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sabato 22 novembre 2025

LA FILOFIA IMPERFETTA DI COSTANZO PREVE



Per i tipi delle Edizioni INSCHIBBOLLETH, è appena uscito il volume IV delle Opere di Costanzo Preve (curate da Alessandro Monchietto). Il volume contiene il saggio "La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo" la cui prima edizione è uscita nel 1984 per i tipi di Franco Angeli, un lavoro che, come ho più volte ribadito in alcuni libri recenti, considero di gran lunga il suo apporto più importante alla cultura marxista italiana degli ultimi decenni. Non avendo in questo momento il tempo di celebrare l'evento, come meriterebbe, con un articolo inedito (in quanto impegnato a completare l'impegnativa stesura di un libro a due mani con Alessandro Visalli), mi limito a riproporre qui di seguito il primo capitolo - dedicato appunto alla "Filosofia imperfetta" - del mio "Ombre rosse: Saggi sull'ultimo Lukács e altre eresie" (Meltemi 2022). Del resto, mentre lo rileggevo per decidere se valeva la pena di adottare tale soluzione, ho verificato di poterne tuttora condividere il contenuto parola per parola. 

PS Nel teso originale le citazioni erano seguite dal numero di pagina fra parentesi, ma dato che si riferivano all'edizione del 1984 e non ho avuto tempo di riscontrare a quali pagine della nuova edizione corrispondano ho qui preferito eliminare i riferimenti in questione. Ho anche eliminato le note che rinviano ad altre parti di "Ombre rosse" che non si riferiscono al libro di Preve-




La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo si articola in cinque parti dedicate, rispettivamente, 1) ai tre “discorsi” che, secondo Preve, sostanziano il corpus teorico marxiano; 2) ad alcune correnti marxiste del Novecento; 3) al pensiero di Heidegger, indicato come la vetta più elevata del pensiero borghese novecentesco; 4) al concetto di utopia concreta di Ernst Bloch; 5) all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukács. Qui mi concentrerò esclusivamente sui primi due e sul quinto, in quanto la discussione sulla filosofia di Heidegger è irrilevante rispetto ai temi che mi propongo di affrontare, quanto a Bloch, il mio giudizio su questo autore è diverso da quello di Preve, per cui preferisco argomentarlo in prima persona [cosa che faccio nel secondo capitolo di Ombre rosse], piuttosto che passare da un confronto con il testo di Preve. I tre discorsi oggetto della prima parte sono, nell’ordine, il discorso grande-narrativo, il discorso deterministico-naturalistico e il discorso ontologico-sociale. 


La definizione più secca di discorso grande narrativo che troviamo nel testo di Preve è la seguente: "Metafisica immanentistica di un Soggetto che marcia cantando verso l’utopia sintetica di una società integralmente trasparente". Per meglio chiarire il senso di alcuni dei termini appena evocati (soggetto con la maiuscola, utopia sintetica, società trasparente) aggiungo quest’altro passaggio: "La categoria di soggetto [così come si presenta nella cornice di questa narrazione, N.d.A.] è titolare di un’essenza che pretende di contenere in sé, in modo immanente, una teleologia necessaria, la quale funge da supporto teorico di una concezione del comunismo come utopia sintetica, in cui pubblico e privato, individuale e collettivo, si fonderanno insieme". Per semplificare: ciò che Preve pone qui alla nostra attenzione è il fatto che Marx fa propria la tesi secondo cui il proletariato sarebbe “per sua stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico, nonché di protagonista di un rivolgimento sociale e politico in grado di generare un mondo in cui le contraddizioni fra pubblico e privato, individuale e collettivo risulterebbero superate, sanate. Una pretesa che lo stesso Marx (per tacere di Lenin) mette tuttavia in questione, laddove pone la distinzione fra classe in sé e classe per sé, aggiungendo che la conversione della prima nella seconda non è inscritta in alcun dispositivo destinale. 

Per il momento, mettiamo fra parentesi la questione del comunismo come “società trasparente”, che verrà ripresa più avanti, e passiamo al discorso deterministico naturalistico, che appare intrecciato con quello appena descritto nella misura in cui ne condivide la tendenza a una sorta di "antropomorfizzazione della storia", nel senso che, alla narrazione dell’esistenza di un soggetto collettivo capace di imprimere una precisa direzione al processo storico, associa l’ipotesi che tale processo sia animato da una "necessità immanente". Il fondamento di questa visione, argomenta Preve, è il concetto di necessità elaborato dalla scienza ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità di anticiparne e prevederne gli esiti processuali. Ma anche in Marx, sostiene Preve, esistono tracce di una mentalità scientifico-idealistica in ragione della quale la moderna produzione capitalistica assume il volto di una entità cosalmente impersonale. In ciò si avverte l’influenza del concetto di storia naturale, che fa sì che le legalità di tipo naturalistico vengano estese sotto forma di specifici vincoli necessitanti a quella sezione della natura chiamata società.  Dire che il comunismo è lo sbocco inevitabile, “scientificamente” prevedibile, della natura dinamica della moderna produzione capitalistica, argomenta Preve, "non è diverso dal dire che il comunismo è il passaggio dalla preistoria alla storia attuato dal proletariato rivoluzionario". Se la teoria marxiana si potesse ridurre a queste due narrazioni, che contengono i quattro miti del soggetto, dell’origine, della fine e della trasparenza, avrebbero ragione i suoi più sofisticati detrattori borghesi, come Max Weber e Martin Heidegger. Senonché, scrive Preve, la teoria marxiana non può essere contenuta in questa cornice mitico-messianica; non solo: gli elementi in questione sono secondari rispetto al filone fondamentale del pensiero di Marx che essendo, viceversa, di tipo ontologico-sociale, esclude a priori qualsiasi automatismo teleologico inscritto nella storia. 

Prima di approfondire quest’ultima asserzione, passiamo alla seconda parte del libro, nella quale l’autore prende avvio dal seguente interrogativo: visto che i marxismi dopo Marx  si sono quasi sempre inspirati alle due narrazioni appena descritte, piuttosto che all’ontologia sociale, è possibile liquidarli a partire da una interpretazione autentica  dell’opera del maestro? La risposta, chiarisce subito Preve, non può che essere negativa, perché cento anni di interpretazioni sbarrano la strada del viaggio verso il contatto originale e autentico con Marx . Inoltre occorre tenere presente che i “fraintendimenti” del testo marxiano operati da suoi esegeti non sono frutto di “errori concettuali”, bensì “immagini del mondo” che rispecchiano precisi vincoli storici: "L’incorporazione del marxismo autentico in una formazione ideologica è una forma di esistenza necessaria del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione economico  sociale", scrive Preve, per poi aggiungere – sulle tracce dell’ontologia lukacsiana - che l’ideologia non è riducibile al concetto di “falsa coscienza”, ma è "lo strumento sociale con cui gli uomini combattono in conformità ai propri interessi i conflitti che nascono dal contraddittorio sviluppo economico. Lo spazio ideologico è un sistema di regni combattenti né è prevedibile che scompaia in una totalità pacificata". Sull’ultima affermazione occorrerà tornare perché, come vedremo, è in contraddizione con altre affermazioni dello stesso Preve. Per ora possiamo accontentarci del concetto secondo cui le varianti (i “fraintendimenti”) del marxismo vanno interpretate  come espressione di differenti insiemi di interessi conflittuali, storicamente determinati. 

Nel libro che stiamo qui discutendo Preve analizza, in particolare, due di tali varianti. La prima è il marxismo della Seconda Internazionale, che ha avuto il suo massimo esponente in Kautsky. Costui, scrive Preve, non era un “rinnegato”. Al contrario, la sua era una versione “ortodossa” dell’ideologia marxista, non nel senso (del tutto impossibile, come sopra argomentato) della perfetta coincidenza con il pensiero di Marx, bensì nel senso di un punto di vista che incarnava la visione delle magnifiche sorti e progressive del proletariato industriale tedesco fra fine Ottocento e primo Novecento, una “immagine del mondo” che rispecchiava una specifica composizione di classe e l’ascesa politica della socialdemocrazia che la rappresentava. La visione kautskyana del capitalismo, argomenta Preve, era incorporata nel discorso deterministico naturalistico (evoluzione automatica di un organismo complesso destinato al “crollo”), mentre quella del proletariato era incorporata nel discorso grande narrativo (crescita cumulativa della coscienza politica di un soggetto associata alla crescita della grande industria moderna). Per questo gli era alieno il concetto leniniano di “anello debole”, che - come Gramsci riconobbe (1) - era la vera “eresia”.

La seconda variante è quella dell’operaismo italiano. Pur rendendo omaggio alle analisi dei Quaderni Rossi (e di Rainero Panzieri in particolare) sull’evoluzione dell’organizzazione capitalistica del lavoro e della composizione di classe nelle grandi imprese italiane degli anni Sessanta, Preve nota come da quell’analisi si sia fatto derivare un concetto di composizione di classe che veniva eletto a "unica forma di manifestazione concretamente empirica della classe operaia stessa". In altre parole, nella narrazione operaista, la composizione astrattizzata dell’operaio massa diveniva sinonimo della classe in quanto tale (e addirittura della classe in sé, nella misura in cui veniva tolta la stessa distinzione marxiana fra classe in  sé e classe per sé  (2)), con il risultato che questo racconto è entrato in crisi non appena è entrata in crisi la concreta composizione di classe su cui si basava. Preve scriveva nell’84, quindi non ha fatto in tempo a valutare le successive metamorfosi concettuali (dall’operaio sociale ai lavoratori della conoscenza) che il post operaismo ha escogitato per adattare una realtà radicalmente mutata al paradigma originario, ha tuttavia fatto in tempo a cogliere due tendenze teoriche specifiche della corrente “negriana” del post operaismo, a partire dalle quali, da un lato, si vaneggia sul “divenire comunista” del capitalismo, nella misura in cui il comunismo viene ridotto all’orizzonte "del consumo di beni e servizi privi ormai del “valore” (lavoro) fruito da un unico soggetto collettivo […] questi beni e servizi sono prodotti da macchine automatiche mentre il soggetto fruitore è affidato alla automaticità macchinica post moderna di flussi desideranti (3); dall’altro lato, la lotta di classe viene presentata come scontro fra potere e potenza, il primo identificato con il comando capitalistico, che cerca di reimporre l’infamia del lavoro produttivo [...] quando ormai non rimarrebbe che consumare gratis i prodotti senza valore della macchine, la seconda consistente "nella forza vitale metafisicamente promanante dai nuovi soggetti sociali (giovani, donne, ecc.)".

Torniamo alle tre narrazioni del marxismo identificate da Preve. Come si è visto, Preve liquida le prime due – quella grande narrativa e quella deterministico naturalistica – indicando piuttosto nel discorso ontologico-sociale l’asse portante del contributo che Marx ha dato alla speranza d’una possibile liberazione dell’umanità dal giogo del modo di produzione capitalistico. Il discorso ontologico-sociale, secondo Preve, è definibile così: "La proposizione ontologico-sociale è fondata sull’esistenza di una sola scienza, la storia, caratterizzata da processualità e specificità". E ancora: "nel momento in cui Marx fa della produzione e riproduzione della vita umana il problema centrale, compare la doppia determinazione di una insopprimibile base naturale e di una ininterrotta trasformazione sociale di questa". Il materialismo storico non è ricerca di presunte leggi deterministiche, perché la conoscenza tipicizzata del passato, cioè la ricostruzione dei nessi causali che ne hanno determinato lo sviluppo può avvenire solo post festum. Nessuna necessità immanente, nessuna teleologia sono all’opera nel processo storico, perché teleologia e causalità sono compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire finalistico dell’uomo e, al tempo stesso, costituisce quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società. Preve trae dunque dall’ultimo Lukács l’idea del lavoro come fondamento categoriale dell’ontologia sociale, la quale non è filosofia della storia "ma assieme di possibilità ontologiche concrete e inscindibilmente collegate ai vari modi di produzione". Lukács esclude ogni forma di teleologia tanto nei processi naturali che in quelli sociali: la storia non ha “il diavolo in corpo”, è semplicemente il prodotto delle decisioni alternative che gli esseri umani compiono per realizzare un fine determinato, e l’attività lavorativa è il modello di questa prassi fatta di decisioni alternative ed è, di conseguenza, il modello di ogni agire umano. La teleologia sta solo in queste decisioni alternative, mentre la causalità nasce dal fatto che esse generano sequenze causali necessarie "che a loro volta danno luogo a specifiche soglie di irreversibilità storica". Né il soggetto delle decisioni è in grado di controllare la “direzione” delle sequenze causali che mette in atto (per questo le “leggi” del processo sono ricostruibili solo post festum). Le leggi economiche infatti non sono altro che "la sommatoria impersonalizzata delle alternative individuali" (gli uomini “non sanno ciò che fanno ma lo fanno”, ripete Lukács ossessivamente sulle tracce di Marx). 

Per riassumere e semplificare quanto appena esposto: per Lukács, e per Preve che ne adotta il punto di vista: 1) il lavoro, in quanto attività umana volta a modificare la natura al fine di realizzare un prodotto che esiste già come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è il modello di ogni processo teleologico, o meglio è l’unica via attraverso cui il fattore teleologico penetra nel mondo reale, visto che né la storia naturale né quella umana incorporano una teleologia immanente; 2) il lavoro, inteso non solo come ricambio organico uomo-natura, ma anche e soprattutto in quanto somma di decisioni dirette a influenzare la coscienza di altri uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente” (4), gli atti lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che producono effetti necessari e irreversibili, nonché imprevedibili da coloro che le mettono in atto, ed è per questo che le ”leggi” del processo storico sono comprensibili solo post festum; 3) da 1) e 2) deriva che la realtà sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo causale naturalistico, bensì come un insieme di possibilità generate dal combinato disposto delle decisioni umane e dalle catene causali da esse generate; 4) queste possibilità non potranno mai essere realizzate senza l’intervento della posizione teleologica umano sociale; il che significa: 5) che la trasformazione rivoluzionaria del presente non è l’esito di automatismi, “oggettivi”, ma può avvenire solo grazie alla conversione della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole (il cui esito non è necessario/prevedibile ma appartiene a sua volta all’ordine della possibilità). 

E tuttavia Preve non è del tutto coerente nella sua presa in carico della lezione teorica dell’ultimo Lukács. Personalmente ritengo che ciò sia attribuibile al fatto che, all’epoca in cui uscì il libro di cui stiamo discutendo, il nostro era ancora politicamente impegnato – sia pure su posizioni critiche – in una sinistra radicale che aveva ereditato dai movimenti degli anni Settanta un atteggiamento di rifiuto totale e aprioristico dell’esperienza del socialismo reale. È probabilmente per questo che Preve colloca Lukács di default nel campo di un “marxismo occidentale” contrapposto a un “marxismo orientale” (5) identificato con il Diamat staliniano. Non a caso, pur concedendo qualche limitato credito al maoismo, Preve assimila la Cina post maoista all’Urss in quanto Paese in cui si sarebbe restaurato il capitalismo, allineandosi a un radicato pregiudizio ideologico di carattere eurocentrico che può essere fatto risalire agli stessi Marx ed Engels (6). Tipica in tal senso, l’alzata di spalle con cui liquida la suggestione teorica di un’autrice come Rita di Leo (7), la quale ha avuto il merito affrontare la sfida del socialismo reale tentando di analizzare come funziona concretamente un modello di società caratterizzato dalla dominanza del fattore politico sul fattore economico. Questo atteggiamento gli ha impedito di tenere conto del fatto che Lukács, pur esplicitamente critico nei confronti dello stalinismo, non aveva mai abbandonato la speranza nella possibilità di riformare i sistemi a socialismo reale (per cui è presumibile che avrebbe accolto con estremo interesse l’esperimento della Cina postmaoista). E probabilmente lo ha anche indotto a interpretare in una chiave universalista, tipica della filosofia occidentale, due temi come l’ideologia giuridica e la questione della estraniazione che Lukács affronta in  modo assai più problematico.  

Parto dalla questione del diritto. Preve prende le mosse dalla constatazione che, per Lukács, "la riproduzione sociale è un complesso di complessi relativamente autonomi (linguaggio, economica, diritto, sessualità, guerra, arte ecc.) che mutano nel tempo e muta anche la collocazione di ognuno di essi nella gerarchia riproduttiva dell’insieme sociale". Da qui discende il fatto che nessuno di tali complessi può essere inquadrato in una gerarchia fissa che attribuisce all’economia il ruolo di struttura e a tutti gli altri quello di ideologie sovrastrutturali. Ciò vale, ovviamente, anche per il diritto. Preve sfrutta questo passaggio per forzare una presunta valorizzazione lukacsiana del "potenziale emancipativo contenuto nella formalità e nell’astrattezza del diritto borghese". Ora ciò è in palese contraddizione con la critica radicale che Lukács rivolge alla visione astratta della storia come progresso verso livelli sempre più elevati di civiltà. Del resto è lo stesso Preve a riconoscere che anche Marx diffida di quei discorsi di tipo etico nei quali identifica una variante della concezione giuridica della società - concezione che rifiuta nella misura in cui è convinto che il superamento dello sfruttamento non deriva da una presunta “giustizia socialista”, bensì dal superamento della stessa forma giuridica in quanto consustanziale alla forma economica (per Marx il diritto è per definizione diritto borghese e non “diritto umano”). Eppure Preve prende ugualmente le distanze da Marx e, più in generale, da quello che definisce il "disprezzo dei diritti umani tipico delle legislazioni del socialismo reale". 

Posto che questa suona come una concessione alle suggestioni eurocomuniste di quegli anni, mi pare di poter affermare che in nessun passaggio dell’Ontologia di Lukács è possibile trovare qualcosa che giustifichi tale presa di distanza, tanto che Preve va a cercarla in quella parte finale della Ontologia in cui Lukács affronta i temi della estraniazione e della transizione al socialismo. L’estraniazione, argomenta Preve, è generata dal fatto che mentre lo sviluppo delle forze produttive presuppone lo sviluppo delle capacità umane, quest’ultimo "non produce obbligatoriamente lo sviluppo della personalità umana". Dopodiché si avviluppa in una serie di contraddizioni che complicano ulteriormente il già complesso intreccio di piste che lo stesso Lukács percorre faticosamente. Cosa si intende per sviluppo della personalità umana? Posto che Preve afferma che "l’universalizzazione è possibile solo sulla base del capitalismo"; posto che l’universalizzazione viene concepita come effetto collaterale dell’astrattizzazione e che "la possibilità del rapporto non estraniato fra individualità particolare e genere umano è ontologicamente consentita dallo stesso progetto di astrattizzazione causato dal rapporto capitalistico di produzione"; posto che [a proposito di diritti umani N.d.A.] "Il comunismo è al di là e non al di qua della soglia ontologica irreversibile prodotta dal diritto borghese formale e astratto"; posto che il comunismo è visto anche come momento "della lotta della personalità individuale per la conquista della genericità in sé"; posto tutto ciò, è evidente che siamo qui pericolosamente vicini a regredire ai miti del discorso grande-narrativo che Preve ci invita ad abbandonare nella prima parte del suo lavoro. È pur vero che cerca di salvare capra e cavoli aggrappandosi al concetto di possibilità (il capitalismo rende possibile, non necessario, il passaggio a un rapporto non estraniato fra particolarità e generalità,  lo sviluppo delle forze produttive rende possibile, non necessario, lo sviluppo della personalità umana, ecc.), ma ciò non basta a dissipare il sospetto che si riaffacci qui la visione di un processo lineare e irresistibile verso il paradiso del comunismo realizzato come regno di una personalità umana universale e pacificata, cioè verso la fine della storia. Un felice approdo che sarebbe reso possibile dal flusso principale della storia (borghese e occidentale), e non dalle deviazioni del “barbarico” comunismo orientale. Ironicamente questa visione coincide con l’avvio di un processo di marcescenza del comunismo occidentale, il quale, di lì a poco, sarebbe stato  pienamente reintegrato nel regime neoliberale. 

Note 

(1) Mi riferisco alla nota frase di Gramsci secondo cui i bolscevichi avevano fatto una rivoluzione "contro il Capitale", nel senso che la loro impresa  aveva sovvertito l'idea marxiana, condivisa dall'ortodosso Kautsky, secondo cui la rivoluzione avrebbe potuto svolgersi solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico 

(2) A formulare tale tale tesi fu Mario Tronti in Operai e capitale (Einaudi, Torino 1966). In una recente intervista, il filosofo si è lamentato del fatto che, pur avendo rinnegato quella tesi non molto dopo la pubblicazione del libro, la sua immagine è rimasta per sempre legata a quell'opera "giovanile".

(3) Più che su Marx, del quale valorizza quasi esclusivamente il "Frammento sulle macchine" dei Grundrisse, la retorica postoperaista si fonda sulle teorie di autori come Michel Foucault e Gilles Deleuze.

(4) E' il caso di notare che questa formulazione somiglia non poco alla definizione di potere nelle opere di Max Weber.

(5) Per il confronto fra marxismo occidentale e marxismo orientale, vedi le opere di Domenico Losurdo. Cfr. in particolare Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

(6) In precedenti interventi ho analizzato criticamente l'eurocentrismo di Marx ed Engels a partire dall'antologia India Cina Russia (a cura di Bruno Maffi)il Saggiatore, Milano 1960.  

(7) Cfr. la trilogia di Rita di Leo: L'esperimento profano, Ediesse, Roma 2012; Cento anni dopo: 1917-2017, Ediesse 2017; L'età della moneta, il Mulino, Bologna 2018. 





                           

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