Il Capitale fra ontologia e storia.
Alle radici della scissione fra marxismo occidentale
e marxismo orientale
Due parole sulle curiose origini di questo post
Non ho mantenuto la promessa di qualche settimana fa. Dopo l’interruzione estiva, scrivevo, il flusso dei post tornerà regolare. Il protrarsi della pausa è dovuto a problemi di salute (la vecchiaia non perdona) e a scadenze editoriali (il lavoro a due mani che io e Alessandro Visalli stiamo scrivendo uscirà nell’estate del 26, ma Meltemi vuole i manoscritti entro due mesi e il succedersi degli eventi impone aggiornamenti. Però nei prossimi giorni usciranno due libri (Arlacchi sulla Cina e Pappé su Israele) che mi impegno a recensire (nel post su Arlacchi mi occuperò anche di certe perle regalateci dai marxisti nostrani sulla Cina).
Restando in tema di marxismo nostrano, segnalo un curioso evento. Diversi mesi fa vengo invitato a un convegno sul pensiero di Marx. Accetto l’invito e, dal momento che Meltemi mi chiede di raccogliere in un volumetto gli articoli sul II e III Libro del Capitale pubblicati su questo blog, ne approfitto per approfondire certe riflessioni suggeritemi dalla loro rilettura. Invio il titolo (quasi uguale a quello che leggete sopra) agli organizzatori, ma chi mi aveva invitato (si dice il peccato ma non il peccatore) mi scrive che si scusa ma non sono stato inserito nel programma a causa:“della tardanza con cui mi ha comunicato il Suo titolo intrecciatasi perversamente con la mia dimenticanza nel sollecitarLe l’invio del titolo” (sic). Ricordate il detto“a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca”?
Mi viene da sorridere ricordando la battuta con cui gli amici di Ottolina Tv mi hanno presentato a un evento del mese scorso (“il più odiato dei marxisti italiani”). Temo di dovermi preparare a subire gli esorcismi di cui fu oggetto Costanzo Preve, benché non mi sia mai abbandonato, né intenda abbandonarmi, a certe sue intemperanze, provocate dall’amarezza di essere stato scomunicato dall’italica mediocrità “di sinistra”.
Me ne faccio una ragione: non si può essere al tempo stesso eretici e amati, per cui certe situazioni vanno prese con ironia e non con stizza.
Questo siparietto è giustificato dal fatto che gli appunti pubblicati qui di seguito altro non sono che la “scaletta” dell’intervento che avrei fatto al convegno di cui sopra. Prendeteli per ciò che sono: un primo abbozzo di temi che verranno trattati nel saggio sul II e III Libro del Capitale.
A mò di premessa
Nel 1984 Costanzo Preve pubblica quella che personalmente considero il suo lavoro più importante: La filosofia imperfetta (1). In quel testo avanza la tesi secondo cui nell’opera di Marx convivono tre regimi narrativi: grande narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale. Critica i primi due, nella misura in cui a suo avviso rispecchiano, sia pure in forma diversa (2), una visione immanentista della storia, che viene presentata come un processo direzionato verso l’esito predeterminato della transizione dal modo di produzione capitalistico al sistema dei produttori associati. Esalta al contrario il terzo, sul quale è possibile fondare una ontologia del lavoro umano.
Preve mutua esplicitamente quest’ultima tesi dalla Ontologia dell’essere sociale (3), il capolavoro dell’ultimo Lukács. Questo riferimento di Preve a Lukács rappresenta tuttavia un paradosso: in molte delle proprie opere, Preve scrive di considerare il pensiero di Marx interno alla tradizione dell'idealismo tedesco; viceversa Lukács, nell’ultimo decennio di vita, autocritica in varie occasioni la propria opera giovanile, Storia e coscienza di classe (4), definendola idealista e “più hegeliana di Hegel”, mentre nei quattro volumi della Ontologia rilegge l’intera opera di Marx come una ontologia materialista, fondata sul concetto di lavoro come ricambio organico uomo-natura (secondo Lukács non è possibile capire Marx se si esamina l’economia esclusivamente a partire dalla forma storicamente determinata che essa ha assunto nella fase capitalistica, rimuovendone il carattere ontologico di ricambio uomo-natura).
L’ipotesi che avanzo qui in forma provvisoria, da approfondire in future riflessioni, è che questa “convergenza divergente” – per usare un brutto ossimoro – fra i punti di vista di Preve e Lukács è spiegabile a partire dalla compresenza di due linee di ricerca nell’analisi marxiana del Capitale, che potremmo definire, rispettivamente, idealtipico (preferisco usare questa definizione weberiana all’aggettivo metafisico, che rischia di generare confusione) e storico. La marxologia ortodossa non distingue fra questi due punti di vista, che considera due facce della stessa medaglia epistemica, cioè di un “metodo” marxiano concepito come un tutto monolitico, laddove io ritengo che si tratti di due linee che, se è forse eccessivo definire parallele, sicuramente non convergono mai fino a sovrapporsi completamente.
Non pretendo di dimostrare una tesi tanto complessa quanto provocatoria nello spazio limitato di questo breve abbozzo. Mi limito perciò a fare alcuni esempi di ciò che intendo a partire da alcune citazioni dal II e III Libro del Capitale. Ma prima ritengo utili un paio di premesse. La prima è un’affermazione di Lukács nella quale si sostiene che l’unica vera scienza riconosciuta da Marx è la storia (5), affermazione inserita nel contesto di un discorso nel quale Lukács critica le interpretazioni scientiste ed economiste del pensiero marxiano, sostenendo che quest’ultimo, in quanto filosofia della prassi, non ha la pretesa di definire le leggi universali dello sviluppo sociale. La seconda è la critica che lo stesso Marx, in una lettera del 1877 (6) , rivolge al recensore dell’edizione russa del Capitale. Eccola: “[il mio critico] sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica si trovino (sottolineature mie), per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto [sottinteso: troppo onore nell’attribuirmi la capacità di descrivere le leggi generali di sviluppo dell’umanità, troppo torto nell’attribuirmi intenzioni e meriti che non ho mai nutrito né rivendicato]”.
Mente corrobora la sopra citata tesi di Lukács, questo passaggio, come cercherò di dimostrare, è in contraddizione con quanto Marx scrive in alcune parti del Capitale
Primo esempio
Marx attribuisce al capitale mercantile un duplice ruolo. Da un lato, il suo sviluppo è una fondamentale premessa storica della nascita del modo di produzione capitalistico: “ [sia] come presupposto della concentrazione di patrimoni monetari, sia perché il modo di produzione capitalistico postula produzione per il commercio, vendita all’ingrosso e non ai singoli clienti” (7). Dall’altro lato, gli effetti della “forza centripeta” del capitale mercantile consistono: “nella tendenza a convertire ogni produzione in produzione di merci, il che implica la trasformazione di tutti i produttori immediati in operai salariati”. E qui siamo nel campo della costruzione di un modello astratto. La tesi di Marx è che il capitale mercantile, attirandole nel proprio processo di circolazione, converte ogni produzione in produzione di merci. Vediamo il ragionamento. “Qualunque sia il modo di produzione sulla cui base si producono i prodotti che entrano come merci nella circolazione – la comunità primigenia o la produzione schiavistica, la produzione a opera di piccoli contadini e piccoli artigiani o la produzione capitalistica -, ciò nulla cambia al loro carattere di merci; e come merci essi devono attraversare il processo di scambio e i mutamenti di forma [cioè M-D e D-M] che lo accompagnano” (8). Il mercato, la possibilità che i prodotti del lavoro umano assumano forma di merce, pre esiste dunque al modo di produzione capitalistico, ma nella misura in cui la merce diviene capitale-merce essa si converte in un acido corrosivo che dissolve tutti gli altri modi di produzione “Via via che questa [la produzione capitalistica di merci] si sviluppa, esercita effetti disgreganti e dissolventi su ogni forma di produzione anteriore, che, avendo soprattutto di mira i bisogni personali immediati, non trasforma in merce che l’eccedenza del prodotto”(9).
In ragione di tale approccio, storia come processo reale e “leggi” storiche (intese come categorie interpretative delle dinamiche che sottostanno al processo reale), si appiattiscono l’una sulle altre, il che implica che, nella definizione stessa del concetto marxiano di modo di produzione capitalistico è inscritta la necessità della sua universalizzazione, della sua estensione a livello mondiale. Partendo dall’analisi concreta del processo storico, siamo approdati alla inscrizione di un principio teleologico all’interno di tale processo. Il punto è che il paradigma in questione è stato smentito dalla storia reale, la quale non ha prodotto un mondo in cui esiste unicamente il modo di produzione capitalistico, bensì un mondo in cui ne esistono molti.
Ciò che si è generalizzato (ad eccezione di residui di economia di autosussistenza) è l’economia di mercato. Quindi solo ponendo l’equazione economia di mercato=capitalismo (errore in cui cadono molti marxisti) si può sostenere che il modello teorico di Marx ha ottenuto conferma. Viceversa, sia la monumentale opera di Fernand Braudel (10), sia una lunga serie di contributi teorici in campo marxista - vedi Lenin sull’imperialismo; Baran e Sweezy sul capitale monopolistico (11); Myrdal sul concetto di scambio ineguale (12); gli afromarxisti (13) e la scuola della dipendenza (14) – hanno dimostrato che l’esistenza di altri modi di produzione è condizione fondamentale di sopravvivenza per un modo di produzione capitalistico che si è fondato fin dall’inizio, e si fonda sempre di più, sullo sfruttamento imperialistico dei popoli e delle nazioni del Sud del mondo.
Secondo esempio
Il secondo esempio si riferisce alla contraddizione fra la definizione (idealtipica) del capitale industriale come modalità di esistenza matura e compiuta del capitale e la presa d’atto (storico concreta) dell’autonomizzazione del capitale denaro (banche, finanza, ecc.) dal capitale industriale. Nel capitolo I del II Libro leggiamo: “Nella misura in cui esso [il capitale industriale] si impadronisce della produzione sociale (…) le altre specie di capitale non gli vengono soltanto subordinate e in conformità modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi, insieme alle quali vivono e muovono, stanno e cadono. Capitale denaro e capitale merce (…) non sono ormai più che modi di esistere (...) delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste ed ora depone nella sfera della circolazione” (15).
Ma poi c’è il controcanto. Posto che l’autonomizzazione del capitale denaro in sfera d’affari indipendente (banche, capitale finanziario, assicurazioni, ecc.) è conseguenza, spiega Marx, del fatto che, per consentire al ciclo riproduttivo del capitale sociale di svolgersi senza intoppi, una data parte del capitale deve sempre essere presente come tesoro, capitale denaro potenziale, in tale veste di capitale possibile “esso diviene merce sui generis, il capitale come capitale diventa merce”. Dopodiché si approda al rovesciamento del rapporto fra capitale industriale e capitale finanziario: “la forna D-D’(…) esprime nel modo più concreto il vero motivo animatore della produzione capitalistica (…) Il processo di produzione appare solo come inevitabile anello intermedio, male necessario allo scopo di far denaro” (16).
E nel III Libro leggiamo: “nel fatto che persino l'accumulazione dei debiti possa apparire come accumulazione di capitale, si manifesta in forma estrema il capovolgimento che ha luogo nel sistema creditizio” (17). Così l’egemonia “idealtipica” del capitale industriale va a farsi benedire, mentre trova conferma la tesi di Braudel sulla differenza fra il piccolo produttore che si specializza e il capitalista che non si specializza mai, investendo di volta in volta laddove esistono le condizioni per realizzare i profitti più elevati. Insomma: sono state le specifiche condizioni dell’epoca in cui viveva, a indurre Marx a considerare il capitale industriale come forma compiuta, modello ideale realizzato del modo di produzione capitalistico, dopodiché lo sviluppo storico concreto ha falsificato l'analisi fondata sul modello astratto.
Terzo esempio
Nel capitolo XXII del III Libro troviamo un fondamentale passaggio in cui si descrive come il capitale finanziario e i suoi agenti si erigono a rappresentanti del capitale sociale, mentre il singolo capitalista decade a funzionario del suo stesso capitale: “con lo sviluppo della grande industria, il capitale denaro, in quanto si presenta sul mercato, tende sempre più a non essere rappresentato dal singolo capitalista, proprietario di questa o quella frazione del capitale reperibile sul mercato, ma ad intervenire come massa concentrata, organizzata, che soggiace, ben altrimenti dalla produzione reale, al controllo dei banchieri rappresentanti del capitale sociale” (18).
Ancora più interessante un brano del capitolo XXXVI nel quale Marx scrive che il carattere sociale del capitale è integralmente realizzato solo dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario, il quale: “mette a disposizione dei capitalisti industriali e commerciali tutto il capitale disponibile e perfino potenziale, non impegnato già attivamente, della società, cosicché né chi presta né chi impiega questo capitale ne è proprietario o produttore” (19), e subito dopo: “Con ciò, esso sopprime il carattere privato del capitale e contiene in sé, ma anche soltanto in sé, la soppressione del capitale stesso”, frase cui segue, nella pagina seguente, un’affermazione ancora più radicale in merito al ruolo (oggettivamente) rivoluzionario del capitale finanziario: “non v’è dubbio che il sistema creditizio servirà da leva potente durante il passaggio dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato”.
Malgrado la precisazione: ciò avverrà “solo come un elemento in connessione con altri grandiosi rivolgimenti del modo di produzione stesso”, è evidente come Marx sia convinto che le trasformazioni associate allo sviluppo del grande capitale industriale e finanziario si possono descrivere come “la soppressione del modo di produzione capitalistico entro i confini del modo di produzione capitalistico”, nella misura in cui rappresentano “la proprietà privata senza il controllo della proprietà privata” (20).
Riemerge dunque la visione teleologica e immanentista del processo storico criticata da Preve (vedi sopra), visione che, dalla II Internazionale in poi, è stata fatta propria da quel marxismo occidentale che concepisce la transizione al socialismo come processo spontaneo, come “soppressione del modo di produzione capitalistico entro i confini del modo di produzione capitalistico”, per parafrasare le parole di Marx appena citate. Contro tale visione è nato, a partire da Lenin, quel marxismo orientale che, al contrario, concepisce la rivoluzione come esito di un progetto politico, come discontinuità radicale del processo storico (il benjaminiano “balzo di tigre”).
Due postille
Uno. Appartengono al paradigma “evoluzionista” del marxismo occidentale anche alcune correnti teoriche radicali che inorridirebbero nel sentirsi paragonare alla visione della II Internazionale. Mi riferisco, in particolare, al concetto di “tendenza” che ispira il pensiero operaista e post operaista, concetto che ha avuto la sua formulazione più paradossale nella tesi in base alla quale esisterebbe un “comunismo del capitale” (21) che contiene in sé tutti i presupposti della transizione al sistema dei produttori associati.
Due. La superiorità del comunismo orientale sul comunismo occidentale è attestata dal fatto che, a un secolo e mezzo dalla pubblicazione del Capitale, non si è verificata nessuna rivoluzione socialista nei Paesi che l'ortodossia identifica come il loro contesto “naturale”, cioè i Paesi industrialmente avanzati. Le sole rivoluzioni socialiste si sono verificate nei Paesi “sottosviluppati”, anche e soprattutto grazie a riletture creative della teoria marxista fondate sull’analisi concreta della situazione concreta, vale a dire su una visione storica e non idealtipica della teoria. Vedi il cosiddetto socialismo con caratteri cinesi, che sta riscrivendo la teoria della transizione, a lungo ossificata nelle descrizioni che ne hanno dato la Critica del programma di Gotha e l’Antiduhring.
Note
(1) C. Preve, La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli Milano 1984.
(2) Nel saggio citato alla nota precedente, Preve definisce il discorso grande-narrativo “metafisica immanentistica di un Soggetto che marcia cantando verso l’utopia sintetica di un società integralmente trasparente” (il soggetto in questione è, ovviamente, il proletariato), quanto al discorso deterministico-naturalistico (mutuato soprattutto dalle teorie di Darwin) consiste in una antropomorfizzazione della società intesa come organismo che si evolve in ragione di leggi “naturali”.
(3) G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Meltemi, Milano 2023.
(4) G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997. Nella Introduzione a una precedente riedizione di quest’opera, Lukács esprime le critiche citate nelle righe seguenti.
(5) Cfr. Ontologia, cit., vol II, pp. 264-265.
(6) La lettera si trova in K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960.
(7) K. Marx, Il Capitale, Libro II, Cap. I, p. 59. Tutte le citazioni che seguono si riferiscono all’edizione UTET del 1974 (a cura di Aurelio Macchioro e Bruno Maffi)
(8) Ivi, Libro III, Cap. XX, pp. 411-412.
(9) Ivi, Libro II, Cap. I. p. 59.
(10) Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, 3 voll., Einaudi, Torino 1983, 1993, 2006.
(11) P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968.
(12) G. Myrdal, Teoria economica e Paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano 1957.
(13) Su questo blog mi sono occupato, fra gli altri autori afromarxisti, di Amilcare Cabral, Eric Williams, Walter Rodney, Cedric Robinson, C. L. R James.
(14) Sui teorici della dipendenza (Giovanni Arrighi, Gunder Frank, Samir Amin, Immanuel Wallerstein) cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.
(15) Il Capitale, cit. Libro II, Cap. I p. 79.
(16) Ivi, Libro II, p. 80.
(17) Ivi, Libro III, p. 692
(18) Ivi, Libro III, p. 465.
(19) Ivi, Libro III, p. 756.
(20) Ivi, Libro III, p. 555.
(21) Cfr., fra gli altri, C. Marazzi, Il comunismo del capitale,ombre corte, Verona 2010.
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