibilità tra socialismo e mercato. Una posizione rafforzatasi nella fase terribile della guerra contro gli undici eserciti stranieri e della controrivoluzione in atto.

In quella fase la concezione di Lenin era lineare: lo Stato doveva mettere sotto controllo totale sia la produzione industriale che le eccedenze dei raccolti del grano. In questo quadro “l’economia di mercato” e “il libero commercio” erano considerati, anche sul piano ideologico, concezioni contro-rivoluzionarie. Questa politica, come è noto, prenderà il nome di “comunismo di guerra” e terminerà all’inizio del 1921.

Ma, sconfitta la controrivoluzione, l’enorme massa dei contadini non accettò più i sacrifici imposti dal «comunismo di guerra» e Lenin si fece carico, più di ogni altro dirigente, della contraddizione sociale in atto, che lo portò a ragionare sull’esigenza dell’alleanza contadini-operai. Un’alleanza che Lenin, all’inizio, tentò di saldare anche attraverso un’innovazione politico-teorica: lo scambio di prodotti (baratto di merci) tra contadini e operai, tra grano e beni industriali. Non sarebbe stata la soluzione, ma un’epifania: l’indicazione di marcia, da parte di Lenin, era già potente, antidogmatica, una premessa della stessa NEP.

NEP che partì nell’ottobre del 1921, quando Lenin si convinse della necessità dell’economia di mercato, linea che produsse non poche contraddizioni all’interno del Partito Comunista Russo, contraddizioni e resistenze che Lenin vinse ma sarebbero poi tornate, con Stalin, sotto forma di totale contrarietà, nella fase della fine della NEP.

Quale corredo politico-teorico lascia la breve esperienza della NEP leninista?

Lascia, innanzitutto, una riflessione, da parte di Lenin, profonda e proficua, un vero e proprio apparato teorico (accantonato) a sostegno del “socialismo attraverso un’economia di mercato”.

Lenin mette a fuoco la concezione dell’«uklad», una struttura socialista, una produzione economica socialista in grado di svilupparsi proprio in virtù della competizione con le strutture neocapitalistiche interne al socialismo. Una visione, questa di Lenin, addirittura preveggente, rispetto alla futura stagnazione sovietica brezneviana e in accordo con lo stesso, odierno, tipo di sviluppo e proficua competizione stato-mercato del “socialismo con caratteri cinesi”.

Oltre ciò, Lenin affronta il problema dell’entrata dell’economia di mercato (e persino del capitale straniero) nel socialismo in termini nuovi, sottolineando gli aspetti positivi, per ciò che riguardava e riguarda il necessario sviluppo generale delle forze produttive, di queste “entrate” capitalistiche.

Un altro aspetto anticipato da Lenin, nell’analisi del “socialismo di mercato”, sta nel fatto che, in presenza di spinte neo capitalistiche nella struttura socialista, elementi “mafiosi”, di corruzione, di involuzione burocratica possono inevitabilmente presentarsi. Ed è a partire da ciò che Lenin stesso proponeva una forte spinta politica e ideale ai fini della costruzione di un’autodisciplina nelle istituzioni pubbliche, oltre la proposta di un controllo esercitato contro le degenerazioni da parte del potere socialista. Ciò che dobbiamo rimarcare, da questo punto di vista, è il fatto che le degenerazioni di cui parlava Lenin si siano poi presentate, anche in forma massiccia, nell’esperienza sovietica priva di mercato, come a dire che non basta la cancellazione del mercato a impedire il formarsi della corruzione, questione che – ci sembra – sia presente al Partito Comunista Cinese, che sta intervenendo giustamente e con polso fermo contro i fenomeni di corruzione in seno al “socialismo con caratteri cinesi”. Non è senza significato, da questo punto di vista, il fatto che l’88% dei delegati al 19° Congresso del PC Cinese sia entrato nel Partito dopo le riforme di Deng.

La stessa questione – ai fini rivoluzionari e di sviluppo del socialismo – dell’ “apprendimento” (categoria sviscerata nella ricerca leninista di allora) da parte del socialismo dei meccanismi produttivi capitalistici era considerata da Lenin centrale; come centrale, architrave del processo, era considerata da Lenin la concezione delle “alture strategiche”, terminologia mutuata dalla guerra e utilizzata per rimarcare, da Lenin, l’esigenza del controllo socialista su tutto il piano NEP, il controllo del potere rivoluzionario sullo stesso “socialismo di mercato”. Cosa è stata, in fondo, la giusta reazione del Partito Comunista Cinese in Piazza Tienanmen, quando l’imperialismo USA soffiava sul fuoco, se non l’applicazione rivoluzionaria della difesa del socialismo dalle “alture strategiche”? Possiamo, a proposito, fare ricorso alle parole che Gillo Pontecorvo fa pronunciare ad Alì Ben Mihdi ne “La Battaglia di Algeri”: “Cominciare una rivoluzione è difficile, anche più difficile continuarla, e difficilissimo vincerla. Ma è solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà!».

E che cos’è – se non una mutuazione delle categorie leniniste – la parola d’ordine uscita dal 19° Congresso del PC Cinese relativa al “maggior controllo”, da estendere per la difesa del socialismo, da parte del Partito»?

La NEP leninista, seppur tra difficoltà e contraddizioni, favorì un grande sviluppo economico, riconosciuto come tale anche da Lenin nei suoi scritti precedenti la morte. Uno sviluppo che non aveva inficiato il progetto ed il potere socialista, ma l’aveva persino rafforzato nel senso comune del popolo sovietico.

Lenin muore nel gennaio del 1924 e la NEP inizia a spegnersi da quella data. Si protrae, di fatto, sino al 1930, ma, con la “collettivizzazione forzata delle campagne”, condotta da Stalin, essa termina di esistere.

Colpa di Stalin? Noi comunisti ci rifiutiamo di rispondere in questi termini alla domanda. La demonizzazione di Stalin è già così potentemente portata avanti dall’occidente capitalistico che non ha bisogno dell’aiuto dei comunisti. Noi possiamo e dobbiamo criticare Stalin, come peraltro il Partito Comunista Cinese critica il Mao della “Rivoluzione Culturale”, ma, come il PCC che rivaluta l’azione rivoluzionaria storica di Mao, noi comunisti italiani sappiamo rivalutare l’azione rivoluzionaria storica di Stalin.

Altra cosa è un’analisi profonda e seria relativa al superamento della NEP da parte di Stalin, analisi che ancora non è sufficientemente sviluppata e che deve invece svilupparsi, anche perché riguarda una fase decisiva per arricchire lo stesso bagaglio teorico del movimento comunista mondiale.

Certo è che Stalin va dritto verso l’abolizione della legge del valore, non delineando una fase di passaggio e di transizione al socialismo; risponde con più “automatismi” ideologici, nella lotta contro il mercato, rispetto alla creatività teorica e politica di Lenin e, soprattutto, Stalin inizia ad operare in un contesto segnato dal riarmo e dall’aggressività bellica imperialista, delle spinte alle quali si aggiungono, all’interno dell’URSS, nuove tensioni e contraddizioni, date anche dallo sviluppo spurio e non ancora reso armonico al socialismo della NEP. Spinte belliche imperialiste e contraddizioni interne che inducono Stalin a decidere che l’URSS, in quella fase, non può reggere le politiche e le inevitabili contraddizioni della NEP e che, dunque, la Nuova Politica Economica va disinnescata.

D’altra parte, è un insegnamento della stessa, attuale, esperienza cinese che il “socialismo di mercato”, e comunque un processo di transizione al socialismo, ha innanzitutto bisogno di un contesto internazionale di pace. E tale assunto è facilmente constatabile proprio in questa fase: contro la nuova, gigantesca “One Belt One Road”, la Nuova Via della Seta cinese, dal successo della quale può oggettivamente partire un grande aiuto sia alla pace mondiale che alle fortune del socialismo, si erge la contrarietà imperialista, che si materializza, intanto, attraverso il minaccioso rafforzamento della flotta militare USA e NATO nei Mari del Sud della Cina e nei porti delle Filippine; attraverso la rimilitarizzazione, sostenuta dagli USA, del Giappone; attraverso la costruzione di uno scudo stellare nella Corea del Sud contro la Corea del Nord; attraverso il moltiplicarsi delle esercitazioni militari USA-Corea del Sud; attraverso la demonizzazione della Corea del Nord e attraverso la collocazione di basi militari USA e NATO sia in Ucraina che in Afghanistan, motivo primario degli interventi militari USA e NATO in questi due Paesi.

Per riprendere il filo del discorso sull’economia sovietica, discorso funzionale allo studio del “socialismo dai caratteri cinesi”: cosa sostituisce, Stalin – ai fini della produttività di massa, dello sviluppo delle forze produttive e ai fini di una nuova accumulazione – alla NEP?

Indubbiamente Stalin sostituisce alla Nuova Economia Politica la forza intrinseca dello stesso socialismo sovietico che va (dentro un mondo ostile e di fronte alla concezione quasi planetaria di un capitalismo concepito come “natura” e dunque insuperabile) controstoricamente costruendosi; costruzione concreta alla quale, tuttavia, aggiunge elementi fortemente idealisti che hanno la forza di protrarsi nel tempo (il lavoro d’assalto, l’emulazione, lo stakanovismo, l’onda lunga e idealista della Rivoluzione d’Ottobre, che tutto unisce e spinge) ma che – proprio perché elementi non materialisti – possono durare sino alla vittoria sul nazifascismo e non evitare la grigia caduta ed evaporazione nella lunga stagnazione brezneviana.

Nel senso, prosaico ma concreto, che non si poteva chiedere l’emulazione di massa e lo stakanovismo alle generazioni venute dopo la guerra. Persino Ernesto Che Guevara (un iper idealista), per ricordare la storia, da Ministro dell’Economia, dopo la Rivoluzione Cubana, punta, dopo deludenti esperienze sul campo della mobilitazione sentimentale, a introdurre, per aumentare la produttività, il cottimo. Introduzione vissuta da Guevara come una sconfitta.

Dopo la NEP, l’Unione Sovietica non conosce più altro sistema che quello dello “Stato totale”, dove, mano a mano, la spinta alla produttività e allo sviluppo delle forze produttive va anchilosandosi. Nel sistema viene a presentarsi anche una contraddizione di natura degenerativa: una sorta di scambio tra mancanza del mercato e delle merci, mancanza di democrazia sovietica e allentamento, sino quasi alla cancellazione, del controllo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro e di produzione. Uno sviluppo senza più la NEP di Lenin né l’idealismo ed il controllo di Stalin.

Il processo ideologico di “svalorizzazione” del lavoro e della produttività diviene una sorta di involucro che tutto segna di sé e, in questa palude, la riproduzione della produzione e dei mezzi di produzione – che va avanti, dalla fine degli anni ’60 in poi, come una coazione a ripetere, senza dinamizzazioni o svolte significative – diviene un processo in via d’esaurimento.

Nella mancanza – spesso disperata, per i cittadini sovietici – delle “merci leggere” e di consumo di massa, vi è molto dell’”ideologia” della stagnazione: la scelta di perpetuare un’economia di merci pesanti, a discapito delle condizioni di vita dei cittadini e del consenso di massa e a discapito dell’apertura di un più vasto mercato interno e della possibilità, da parte dell’URSS, di puntare ai mercati mondiali, la si spiega anche con la supposta, “diversa”, coscienza del popolo sovietico, non incline, per questa ideologia, alla necessità delle merci. Un errore madornale nell’interpretazione di un popolo, dei lavoratori: non vi era bisogno, per liberarsi dalle fatiche famigliari, di una lavatrice?

Non vi era bisogno di un frigorifero, di un ferro da stiro facilmente reperibili sul mercato? Non vi era bisogno, per un popolo e per una classe operaia, contadina, che tanto avevano dato alla Rivoluzione, alla difesa della Rivoluzione e alla sanguinosa lotta contro il nazifascismo, di una economia volta alla produzione di massa di merci “leggere”, di consumo popolare?

Non vi furono, nell’URSS, grandi innovazioni sul campo economico. Uniche eccezioni di rilievo, i tentativi delle due riforme condotte da Aleksej Kosygin, che prima nel 1965 e poi nel 1973, tentò di dinamizzare l’economia sovietica a partire, soprattutto, dal superamento della burocratizzazione ministeriale dell’economia, attraverso la costituzione di associazioni produttive a livello repubblicano e locale. Paradossalmente, una via che aumentava i poteri del Comitato di Pianificazione di Stato (il Gosplan) sottraendoli, appunto, ai gangli burocratici distanti dalla produzione. Le due riforme Kosygin, benché lontane dallo spirito della NEP e solo timidamente evocanti il ritorno a minimi meccanismi di mercato, furono insabbiate, pur non fallendo (si ricorda lo sviluppo produttivo imperioso delle automobili “Gorkii”, a Leningrado). Il sistema anchilosato aveva “digerito” Kosygin.

Certo è che la cause della caduta dell’URSS non vanno solo ricercate nella stagnazione e nel mancato e pieno sviluppo delle forze produttive; la lunga sfida militare imperialista volta a dissanguare l’economia sovietica sull’altare del riarmo; il possente e continuo aiuto internazionalista, di tipo materiale e diretto in ogni continente; i veri e propri tradimenti di Gorbaciov, la mancata vittoria, prima di lui, della linea Andropov, l’accidia dell’Armata Rossa, incapace di respingere il “golpe” di El’cin: tutto ciò è stato decisivo. Tuttavia, la base materiale della resa e dello scioglimento dell’URSS non può che rintracciarsi, innanzitutto, sull’assenza– infine – di un’economia forte, di forze produttive in grado di sostenere lo scontro e preparare il futuro. Ed è questa un ulteriore lezione che, oggi, ci viene dallo sviluppo cinese: le basi materiali e lo sviluppo delle forze produttive garantisco anche il futuro del socialismo. Significativo, da questo punto di vista, è il rilancio, avvenuto al 19° Congresso del PC Cinese, dei valori politici e ideali del socialismo, del progetto rivoluzionario a breve e lungo termine.

Noi riteniamo che il passaggio, in Cina, dalla Rivoluzione Culturale alle “Quattro Modernizzazioni” e poi al progetto compiuto di “socialismo dai caratteri cinesi” sia stato non solo necessario per la Repubblica Popolare Cinese e per il popolo cinese (per tanta parte uscito dalla miseria ed entrato nella modernità), ma anche per l’intero arco delle forze antimperialiste, anticolonialiste e comuniste del mondo, che dopo la scomparsa dell’URSS hanno ritrovato nella Cina dello sviluppo economico, e nei BRICS, una sponda potente e un punto di riferimento solido. Non è la questione o il desiderio di un nuovo “faro internazionale”, del quale i partiti comunisti del mondo e le forze antimperialiste e rivoluzionarie non hanno bisogno: è la questione di un’accumulazione di forze materiali (e, dunque, dialetticamente, ideali) sul piano mondiale, capace di fronteggiare e far arretrare le forze imperialiste.

La Rivoluzione Culturale cinese aveva fatto innamorare di sé anche la piccola borghesia occidentale di sinistra, molto e idealisticamente attratta dalla miseria e dal sacrificio del popolo cinese, “esempio” – per la piccola borghesia – di “una più alta vita”. La Cina aveva invece bisogno di ergersi nel mondo attraverso quello che lo stesso Marx individuava come il motore della Storia: lo sviluppo delle forze produttive.

Le concezioni politiche e teoriche che vanno forgiandosi in Cina, in questa fase di impetuosa crescita, sono già e potranno ancor più essere – senza rapporti di subordinazione, ma con rapporti leali e creativi – ricca materia teorica per altre esperienze di sviluppo socialista: il ruolo guida – nel progetto di sviluppo delle forze produttive – del Partito Comunista Cinese (ruolo guida che mutua la concezione leninista delle “alture strategiche”); il Partito Comunista come avanguardia del proletariato e della Nazione, in una visione della “totalità delle cose”, della fase e del quadro sociale e politico, una pratica della totalità volta a trainare tutto l’immenso Paese cinese verso il socialismo; l’unità transeunte tra Partito Comunista, proletariato e borghesia, nella fase storica in cui essa è funzionale allo sviluppo delle forze produttive ed esse alla transizione al socialismo; la sollecitazione strategica alla costruzione delle “aree speciali” neo capitaliste, aventi il compito di accelerare i processi di accumulazione della ricchezza generale al fine di altri investimenti sociali, tecnologici, scientifici; l’attenzione e la lotta del Partito contro le inevitabili aree di corruzione che si aprono (come si sono, peraltro, aperte anche nell’URSS priva di mercato) nel “socialismo di mercato”; la consapevolezza (che il Partito Comunista Cinese ha totalmente e lucidamente) delle inevitabili contraddizioni che la presenza, voluta dallo stesso progetto socialista di un neocapitalismo interno, produce in termini di pulsione al potere politico da parte del potere economico accumulato dal neocapitalismo e, dunque, l’apertura di una lotta di classe sociale e politica che il Partito Comunista, dopo aver provocato, vuole e deve vincere.

La stessa «Teoria delle tre rappresentatività» (l’unità storica tra operai, contadini e intellettuali, che deve allargarsi alla cultura d’avanguardia e agli interessi di massa), appare un’innovazione funzionale alla fase di transizione cinese, una linea, peraltro, già praticata da altre esperienze rivoluzionarie e comuniste di altri Paesi e in altre fasi storiche.

Negli odierni passaggi cruciali della politica cinese e nelle stesse scelte strategiche del Partito e del governo della Repubblica Popolare è confermata in toto la bontà marxista della centralità dello sviluppo delle forze produttive: nel Piano Quinquennale 2016 – 2020 (rilanciato dal 19° Congresso del PC Cinese) viene presentato un immenso progetto ambientalista, di sviluppo ecocompatibile che non ha pari al mondo e che solo avendo sviluppato precedentemente le forze produttive ora può concretizzarsi.

Sappiamo che l’imperialismo, specie quello nord americano, teme lo sviluppo cinese e ha gli occhi, e non solo gli occhi, puntati su Pechino: sarà nostro dovere di comunisti, di internazionalisti, stare dalla parte giusta, dalla parte della Repubblica Popolare Cinese e del Partito Comunista Cinese.


Commento

di Carlo Formenti



Il testo che avete appena letto tocca, fra gli altri, questi cinque nodi cruciali: 


  1.  Esistono sostanziali analogie fra la NEP promossa da Lenin nei suoi ultimi anni di vita e le riforme volute da Deng alla fine degli anni Settanta? Si tratta di una questione che, a sua volta, solleva almeno altri due interrogativi teorici: vale ancora il dogma secondo cui socialismo e mercato sono assolutamente incompatibili? Le forme di capitalismo di stato esistenti in Occidente sono equiparabili a quelle in vigore nei Paesi socialisti?
  2.  La lotta di classe prosegue nelle prime fasi del socialismo? 
  3.  È giusto affermare che “il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive”? 
  4.  Quali sono state le cause del crollo sovietico?
  5.  Quali sono i limiti del mito che identifica il socialismo con la costruzione dell'uomo nuovo? 


Questi stessi interrogativi sono al centro del mio nuovo libro “Guerra e rivoluzione” di imminente uscita per i tipi di Meltemi (il primo volume, “Le macerie dell'Impero”, a gennaio 2023, il secondo, “Elogio dei socialismi imperfetti”, due mesi dopo). Nelle prossime settimane ne anticiperò alcune pagine, mentre in questa sede mi limito ad accennare ad alcune delle risposte che il libro offre agli interrogativi di cui sopra.


Le descrizioni “classiche” del socialismo – vedi, fra le altre, quelle contenute nell'Anti-Duhring di Engels o nella Critica al programma di Gotha di Marxescludono la possibilità che tale forma sociale possa convivere con i rapporti di mercato. Questa era, anche, la convinzione di Lenin e degli altri dirigenti bolscevichi (in particolare di Bukharin) negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione del 1917.  Una volta esaurita la fase del comunismo di guerra, tuttavia, la posizione di Lenin mutò radicalmente. Di fronte al rischio di collasso dell'economia, dovuto al rifiuto delle masse contadine di rinunciare al possesso privato della terra, alle distruzioni dell'apparato produttivo provocate dalla guerra civile, all'incapacità della classe operaia russa di gestire tale apparato senza l'apporto dei quadri tecnici nonché alla riluttanza operaia a farsi carico dell'immane sforzo necessario a riavviare la macchina produttiva, Lenin si convinse della necessità di una lunga fase di transizione in cui scambi commerciali, gerarchie di fabbrica e organizzazione del lavoro sarebbero rimasti quelli del periodo prerivoluzionario. In contrasto con la sinistra del partito (e con le posizioni di Rosa Luxemburg), sostenne quindi la necessità di dare vita a una forma di “capitalismo di stato” che, sostenne, non poteva essere considerato un “ritorno al capitalismo” tout court, nella misura in cui il controllo dell'economia sarebbe rimasto  saldamente in mano dello Stato e del partito rivoluzionari. 


Anche se la storia non si ripete, è difficile non cogliere le evidenti analogie fra il contesto in cui maturò la svolta della NEP in Russia e quella imposta da Deng nella Cina del 1978. Se l'Unione Sovietica non avesse riavviato l'economia, non sarebbe stata in grado di resistere all'assedio dei Paesi capitalisti; a sua volta la Cina – reduce dai disastri provocati dalla Rivoluzione culturale -  era sottoposta alla doppia sfida dell'assedio imperialista e di quelle forze interne al Partito (appoggiate dal liquidatore dell'Urss Gorbaciov e dagli Stati Uniti) che reclamavano la separazione fra Stato e partito e l'adozione di un sistema “democratico” di tipo occidentale, per cui la svolta impressa da Deng è stata una soluzione obbligata, non solo per garantire la sopravvivenza dell'esperimento socialista in Cina, ma per salvaguardare la stessa unità e autonomia nazionali del Paese a fronte dei progetti capitalisti di smembrarlo per spartirsene le spoglie.  


Prima di interrogarci sulle ragioni che hanno provocato sviluppi tanto diversi nel caso della Russia rispetto a quello cinese, è opportuno sottolineare come entrambi i percorsi storici (per un marxista i fatti storici hanno sempre la precedenza sulle idee astratte) rappresentino una chiara smentita del dogma della incompatibilità assoluta fra socialismo e mercato e, al tempo stesso, confermino come il processo di transizione al socialismo, oltre a presentarsi assai più lungo, complesso e tormentato di quanto prevedessero i padri fondatori, sia inevitabilmente caratterizzato dal permanere del conflitto di classe. 


Nel suo testo Giannini richiama, in merito a quest'ultimo tema, il pensiero di Domenico Losurdo: la lotta di classe è sempre declinata al plurale e una delle sue forme è il conflitto geopolitico (lotte di liberazione nazionale, antimperialiste, ecc.); lotta di classe è quella “dall'alto” che in 40 anni di neoliberismo le élite occidentali hanno condotto contro le classi subalterne, sprofondando centinaia di milioni di proletari nella miseria, lotta di classe è quella della NEP in salsa cinese che, nello stesso arco di tempo, ha consentito di affrancare 800 milioni di cinesi dalla povertà, offrendo nel contempo alle larghe masse dei Paesi in via di sviluppo l'alternativa del Bejing Consensus contro l'oppressione imperialista del Washington Consensus, offrendo cioè uno straordinario esempio di successo economico fondato sul ruolo centrale dello Stato. Torniamo dunque, con buona pace di trotzkisti e negriani, alla tesi leninista che distingue fra capitalismo di stato come strumento del potere socialista e capitalismo di stato come passo verso la restaurazione del capitalismo.  


Abbozzando un'analisi sull'opposto destino della Rivoluzione russa (dalla fine della NEP alla collettivizzazione forzata staliniana, dalla stagnazione brezneviana al disastro dell'89-91), Giannini mette l'accento sull'idealismo che ha caratterizzato certe scelte di Stalin (simile alle illusioni di Guevara sull'uomo nuovo), nonché sulla disastrosa sottovalutazione, da parte dei suoi successori, delle giuste aspirazioni popolari a godere dei benefici dello sviluppo (a partire dalla carenza quantitativa e qualitativa del settore dei beni di consumo). Condivido, sono però convinto che occorra compiere un ulteriore, enorme sforzo analitico. Sospendendo il giudizio sugli errori associati alla distruzione della vecchia guardia bolscevica, credo che il vero limite di Stalin sia consistito nel riproporre il dogmatismo astratto degli oppositori “di sinistra” alla svolta “realista” di Lenin, pigiando l'acceleratore su statalizzazione e collettivizzazione forzata, cui si è aggiunto – come giustamente messo in luce da un'autrice come Rita di Leo - il suo “operaismo”, cioè la diffidenza radicale, se non il vero e proprio odio, nei confronti degli intellettuali, sentimento che lo ha indotto a rimpiazzare in tempi brevissimi sia i dirigenti e i tecnici del periodo prerivoluzionario che i dirigenti bolscevichi di estrazione borghese con quadri di estrazione proletaria, i quali hanno instaurato una prassi di quieto vivere con una classe operaia scarsamente disponibile a cooperare all'aumento di produttività. Di qui il rallentamento dello sviluppo, la sistematica falsificazione del raggiungimento degli obiettivi del piano e la stagnazione che, dopo la morte di Stalin, verranno  aggravati dalla burocratizzazione di un apparato amministrativo e produttivo che, contrariamente a quello cinese, non è mai stato sottoposto alla pressione della concorrenza.  


Ammettere che il processo di transizione al socialismo è lungo, complesso, esposto agli effetti del permanere dei conflitti di classe (e quindi al rischio di sconfitte e passi indietro), e che può convivere a lungo con il mercato e assumere la forma di un capitalismo di stato sui generis non è però sufficiente. Nel libro che ho da poco consegnato all'editore sostengo inoltre che occorre prendere congedo da certe rappresentazioni profetico religiose del socialismo – e ancor più del comunismo realizzato – come paradiso in terra, un mondo privo di conflitti e libero da ogni forma di alienazione. Lasciando da parte le speculazioni sul comunismo realizzato – che non entusiasmavano Marx e che riguardano in ogni caso un futuro difficilmente prevedibile – è probabile, per non dire certo, che la prima fase del socialismo somiglierà a una qualche forma di economia  mista non troppo diversa da certe esperienze postbelliche di socialdemocrazia radicale, con la differenza del mantenimento di un saldo controllo politico dello stato e del partito rivoluzionari sui settori strategici della produzione, sulla finanza e sui processi di riproduzione sociale. 


E per quanto riguarda il mito dell'uomo nuovo? Giannini insiste giustamente sugli effetti perversi che il mancato sviluppo della produzione di beni di consumo ha avuto sulla storia dell'Unione Sovietica, e sul fatto che una certa visione idealista impedisce di capire che anche il cittadino socialista ha diritto ad aspirare a godere di un certo benessere (ciò di cui il Partito Comunista Cinese è ben consapevole, per cui mette questa esigenza in cima ai propri obiettivi strategici). Ciò vuol dire che la sola differenza fra capitalismo e socialismo è il tasso di giustizia distributiva, mentre le differenze culturali e  antropologiche sarebbero inesistenti o trascurabili? Assolutamente no. Se la rivoluzione cinese (ma anche quelle latinoamericane) si sono rivelate meno permeabili alle seduzioni del consumismo occidentale è perché in questi Paesi il marxismo si è ibridato con tradizioni culturali (il confucianesimo in Cina, il comunitarismo di origine india in America Latina) assai diverse da quelle occidentali. Da noi il retaggio individualista, frutto di secoli di capitalismo e di cultura ebraico-cristiana, è purtroppo molto più difficile da scalzare, anche perché abbiamo a lungo usufruito delle briciole del saccheggio imperialista dei centri metropolitani a spese delle periferie del mondo. 


Concludo con un'ultima annotazione critica: rilanciare il detto marxiano “il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive”, come fa a un certo punto Giannini, può dare adito a equivoci. Una cosa è affermare che senza sviluppare le forze produttive la Cina non avrebbe potuto salvare la rivoluzione; altra cosa è applicare questo principio ai centri del capitalismo mondiale, dove le forze produttive hanno da tempo raggiunto picchi elevatissimi senza che ciò abbia consentito di fare il benché minimo passo in direzione d'un cambiamento di sistema. Il dogma secondo cui la rivoluzione si fa laddove esistono le “condizioni oggettive” (cioè ai punti più alti di sviluppo economico e, non, come ci ha insegnato Lenin, negli anelli deboli della catena) è un altro dogma da mandare una volta per tutte in soffitta, né ho dubbi in merito al fatto che Giannini condivida tale punto di vista. Tuttavia ho qualche perplessità in merito all'opportunità di riproporre certe battute del Manifesto di Marx ed Engels sull' ”idiotismo” della cultura contadina: d'accordo se si tratta di ironizzare su certi romanticismi bucolici dell'ecologismo piccolo borghese, ma attenzione al  pregiudizio ottocentesco (eurocentrico, evoluzionista e progressista: vedi l'apologia del ruolo “rivoluzionario” del capitalismo occidentale) che condizionava certe prese di posizione dei padri fondatori (che del resto lo stesso Marx superò negli ultimi anni di vita, riflettendo sul potenziale rivoluzionario del comunitarismo contadino russo).   

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