Lettori fissi

domenica 15 dicembre 2024

NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO







A mò d’introduzione


Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) – ho speso molte energie per contrastare il luogo comune – che accomuna destre e “sinistre” occidentali – secondo cui la Cina sarebbe un Paese capitalista, se non addirittura imperialista, la cui unica ragione di conflitto con gli Stati Uniti e l’Europa è la competizione per il dominio globale. 


Nel caso delle destre, tale giudizio funge da argomento propagandistico, buono per scoraggiare qualsiasi simpatia nei confronti di una possibile alternativa nei confronti di un’economia, un sistema politico, una cultura e un modo di vivere che settori sempre più larghi delle popolazioni occidentali considerano intollerabile, come dimostrano il successo dei movimenti cosiddetti “populisti” e le altissime percentuali di astensione. 


Nel caso delle sinistre occorre distinguere fra l’ala “progressista” neoliberale, di fatto allineata alle destre (fatta eccezione per l’impegno nei confronti dei diritti civili di individui e minoranze appartenenti alle classi urbane medio-alte), e l’ala radicale, che dedica ancora qualche attenzione agli interessi delle classi lavoratrici. La sinistra neo liberale ha definitivamente gettato la maschera votando nel Parlamento europeo l’infame delibera che equipara nazismo e comunismo. L’ala radicale, ormai priva di strumenti teorici per analizzare la realtà (l’ignoranza dei suoi quadri in materia di filosofia, storia ed economia, per tacere del pressoché totale oblio della teoria marxista, è disarmante), si limita ad annunciare che “un altro mondo è possibile” ma, non avendo la minima idea su cosa fare e come farlo per mettere in pratica tale slogan, disprezza i progetti politici che ci provano.


Rebus sic stantibus, non mi stanco di insistere sulla necessità di studiare l’unico esperimento (in verità non è il solo, ma è di gran lunga il più significativo, se non altro per le sterminate dimensioni geografiche e demografiche della nazione che lo sta attuando) che offra un esempio concreto del fatto che lo slogan della Tatcher (there is no alternative) è falso. Un esempio, non un modello, perché sono proprio le peculiari caratteristiche dell'esperimento in questione che aiutano a capire che non può esistere un modello universalmente applicabile per la transizione a una formazione sociale post capitalista. 


A confermare il carattere “locale”, idiosincratico dell’esperimento è la stessa classe dirigente della Repubblica Popolare Cinese che non a caso parla di “socialismo in stile cinese” e dichiara di ispirarsi al metodo, ai principi e ai valori di un marxismo ”sinizzato”. Per spiegare queste affermazioni in modo comprensibile alle sinistre nostrane intrise di pregiudizi eurocentrici, seguirò la lezione di Cheng Enfu (2), uno dei maggiori economisti cinesi, incrociandola  con quelle di Giovanni Arrighi (3) e della coppia Alberto Gabriele ed Elias Jabbour (4). In particolare, mi occuperò: 1) di come la Cina stia cercando di “usare” alcuni aspetti della civiltà capitalista occidentale senza farsene colonizzare; 2) di quali sfide e contraddizioni deve affrontare per consolidare l'attuale, inedita fase del proprio sviluppo che definisce “nuova normalità”; 3) di cosa si intende per marxismo sinizzato e quali elementi di novità presenta rispetto alla teoria marxista “classica”; 4) di quali fattori di ispirazione l’attuale élite cinese ricavi dalla tradizione antica e classica della sua millenaria civiltà (Cheng Enfu scrive che la cassetta degli attrezzi del Partito Comunista cinese è “una sintesi dialettica dei materiali ideologici forniti da tre sistemi di conoscenza: concetti marxisti, apprendimento occidentale, apprendimento tradizionale cinese”). 



1. Usare i capitali e le tecnologie occidentali senza lasciarsi colonizzare


In Adam Smith a Pechino Arrighi contestava la tesi secondo cui lo strabiliante decollo dell’economia cinese sarebbe avvenuto grazie alla conversione del Partito Comunista al neoliberalismo. Questo è piuttosto ciò che è capitato in Russia dopo il crollo del socialismo, con i ben noti effetti spaventosi (immiserimento e disoccupazione di massa, appropriazione dei beni pubblici da parte di un pugno di oligarchi, smembramento dell’unità nazionale, ecc.). La dirigenza subentrata a Mao dopo la sua morte era letteralmente ossessionata dal destino di una Russia che aveva adottato la shock terapy ispirata ai principi del Washington Consensus, per cui Deng Xiaoping ha scelto di riformare il sistema in modo lento e graduale. 


L’economia è decollata dopo che alle grandi imprese si è imposto di farsi reciprocamente concorrenza e di competere sia con le aziende straniere impiantatesi nelle Zone Speciali che con le nuove aziende a partecipazione privata e di comunità. Alla crescita dell’immenso mercato interno cinese ha inoltre contribuito la decisione di consentire (a partire dal 1983) ai contadini la possibilità di vendere, anche su mercati distanti, il loro surplus produttivo (un provvedimento che evoca l’analoga decisione assunta mezzo secolo prima da Lenin, allorché varò la NEP (5)) Perché queste scelte, contrariamente a quanto previsto – e auspicato – dagli “esperti” occidentali non hanno portato alla caduta del socialismo e alla piena integrazione della Cina nel ruolo di membro subalterno del sistema capitalista mondiale? È quanto cerca di spiegare Cheng Enfu nel suo libro sulla “dialettica dell’economia cinese”. 





Noi, argomenta, non abbiamo seguito né il modello liberale né quello socialdemocratico, pur sviluppandone alcuni elementi, abbiamo invece applicato in modo discriminante la conoscenza occidentale, scartandone gli aspetti che avrebbero potuto mettere in discussione il controllo dello stato e del partito sul nostro sistema economico. Ciò è dimostrato, fra le altre cose, dal fatto che mentre il capitalismo occidentale procede a continui i tagli del welfare, in Cina si sono effettuati massicci investimenti nei fondi cinesi per l’istruzione, si è aumentato il salario minimo e si è provveduto al miglioramento dell’assicurazione medica nelle aree urbane e rurali e del trattamento per gli anziani. Per tacere del fatto – assolutamente inconcepibile in base ai canoni dell’economia borghese – che è riuscita a riscattare in un breve arco di tempo ottocento milioni di cittadini dalla povertà assoluta. Ma soprattutto – mistero che ossessiona gli economisti occidentali – è riuscita a passare in pochi decenni da Paese in via di sviluppo a potenza economica in grado di competere con gli Stati Uniti (il libro di Cheng Enfu offre un’ampia messe di dati che illustrano questo impressionante processo evolutivo). Come hanno fatto? 


Cheng Enfu



Cheng Enfu spiega il “miracolo” descrivendo le caratteristiche di un dispositivo che si fonda su quattro sistemi coordinati e interconnessi: 1) un sistema di diritti di proprietà multipla basato sulla proprietà pubblica; 2) un sistema di distribuzione multifattoriale basato sul lavoro; 3) un sistema di mercato a struttura multipla guidato dallo stato; 4) un sistema aperto multiforme autosufficiente. 


L’idea di fondo che ha ispirato le riforme messe in atto a partire dalla fine degli anni Settanta è stata quella di costruire un modello “a doppia forza”, di sommare cioè i vantaggi generati dalla convivenza di un governo forte con un mercato forte, un paradosso inconcepibile per una teoria economica che pone i due termini in opposizione radicale: se domina il mercato lo stato si ritira e viceversa. Ovviamente solo la politica dispone del potere di creare le condizioni perché stato e mercato possano convivere senza elidersi a vicenda. In particolare, nel processo di apertura dell’economia cinese al capitale internazionale, ciò ha voluto dire non porre l’accento esclusivamente sull’uso attivo del capitale straniero (e sugli apporti di tecnologia e talento associati a tale uso) ma anche e soprattutto sugli accorgimenti necessari a garantire l’indipendenza e l'autosufficienza della Cina, per esempio mantenendo il controllo su quelle tecnologie di base che sono irrinunciabili strumenti per assicurare la sicurezza del Paese, e limitando la partecipazione del capitale straniero nelle forme di proprietà miste per impedirgli di creare propri monopoli finanziari nel Paese.  


Questi e altri accorgimenti hanno fatto sì che il rapido processo di crescita degli interscambi produttivi, commerciali e finanziari fra Cina e resto del mondo, al pari del suo ingresso nel WTO, si sia potuto descrivere (non solo da parte di Arrighi  ma anche di altri autori marxisti (6)) come un “uso della globalizzazione” che ha consentito di integrare la Cina nelle reti mondiali del commercio e della finanza senza arrendersi alle pressioni - interne e non solo internazionali (7) - dei fondamentalisti del mercato, il che è stato possibile solo grazie all’assoluto controllo politico sulla finanza e al conseguente mantenimento di una (relativa) autonomia dall’egemonia del dollaro. 


Il fatto che questo rapido e tumultuoso processo di trasformazione socioeconomica non si sia accompagnato ad una evoluzione in senso liberal-democratico del sistema politico, poiché il governo non ha mai smesso di mantenere la barra del timone verso l’obiettivo di marciare verso nuove forme di democrazia popolare e verso forme più avanzate di transizione al socialismo, ha fatto capire agli Stati Uniti che quella globalizzazione che avevano concepito come l’arma finale per estendere il proprio dominio sul mondo intero si era trasformata in un boomerang. È per questo che oggi assistiamo sia a una strategia di “sganciamento” dell’Occidente dal mercato cinese e a forme di guerra commerciale nei confronti dei prodotti made in China, sia a una “Terza guerra mondiale a pezzi”, come l’ha definita papa Francesco, propedeutica allo scontro militare diretto con la Cina. 



2. Risolvere le contraddizioni che ostacolano il cammino verso una “nuova normalità” 


L’analisi di Cheng Enfu sullo sviluppo cinese non è agiografia né cieca di fronte alle sfide e alle contraddizioni generate dalla politica di riforme e apertura inaugurata da Deng e proseguita dai suoi successori. Allentando le redini sul mercato i governi hanno favorito un formidabile processo di crescita economica ma, inevitabilmente, hanno anche permesso che i fallimenti del mercato generassero una serie di gravi problemi sociali - problemi che Cheng Enfu analizza lucidamente con gli occhiali della teoria marxista, in polemica con gli economisti cinesi convertitisi al credo neoliberale. 


Il divario fra ricchi e poveri è cresciuto quasi a livelli occidentali, malgrado i redditi delle classi lavoratrici agricole e urbane siano significativamente aumentati e questo perché, argomenta Cheng Enfu riprendendo un concetto che Thomas Piketty ha divulgato fra  i lettori occidentali (8), nelle economie di mercato il divario dei redditi dipende meno dal divario nei redditi salariali che dal divario nei rediti di proprietà associato all’ineguale distribuzione della stessa. I problemi ambientali hanno toccato livelli allarmanti. La Cina è riuscita a uscire quasi indenne dalla catastrofe del 2008, ma il rallentamento del commercio mondiale associato alla crisi ha provocato un forte rallentamento della crescita e generato problemi di sovrapproduzione in alcuni settori, come il siderurgico e l’immobiliare. Le privatizzazioni non hanno solo aumentato i divari di reddito ma anche quelli fra regioni e impedito uno sviluppo proporzionale fra settori diversi. Certi settori della borghesia nazionale, anche dopo il fallimento del tentativo occidentale di innescare un regime change nel 1989 (9), non hanno cessato di lottare per trasformare il proprio potere economico in potere politico, ricorrendo alla corruzione di dirigenti di partito e quadri delle amministrazioni regionali.  


Per fare fronte a queste sfide, che sintetizza parlando di contraddizione tra il crescente bisogno popolare di una vita migliore e uno sviluppo squilibrato e inadeguato, Cheng Enfu propone di concentrare le energie su una serie di obiettivi strategici: 1) fornire protezione legale ai diritti dei lavoratori delle imprese private ai quali vanno garantiti redditi ragionevoli, perfezionare il sistema statale per la ridistribuzione della ricchezza e migliorare la tassazione per aggiustare i flussi di reddito; 2) ridurre la dipendenza dal capitale e dalla tecnologia stranieri promuovendo l’innovazione indipendente; 3) limitare la dipendenza dal commercio estero aumentando il ruolo del consumo interno; 4) ridurre la dipendenza dal dollaro, evitando di concedere spazio ai processi di finanziarizzazione e incoraggiando l’integrazione della finanza con l'economia reale; 5) accelerare l'internazionalizzazione del sistema finanziario del RMB; 6) creare una proprietà intellettuale autonoma intensificando lo sforzo di formazione del personale scientifico (coltivare talenti per la ricerca di base ad alto livello); 7) infine porre fine a una capacità produttiva in eccesso che la Cina eredita dai decenni in cui ha puntato su una modalità di sviluppo estensivo (produzione di massa orientata all’esportazione di merci a buon mercato di fascia bassa). 


Il nuovo modello economico che il governo definisce “nuova normalità”   dovrebbe favorire la transizione dalla modalità di sviluppo estensivo allo sviluppo intensivo (qualità ed efficienza). A tale scopo occorre spostare progressivamente il motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni, il che comporta che la tendenza all’aumento dei redditi delle classi lavoratrici prosegua e si rafforzi. Ciò non significa rinunciare al ruolo di potenza commerciale ma, tenendo conto del fatto che la domanda internazionale tende a ridursi a causa della crisi, e che le nazioni occidentali adottano politiche protezioniste nei confronti dei prodotti cinesi, occorre che la Cina scommetta sull’innovazione per diventare leader nei settori a tecnologia avanzata, trasformandosi da fabbrica mondiale specializzata in assemblaggio di tecnologie straniere in fabbrica mondiale di tecnologie di punta sviluppate autonomamente. 


Cheng Enfu cita molti dati che attestano come questo processo sia già in atto, enfatizzando in particolare il fatto che il valore aggiunto del settore terziario ha superato quello del settore secondario. Oggi, annota non senza orgoglio, ci collochiamo al quasi centro del centro-periferia del sistema mondiale, come confermano i massicci investimenti diretti cinesi in Africa e America Latina. E a tale proposito aggiunge: gli occidentali, preoccupati dalla nostra capacità competitiva in queste aree del mondo, ci accusano di sviluppare a nostra volta una relazione di carattere imperialista fra centro e periferia, ma la verità è che noi ci stiamo muovendo verso il centro in modo diverso: la Cina offre a questi Paesi un modello superiore per lo sviluppo e il progresso, perché noi vogliamo guidare un globalizzazione economica equa. Infine propone di misurare l'avanzamento verso questa nuova fase adottando sia un inedito indicatore di contabilità economica, che chiama Prodotto Interno Lordo del Benessere, il quale, a differenza del PIL, comprende il valore totale del benessere creato dalla produzione e dalle attività commerciali di tutte le unità residenti in un Paese, sia un nuovo indicatore sociale che chiama indice di felicità. 



3. A proposito del marxismo “sinizzato”


Prima di entrare nel merito di quelli che considero i contributi più innovativi della rivoluzione cinese alla teoria marxista, faccio una premessa: non credo che, come sembra pensare la maggior parte dei comunisti occidentali, anche quando guardano con simpatia all’esperimento cinese, il concetto di sinizzazione possa essere ridotto alla formuletta che recita che la teoria segue la prassi, sottintendendo che siamo di fronte a un semplice “adattamento” dei principi del marxismo a una specifica situazione concreta. Personalmente, pur se ribadisco l’idea che la Cina non possa né debba essere assunta a modello, sono convinto che la sua storia recente sia un esempio evidente della necessità di procedere, non a un banale “aggiustamento” della teoria, bensì a un vero e proprio cambio di paradigma. 


Cheng Enfu sintetizza icasticamente tale esigenza laddove afferma la necessità di prendere congedo dai due “mai” che caratterizzano il pensiero marxista tradizionale, vale a dire: una formazione sociale non perirà mai finché tutte le forze produttive che può ospitare non saranno messe in gioco;  nuovi rapporti di produzione non emergeranno mai finché le condizioni della loro esistenza materiale non matureranno nel grembo della vecchia società (10). Com’è noto questa argomentazione venne sfruttata dai teorici della II Internazionale (e in seguito anche da molti critici di sinistra, trotskisti compresi, del regime sovietico) per classificare come “prematura” la Rivoluzione del 1917, argomento reiterato dalle sinistre radicali occidentali nei confronti della Rivoluzione cinese dopo il fallimento della Rivoluzione culturale e le riforme degli anni Settanta. Questa tesi era già stata confutata da Lenin con la sua teoria dell’anello debole (11), ma il contributo radicalmente innovativo di Lenin alla teoria marxista non è mai stato digerito dai marxisti occidentali, ragion per cui costoro non sono in grado di spiegarsi perché la rivoluzione socialista ha trionfato in alcuni Paesi “arretrati” e non nei centri del capitalismo metropolitano. 


Arrighi ha rilanciato il dibattito su questo dilemma teorico nel già citato Adam Smith a Pechino, criticando la tesi secondo cui il mondo intero dovrà passare sotto le forche caudine del modo di produzione capitalistico prima di potersene liberare. Occorre prendere atto, scrive Arrighi, che l’appiattimento “globalista” previsto da Marx non si è realizzato, e soprattutto occorre prendere atto della gigantesca novità che ci consegna la storia: un Paese di un miliardo e mezzo di persone ha saputo compiere il miracolo di ibridare: 1) una millenaria tradizione storica capace di generare una forma di ricchezza fondata sulla stabilità sociale e sull’attenzione al bene della comunità; 2) la spinta innovativa di una rivoluzione di liberazione nazionale guidata dall’ideologia marxista-leninista; 3) un uso del mercato tanto spregiudicato quanto sottoposto al ferreo controllo dello stato-partito. Il risultato di questa novità è appunto il socialismo con caratteri cinesi. 


Vladimiro Giacché ha raccolto a sua volta la sfida partendo da una riflessione sulla svolta in politica economica imposta da Lenin nei primi anni Venti del  Novecento (11). Fino al 1919/20 Lenin era ancora convinto che al monopolio di stato sul commercio sarebbe dovuta subentrare la distribuzione organizzata secondo un piano, ma negli anni immediatamente successivi prese le distanze dalla sinistra bolscevica che riteneva possibile passare al socialismo senza un periodo di transizione, un punto di vista al quale replicò sostenendo che tale fase di transizione sarebbe stata, non solo inevitabile, ma prolungata e caratterizzata dal persistere di rapporti mercantili e monetari. Del resto, già nel 1918, aveva risposto a chi affermava che la rivoluzione bolscevica non aveva instaurato il socialismo ma una forma di capitalismo di stato affermando: “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet”. 





Certo, commenta Giacché, se la scomparsa della produzione mercantile è assunta quale unico parametro del carattere socialista di una società, non potevano considerarsi socialiste la Russia degli anni Venti né la Cina di Mao né, tantomeno, può considerarsi socialista la Cina di Deng e dei suoi successori. Ma ciò non toglie ai comunisti cinesi il diritto di rivendicare, al pari di quanto aveva fatto Lenin, il carattere socialista della Repubblica Popolare cinese. Naturalmente sia le posizioni del Lenin della NEP sia quelle dei cinesi delle riforme degli anni Settanta sono “eretiche” rispetto alla concezione del socialismo elaborata da Marx ed Engels nella seconda metà del secolo XIX (12) e “canonizzate” dalla Seconda Internazionale. Mentre Marx ed Engels consideravano il socialismo come una breve fase di transizione verso il comunismo, questa nuova visione lo rappresenta come un modo di produzione a sé stante, in cui permangono le classi e il conflitto di classe, per cui il suo approdo al comunismo – da considerare come un obiettivo strategico di lunghissimo periodo – non è un evento “destinale” bensì una possibilità la cui realizzazione dipende dall’esito dei conflitti sociali in questione (13). 


Cheng Enfu descrive i tre stadi differenti in cui dovrebbe a suo avviso articolarsi il processo di transizione: 1) uno stadio primario del sistema economico socialista che prevede la proprietà pubblica come corpo principale (con la proprietà privata come corpo ausiliario), la distribuzione orientata al mercato secondo il proprio lavoro come corpo principale (con la distribuzione secondo il capitale come corpo ausiliario) e l’economia di mercato guidata da piani nazionali; 2) uno stadio intermedio caratterizzato da diversi tipi di proprietà pubblica e diversi tipi di distribuzione dei beni secondo il lavoro e da un’economia pianificata con lo stato come corpo principale (con un mercato regolato dallo stato come corpo ausiliario); 3) infine uno stadio avanzato caratterizzato da un’unica proprietà pubblica di tutto il popolo, dalla distribuzione dei prodotti secondo il bisogno e da un’economia completamente pianificata. 


La svolta verso un’economia socialista di mercato (che corrisponde alla prima delle tre fasi appena descritte), sostiene Cheng Enfu, non è stata decisa a causa del fallimento dell’economia socialista pianificata (in particolare,  critica i colleghi che parlano solo degli errori passati e in questo modo distorcono il rapporto fra sviluppo precedente e seguente alle riforme e all’apertura, ignorando che senza le conquiste realizzate sotto la guida di Mao non sarebbero esistite le condizioni materiali per compiere questo salto evolutivo), ma si è decisa dopo avere analizzato le debolezze del modello sovietico, identificate soprattutto con le rigidità del sistema (dall’eccessiva centralizzazione delle decisioni a una distribuzione ispirata a un’applicazione eccessivamente severa del principio egualitario (14) ). Accettando l’esistenza di divari ragionevoli di reddito basati su una remunerazione basata sulla concorrenza la Cina è invece riuscita a massimizzare il potenziale umano e a ottimizzare l’allocazione delle risorse di lavoro su scala dell’intera società. 


Mao e Deng



A chi sostiene che le riforme cinesi hanno rimesso al posto di comando la legge del plusvalore e quindi lo sfruttamento della forza lavoro, replica che in un’economia socialista definita come sopra  la legge del plusvalore si incarna nella legge del plusvalore pubblico, nel senso che il plusvalore creato dai lavoratori delle imprese pubbliche va allo stato o alla collettività. Ovviamente ciò non vale per il plusvalore creato dai lavoratori delle imprese private, per cui l’avanzamento verso le fasi successive del processo di transizione al socialismo dovrà risolvere le contraddizioni implicite in questa forma di economia mista. A tale proposito afferma, fra le altre cose, che si dovrà porre sempre più l’attenzione sul risparmio di tempo di lavoro e sulla sua pianificazione tra i diversi settori della produzione, due fattori che rappresentano la legge economica primaria in una società di produttori associati; si dovrà inoltre rispettare la legge dello sviluppo proporzionale formulata da Marx, la quale afferma che le quantità di prodotti corrispondenti ai diversi bisogni richiedono quantità diverse e definite del lavoro sociale complessivo (nella fase attuale tale legge opera in modo imperfetto perché non si basa solo sulla pianificazione statale ma anche sulla legge del valore regolata dal mercato). Inoltre sottolinea l’irrinunciabilità di perseguire uno sviluppo che garantisca un rapporto armonioso fra uomo e natura perché, scrive, gli esseri umani nascono dalla natura, ad essa sono subordinati e da essa dipendono, per cui le risorse naturali possono essere considerate come il corpo inorganico dell'umanità (15). Dal punto di vista generale produzione e consumo coincidono, ma nella riproduzione sociale la produzione è il punto di partenza effettivo dell’intero processo e quindi è il fattore dominante, per cui è in primo luogo qui che occorre cambiare le cose per risolvere i problemi ambientali.


Concludo questo breve excursus sul marxismo sinizzato con qualche accenno al lavoro di Gabriele e Jabbour sulle caratteristiche del socialismo del secolo XXI (vedi nota 4). La categoria marxiana di modo di produzione, argomentano i due autori, è un modello astratto, al quale le concrete formazioni socioeconomiche, storicamente e geograficamente esistenti, aderiscono in misura diversa. Analogamente ad Arrighi e diversamente da Marx, il quale ipotizzava che il modo di produzione capitalistico, già tendenzialmente dominante in Europa ai suoi tempi, si sarebbe esteso a livello mondiale fino a soppiantare tutti gli altri (a meno che non venisse rovesciato da una rivoluzione socialista), Gabriele e Jabbour sostengono che, anche nell’attuale contesto di tardo capitalismo “globalizzato”, il primato di un determinato modo di produzione nelle singole realtà storico-geografiche può essere assoluto o relativo. Ad esempio, negli Stati Uniti è indubbio che la supremazia del modo di produzione capitalistico sia assoluta, ma in altre formazioni socioeconomiche due o più modi di produzione possono coesistere con rapporti reciproci di rivalità e/o di simbiosi, così come possono darsi situazioni di transizione da un modo di produzione a un altro. 


Questo pluralismo dei modi di produzione - riscontrabile soprattutto nel Sud del mondo, dove il capitalismo convive (e confligge) sia con formazioni socioeconomiche “socialist oriented” (16) che con forme produttive e relazioni sociali di tipo precapitalistico – non impedisce di ammettere che il capitalismo resti il modo di produzione dominante a livello mondiale ma, al tempo stesso, non impedisce di affermare che, laddove convive con altri modi di produzione, non si può stabilire a priori quale modo di produzione prevarrà nel lungo periodo - il che vale soprattutto nei casi in cui sia in atto un processo di transizione (17). Per sintetizzare le riflessioni di Cheng Enfu e di altri autori fin qui discusse, si potrebbe concludere dicendo che la sfida del socialismo con caratteri cinesi (ma ciò vale anche per altre economie socialiste di mercato asiatiche, come Vietnam e Laos, oltre che per alcuni Paesi latinoamericani, a partire da Cuba) consiste nel riuscire a imporre le ragioni della politica sulle ragioni del mercato abbastanza a lungo affinché possano maturare le condizioni di passare alla seconda e terza fase del processo di transizione.




In che misura la tradizione confuciana influisce sulla via cinese? 


C’è chi sostiene che l’atteggiamento di Mao nei confronti della cultura cinese tradizionale sia stato laico e illuminista, cioè critico se non liquidatorio. Cheng Enfu non è di questo avviso e infatti cita un’affermazione di Mao che invitava a fare un bilancio di tutto il passato della Cina, da Confucio a Sun Yat-Sen, per raccogliere quella preziosa eredità. Sempre Cheng Enfu afferma che il marxismo è un sistema culturale-ideologico che enfatizza la fede e i valori, e definisce la fede come credenza e rispetto per una certa dottrina, religione o altri principi che le persone abbracciano come proprio codice di condotta, citando quali esempi i “valori universali” occidentali, i principi neoliberali e quelli del marxismo e del comunismo (18) . 


Anche se Cheng Enfu non dedica, almeno nel libro di cui sto qui discutendo, particolare spazio al rapporto fra etica confuciana e valori del socialismo in stile cinese, è indubbio che nei documenti e nei discorsi dei dirigenti del Partito Comunista Cinese i riferimenti alla tradizione confuciana si siano infittiti dopo la svolta riformista. Non essendo un esperto conoscitore del confucianesimo, in quest’ultimo paragrafo mi limiterò a sottolineare le indubbie consonanze fra certe idee ricorrenti nei discorsi dell’attuale leadership cinese e altrettanti concetti tipici della tradizione confuciana (che ricavo da uno specialista come Maurizio Scarpari (19)). 


La figura di Confucio (Kongzi) è circonfusa da un’aura mitica, anche perché molte delle informazioni che abbiamo su di lui sono avvolte dall’incertezza dovuta alla distanza temporale. Secondo la tradizione sarebbe nato da una famiglia aristocratica e morto a 72 anni nel 479 a.c. (dunque un contemporaneo dei classici della filosofia greca). Sappiamo che apparteneva alla classe dei letterati funzionari (tenuti a coltivare le sei arti: riti, musica cerimoniale, scrittura, aritmetica, tiro con l’arco, guida della biga). Visse in un’epoca di feroci contese fra i diversi regni in cui si divideva la Cina di allora, prima di essere unificata in un unico impero e, a quanto si dice, viaggiò di corte in corte in cerca di ambienti favorevoli alla sua predicazione (se così può essere definita la trasmissione di un insieme di valori morali, più che di credenze religiose). 


Il suo pensiero, più che da fonti dirette, ci è noto attraverso i testi di alcuni suoi discepoli appartenenti alla casta dei ru (così venivano chiamati gli intellettuali confuciani), i quali, più che membri di una scuola organizzata, erano pensatori indipendenti accomunati da una cultura fondata sui valori e le tradizioni di un passato idealizzato, ma disposti a mediare e attenuare le proprie differenze nei confronti di altre scuole di pensiero, come il Taoismo e il Buddismo, ragion per cui la cultura tradizionale cinese non presenta il carattere di un blocco monolitico ma piuttosto quello di un mosaico ricco di sfumature. 


In ogni caso, con il passare del tempo e con il crescere dell’esigenza imperiale di consolidare un’ideologia di stato, si è arrivati a canonizzare i quattro libri considerati più fedeli all'insegnamento originario del maestro, dopodiché essi furono imposti (a partire dal 1190) come testi obbligatori da imparare a memoria per superare l'esame di selezione imperiale che attribuiva  il titolo di erudito e consentiva di accedere alla carriera di funzionario amministrativo statale. Ma vediamo quali caratteristiche del confucianesimo possono essere accostate ai principi e ai valori del socialismo in stile cinese (senza dimenticare che le analogie fra idee elaborate in epoche separate da millenni di storia presentano inevitabili rischi di fraintendimento).


un ritratto di Confucio



In primo luogo il concetto di armonia. Per il confucianesimo l’armonia è un fattore essenziale per il mantenimento dell’equilibrio dell’universo e di una corretta relazione uomo/natura. L’armonia confuciana è la dottrina del perfetto equilibrio e del giusto mezzo, per cui le differenze non devono dividere ma unire (il pensiero filosofico cinese mira all’integrazione più che alla contrapposizione degli opposti). Per realizzare questo ideale, basato sull’unità che connette il mondo umano con il mondo divino (concepito più come totalità dell’universo naturale che come entità trascendente), occorre condurre una vita esemplare, regolata da principi etici che riguardano sia l’ambito individuale che le gerarchie sociali. 


Evidenti tracce di questa visione sono rintracciabili nel modo in cui i marxisti cinesi (a partire dallo stesso Mao) hanno introiettato e applicato il metodo dialettico, non considerando l’antagonismo come valore assoluto, bensì come momento legato a contingenze storiche concrete, laddove il raggiungimento dell’armonia fra i diversi strati del popolo svolge il ruolo di obiettivo strategico (tipici, in tal senso, sia l’affermazione di Cheng Enfu che nella fase attuale la contraddizione principale non è quella fra classi sociali bensì quella fra la domanda popolare di benessere e l’insufficienza di mezzi per esaudirla, sia la sua esortazione a superare gli eccessi produttivistici che hanno turbato il rapporto fra uomo e natura sia, a livello più generale, i continui richiami della dirigenza comunista all’obiettivo di costruire entro la metà del secolo XXI, una “Cina armoniosa”).    


Veniamo al ruolo del saggio: l’intellettuale confuciano gode di un margine discrezionale che gli consente di interpretare i principi dettati dalla tradizione in modo elastico, adattandoli alle circostanze, ma tali capacità derivano dalla costanza e dall’impegno con i quali si sono coltivate le proprie qualità morali e intellettuali attraverso lo studio assiduo (vedi sopra quanto ricordato sui metodi di selezione dei funzionari imperiali). 


Mi pare qui evidente l’assonanza con i durissimi criteri di selezione dei quadri dirigenti del Partito e dello Stato cinesi analizzati dallo studioso canadese Daniel Bell, che da anni vive e insegna in Cina (20). Bell ricorre al concetto (che suona per noi come un ossimoro) di “meritocrazia democratica verticale” per descrivere il sistema che seleziona la leadership politica cinese. Alla proverbiale durezza e competitività dei percorsi universitari, seguono i non meno impegnativi esami per accedere al pubblico impiego, dopodiché è possibile assumere un ruolo ai livelli più bassi del governo, mentre ogni successivo avanzamento dipende dalla qualità delle performance realizzate (21). 


Dal tema della formazione delle élite passiamo a quello della loro legittimazione. L’imperatore regnava grazie al mandato del cielo, ma tale mandato non era un diritto acquisto, per cui se una dinastia si dimostrava inetta e corrotta il popolo aveva il diritto di rovesciarla anche con la violenza (nella storia cinese non mancano le sollevazioni contadine che hanno deposto alcune case regnanti). Del resto l’etica confuciana, mentre predica il rispetto dell’ordine gerarchico, lo associa all’obbligo del governante di garantire il benessere materiale e spirituale dei governati. Per il confucianesimo, l'autorevolezza e il carisma dell’élite – il buon governo – sono l’altra faccia della capacità di adempiere a tale obbligo e il popolo accetta l’autorità non perché gli viene imposta con la forza, ma perché determinati modelli di condotta gli vengono inculcati con l’esempio che viene dall’alto. Anche in questo caso è Daniel Bell a mettere in luce come l’attuale, massiccio (nonché ampiamente superiore a quello dei popoli occidentali) consenso dei cittadini cinesi nei confronti del proprio governo si fondi su un meccanismo del tutto simile (22).


A questo punto mi sembrano chiare le ragioni per cui non ritengo che la rivoluzione cinese possa fungere da modello per chi ancora crede nella possibilità di abbattere la società capitalista. Il marxismo sinizzato non può essere tale appunto perché è sinizzato, vale a dire perché è il prodotto irripetibile di un percorso storico millenario, nonché delle specifiche caratteristiche socioculturali ed economiche che tale percorso ha generato. 


Ciò detto occorre domandarsi: la rivoluzione russa non è stata il prodotto di un marxismo “russificato”, tanto è vero che l’eresia di Lenin (tale era rispetto ai canoni del marxismo della II Internazionale) ha modificato la teoria in misura tale da imporre di ribattezzarla con il termine marxismo-leninismo? E ancora: i movimenti rivoluzionari latinoamericani non si ispirano a un marxismo “cristianizzato” dalla teologia della liberazione (23)? E il marxismo rivoluzionario africano è meno “contaminato” da fattori socioculturali e tradizioni storiche “locali” (24)? 


Invece in Occidente siamo ancora in attesa di “traduzioni” delle astrazioni teoriche marxiane in progetti politici ritagliati sulle concrete caratteristiche delle nostre (diverse nei vari contesti  nazionali) tradizioni storico-culturali, composizioni di classe, eredità ideologiche, ecc. Per quanto riguarda l’Italia, solo Antonio Gramsci ha tentato di affrontare l'impresa prima di venire assassinato dal regime fascista, mentre la togliattiana “via italiana al socialismo” ha esaurito la propria spinta propulsiva prima di riuscire a produrre un progetto rivoluzionario concretamente praticabile. Poi è calato – non solo in Italia ma in tutta Europa - il grande silenzio, la morte di un marxismo occidentale (25) ridotto a formulette astratte. 


Note


(1) Vedi, in particolare, C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll., Meltemi, Milano 2023. Vedi anche “L’enigma del miracolo cinese e la necessità di ridefinire il concetto di socialismo” https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/10/lenigma-del-miracolo-cinese-e-la.html


(2) Cheng Enfu, Dialettica dell'economia cinese. L’aspirazione originale della riforma, Edizioni Marx 21, 2024.


(3) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.


(4) A. Gabriele, E. Jabbour, Socialist Economic Development in the 21st Century. A Century after the Bolshevik Revolution, Routlege, London-New York 2022.


(5) V. I. Lenin, L'economia della rivoluzione,(a cura di V. Giacché), il Saggiatore, Milano 2017.


(6) Vedi, fra gli altri, G. Gabellini, Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Mimesis, Milano-Udine 2021; F. M. Parenti, La via cinese, Meltemi, Milano 2021; V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, in AAVV, Più vicina. La Cina del XXI secolo, Roma 2020; D. A. Bertozzi, Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, L’Antidiplomatico 2021; R. Herrera, Z. Long, La Cina è capitalista?, Marx 21, Bari 2012; A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China, Springer, Berlino 2020; Z. Boyng, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona? Marx 21, Bari 2019.


(7) Il sottotitolo del libro di Cheng Enfu (L’aspirazione originale della riforma) si spiega con il fatto che larga parte del suo testo è dedicata alla confutazione delle teorie degli accademici cinesi convertiti al neoliberismo, i quali interpretano la riforma voluta da Deng come un via libera alla liquidazione della proprietà pubblica e alla liberalizzazione senza residui .


(8) Cfr. T. Piketty, Le capital au XXI siécle, Seuil, Paris 2013.


(9) Sul diretto e pesante coinvolgimento dei servizi americani e di altre potenze occidentali nei fatti di Piazza Tienanmen del 1989 cfr. D. Losurdo, “Tienanmen 1989: prova generale delle rivoluzioni colorate” in AAVV, Marx in Cina, Marx 21, Bari 2015.


(10) Nel primo capitolo di Guerra e rivoluzione, op. cit., contesto a mia volta questi due pilastri del canone  marxista dogmatico, che si rafforzano a vicenda nell’accreditare l’idea secondo cui le condizioni “oggettive” della transizione al socialismo maturano all’interno dei rapporti capitalistici di produzione, e coincidono con il raggiungimento di un determinato livello di sviluppo delle forze produttive.


(11) Secondo Lenin la possibilità di rovesciare il regime capitalista è legata al venir meno della capacità egemonica delle élite dominanti più che a motivi di tipo economico (crisi ecc.)


(12) Giacché ricorda che nell’Anti-Duhring Engels affermava che il socialismo, fin dalla sua prima fase, non è caratterizzato solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari.


(13) Sulla critica della visione della storia come un processo governato da necessità immanenti equiparabili alle leggi che governano il mondo naturale cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023; vedi anche C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.


(14) Rita di Leo vede nella politica salariale penalizzante nei confronti di tecnici, esperti e professionisti – politica che ha generato una profonda ostilità delle classi medie nei confronti del regime -  una delle cause che hanno determinato il crollo dell’Urss: vedi L'esperimento profano, Futura, Roma 2011.


(15) Questa descrizione del rapporto dell’uomo con la natura richiama il concetto di lavoro come ricambio naturale elaborato da Marx nel I Libro del Capitale. Concetto su cui Lukacs fonda la sua riflessione sul lavoro nella Ontologia (op. cit.).


(16) Gabriele e Jabbour definiscono “socialist oriented” quelle formazioni sociali che, pur non essendo classificabili come socialiste a pieno titolo, sono credibilmente orientate a costruire una società socialista.


(17) Anche qui siamo un presenza di una visione “aperta” del processo storico (che concepisce cioè il futuro in termini di possibilità e non di necessità) in sintonia con quella di Lukacs (vedi nota 13).


(18) Nella Ontologia (op. cit.) Lukacs non descrive l’ideologia come falsa coscienza, bensì come potenza materiale, e afferma che si può parlare di ideologia allorché siamo di fronte a un sistema di principi e valori che una determinata classe dominante considera come appropriati per l’intera società (ed è in grado di far sì che anche le altre classi condividano tale credenza). Mi pare una definizione vicina a quella che Cheng Enfu usa qui per il concetto di fede.


(19) Cfr. M. Scarpari, Il confucianesimo. I fondamenti e i testi, Einaudi, Torino 2010.


(20) Cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.


(21) Secondo Bell (op. cit.), il modello meritocratico cinese consente di selezionare quadri dirigenti di qualità nettamente superiore a quella dei leader politici occidentali, i quali non passano la vita ad acquisire meriti risolvendo problemi, bensì a raccogliere consenso elettorale attraverso la comunicazione, né hanno la possibilità di sviluppare piani di lungo periodo perché i tempi della politica occidentale impongono di ragionare e agire sul breve periodo.


(22) I cittadini cinesi, sempre secondo Bell, valutano l’operato dei loro leader politici esclusivamente in termini di benefici apportati al proprio livello di vita, per cui sono poco sensibili alle sirene di una democrazia occidentale fondata su mere garanzie procedurali.


(23) Vedi quanto ho scritto in proposito in un post del 16 febbraio del 2023 su queste pagine:  “Il Marx teologo di Enrique Dussel”( https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/02/il-marx-teologo-di-enrique-dussel.html ); vedi anche E. Dussel, Le metafore teologiche di Marx,  Shibboleth, Roma 2018;  vedi infine H. Assmann, Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia, Castelvecchi, Roma 2020.


(24) Sul rapporto fra marxismo rivoluzionario e culture tradizionali africane cfr. A. Cabral, Return to the source, Monthly Review Press, new York 2022 (second edition).


(25) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017. 

domenica 24 novembre 2024

LE CRITICHE D’UN FILOSOFO SOVIETICO 
 ALLE SINISTRE RADICALI OCCIDENTALI
UN DIBATTITO DEL 73 CHE AIUTA A CAPIRE
PERCHÉ’ IL CAPITALE HA VINTO








Alcune settimane fa Alessandro Visalli, il quale era giunto a conoscenza della sua esistenza da un post su Internet, mi ha segnalato un libro del 1973: Filosofia della rivolta. Critica della sinistra radicale, del filosofo sovietico Eduard Jakovlevič Batalov. Il  libro, uscito in edizione italiana qualche anno fa per i tipi della Anteo Edizioni, benché infarcito di refusi e tradotto malissimo (solo chi disponga di una buona conoscenza degli argomenti è in grado di afferrare il senso di certi passaggi al limite della incomprensibilità) è di indiscutibile interesse storico da vari punti di vista. 


In primo luogo, perché questa analisi di un intellettuale russo dell’era brezneviana sulle sinistre radicali degli anni Sessanta in Occidente, permette di comprendere meglio con quali occhiali teorici e ideologici la cultura sovietica di allora osservasse la società tardo capitalista e i suoi conflitti di classe, le lotte del Terzo Mondo, le prospettive del movimento comunista e della rivoluzione mondiale, il tutto non molto prima di andare incontro alla propria dissoluzione. Poi perché, a mezzo secolo di distanza dalla sua stesura, il bilancio che Batalov traccia dei limiti della cosiddetta Nuova Sinistra e delle ragioni del suo fallimento (estendibile al fallimento dei “nuovi movimenti” che ne hanno raccolto l’eredità culturale e politica) anticipa una riflessione critica che, alle nostre latitudini, è maturata solo a partire dai primi del Duemila. Infine, perché è una lettura che aiuta a capire come i punti di vista dei soggetti criticati e il punto di vista di chi li critica, per quanto apparentemente opposti, condividessero una serie di elementi che hanno impedito a entrambi di prevedere e contrastare la controrivoluzione liberale che di lì a poco li avrebbe duramente sconfitti.  



I bersagli critici di Batalov 


Sul piano ideologico e filosofico, le critiche di Batalov puntano il dito in particolare contro il sociologo americano Wright Mills; contro i membri della scuola di Francoforte e il loro concetto di “dialettica negativa” (1), Adorno ma sopratutto Marcuse, citato così spesso da occupare pagine e pagine del libro; contro Sartre e l’esistenzialismo; contro Frantz Fanon e i teorici “terzomondisti”; contro il pensiero di Mao e la Rivoluzione Culturale. All’ampiezza di questa schiera di presunti inspiratori della Nuova Sinistra fa riscontro l’area geografica relativamente ristretta alla quale dedica la sua analisi: si concentra soprattutto sui movimenti di Stati Uniti e Francia (il che spiega lo spazio privilegiato accordato ad autori come Mills, Marcuse e Sartre) mentre a Paesi che pure hanno avuto un ruolo importante in quella stagione di lotte, come l’Italia e la Germania, dedica scarsa attenzione.Veniamo ora alle accuse rivolte alla cultura e alla prassi politica dei movimenti in questione. 



E. J. Batalov



La prima si riferisce al fatto che si auto definivano come una forza rivoluzionaria in grado di rimpiazzare il proletariato, in quanto – al pari di Mills e Marcuse – ritenevano  quest’ultimo del tutto integrato nella società dei consumi e compartecipe dei valori borghesi. 


La seconda riguarda il riemergere di uno spirito anarcoide di sapore ottocentesco: l’ideologia dei movimenti occidentali, scrive Batalov, era radicalmente anti partitica e antistatalista in base all’idea che ogni organizzazione è un’incarnazione materiale del principio burocratico, o meglio che la burocrazia è una caratteristica inalienabile dell’organizzazione in quanto tale e, di conseguenza, associavano le loro aspirazioni non tanto al socialismo quanto con un concetto astratto di società libera. 


La terza chiama in causa l’esaltazione dello spontaneismo, associata all’assenza di qualsiasi chiara definizione del futuro da costruire: il movimento è tutto mentre l’obiettivo non conta nulla, nella misura in cui si pensa che la società futura è il movimento stesso e le nuove forme di socialità cui dà vita. La quarta è in un certo senso un corollario della terza, in quanto coincide con l’estetizzazione delle forme e dei metodi di lotta:  si prediligono comportamenti studiati deliberatamente per scioccare conformisti e benpensanti (épater les bourgeois); si esprime il bisogno di una creatività libera e disalienata, si cerca la bellezza nelle relazioni; “l’immaginazione al potere, siate realisti chiedete l’impossibile”, recitavano gli slogan del Maggio francese, e qui Batalov richiama in causa Marcuse e il suo invito a travalicare i limiti delle pseudo trasgressioni ispirate dal consumismo (vedi il concetto di “tolleranza repressiva” (2)). 


La quinta è l’apologia della violenza considerata uno strumento di per sé rivoluzionario e liberatorio. La confusione di mezzi e fini, e l’assenza di un’analisi ponderata della necessità o meno di ricorrere alla violenza in base alle condizioni concrete di tempo e luogo, chiosa Batalov, è una minaccia per una negazione davvero rivoluzionaria, mentre la negazione e il rifiuto assoluti di tutti gli aspetti della cultura precedente tendono a degenerare in rifiuto della cultura in sé e quindi nel nichilismo. 


A questo punto – circa a metà della lettura - confesso di essermi domandato se Boltanski e Chiapello, nello scrivere la loro splendida analisi del “nuovo spirito del capitalismo” (3), si siano almeno in parte ispirati a Batalov, laddove parlano della separazione fra critica sociale (retaggio del movimento operaio tradizionale) e critica artistica (espressione dei nuovi movimenti degli anni 60 e 70). Senonché fra i due punti di vista c’è una differenza di fondo: i due sociologi francesi scrivono a posteriori, avendo cioè potuto assistere all’evoluzione politico-culturale delle generazioni che erano state protagoniste dei movimenti degli anni 60 , per cui ne descrivono l’integrazione nei nuovi meccanismi di gestione delle imprese e delle istituzioni postfordiste, così come hanno potuto assistere al deragliamento dei nuovi movimenti (femministe, lgbtq, ambientalisti, ecc.) verso la cultura woke del politicamente corretto, concentrata sui diritti civili e sui valori individualisti del neoliberalismo. Viceversa Batalov non poteva conoscere questa evoluzione che sarebbe maturata nei decenni successivi al momento in cui scriveva. La sua è stata un’intuizione profetica? Sì, se si accetta l’idea secondo cui tale evoluzione era inevitabile e necessaria, se invece si pensa che quella complessa e convulsa stagione avrebbe potuto avere esiti differenti, è il caso di evidenziare come l’analisi di Batalov peccasse di semplicismo e si basasse su una serie indebite generalizzazioni. Vediamo quali.


Uno. Dopo una prima ondata spontaneista (tipica dei movimenti studenteschi), settori consistenti delle sinistre radicali avevano tentato di dare vita a embrionali formazioni neo comuniste di tipo partitico, mentre accusavano i partiti comunisti ufficiali di opportunismo e revisionismo, quindi erano tutto meno che anarchici ed estetizzanti. Ciò vale in particolare per l’Italia, dove alla rivolta studentesca aveva fatto seguito una formidabile mobilitazione operaia duramente critica nei confronti delle organizzazioni partitiche e sindacali tradizionali.


Due. Batalov paragona le sollevazioni studentesche in Occidente al movimento cinese delle Guardie Rosse, ma questo significa rimuovere le radicali differenze storiche, culturali, politiche ed economiche fra i due contesti, identificando i fenomeni sull’unica base del peso maggioritario della componente giovanile-studentesca. Qui gioca ovviamente l’intento propagandistico anti-cinese, frutto della rottura fra le due grandi nazioni socialiste, Nè il povero Batalov poteva immaginare che, di lì a poco, la Cina “eretica”, chiusa l'infelice parentesi della Rivoluzione Culturale, avrebbe imboccato la via delle riforme, che l’avrebbe portata agli attuali vertici di potenza economica e politica globale, mentre l’ortodossa Unione Sovietica si sarebbe afflosciata sotto il peso dei propri errori e dell’offensiva imperialista. 





Tre. I giudizi liquidatori nei confronti di Frantz Fanon e di altri teorici della rivoluzione coloniale (accusati, al pari di Marcuse e Sartre, di essere i “cattivi maestri” della Nuova Sinistra occidentale) sono in palese contrasto con il giudizio di Lenin in merito al ruolo strategico (e non di mero supporto tattico agli interessi del socialismo reale) delle lotte di liberazione nazionale per l’attuazione della rivoluzione socialista mondiale. Così Batalov squalifica sia l’idea secondo cui la lotta contro l’imperialismo può inizialmente  prescindere dalle divisioni di classe fra gli oppressi (4), sia le tesi di coloro che “vorrebbero farci credere che nei paesi coloniali solo i contadini sono rivoluzionari”. Purtroppo per lui, le rivoluzioni antimperialiste in America Latina (da quella cubana a quelle bolivariane) hanno confermato che questa credenza è fondata, almeno in determinati contesti geografici, mentre i partiti comunisti ortodossi hanno dovuto accontentarsi dei nuovi spazi politici creati da leader come Chavez e Morales (5).



Le cause socioeconomiche dell’emergere della Nuova Sinistra  


Batalov si concentra su alcuni aspetti associati all’impatto delle innovazioni tecnologiche, sempre più rapide, sull’organizzazione del processo produttivo, sulle trasformazioni culturali e sul peso crescente dell’industria culturale.


In primo luogo, sottolinea come la rivoluzione tecnologica tenda ad erigere una barriera cognitiva fra le diverse generazioni. I giovani d’oggi, scrive – e fa riflettere il fatto che lo dica nei primi anni Settanta, nei quali l’accelerazione temporale era assai inferiore ai livelli raggiunti dopo la rivoluzione digitale - crescono in un mondo che muta tanto rapidamente da indurli a creare delle proprie sottoculture o controculture per differenziarsi dalle idee, dai principi e dai valori della cultura mainstream. 


Più importanti del conflitto generazionale, tuttavia, sono a suo avviso i conflitti di interesse creati dalle trasformazioni del ruolo socioeconomico della classe intellettuale. A causa dell’enorme sviluppo dell’industria culturale (media, pubblicità, trattamento delle informazioni, ecc.),  dell’automatizzazione dei processi industriali e della terziarizzazione produttiva, l’intellettuale si trasforma in ”operaio” di questi nuovi processi produttivi, un “lavoratore parziale” impiegato in questo o quel settore specifico, cui sfuggono la comprensione e il controllo del processo complessivo. Lo scrittore si trasforma in “tecnico letterario” (copywriter, sceneggiatore, redattore, ecc.) e qualcosa di simile avviene per l’ingegnere, l’architetto, ecc. Il divario fra competenze acquisite e mansioni svolte, e fra aspettative e realtà in termini di carriera retribuzione ecc.  aumenta progressivamente, alimentando l'insoddisfazione e lo spirito di rivolta, a partire dalle masse studentesche, cresciute numericamente perché l’aumento della domanda di lavoro qualificato favorisce l’accesso di nuovi strati sociali al processo formativo. 


È da questi strati sociali, scrive Batalov, che le sinistre radicali attingono i propri militanti, i quali non appartengono più alla borghesia ma non appartengono ancora pienamente al proletariato: “un nuovo tipo di rivoluzionari utopisti non proletari”, li definisce il filosofo sovietico, “nato dalle contraddizioni della società capitalista avanzata”.





Il tema appena esposto contiene, al tempo stesso, un elemento comune e una differenza fra l’approccio di Batalov e le analisi di una parte significativa delle sinistre radicali. Il concetto di proletarizzazione dei lavoratori intellettuali viene dato infatti per acquisito da entrambe le parti. La differenza è che, per Batalov, come abbiamo appena visto, si tratta di un processo in corso ma ancora incompiuto. Inoltre il filosofo russo rimprovera alle sinistre radicali occidentali di voler sostituire al proletariato tradizionale, dato per ormai imborghesito e integrato, questi strati emergenti nel ruolo di avanguardie rivoluzionarie. In realtà, perlomeno se ci riferiamo alle sinistre “operaiste” (italiane ma non solo), la questione è più complessa. Per queste ultime, infatti, a essere integrata era l’aristocrazia degli operai professionali, inquadrata nei partiti e nei sindacati tradizionali, mentre gli operai addetti a mansioni meramente esecutive, stressanti e mal retribuite (operaio-massa) erano il nerbo di un nuovo soggetto antagonista, del quale gli strati del lavoro intellettuale proletarizzato erano parte integrante. 


Queste differenze nell’analisi della composizione di classe nella società tardo capitalista producono una divaricazione in merito alle prospettive temporali del processo rivoluzionario. Da un lato, le sinistre radicali considerano il nuovo contesto socioeconomico come condizione necessaria e sufficiente per il rovesciamento del potere del capitale, e accusano di opportunismo le organizzazioni tradizionali della classe operaia, le quali coltivano l’illusione di sfruttare una democrazia borghese ormai morta e sepolta per attuare una transizione pacifica al socialismo. Dall’altro, Batalov ribatte che gli obiettivi utopistici sono praticabili solo quando esiste già la base materiale per la loro attuazione (visione in palese contrasto con la teoria leninista dell’anello debole secondo la quale la rivoluzione è possibile se, quando e dove le élite borghesi non riescono più  esercitare la propria egemonia); nega poi che la democrazia borghese, malgrado i suoi difetti e la crisi che sta attraversando, possa essere data per morta e sostiene che dev’essere difesa in quanto esito di secolari lotte popolari. 


Infine, Batalov ribadisce quella che a suo avviso è la concezione corretta (in base ai dogmi del “diamat” di staliniana memoria) del processo rivoluzionario. Il primo dogma consiste in una visione rigorosamente “continuista” del processo storico: rovesciamento dialettico dell’esistente senza rotture (6). Ecco alcune citazioni paradigmatiche: “un sistema storico concreto nasce da un altro”; la rivoluzione è “proiezione nel futuro delle tendenze presenti nello sviluppo sociale contemporaneo”; “questi processi (cioè le trasformazioni in atto nella società tardo capitalista) allo stesso tempo promuovono oggettivamente la creazione delle precondizioni materiali per il socialismo che a sua volta completa il lavoro storico iniziato dal capitalismo”; il socialismo è “sublimazione rivoluzionaria della democrazia borghese” (tutte le sottolineature, al pari di quelle che seguiranno, sono mie). 


Il secondo dogma riguarda il principio di immanenza – di necessità interna – che sovradetermina rigidamente i comportamenti e i ruoli dei soggetti sociali. La tesi di chi parla di integrazione della classe operaia occidentale è insostenibile perché sono “i fattori oggettivi che determinano la posizione del proletariato nella società capitalista come classe rivoluzionaria”, quindi chi ha un atteggiamento pessimista su questo tema “può indicare l’opportunità ma in nessun caso la necessità storica di cambiamenti rivoluzionari”; chi pretende di contestare il sistema dall’esterno dimentica che essere qualitativamente fuori dal sistema esistente significa “non avere possibilità di svilupparsi al suo interno”;  “la rivoluzione costituisce una transizione da una necessità a un’altra”. Per concludere Batalov concede ai movimenti che mette sotto la sua lente critica l'unica chance di fungere da catalizzatori della storia che possono sgombrare il terreno alla possibilità di mettere in atto “la vera necessità storica”. 


Siamo insomma di fronte al catalogo di un marxismo ridotto a una elencazione “scientifica” delle leggi di movimento che governano il processo storico, e questo pochi anni dopo che il più grande filosofo marxista del Novecento, Gyorgy Lukacs, aveva consegnato alle stampe il suo capolavoro (7) in cui faceva piazza pulita di questa paccottiglia determinista. Se aggiungiamo il sintomatico silenzio sui drammatici conflitti interni al blocco socialista (da Budapest a Praga) e sulle non esaltati performance dei partiti comunisti di osservanza sovietica in Europa e in America Latina; l’omaggio a Cuba senza dedicare un cenno a Che Guevara; l’infelice citazione di una frase di Lenin in cui si celebrano le lodi del taylorismo per ribadire l’importanza dello sviluppo delle forze produttive ai fini della realizzazione del socialismo; la celebrazione della coesistenza pacifica come strategia vincente nei confronti del capitalismo (si è visto come è andata finire). Se aggiungiamo tutto questo, si sarebbe tentati di schierarsi dalla parte delle sinistre radicali contro la requisitoria di questo loro censore. Ma sarebbe un errore. In primo luogo perché le cinque accuse che ho citato in apertura di questo articolo (vedi sopra) sono a mio avviso giustificate. Ma soprattutto perché anche le esperienze più orientate alla costruzione di un’alternativa comunista all’ortodossia sovietica scontavano, come cercherò di dimostrare fra poco, non pochi dei limiti teorici che ho appena attribuito a Batalov.

  

Perché le sinistre (vecchie e nuove) sono state asfaltate dalla controrivoluzione neoliberista


Parto da un appunto di Batalov alle tesi di Marcuse e degli altri teorici della integrazione della classe operaia: la sinistra radicale e i suoi cattivi maestri, scrive, hanno esagerato la capacità della borghesia di realizzare i propri obiettivi. Io direi che, al contrario, la sinistra radicale ha drammaticamente sottovalutato la capacità di resilienza del sistema capitalista, mentre Batalov e le élite del socialismo reale l‘hanno ignorata del tutto. 


La prima causa di tale cecità è stata l’incomprensione dell’evoluzione dell’imperialismo nella transizione dal colonialismo al neocolonialismo. A parte le infelici battute di Batalov sui leader e sui teorici (a partire da Fanon) delle lotte di liberazione nazionale, è sintomatico che il filosofo russo sprechi fiumi di inchiostro su Marcuse e Sartre mentre tace sulle analisi marxiste (da Baran e Sweezy al quartetto Samir Amin, Arrighi, Frank e Wallerstein) sul concetto di dipendenza (8) e sul rapporto sviluppo/sottosviluppo. Idem dicasi delle sinistre radicali occidentali, le quali, esauriti gli effimeri entusiasmi per le vittorie vietnamite, la Rivoluzione Culturale e altri eventi “periferici”, hanno liquidato come “terzomondismo” l’interesse per il Sud del mondo (mentre condividevano con Batalov il disprezzo per le masse contadine, “arretrate” e dunque incapaci di svolgere un vero ruolo rivoluzionario). Questa ignoranza condivisa ha impedito di capire che la questione della integrazione delle aristocrazie operaie del Nord rinviava a un fattore strutturale (la possibilità da parte delle metropoli di elargire alle proprie classi subalterne parte del bottino sottratto alle periferie) piuttosto che psicologico-culturale.  





Un secondo elemento condiviso da vecchi e nuovi dogmatismi di (presunta) origine marxista consiste nella costellazione determinismo – oggettivismo - economicismo. Di Batalov si è detto. Quanto alle sinistre radicali: il nuovo soggetto antagonista – variamente denominato come lavoratori cognitivi, operaio sociale, ecc. - è investito della stessa funzione “oggettivamente rivoluzionaria”, in ragione della sua collocazione nel processo produttivo, attribuita in precedenza alla “vecchia” classe operaia; la crisi capitalistica degli anni Settanta viene analizzata come una tendenza irreversibile, governata da “leggi” scientifiche; la rivoluzione tecnologica è infine descritta come il punto di non ritorno della contraddizione oggettiva fra forze produttive e rapporti di produzione (questa narrazione assumerà toni deliranti a partire dagli anni Novanta (9), con l’esaltazione della rivoluzione digitale come strumento di democratizzazione di economia, politica e società). 


Detto che a negare uno sbocco rivoluzionario al breve e intenso ciclo di lotte dell’operaio fordista fra la fine dei 60 e l’inizio dei 70 non è stata la carenza di fattori materiali, “oggettivi” bensì, da un lato, l’assenza di organizzazioni e programmi politici in grado di saldare un ampio fronte popolare per la conquista del potere politico, dall’altro, il fatto che l’egemonia delle élite dominanti non stava affatto attraversando una crisi terminale (in barba ai sogni dei teorici della lotta armata); detto ciò tutte le presunte “leggi” e i fattori oggettivi sopra descritti si sono rivelati altrettante leve nelle mani del capitale: decentramento produttivo (oggi l’83% del lavoro industriale si trova nei Paesi in via di sviluppo o di recente sviluppo); ristrutturazione tecnologica selvaggia (drastica riduzione del proletariato tradizionale, terziarizzazione, femminilizzazione e precarizzazione del lavoro); finanziarizzazione dell’economia; cooptazione degli strati superiori del lavoro cognitivo nelle stanze di controllo e comando del sistema; disinnesco della carica antagonista dei nuovi movimenti sociali, ridotti a impegnarsi per obiettivi compatibili con i principi e i valori neoliberali.  


Nel frattempo l’Unione Sovietica e il socialismo reale affondavano sotto il peso della mancata riforma di un sistema economico penalizzato dalle rigidità di una pianificazione eccessivamente centralizzata, e incapace di esaudire la domanda popolare di beni di consumo;  dall’enorme spreco di risorse imposto dalla gara agli armamenti con il blocco occidentale (problema esacerbato dalla disastrosa avventura afgana); da decenni di scarsa attenzione nei confronti dei problemi di tecnici, professionisti e intellettuali (una classe media che si vendicherà mettendosi alla testa della controrivoluzione). E, al momento del crollo del Muro di Berlino, i figli e i nipoti delle sinistre radicali criticate da Batalov accorreranno a celebrare la rinnovata unificazione della “democrazia” mondiale, ignari che la presunta “fine della storia” associata a quell’evento avrebbe innescato uno spietato progetto di espansione globale del dominio imperialistico. Finché il formidabile sviluppo della Cina socialista, il ritorno in campo di una Russia uscita dagli anni terribili dell’adesione alle ricette del Washington Consensus, e l’emergenza di un fronte di resistenza al dominio imperiale degli Stati Uniti guidato dai Brics hanno riaperto i giochi. Ma questa è un’altra storia. 


Note

(1) Cfr. T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970.


(2) Cfr. H. Marcuse, “Tolleranza repressiva” in E. P.  Wolff, Barrington Moore Jr, H. Marcuse, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino 1968.


(3) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.


(4) A formulare la tesi opposta è stato, fra gli altri, il leader della guerra di liberazione della Guinea Bissau, Amilcare Cabral (vedi il post che gli ho dedicato su questo blog: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/11/i-popoli-africani-contro-limperialismo-3.html


(5) Sul rapporto fra rivoluzioni bolivariane e partiti comunisti “ortodossi” vedi quanto ho scritto in Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2013 e nel terzo capitolo del secondo volume (“Elogio dei socialismi imperfetti”) di Guerra e liberazione, Meltemi, Miano 2023.


(6) La critica più radicale di questa concezione continuista che concepisce la rivoluzione socialista come la prosecuzione e il compimento delle promesse non mantenute della rivoluzione borghese è uno dei pochi esponenti della Scuola di Francoforte che Batalov evita – non a caso – di citare, vale a dire quel Walter Benjamin che descrive la rivoluzione come un “balzo di tigre” che segna una discontinuità assoluta nel flusso del temporale della storia (Cfr. Angelus Novus,  Einaudi, Torino 1962).


(7) Fu lo stesso Marx a smentire l’idea secondo cui l’obiettivo della sua ricerca teorica fosse stato quello di descrivere le leggi generali che governano il processo storico e la transizione fra diversi modi di produzione (vedi la sua lettera a un recensore dell’edizione russa del Capitale in India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960). Ma a formulare la critica più spietata di una interpretazione teleologica della concezione marxiana della storia (cioè dell’idea che il processo storico sia “direzionato” da leggi immanenti) è appunto G. Lukacs in Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023.


(8) Cfr. A Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.


(9) Cfr. le mie critiche agli apologeti “di sinistra” della rivoluzione digitale in Cybersoviet (2008), Felici e sfruttati (2011) e Utopie letali (2013). 












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