POST SCRIPTUM
A PROPOSITO DELL'AUTOREFERENZIALITA'
DELLE SINISTRE OCCIDENTALI (MARXISTE E NON)
Come promesso nel post precedente, dedicato al libro di Pino Arlacchi sulla Cina, pubblico questo post scriptum, nel quale cito un paio di esempi (se ne potrebbero citare a bizzeffe, ma lascio il compito al libro a due mani che io e Visalli stiamo per consegnare all’editore Meltemi) che aiutano a capire che il meritevole tentativo di Arlacchi di spiegare la Cina all’Occidente è, al pari di tutti gli sforzi di aggiornare la cassetta degli attrezzi del marxismo occidentale (1) impresa difficile, al limite dell’impossibile. Ciò è scontato nel caso degli intellettuali delle “sinistre” tradizionali, ormai integrati nella intellighenzia (mai termine fu più usurpato) liberal democratica, un ceto che non vuole semplicemente farselo spiegare, perché i suoi membri considerano la Cina (la giudichino o meno socialista) un nemico, e hanno legittimato l’oscena delibera del Parlamento Ue che ha equiparato comunismo e nazismo.
Dopodiché quanto appena detto è meno scontato, ma purtroppo altrettanto vero, per la maggior parte dei militanti delle sette più diffuse - troskisti, bordighisti, operaisti, neo operaisti, neo anarchici ecc. - della cosiddetta sinistra “radicale”. Costoro – se non sono del tutto idioti – possono “tifare” per la Cina finché si parla del suo conflitto – che definiscono “interimperialista”- con gli Stati Uniti, ma non possono ammettere che la Cina è socialista, perché ciò farebbe crollare come un castello di carte l’intero corpus dottrinale che hanno costruito nell’ultimo secolo, a partire dalla negazione del carattere socialista dell’Unione Sovietica (la cui degenerazione capitalista viene da alcuni fatta risalire addirittura alla svolta della NEP avvenuta negli anni Venti del Novecento).
I due esempi che ho scelto sono disomogenei, sia per contenuto che per spessore teorico. Nel primo discuterò alcuni temi dell’ultimo libro (2) di Ilan Pappé, “La fine di Israele”, che non parla della Cina (citata en passant nelle ultime pagine) ma del progetto di costruire, a partire dal movimento mondiale di solidarietà con la Palestina, un fronte antimperialista, antirazzista e antieurocentrico in cui dovrebbero convergere le sinistre giovanili arabo-palestinesi, ebraiche e statunitensi, nonché i movimenti decoloniali del Sud globale. A mio avviso, come cercherò di dimostrare, il discorso di Pappé alterna intuizioni interessanti a incredibili ingenuità.
Il secondo esempio si riferisce a un articolo (3) dell’economista “marxista” Ernesto Screpanti (è lui stesso ad autovirgolettarsi, riconoscendo onestamente che l’attributo si applica ormai a una miriade di correnti teoriche diverse, spesso incompatibili). Si tratta di un testo che non presenta novità degne di nota (nel senso che rispolvera i dogmi delle sinistre radicali di cui sopra), ma ha il pregio di proporre una gustosa (al limite del comico) ridefinizione della categoria di imperialismo, che gli permette di arrampicarsi sugli specchi per continuare a definire imperialista la Cina, mentre a chi scrive consente di esemplificare a quali livelli di denegazione arrivino i “marxisti” occidentali, pur di non fare i conti con un esperimento socioeconomico che li costringerebbe a riscrivere la teoria della transizione al socialismo.
I. Pappé: una dura analisi critica del sionismo, che però ha il difetto di riporre eccessive speranze nella sinistra ebraica statunitense
La speranza di Pappé (nel suo testo le parole spero, speriamo, speranza ricorrono, sintomaticamente, decine di volte) è niente di meno che Israele finisca come Stato entro qualche decennio: il collasso, sostiene, è già in atto, come testimoniano l’acuirsi delle contraddizioni sociali e politiche interne, la perdita di consenso da parte dell’opinione pubblica mondiale, la crescente difficoltà di presentarsi come avamposto della democrazia nel Vicino Oriente, nonché di mantenere la supremazia militare nella regione. Posto che tutti questi fattori non bastano di per sé a legittimate la tesi del crollo (il mondo è pieno di Stati falliti tenuti in piedi dagli interessi dell’imperialismo occidentale), vediamo come Pappé giustifica la sua profezia.
Parto dai temi più scontati, nel senso che l’autore li aveva già ampiamente trattati in libri precedenti (4) mentre qui occupano relativamente meno spazio. Pappé ribadisce che il sionismo, fin dalle origini tardo ottocentesche e primo novecentesche, è sempre stato un progetto colonialista, sostenuto ed appoggiato dall’imperialismo britannico a partire dalla Dichiarazione di Balfour del 1917, e dalle potenze coloniali occidentali che ambivano ad assumere il controllo dell’area, sottratta al dominio ottomano dopo la Prima guerra mondiale. Del resto, come dimostra ampiamente il libro di Caroline Elkins, Un’eredità di violenza (5), nel periodo del mandato britannico sulla Palestina, durato fino al 1948, Londra ha costantemente favorito gli interessi della componente ebraica a danno di quella araba, consentendo un costante flusso migratorio che ha sovvertito la composizione etnico religiosa originaria della regione, agevolando l’acquisizione di terre da parte degli immigrati ebrei attraverso l’esproprio dei contadini poveri arabi e reprimendo duramente i tentativi dei residenti originari di resistere a questa colonizzazione sostituiva.
Tornando al sionismo, Pappé afferma che uno dei suoi principali obiettivi “fu creare uno Stato europeo nel cuore del mondo arabo de-arabizzando un paese arabo”. Un’operazione di colonialismo sostituivo che, aggiunge Pappé, non ebbe mai la piena approvazione della maggioranza del popolo ebraico della diaspora, né tanto meno della sua intellighenzia, che preferiva la prospettiva di un processo di transnazionalizzaione dell’identità ebraica, alternativo alla sua ri-localizzazione in Palestina (tanto che, scrive Pappé, i membri del movimento sionista arrivarono a disprezzare e insultare questi correligionari). Parliamo, dunque, di un movimento politico che condivide l’ideologia colonialista e razzista dell'imperialismo occidentale. Ciò è dimostrato, fra le altre cose: dalla pulizia etnica avviata nel 1948 (l’anno dell’Indipendenza per gli israeliani e della Nakba – la catastrofe – per i palestinesi, 250. 000 dei quali divennero profughi già a quella data); dalle politiche adottate nei confronti del milione e mezzo di palestinesi dei Territori Occupati dopo la guerra del 1967, ai quali non è concesso alcun diritto civile; dall’atteggiamento razzista dei coloni ebrei di origine europea nei confronti degli ebrei di origine etiopica e nordafricana, giunti dopo di loro in Palestina (paradossalmente, scrive Pappé, costoro sono divenuti i più feroci persecutori degli arabi palestinesi per certificare la propria “ebraicità”); infine dall’atteggiamento arrogante e violento dei coloni che occupano illegalmente la Cisgiordania, protagonisti di pogrom contro i vicini palestinesi, tollerati se non appoggiati dalle forze armate.
I coloni in questione, scrive Pappé, sono l’avanguardia violenta del Sionismo Religioso, di quello che chiama lo Stato di Giudea, fondato sulla fusione fra sionismo religioso e giudaismo ortodosso. Agli esponenti di queste correnti, che sono una componente essenziale del governo di estrema destra di Netanyahu, dobbiamo dichiarazioni pubbliche in cui si afferma che “il diritto del popolo ebraico alla Palestina è la volontà di Dio” e che “non esiste un popolo palestinese”. D’altro canto, nemmeno la componente laica, liberale e “progressista”, perlopiù di discendenza europea, che rappresenta lo Stato di Israele che si contrappone allo Stato di Giudea, è contraria alla colonizzazione e alla discriminazione razziale nei confronti dei palestinesi.
Se a tutto ciò si aggiungono l’indefettibile appoggio degli Stati Uniti (da oltre mezzo secolo il Congresso è quasi universalmente pro Israele) e i “processi di pace” periodicamente promossi da Washington, che si sono regolarmente trasformati in strumenti per normalizzare l’occupazione, per tacere della benevola indifferenza che l’Europa (sinistre comprese) ha costantemente manifestato nei confronti dei crimini di guerra di Tel Aviv, non è difficile comprendere come e perché si sia giunti al genocidio perpetrato a Gaza. Rebus sic stantibus, dove trova Pappé i motivi per sperare in una prossima, se non imminente, decolonizzazione della Palestina? Quale potrebbe essere il modello di una entità statale decolonizzata? Ma soprattutto quali forze politiche e sociali potrebbero realizzare il miracolo?
* * *
Parto dal modello che Pappé ha in testa quando auspica (sogna?) la nascita di una entità sovranazionale che riassorba e pacifichi la Palestina. Prima del crollo dell’Impero Ottomano c’era il Mashdeq, come veniva chiamata un’ampia regione che comprendeva praticamente tutto il Vicino Oriente (Siria, Libano, Iraq, Palestina e Giordania). In questi luoghi convivevano pacificamente musulmani, cristiani di varie confessioni, ebrei e altre minoranze etnico-religiose. Questi rapporti di buon vicinato, amicizia e collaborazione erano frutto di una coesistenza laica fra gruppi che si identificavano per religione, cultura o etnia, i cui membri erano ligi all’Impero come cittadini ma non rinunciavano alle proprie identità. Anche gli ebrei e gli arabi palestinesi ebbero questo tipo di rapporto fino alla fine della Prima guerra mondiale. Il governo mandatario inglese, applicando i metodo divide et impera sperimentato in tutto l’Impero (6) ha alimentato le contrapposizioni fra i gruppi, infine ha lasciato alla élite sionista il compito di completare la colonizzazione della Palestina in nome dell’Occidente. È possibile ricreare le condizioni che esistevano sotto il dominio ottomano? Pappé ci crede, ma a mio avviso il suo è un pascaliano credo quia absurdum, ove si tenga conto, non solo dell’odio fra israeliani e palestinesi, ma anche di quello fra sunniti e sciiti, cristiani e musulmani libanesi, curdi e siriani ecc. ecc. Ciò posto, ci sarebbe da discutere sulla visione “imperiale” di Pappé che, nella misura in cui dà per scontata la “fine dello stato-nazione” (un mito della sinistra globale che resiste a ogni smentita fattuale) richiama, pur senza citarla, quella di Antonio Negri che ho criticato in più occasioni (7); non avendone qui lo spazio, preferisco passare ai soggetti politici che, secondo Pappé, dovrebbero metterla in atto.
Partiamo dai palestinesi. Costoro, scrive Pappé, sono i primi a non voler più sentire parlare della soluzione dei due Stati, che definisce “un cadavere in decomposizione”. Quanto ad Hamas, è un problema che Pappé ritiene superabile, a condizione che si smetta di considerarlo un “residuo” integralista religioso, e si riconosca che si tratta d’un fenomeno moderno che si è affermato grazie alla incapacità delle organizzazioni laiche e di sinistra di mantenere le loro promesse. Le giovani generazioni palestinesi (mi pare che Pappé si riferisca soprattutto all’intellighenzia della diaspora, ma su questo tornerò più avanti) sarebbero a suo avviso in grado di integrarlo in un progetto di costruzione di un unico Stato con pari diritti individuali per tutti, tessendo rapporti con gli altri movimenti decoloniali del mondo e superando i limiti delle vecchie organizzazioni di sinistra. In merito a quest’ultimo punto, evoca le forme decentrate di mobilitazione popolare sul tipo delle Primavere Arabe (anche se ammette che, in assenza di forme di organizzazione politica più strutturate, si rischia di non andare da nessuna parte).
Discorso analogo per i giovani ebrei americani (la sottolineatura è cruciale, nella misura in cui Pappé insiste sul fatto che gli Stati Uniti ospitano la più grande popolazione ebraica dopo Israele): dopo il genocidio di Gaza costoro partecipano sempre più attivamente al movimento di solidarietà nei confronti della Palestina, ma soprattutto sono alla ricerca di nuovi modi di definire il giudaismo senza farlo dipendere dal sionismo e riscoprono tradizioni che li possono aiutare a compiere tale operazione (vedi quanto detto sopra sul conflitto fra sionismo ed ebraismo della diaspora).
Mi avvio alla conclusione descrivendo il programma sul quale, secondo Pappé, queste componenti giovanili potrebbero convergere. In estrema sintesi si tratta di: 1) rivendicare il diritto al ritorno in Palestina dei sei milioni di palestinesi espulsi dal Paese (sebbene Israele sostenga che non ci sono spazi per accoglierli, la verità, scrive Pappé, è che esistono ampie zone disabitate) 2) i profughi dovrebbero tornare in una Palestina decolonizzata e non in un Israele riformato, cioè in uno Stato Unico con pari diritti per tutti, anche se ciò vorrebbe dire sconvolgere l'equilibrio demografico, e quindi desionizzare il Paese, che i sionisti vorrebbero trasformare in uno Stato etnico; 3) essendo inconcepibile che ciò avvenga “buttando a mare” gli ebrei, l’obiettivo è imitare il modello del Sudafrica post apartheid: riconoscimento dei crimini commessi da parte dei colonizzatori, perdono e rinuncia alla vendetta in cambio di giustizia da parte delle vittime.
Inutile sottolineare il carattere utopistico di tale visione. Vediamo invece i soggetti ai quali Pappé vorrebbe affidare l’attuazione del programma. Dopo una severa critica delle sinistre tradizionali e del loro appiattimento sulle posizioni del centro liberale, Pappé scommette su una ridefinizione della politica che, partendo dalle esperienze di movimenti spontanei come Occupy Wall Street e Primavere Arabe, si impegni a costruire partiti di tipo nuovo in Occidente, e sfrutti le opportunità create dalla ridefinizione dei rapporti di forza internazionali a favore del Sud globale, Cina compresa, “malgrado i suoi problemi in fatto di rispetto dei diritti umani”. Detto che quest'ultima battuta conferma che anche gli esponenti più intelligenti della sinistra euroatlantica non riescono a sbarazzarsi completamente dei propri pregiudizi occidentalocentrici, il nodo cruciale è, a mio avviso, il fatto che Pappé situa di fatto il suo immaginario quartier generale rivoluzionario nei campus americani, affida cioè alla diaspora degli intellettuali palestinesi e all'intellighenzia giovanile ebraica il compito di contaminare l’opinione pubblica d’oltreoceano con i valori dell'ideologia postcoloniale e decoloniale. Una visione “culturalista” che, da un lato, ignora il fatto che l’ideologia in questione, come spiega Kevin Ochieng Okoth in Red Africa (8), viene spesso usata per disinnescare la carica antagonista dei movimenti rivoluzionari del Sud globale, dall’altro lato, dimentica che, se l’imperialismo americano appoggia senza se e senza ma Israele, non è tanto e solo per motivi di affinità ideologica o per compiacere le lobby ebraiche, ma anche e soprattutto perché Israele è una testa di ponte che gli consente di mantenere il controllo sulle immani risorse naturali e finanziarie concentrate in quella regione del mondo.
II. Le acrobazie di Screpanti: ancorché “buono” l’imperialismo cinese resta tale
Una seria discussione sulle categorie di capitalismo e socialismo oggi mi sembra che dovrebbe tenere conto (almeno) dei seguenti precedenti: il dibattito fra Lenin, la“sinistra” bolscevica e Rosa Luxemburg sul concetto di capitalismo di stato; il contributo di Paul Baran e Paul Sweezy sui concetti di capitale monopolistico e di surplus (oltre che sulla distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo nella società capitalista e in quella socialista); le analisi di Fernand Braudel e Karl Polanyi che, sia pure con approcci differenti, smontano l’equazione mercato=capitalismo; il contributo di autori come Giovanni Arrighi, Samir Amin, Immanuel Wallerstein e Gunder Frank sul concetto di sistema mondo e sul rapporto sviluppo/sottosviluppo; il contributo degli afromarxisti (da Fanon a Cedric Robinson, passando per Walter Rodney, Eric Williams e molti altri) sul movimento socialista in Africa; il contributo dei marxisti latino americani (cito solo Mariategui e Alvaro Linera) sulle rivoluzioni latinoamericane. Sulla specificità della questione cinese mi pare poi impossibile non tenere conto di Adam Smith a Pechino di Giovanni Arrighi (9) e della discussione interna al PCC (tuttora in corso) analizzata da Cheng Enfu (10). Restando in ambito italiano, ricordo solo Rita di Leo (11), che ha messo in luce l’assenza di una teoria soddisfacente sulle società di transizione in cui il potere politico socialista convive con settori più o meno estesi di economia capitalista, le analisi di Vladimiro Giacché (12) sull’economia sovietica e di Alberto Gabriele sull’economia cinese e sulla convivenza di diversi modi di produzione nel sistema economico mondiale (13).
Per Gabriele i modi di produzione sono molti e possono convivere in rapporti di simbiosi e/o conflitto reciproco. Viceversa Ernesto Screpanti (nel cui articolo, per inciso, non ho trovato quasi traccia dei dibattiti teorici di cui sopra) sembra che, quando si parla di modi di produzione, non riesca a contare oltre il numero due: o un paese è socialista (con i suoi criteri non ne esiste a tutt’oggi nemmeno uno) o è capitalista (sempre con i suoi criteri tutti i paesi del mondo sono capitalisti). Da giovanissimo ho avuto occasione di militare brevemente in uno dei gruppuscoli bordighisti (alcuni dei quali esistono tuttora, sia pure in guisa catacombale) e di assistere perfino a una conferenza di Bordiga in persona. Certo allora non ero in grado di capire granché di quel che diceva, ma ricordo benissimo che sulla questione della chiara distinzione fra socialismo e capitalismo la pensava come Screpanti, quindi non è un caso se Bordiga e la Dunayevskaya sono le sole fonti “autorevoli” (“e con questo ho detto tutto” come recita Peppino De Filippo in “Totò Peppino e la malafemmina”) citate da Screpanti, il quale però, subito dopo averne evocato i nomi, aggiunge che non è il caso di “scomodarli”: per confondere i reprobi che osano parlare di socialismo cinese basta e avanza lui.
A parte le facezie: come è possibile assumere una posizione del genere (peraltro condivisa da molti militanti dei centri sociali e di certi residuali partitini “comunisti”) nel 2025? La risposta è semplice: basta restare ancorati alle definizioni contenute nell’Antiduhring e nella Critica al programma di Gotha, secondo cui già nella prima fase del comunismo (cioè nel socialismo, a partire da Lenin) vengono aboliti il lavoro salariato e il valore di scambio e ci si avvia “alla realizzazione del regno della libertà”. Detto che Marx ed Engels un secolo e mezzo fa (!) ritenevano che la rivoluzione fosse imminente e che la fase di transizione – la dittatura del proletariato – sarebbe stata breve, è chiaro che questo significa rimuovere completamente tutta la problematica teorica della transizione al socialismo. Su questo punto lo scontro fra Lenin e la “sinistra” bolscevica (ma anche con i critici delle sinistre europee, da Bordiga alla stessa Luxemburg) fu durissimo anche prima del varo della NEP (14).
La posta in palio era decisiva, in quanto si trattava di prendere atto che la transizione sarebbe stata lunga e difficile, che l’eliminazione delle dinamiche di tipo capitalistico (ma non del mercato, vedi sopra il riferimento a Braudel e Polanyi) avrebbero richiesto non meno tempo, che sarebbero rimaste differenze di classe (e quindi lotta di classe, anche all’interno dello stesso partito). Su questo Screpanti svicola perché mi pare chiaro che, per lui, l’ultimo Lenin è indigesto, nella misura in cui pone una chiara distinzione fra capitalismo di stato in regime socialista e capitalismo di stato in regime capitalista (mentre per Screpanti il capitalismo, di stato o privato che sia, sempre e solo capitalismo resta).
Ma Screpanti non si accontenta di contestare il carattere socialista del sistema cinese, vorrebbe anche dimostrare che gli straordinari risultati conseguiti sul piano socioeconomico (lotta alla povertà assoluta, miglioramento delle condizioni di vita e dei livelli di benessere di contadini e lavoratori urbani, servizi sociali) sono frutto di mistificazioni statistiche, per cui ingaggia una guerra di cifre contro i dati “ufficiali” forniti dal governo cinese e da una serie di economisti e agenzie internazionali. Detto che le cifre e il modo in cui vengono interpretate e usate da economisti che vogliono dimostrare tesi opposte sono un terreno scivoloso, apro un inciso sull’attendibilità delle fonti. Nel già citato libro di Cheng Enfu si spiega come il dibattito fra economisti cinesi (tanto per smentire la tesi dell’assenza di libertà di espressione) è pubblico e feroce fra una destra neoliberista, una sinistra neomaoista e un centro che difende la linea maggioritaria del PCC guidato da Xi Jinping. Quindi andrebbe verificato a quale di queste correnti appartengono gli autori cinesi citati da Screpanti (alcuni dei quali insegnano negli Usa, per cui mi permetto di considerarli sospetti).
Dopodiché mi ha colpito vedere come Screpanti, dopo avere citato un autore che attribuisce il 40% del PIL alle imprese pubbliche, ne citi un altro che riduce la percentuale al 25% , sostenendo che l’ultima cifra è più “realistica” (in base a quale criterio: “scientifico” o ideologico?). Aggiungo che una serie di dati con i quali cerca di dimostrare che la Cina è tuttora indietro rispetto ai Paesi occidentali più avanzati gli si ritorcono conto perché, anche se le sue fonti fossero attendibili (il che resta da dimostrare), il fatto che la Cina, che fino agli anni Settanta era mostruosamente più arretrata dei Paesi in questione, li abbia quasi raggiunti dimostra che si è sviluppata ritmi enormemente superiori ai loro.
Sulle questioni della riabilitazione del confucianesimo e dei criteri meritocratici di selezione dei vertici del PCC (nonché del confronto fra meritocrazia cinese e “democrazia” occidentale”), temi che inquietano Screpanti, rinvio a quanto scritto nel post precedente a proposito del libro di Arlacchi, e al libro di Daniel Bell (15). Passo invece a due chicche contenute nell’articolo del nostro.
Prima chicca, Screpanti scrive che trova agghiacciante la frase “uso del capitalismo”. Ne ha ovviamente tutto il diritto ma perché, mi chiedo, non si misura con un peso massimo come Giovanni Arrighi, che è stata la prima e più autorevole voce a usare questa espressione in campo marxista? Perché preferisce assimilare tutte le tesi che non gli aggradano all’utopia fantapolitica del romanziere ottocentesco americano Edward Bellamy, il quale descriveva una società immaginaria in cui tutta l’industria è statizzata e i lavoratori “sono organizzati in una struttura gerarchica denominata esercito industriale” . Questa visione sarebbe equivalente a quella di Arrighi e degli altri autori che definiscono socialista la Cina? No comment. Mi viene in mente uno spot pubblicitario in cui un adulto sfida un bimbo di tre anni in un gioco in cui quest’ultimo non può palesemente competere, mentre un commentatore invisibile chiede “ti piace vincere facile?” A Screpanti piace vincere facile per cui se la prende con Bellamy (che è pure morto da più di un secolo) piuttosto che con Arrighi (che è morto anche lui, ma evidentemente gli fa ancora paura).
Seconda chicca (la più gustosa). Screpanti ammette: che la Cina non ha mire espansioniste di tipo militare; che investe massicciamente nel Sud globale, specialmente in Africa e in America Latina, fornendo ai paesi in via di sviluppo aiuti sostanziosi al decollo industriale e ai processi di modernizzazione, costruendo strade, ferrovie, porti, aeroporti, scuole, ospedali, dighe e intere città nuove, che i suoi prestiti sono a lungo termine e hanno tassi di interesse assai più bassi di quelli occidentali. Poi scrive “mi sembra credibile l'opinione di chi sostiene che questo tipo di imperialismo (!!??) è gradito ai popoli che lo accolgono” (sic). Ma la Cina è comunque imperialista perché ”estrae plusvalore” e ricchezza da altri paesi. Fermi tutti: Screpanti ci ha appena spiegato che a definire l’imperialismo non sono gli “aiuti” subordinati all’adozione di precise politiche sociali ed economiche, finalizzati a instaurare un’economia del debito che impedisce ai paesi del Sud globale di svilupparsi autonomamente; non sono gli interventi militari per promuovere “rivoluzioni colorate”; non è la logica coloniale neocoloniale che fonda lo sviluppo delle metropoli sul sottosviluppo delle periferie, non è insomma il fenomeno analizzato da Lenin e poi approfondito da Baran, Sweezy e decine di altri autori marxisti. È invece, o perlomeno è anche, il fatto che la Cina, invece di impedire che i Paesi del Sud globale si sviluppino (e quindi diventino potenziali concorrenti!) ne promuove sì lo sviluppo, ma nel contempo cerca a sua volta di trarre vantaggio economico dai rapporti reciproci.
No comment. Anzi no, un commentino finale ci vuole ma sarò sintetico. Screpanti non sarà un gigante del marxismo nostrano (del resto se non è che ce ne siano molti), ma è rappresentativo del crampo mentale che affligge gran parte del marxismo occidentale, cioè l’assoluta incapacità di prendere atto che l’asse della lotta anticapitalista e antimperialista si è da tempo spostato dalle decrepite metropoli occidentali al Sud del mondo e che questa dislocazione ha determinato, sta determinando e determinerà sempre più un radicale aggiornamento della nostra cassetta degli attrezzi teorici.
Note
(1) Cfr. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019.
(2) I. Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi, Roma 2025.
(3) E. Screpanti, “Un capitalismo con caratteri cinesi”, https://transform-italia.it/un-capitalismo-con-caratteristiche-cinesi/?pdf=42007
(4) Cfr. La pulizia etnica della Palestina (2008); La prigione più grande del mondo (2022); Brevissima storia del conflitto fra Israele e Palestina (2024).
(5) Cfr. C. Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico, Einaudi, Torino 2024.
(6) Ivi.
(7) Cfr M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001. Ho polemizzato con le tesi di questo testo ormai celeberrimo in Utopie letali (Jaka Book 2013), La variante populista (DeriveApprodi 2016) e Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi 2019).
(8) Cfr. Kevin Ochieng Okoth, Red Africa, Meltemi 2024.
(9) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano2007.
(10) Cheng Enfu, Dialettica dell’economia cinese, Marx 21, Bari 2024.
(11) R. di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011
(12) V. Giacché (a cura di), L’economia di Lenin, Il Saggiatore, Milano 2017.
(13) A. Gabriele, L’economia cinese contemporanea, Diarkos, Trieste 2024.
(14) Cfr. V. Giacché, op. cit.
(15) Cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019.
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