Lettori fissi

giovedì 24 marzo 2022

MOMENTO POPULISTA  E RIVOLUZIONE PASSIVA




In varie occasioni ho definito il populismo come la forma che la lotta di classe ha assunto da quando la controrivoluzione liberista ha sconfitto le classi lavoratrici, annientandone l’identità socioculturale e inibendole la possibilità di rappresentare politicamente i propri interessi. Questa definizione è stata erroneamente interpretata come una legittimazione “ideologica” del populismo, benché chi scrive abbia sempre sostenuto che il populismo non è né è mai stato un’ideologia; sia perché non esiste un corpus teorico e ideologico condiviso dai movimenti populisti, sia perché gli sforzi di definire elementi comuni a tutti i movimenti populisti del passato e del presente non hanno prodotto altro che degli “idealtipi” inadeguati a cogliere la complessità del fenomeno. Dire che il populismo è la forma in cui oggi si manifesta la lotta di classe non implica attribuirgli connotati positivi. Chi ritiene che il conflitto di classe abbia sempre e comunque valenza progressiva dimentica che le idee dominanti sono sempre quelle delle classi dominanti, ed è per questo che, in assenza di un progetto politico controegemonico, ogni moto sovversivo tende a risolversi in una “rivoluzione passiva” che cavalca le lotte delle classi subalterne per rivolgerle contro i loro stessi interessi. Dal momento però che non penso neppure che il populismo sia di per sé un fenomeno regressivo, necessariamente destinato ad assumere connotati “di destra”, le mie tesi sono state impropriamente associate a quelle del filosofo argentino Ernesto Laclau. 


Laclau sostiene che la diffidenza e il disprezzo nei confronti del populismo è un riflesso – apparentemente anacronistico - della paura delle oligarchie tardo ottocentesche nei confronti dell’irruzione delle masse sulla scena del conflitto politico: paura della democrazia insomma. Anacronismo apparente, dal momento che la paura in questione torna ad essere attuale nel momento in cui, dopo una lunga fase di neutralizzazione dei conflitti sociali da parte del sistema liberal democratico, quest’ultimo attraversa una crisi radicale che crea le condizioni di un “momento populista”. Di momento populista, sostiene Laclau, si può parlare allorché un sistema egemonico non riesce più a rispondere in modo differenziale alle domande del corpo sociale. In tale situazione tende a instaurarsi una “catena equivalenziale” fra le domande inevase: ci troviamo cioè di fronte, per dirla con le sue parole, a un “accumulo di domande inascoltate e una crescente incapacità del sistema istituzionale di assorbirle in modo differenziale (ognuna isolata dalle altre) [per cui] tra di loro si stabilirà una relazione di equivalenza”. Tale relazione si rafforza a mano a mano che cresce la distanza fra popolo e istituzioni, fino a produrre una dicotomizzazione fra un noi e un loro, a tracciare un confine amico/nemico fra popolo e potere. Se l’equivalenza si estende oltre un limite critico, “diventa difficile determinare quale sia l’istanza cui andrebbero indirizzate”. Emergono così uno o più “nemici” sui quali tende a concentrarsi la rabbia, creando le condizioni per l’unificazione politica dei soggetti che avanzano le rivendicazioni. 


Ernesto Laclau



Le differenze con la visione marxista sono evidenti: mentre quest’ultima associa i conflitti sociali e la possibilità di unificarli alle contraddizioni socioeconomiche generate dai rapporti di produzione, per Laclau le rivendicazioni sono eterogenee, condividono solo l’opposizione a un regime oligarchico (élite, casta, ecc.) vissuto come “cattivo”, per cui l’unificazione si dà sul piano simbolico-discorsivo. Del resto, argomenta Laclau, la società capitalista non genera solo l’antagonismo fra capitale e lavoro, ma una miriade di punti di rottura, la maggior parte dei quali (crisi ecologiche, conflitti generazionali, di genere, etnici, religiosi ecc.) esterni al mondo produttivo, perciò non esiste alcuna necessità che indichi negli operai i soggetti privilegiati del conflitto sociale: tutto ciò che sappiamo è che questi ultimi saranno “gli esterni al sistema, gli emarginati, i derelitti”. Il riferimento ai derelitti introduce un tema “morale” estraneo all’approccio strutturalista di Laclau, quasi costui volesse salvare in questo modo la sua originaria anima marxista: da un lato rinnega la categoria di classe sociale, ma dall’altro evoca un “popolo” sì interclassista ma dai connotati plebei. Non meno eclettica la sua rilettura del concetto gramsciano di egemonia: Laclau rimpiazza l’egemonia di classe con la capacità di una particolare rivendicazione di incarnare simbolicamente l’intera catena equivalenziale. È vero che gli obiettivi di un gruppo in lotta per il potere possono essere realizzati solo mobilitando forze più ampie, costruendo un blocco sociale, ma ciò, sostiene Laclau, non ha a che fare con la composizione di classe, bensì con la ”performatività” di un discorso capace di integrare il contenuto simbolico di tutti i discorsi della catena equivalenziale. Ecco perché parla di un Gramsci che avrebbe “anticipato la possibilità di comprendere le identità collettive secondo modalità sconosciute al marxismo”. Ho smontato questa tesi in un capitolo sui Quaderni dal carcere di un mio recente libro, al quale rinvio ; qui mi limito a ribadire come la peculiare concezione di “autonomia del politico” adottata da Laclau – diversa da quella di Mario Tronti e altri  autori - , veda nel politico il prodotto di forze esterne alla sfera dei rapporti socioeconomici.

 

Sono dunque chiare le ragioni per cui sostiene che il linguaggio populista deve restare impreciso e fluttuante: non a causa di un deficit di chiarezza ideologica, ma in quanto l’unificazione populista avviene su un terreno sociale eterogeneo. Parole come ordine, giustizia, uguaglianza non indicano contenuti univoci e positivi, ma sono “significanti vuoti” che evocano cose diverse per soggetti diversi, ancorché partecipi della stessa catena equivalenziale. Ciò detto, per Laclau il linguaggio è un fattore fondamentale ma non sufficiente per la costruzione del popolo: per realizzare tale obiettivo occorrono processi di identificazione che si sviluppino sia in orizzontale (identificazione reciproca fra i membri del gruppo) sia in verticale (identificazione fra i membri del gruppo e il leader). L’insorgenza populista vince solo se si dota di una dimensione verticale che può assumere l’aspetto dell’organizzazione o quello dell’identificazione con il leader (o entrambe). Prima di entrare nel merito del peso che questa concezione ipertrofica del ruolo del linguaggio e del leader ha avuto nel causare il fallimento dei movimenti populisti dopo un’effimera stagione di successi, è il caso di introdurre un altro elemento di criticità che emerge chiaramente dalle tesi di Chantal Mouffe, autrice che non ha solo condiviso il percorso teorico di Laclau ma ne ha raccolto l’eredità. Mentre Laclau definisce il popolo come l’insieme degli ultimi, degli esclusi, degli sconfitti, la Mouffe non associa le rivendicazioni che convergono nella “catena equivalenziale” a soggetti sociologicamente definiti: rescindendo i legami fra discorso politico e società concreta, costei definisce il sociale “come spazio discorsivo, prodotto di articolazioni politiche puramente contingenti, che non hanno nulla di necessario e potrebbero sempre assumere una forma differente”. Di più: gli ultimi sviluppi del suo pensiero, successivi alla morte di Laclau, depongono ogni velleità antisistemica, indicando obiettivi compatibili con la conservazione dei rapporti di produzione capitalistici e del regime liberaldemocratico. L’attuale ordine egemonico, secondo Mouffe, può essere rovesciato senza distruggere le istituzioni liberaldemocratiche, soprattutto dopo che il crollo del sistema socialista ha dimostrato che esso è inadeguato per l’Europa, per cui la sinistra deve riconoscere sia la necessità della democrazia pluralista, sia il fatto che la domanda di democrazia radicale “non implica stabilire un modello completamente distinto che richiederebbe una rottura totale con la democrazia pluralista”, ma deve limitarsi a rivendicare “una radicalizzazione dei principi di libertà e uguaglianza sviluppati in modo insufficiente dalla socialdemocrazia”.


Mettendo a confronto quest’ultima dichiarazione programmatica con la storia recente dei populismi di sinistra, è difficile non trarne la conclusione che tanto i principi teorici che ne hanno inspirato l’azione quanto i tentativi di metterli in pratica, sono falliti. Il momento populista si è dunque esaurito? La risposta non è scontata e, per tentare di sciogliere il nodo, occorre operare una netta distinzione fra il discorso di Laclau e Mouffe in quanto teoria politica nel senso “leninista” del termine, cioè come guida per l’azione, e lo stesso discorso in quanto descrizione empirica di alcune dinamiche attuali del conflitto sociale. Nella seconda parte di questo articolo cercherò di dimostrare che, mentre  il momento populista non si è esaurito, le illusioni di poterne canalizzare l’energia in un progetto di radicalizzazione della democrazia, senza mettere in discussione le strutture socioeconomiche del sistema, sono svanite. 


L’illusione si è dissolta a partire dal continente che ne è stato la culla: le teorie di Laclau sono inspirate dal peronismo argentino, ma il momento populista che si è a più riprese presentato in quel Paese e in altri Paesi latinoamericani a partire dal “giro a la izquierda” che ha visto nascere molti governi post neoliberisti fra la fine dei Novanta e l’inizio del Duemila, ha subito un duro contraccolpo a partire dalla crisi del 2008, è solo in pochi casi - come in Bolivia e in Venezuela - è riuscito a mettre in atto concreti processi di trasformazione sistemica. Significativa, in tal senso, l’evoluzione della Revolucion Ciudadana in Ecuador, che rappresenta un tentativo da manuale di applicare le teorie di Laclau. Dopo una serie di rivolte popolari contro le politiche neoliberiste che avevano avuto come protagonisti prima i contadini di origine indigena poi le classi medie urbane, un gruppo di docenti universitari concepisce a tavolino un progetto di unificazione simbolica di questi movimenti, convincendo Raphael Correa, economista già noto e popolare in quanto aveva svolto l’incarico di ministro in precedenti governi, a presentarsi alle elezioni presidenziali. Leader dotato di grande talento comunicativo, Correa costruisce una macchina elettorale “personale”, che non si lega né alle sinistre, né ai movimenti indigeni, né ai nuovi movimenti urbani, vincendo a sorpresa le elezioni. Salito al potere, realizza una serie di riforme e di politiche economiche di taglio socialdemocratico ma, a mano a mano che la situazione economica peggiora, paga lo scotto di avere puntato tutto sul governo dell’opinione pubblica, senza costruire salde relazioni con i gruppi sociali che ne avevano favorito la vittoria. Così, quando i suoi successori tornano a praticare politiche neoliberiste, nel Paese non esistono forze organizzate in grado di contrastarle efficacemente. 


Raphael Correa




In Europa le teorie di Laclau-Mouffe, ancorché ampiamente note e discusse in ambito accademico, hanno inspirato un solo tentativo sistematico di metterle in pratica, cioè l’esperienza spagnola di Podemos. Podemos nasce nel 2014, aggregando militanti dei movimenti sociali del 2011-2013 e attivisti dei partiti e dei movimenti di sinistra radicale attorno a un progetto elaborato a tavolino da un gruppo di docenti dell’Università Computense di Madrid, i quali si inspirano appunto alle teorie di Laclau, alla concezione “moltitudinaria” di Antonio Negri e alle rivoluzioni bolivariane in America Latina. La strategia si basa sul ruolo strategico della comunicazione e del linguaggio: la Web Tv che ospita La Tuerka, un talk show condotto da Pablo Iglesias, fustiga la corruzione e le politiche antipopolari delle oligarchie al potere e agisce da collante per le rivendicazioni di un ampio spettro di gruppi sociali (il soggetto di riferimento non sono le classi ma i “cittadini”), oltre a costruire la figura del leader. I fondatori si propongono di assemblare nel più breve tempo possibile una macchina da guerra elettorale in grado di conquistare la maggioranza (usando una definizione scontata, si potrebbe dire che aspirano a essere “maggioranza di governo e di opposizione”). La strategia frutta una rapida crescita dei consensi elettorali che tocca l’acme alle politiche del 2016, quando Podemos ottiene poco più del 20%. Dopodiché inizia un riflusso che tocca il fondo in occasione delle recenti elezioni amministrative di Madrid (il cui esito disastroso ha indotto Iglesias a rassegnare le dimissioni).


Facciamo un  passo indietro. A mano a mano che il progetto di conquistare la maggioranza si rivela irrealistico, Podemos si rassegna alla necessità di stringere alleanze, ma si divide fra la maggioranza di Iglesias, che sceglie la coalizione con Izquierda Unida, e la destra di Inigo Errejon favorevole all’alleanza con i socialisti del Psoe. Dal 2016 Iglesias parla di fine del ciclo populista e della necessità di restituire al partito una chiara identità di sinistra (nei primi anni di vita il movimento aveva rivendicato un’identità né di sinistra né di destra, per strappare voti all’intero arco delle forze politiche tradizionali). Da quel momento, Podemos imbocca un percorso che lo porterà a distinguersi sempre meno dalle sinistre radicali europee. Rispetto alle quali, del resto, presenta la stessa composizione sociale, sia della base militante che dell’elettorato: rappresenta cioè le esigenze e ai valori (vedi il cambiamento del nome in Unidas Podemos, in omaggio all’ideologia politicamente corretta) dei ceti medi riflessivi, per cui è votato soprattutto da studenti e lavoratori “creativi”, mentre, pur raccogliendo consensi anche fra gli operai e le classi medio basse, su questo terreno resta nettamente indietro rispetto al Psoe. 



Pablo Iglesias



Paradossalmente, questa “svolta a sinistra” non si traduce nello sforzo di costruire una forza di opposizione dotata di radicamento sociale, capace di affondare le radici nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei territori, né mette in discussione l’orientamento “comunicazionista” e “governista” del movimento – orientamento che gli consente finalmente di approdare al governo ma in posizione subordinata rispetto al Psoe, del quale è costretto a condividere tanto le politiche antipopolari della Ue quanto la linea aggressiva e imperialistica della Nato (questa scelta, che causa l’abbandono del movimento da parte di molti militanti provenienti dalle fila della sinistra anticapitalista, viene giustificata con la necessità di fare fronte unito contro la minaccia delle destre). 


In questo contesto suona beffardo l’esito elettorale di Madrid, dove il partito di Errejon, uscito da destra da Podemos e rimasto fedele al rifiuto di collocarsi lungo l’asse oppositivo destra/sinistra e alla originaria visione “cittadinista” del movimento, ottiene il triplo dei voti di Podemos. Se tutto il partito avesse seguito questa linea sarebbe arrivato assai prima al governo e si sarebbe potuto giocare rapporti di forza più favorevoli con il Psoe? Il collasso dell’M5S in Italia ci fa capire che tale ipotesi è illusoria. Il paragone non è arbitrario, perché, al di là delle differenze ideologiche e del fatto che L’M5S non si è mai inspirato alle teorie di Laclau, senza dimenticare che la sua cultura, rispetto a quella di Podemos, non è solo anticasta ma radicalmente impolitica – se non antipolitica – la composizione sociale dei due movimenti e dei rispettivi elettorati sono in larga misura sovrapponibili, lo stesso dicasi della strategia comunicazionista, del ruolo esorbitante attribuito alla figura del leader, della scelta di costruire un partito “leggero” privo di strutture articolate sul territorio, nonché dell’ambizione di agire come forza al tempo stesso di governo e di opposizione. Inoltre l’M5S, al pari dell’ala destra di Podemos, non si è mai caratterizzato come una forza antisistema, ha sempre rivendicato come proprio obiettivo strategico la democratizzazione del sistema esistente, non il suo abbattimento. Non è dunque un caso se l’approdo finale è stato lo stesso: andare al governo in posizione subordinata con due “sinistre” come il PD e il Psoe, europeiste e atlantiste in tema di politica estera e neoliberiste in tema di politica economica.


Né hanno avuto un destino molto diverso le sinistre populiste francesi, americane, inglesi e tedesche (vedi l’arretramento della Linke alle ultime elezioni), per tacere della catastrofica avventura di Syriza in Grecia. Dobbiamo quindi recitare il de profundis per il populismo di sinistra? I populismi di sinistra (non diversamente da quelli di destra) hanno funzionato come contenitori della rabbia degli strati sociali più esposti ai disastri provocati da decenni di globalizzazione neoliberista ma, non avendo saputo né potuto offrire concrete e credibili alternative politiche all’esistente, sembrano destinati a sparire o a venire integrati nel sistema, a conclusione di un processo di mutazione e adattamento. Ciò significa che il momento populista è finito? 


Per rispondere occorre ripartire da Laclau e dalla distinzione fra la sua teoria come guida per l’azione e la sua analisi empirica del fenomeno populista: se si guarda alla prima la risposta è sì, se si considera la seconda è no. No, perché un fenomeno come il movimento NoVax risponde pienamente ai requisiti dell’analisi empirica di cui sopra: catene equivalenziali in cui convergono rivendicazioni eterogenee sotto l’aspetto “ideologico” (estrema destra vs estrema sinistra), socioeconomico (piccoli e medi imprenditori che temono l’immiserimento vs frange sindacali che temono l’uso del Green Pass come strumento di discriminazione sui luoghi di lavoro), psicologico (paura della potenziale dannosità del vaccino vs insofferenza per le limitazioni alla libertà individuale) e l’elenco potrebbe proseguire. Altrettanto eterogeneo il ventaglio dei nemici su cui si indirizza la rabbia: i media che fanno terrorismo e diffondono false notizie, Big Pharma che sfrutta la pandemia per accumulare sovraprofitti, i governi e i partiti politici che li sostengono e sfruttano la situazione per instaurare uno stato di emergenza permanente e ridurre i diritti individuali e collettivi. Tutti questi motivi di insofferenza hanno fondamento reale, ciò che manca è invece un soggetto politico che interpreti razionalmente le diverse ragioni di conflitto, le ordini gerarchicamente e le imputi a una logica sistemica, invece di affogarle in una melassa complottista in cui tutto si confonde. Manca cioè un reale momento di verticalizzazione che può essere solo politico-organizzativo e non “affettivo”, discorsivo/simbolico. 


Quando Lenin lancia la parola d’ordine pace e terra fa un’operazione “populista”, identifica un valore simbolico in grado di unificare, in un concreto contesto storico, forze sociali eterogenee, ma l’operazione riesce solo perché può contare su macchina politica organizzata che mira più in alto. Certo: c’è autonomia del politico e c’è egemonia, ma senza perdere di vista la natura di classe di tale egemonia, l’interesse di classe che tale autonomia si propone di servire . Viceversa l’egemonia “discorsiva” che emerge dal fenomeno di cui ci stiamo occupando è una generica rivendicazione di “libertà” (un significante vuoto se mai ve n’è uno!), esalta cioè la stessa ideologia su cui si fonda il potere politico, economico e culturale contro cui ci si ribella. È così che funzionano le rivoluzioni passive e, in assenza di un  consapevole e organizzato progetto politico di natura antisistemica, le dinamiche conflittuali che l’analisi empirica di Laclau descrive tanto accuratamente possono produrre solo rivoluzioni passive.                    

  

 


domenica 20 marzo 2022


      SULL'UNITA' DEI COMUNISTI IN TEMPO DI GUERRA

Intervento di Carlo Formenti all'evento di sabato 19 marzo sull'unità dei comunisti organizzato dall'Associazione Cumpanis 

domenica 6 marzo 2022

Crisi, pandemia, guerra. Verso la mobilitazione totale


Questo testo è la prima stesura di un paragrafo della Prima Parte di un corposo lavoro (due volumi) a cui sto lavorando (la Prima Parte sulla crisi del neoliberalismo, la Seconda sui socialismi reali di ieri e di oggi, la Terza sulle prospettive del marxismo rivoluzionario in Occidente). La Prima Parte è stata appena completata (sempre in prima stesura) mentre la Seconda e la Terza richiederanno mesi di lavoro, per cui l'uscita del libro è prevista per i primi mesi del 2023. Pubblicare una parte (sia pure limitata) di un libro ancora in gestazione e con tanto anticipo sulla pubblicazione può apparire una scelta bizzarra, ma mi ha indotto a farlo il precipitare di eventi che ci avvicinano pericolosamente allo scoppio di una Terza guerra mondiale. Questo testo è stato scritto in pochi giorni come una sorta di interludio/appendice alla Prima Parte, con lo scopo di mettere alcune riflessioni teoriche a confronto con l'attualità storica. Si presta dunque ad argomentare il mio punto di vista sulla situazione geopolitica molto meglio dei brevi interventi con cui cerco di contrastare le narrazioni del pensiero unico neoliberale sul mio profilo Facebook. Il lettore troverà una serie di rinvii interni ad altre parti del libro, alcune già scritte altre da scrivere, che non ho ritenuto di eliminare, anche perché non credo possano disturbare la fruizione del testo. Diversamente dal solito, non ho corredato il post con immagini: la valanga di immagini smaccatamente propagandistiche cui siamo sottoposti in questi giorni mi dà la nausea, per cui ho evitato di alimentare questo disgustoso tsunami.   






Il 2007 passerà alla storia come il punto di svolta che ha sancito la fine della guerra di classe fondata sulla globalizzazione e la sua prosecuzione sotto forma di mobilitazione totale. Come ricordato poco sopra (riferimento al paragrafo precedente), inizialmente i governi neoliberali hanno reagito alla crisi limitandosi a proseguire sulla via tracciata nei decenni precedenti: avanti tutta con i tagli, le privatizzazioni, le ristrutturazioni tecnologiche, la finanziarizzazione, lo smantellamento della democrazia rappresentativa, ecc. Ma presto è apparso evidente che la misura era colma. La rabbia popolare è esplosa in varie forme in tutto l’Occidente permettendo ai populismi di destra e di sinistra di dilagare: Bernie Sanders e Donald Trump danno l’assalto alle vecchie leadership dei Democratici e dei Repubblicani (Trump ci riesce, arrivando a conquistare la presidenza, mentre Sanders si lascia intrappolare nel ruolo di leader dell’ala sinistra dei Democratici); Jeremy Corbyn, anziano esponente della sinistra laburista, conquista la segreteria del partito già guidato da Tony Blair; a sinistra avanzano Podemos in Spagna, France Insoumise in Francia, gli M5S (che di sinistra non sono ma dalle sinistre ereditano cospicue fette di elettorato) in Italia; a destra avanzano Vox in Spagna, Marine Le Pen in Francia, Salvini e la Meloni in Italia; il referendum inglese sulla Brexit viene vinto dagli antieuropeisti mentre in quello sulle riforme costituzionali proposto da Renzi trionfano i no; la sconfitta di Trump alle elezioni presidenziali del 2020 non viene riconosciuta da metà della popolazione e una folla inferocita dà l’assalto a Capitol Hill. 


A questi allarmanti segnali di perdita di consenso si somma la lentezza con cui l’economia si riprende dalla crisi. Ma soprattutto si somma l’inasprimento del conflitto con la Cina, la cui apertura nei confronti del mercato globale, contrariamente alle aspettative occidentali, non solo non ha provocato la caduta del socialismo e la transizione a un’economia capitalistica, ma ha favorito un formidabile incremento di potenza economica, politica, tecnologica, scientifica e militare, oltre alla capacità di proiettare tale potenza in Africa, Asia e America Latina, minacciando l’egemonia occidentale in queste aree. Il tutto sotto il controllo di uno stato/partito che continua a rivendicare la propria adesione all’ideologia marxista-leninista. Come se non bastasse, nel 2019 esplode l’epidemia del Covid che falcia milioni di vittime in tutto il mondo e, costringendo i governi a contenerne la diffusione ricorrendo a drastici provvedimenti che provocano danni alla produzione e al commercio, ricaccia indietro una timida ripresa che non aveva completamente assorbito la crisi del decennio precedente. A questo punto l’Occidente cambia seccamente strategia. Usa e Ue contrattaccano su quattro fronti: massiccio rilancio della spesa e degli investimenti pubblici, stop alla globalizzazione,  guerra al populismo, rinsaldamento del blocco atlantico e guerra fredda contro Cina e Russia. L’obiettivo è spegnere le tensioni sociali attenuando le pressioni su salari, occupazione e welfare, riducendo il consenso politico nei confronti dei movimenti populisti ed evocando un nemico esterno contro cui convogliare la rabbia e la frustrazione popolari. 


La parola d’ordine America First lanciata da Trump contempla, fra i vari aspetti, il tentativo di incentivare il rientro negli Stati Uniti di parte degli investimenti esteri delle multinazionali (e dei relativi posti di lavoro), tentativo che viene proseguito dal successore democratico, che ne accentua il significato di “disaccoppiamento” dall’economia cinese (1).  Si assiste così a una paradossale inversione di ruoli: da un lato Xi Jinping celebra dalla tribuna di Davos le virtù di un mercato mondiale aperto, mentre l’ambiziosissimo progetto della Nuova Via della Seta e i massicci investimenti cinesi in Africa e in America Latina prospettano una globalizzazione alternativa (2); dall’altro lato, negli Stati Uniti e in Europa cresce l’irritazione per la capacità di cinese di rovesciare a proprio favore – con una sorta di mossa di Judo – una mondializzazione economica che nei piani occidentali avrebbe dovuto favorire, dopo il crollo dell’Urss, la colonizzazione capitalistica del mondo intero (Cina compresa). Nasce così un duplice sforzo teso, da un lato, a mettere in atto un processo di disentanglement fra le aree di influenza occidentale e cinese, dall’altro lato, a scatenare una feroce competizione (con ogni mezzo, incluse operazioni di regime change e guerre locali) laddove le rispettive influenze interferiscono e si sovrappongono. La guerra fra Russia e Ucraina, in atto mentre scrivo, segna una formidabile accelerazione del processo: le sanzioni contro la Russia sono destinate  a provocare una segmentazione dei mercati finanziari a livello mondiale e una probabile accelerazione del progetto cinese di costruire circuiti alternativi al dollaro, basati sul renminbi. 


La frammentazione dello scenario geopolitico procede di pari passo con la segmentazione dei mercati. La strategia americana per fronteggiare la perdita di egemonia mondiale appare sempre più orientata a scatenare una guerra preventiva contro la Cina in quanto possibile alternativa egemonica (3). Sotto la presidenza Trump l’atteggiamento americano era orientato ad alzare il livello di scontro con la Cina (restando tuttavia sul piano di una guerra fredda giocata a colpi di sanzioni economiche – vedi la messa al bando del colosso high tech Huawei -, e di campagne propagandistiche per alimentare l’isteria anticinese) e a rompere il fronte fra Cina e Russia, ammorbidendo le tensioni accumulatesi nei confronti di quest’ultima. Con Biden lo scenario muta radicalmente: ferma restando la strategia di accerchiamento nei confronti della Cina sul piano economico, politico e militare, viene impressa una poderosa accelerazione dell’avanzata NATO nei territori dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Unione Sovietica, alimentando la tensione in Ucraina fino a provocare l’inevitabile intervento russo. Il progetto è provocare la caduta di Putin e instaurare a Mosca un regime “amico” qual era quello di Eltsin, completando la integrazione/colonizzazione dell’Est Europa da parte del blocco occidentale. Un piano azzardato, nella misura in cui rischia, da un lato, di innescare una spirale fuori controllo che provocherebbe la Terza guerra mondiale (di fatto già in atto, ancorché contenuta in un ambito regionale), dall’altro, se la situazione interna della Russia reggesse, di saldare l’alleanza russo-cinese tanto sul piano economico quanto su quello politico-militare (4), dando vita a un poderoso blocco eurasiatico.


La Ue si è lasciata coinvolgere in questo progetto perdendo qualsiasi residua parvenza di autonomia nei confronti degli Usa. Così è partita una campagna mediatica che alimenta un’isteria russofoba di intensità senza precedenti (non priva di accenti al limite del grottesco ed esplicite venature razziste), una mobilitazione bellicista dell’opinione pubblica che ha fatto piazza pulita di decenni di retorica sul ruolo dell’Unione quale garante di pace, mentre si è presa la decisione di alimentare la guerra (5) inviando armi letali in Ucraina, e si sono adottate contro la Russia sanzioni che minacciano di provocare effetti devastanti sull’economia di molti Paesi membri (a partire dall’Italia). Questa svolta bellicista non si spiega con una sorta di impazzimento collettivo delle élite europee. Il punto è che l’uscita dell’Inghilterra dalla Ue, il perdurare della crisi finanziaria riacutizzata dalla pandemia, i conflitti fra Paesi membri del Nord, del Sud e dell’Est stavano trascinando il progetto europeo verso un punto di implosione. La crisi russo-ucraina rappresenta un’opportunità per cambiare rotta: l’Unione – o meglio la Germania, che esercita al suo interno un’indiscutibile egemonia – sposta l’asse del processo di unificazione dall’economia alla politica, a partire dall’unificazione sul piano militare, e fungendo da braccio armato degli Stati Uniti sul Vecchio Continente, spera cerca di ottenere un sostanzioso bottino di guerra nel caso che il progetto di far crollare il regime russo vada in porto. Anche qui il rischio, nel caso la manovra fallisca, è enorme: in tal caso, i contraccolpi delle sanzioni  sarebbero infatti tremendi, e potrebbero riattivare un conflitto sociale che la mobilitazione totale contro la pandemia e contro il “nemico”, per il momento, sembra in grado di neutralizzare. 


Prima di analizzare come è stata gestita questa doppia mobilitazione, vediamo come si è provveduto a sventare la doppia minaccia del tracollo finanziario e dell’ondata populista/sovranista. La strategia di disentanglement economico e la frammentazione del mondo in aree di influenza politico militare in conflitto reciproco sopra descritto delinea uno scenario geopolitico che somiglia a quello dell’epoca delle due guerre mondiali, dall’inizio del 900 al 1945. La storia non si ripete, ma certe configurazioni possono ripresentarsi ciclicamente, a conferma di quanto sostenevo nel Primo Capitolo in merito alla cecità di un paradigma “progressista” che descrive la storia come un processo lineare e irreversibile verso livelli sempre più elevati di benessere e civiltà. La storia è irreversibile, ma non procede in base a una necessità immanente che ne determini la direzione (6). Analoghe considerazioni possono essere fatte in merito alle tesi di quei globalisti “di sinistra” che liquidavano come demenziali le rivendicazioni “sovraniste” considerandole reazionarie per definizione (perché contrarie a una “direzione” del processo storico che, come appena visto, si è rivelata 

immaginaria), ma anche perché, si diceva, lo stato nazione era “superato”, per cui l’idea di affidargli il compito di promuovere una svolta neo keynesiana era illusoria. Dopodiché la svolta neo keynesiana è puntualmente arrivata. Ovviamente non nel senso di un ritorno al compromesso capitale lavoro del trentennio dorato, ma sotto forma di colossali piani di investimento strutturale, di keynesismo di guerra (con il sistema militare-industriale sempre più fiorente grazie alla guerra fredda e meno fredda), di riconversione produttiva all’insegna del digitale e della green economy, ecc. Il tutto nel segno del “ritorno dello Stato” (7). 


La controffensiva delle élite neoliberali è stata tuttavia ancora più efficace sul piano politico, riuscendo a sbaragliare la minaccia populista nel giro di pochissimi anni. La minaccia in questione era inoffensiva se riferita ai populismi di destra (il caso Trump merita un discorso a parte che affronterò più avanti). In Spagna, Francia e Italia  si trattava infatti di partiti e movimenti allineati con i principi, i valori e gli obiettivi politici neoliberali, che cercavano semplicemente di ottenere più attenzione agli interessi del capitalismo delle piccole-medie imprese e di certi settori di classe media (commercianti, professionisti, ecc.) agitando un sovranismo “di facciata” (fondato soprattutto sul rigetto popolare nei confronti del fenomeno migratorio) ben consapevoli che la loro stessa base elettorale non è a favore dell’uscita dall’Europa. Quanto ai populismi di sinistra me ne occuperò estesamente nella Terza Parte; qui mi limito ad affermare che la loro debolezza ideologica, organizzativa e programmatica è apparsa da subito evidente. Hanno ottenuto effimeri successi elettorali puntando tutto sulla comunicazione (mitizzando il potere di mobilitazione dei nuovi media)  e sulla scelta di leader carismatici, conducendo campagne rivolte a canalizzare la rabbia delle classi proletarie e delle classi medie impoverite su falsi obiettivi (punire la disonestà e la corruzione della casta politica, promuovere il “merito” in ogni ambito professionale, istituzionale e politico, andare al governo il più presto possibile senza avere idee in merito a cosa farsene). Si sono lasciati ingabbiare in alleanze “antifasciste” con i partiti  neoliberali, scambiando i populismi di destra per novelli Hitler e Mussolini. Scendendo nello specifico dei singoli Paesi: Corbyn e Sanders hanno pagato il fatto di essere rimasti incistati, rispettivamente, nel Partito Democratico e nel Labour, finendo stritolati da quelle poderose macchine da guerra; Podemos non è riuscita a radicarsi nei luoghi di lavoro e nei territori, scommettendo esclusivamente su campagne di opinione pubblica, finché dopo avere toccato un picco di consensi elettorali, non appena è iniziata una inversione di tendenza, è finita soffocata dall’abbraccio dei socialisti in una coalizione di governo che la confina in un ruolo subalterno; l’M5S ha commesso tanti e tali errori e effettuato tali e tante giravolte in un brevissimo arco di tempo (dall’alleanza con la Lega a quella con il PD) da autocondannarsi all’estinzione. 


Più complesso, come accennato poco sopra, il discorso su Donald Trump (8). A prescindere dalla peculiarità del personaggio e dal modo in cui è inopinatamente riuscito ad assumere il controllo della macchina elettorale repubblicana, aspetti che meriterebbero un ragionamento ad hoc, la sua presidenza ha rappresentato un vero e proprio caso di rivoluzione passiva in senso gramsciano, fondata sulla saldatura di un blocco sociale alto-basso: in alto, i settori di borghesia americana (carbone, petrolio, siderurgia, ecc.) più esposti agli effetti della “distruzione creatrice” associata alla crescente potenza del settore high tech (digitale, biotech, ecc.) e all’incombente svolta “green”;  in basso, il proletariato immiserito della rust belt, le aree centrali massacrate dal decentramento produttivo nei Paesi in via di sviluppo (di qui la ricettività nei confronti della propaganda anticinese e anti migrazione, due “nemici” identificati come le cause della disoccupazione e della perdita di reddito). Si aggiunga l’odio nei confronti delle classi medie ”riflessive” dei grandi centri urbani, base elettorale della sinistra Dem, ma soprattutto soggetti concentrati esclusivamente sui temi dei diritti civili e individuali e insensibili agli interessi degli strati inferiori della classe lavoratrice. L’intensità di tale odio si è misurata in occasione dell’assalto a Capitol Hill un vero e proprio episodio di guerra civile che ci fa capire come la partita sia ancora aperta.  Partita che in Europa appare per il momento chiusa, vista l’adesione unanime dei populismi alla mobilitazione totale, contro il Covid prima e contro la Russia poi, messa in atto dalle élite neoliberali. 


Il Covid 19 non è un “cigno nero”. Gli episodi di zoonosi (trasmissione di agenti patogeni dagli animali all’uomo) non sono una novità e sono stati sempre più frequenti negli ultimi decenni.  Il biologo statunitense Rob Wallace è autore di un libro (9) in cui analizza il fenomeno come effetto collaterale della rapacità delle industrie agroalimentari e dei processi di deforestazione: da un lato la creazione di enormi allevamenti dove si concentrano le occasioni di contagio, dall’altro la penetrazione sempre più profonda in territori selvaggi fino a non molto tempo fa incontaminati, che mette la specie umana a contatto con virus e batteri nei confronti dei quali non dispone di difese immunitarie, hanno creato le condizioni ideali allo scatenamento di questi eventi pandemici. Per distogliere l’attenzione dalle cause reali del fenomeno, e per alzare il tiro nella guerra fredda contro la Cina, l’amministrazione Trump ha accusato Pechino di aver lasciato sfuggire il virus da un laboratorio di guerra biologica sito in Wuhan (la città dove erano in corso dei giochi militari al momento dell’esplosione della pandemia). Una ricerca dell’OMS (grottescamente accusata dagli Usa di essere “al servizio di Pechino”) ha tassativamente smentito questa versione, così come ha messo in dubbio la possibilità che il virus sia di origine artificiale. Anche se, sulla base del fatto che casi di “polmonite atipica” erano stati registrati negli Stati Uniti mesi precedenti alla presunta data di inizio del contagio , c’è chi ipotizza che, se mai il virus è realmente  sfuggito a qualche laboratorio di guerra biologica, il maggior indiziato è un sito della Virginia (10).  


Tornerò su questi temi in  una Appendice a fine libro specificamente dedicata alla crisi pandemica. Qui mi limito a ragionare brevemente sul modo in cui l’Occidente ha gestito tale crisi. In una situazione resa drammatica da decenni di privatizzazioni e tagli alla spesa sanitaria, i sistemi sanitari dei Paesi a regime neoliberale sono apparsi in gravissima difficoltà, nella misura in cui, più ancora del contagio in sé e della rapidità con cui si diffondeva, il rischio era il tracollo del sistema ospedaliero, incapace di gestire l’altissimo numero di ricoveri (in particolare nei reparti di rianimazione). In questo scenario, la prima preoccupazione non è stata proteggere la salute dei cittadini, bensì impedire il blocco della macchina produttiva, della logistica e di tutte istituzioni pubbliche che garantiscono il normale funzionamento dell’economia. Perciò, invece di assumere le misure drastiche che hanno consentito allo Stato cinese di controllare l’epidemia in tempi ridottissimi – additate come esempi di pratiche “illiberali” e lesive dei diritti individuali (11) -, si è provveduto ad applicare una strategia dello stop and go, alternando momenti di rigore a momenti di lassismo, il che ha dilatato enormemente la durata dell’emergenza. Ma soprattutto, dopo la scoperta di una serie di vaccini relativamente efficaci (12) l’intero sforzo di contrasto al virus è stato concentrato su tale strumento, attivando un poderoso sforzo di mobilitazione totale della popolazione attraverso media, partiti, istituzioni pubbliche allo scopo di convincere anche i più riottosi a vaccinarsi. In assenza di un’opposizione politica degna del nome (13), in grado di denunciare le cause reali della pandemia, l’impotenza di un sistema sanitario indebolito dalle politiche neoliberali, i colossali interessi economici in gioco e, last but not least , l’uso politico dell’emergenza sanitaria per ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia, il regime neoliberale è riuscito a utilizzare strumenti come il green pass per disciplinare la popolazione e garantire la normale funzionalità del sistema economico (business as usual). Ora che i ritmi di diffusione del virus sembrano calare, la propaganda di regime è passata dal terrorismo alla minimizzazione del rischio (tutti al lavoro, la ricreazione è finita). Ma la mobilitazione totale e lo stato di emergenza proseguono, spostando l’asse dalla guerra al virus alla guerra fredda che, dopo lo scoppio del conflitto fra Russia e Ucraina, rischia di divenire una Terza guerra mondiale combattuta sul territorio europeo. Sulle cause di quanto sta avvenendo ho già ragionato nel Terzo Capitolo. Per arricchire l’analisi cito quasi integralmente il testo di un articolo di Manolo Monereo apparso sulla rivista Cumpanis (14) :


Da anni la Russia andava avvertendo che la sua sicurezza come nazione e Stato è a rischio (…). Non c’è dubbio che gli Stati Uniti e la NATO hanno voluto questa guerra. Gli ultimi mesi hanno significato per la leadership russa che i suoi interessi strategici non sarebbero stati presi in considerazione e che l’accerchiamento e le intimidazioni sarebbero continuati (...). Quando arrivano tempi come questi, bisogna prestare molta attenzione a quello che dicono i militari. Il capo della marina tedesca, il vice ammiraglio Kay-Achim Schönbach, ha fatto una dichiarazione che gli è costata il posto di lavoro (…): ciò di cui la Russia ha bisogno è il rispetto in senso lato, il riconoscimento dei suoi interessi strategici e di sicurezza (…) La percezione del Cremlino è che l’Occidente non la riconosca come uno Stato, una civiltà o una potenza politica e militare (…). Per anni la Russia è stata demonizzata e Putin criminalizzato. La ragione è che si è posta fine all’era Eltsin e le strutture statali e istituzionali della Federazione Russa sono state ricostruite, è stata ricostruita l’economia e l’apparato militare, tecnologico e di sicurezza è stato rafforzato. Qual è l’obiettivo politico della strategia militare della NATO e di Biden? Lo stesso obiettivo che con la Cina, vale a dire quello di annientare l’attuale gruppo dirigente e metterne in piedi un altro più favorevole agli interessi egemonici degli Stati Uniti. Qual è il segno dei tempi, la tendenza di fondo? La transizione verso un mondo multipolare che mette in discussione l’egemonia degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei organizzati nella NATO. In altre parole, stiamo vivendo la ribellione dell’Est (…). Vengono disegnati due scenari decisionali operativi o geopolitici. Il principale è nel Mar Cinese. L’altro è in Europa e quelli al potere hanno deciso che deve essere risolto in Ucraina. Essere ingenui nei confronti degli Stati Uniti è inaccettabile, e significa chiudere gli occhi di fronte alla storia recente dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria…Dal punto di vista politico-militare, l’unico impero esistente è quello degli Stati Uniti con più di 700 basi militari in 80 paesi e che spendono, insieme alla NATO, il 60% della spesa militare mondiale. Di fronte a questo, la Russia è poca cosa, ma non è disposta ad essere un alleato subordinato di una superpotenza che lotta disperatamente per la propria egemonia. Per anni ho sottolineato che il mondo come lo abbiamo conosciuto sta cambiando radicalmente e che al suo centro c’è il relativo declino degli Stati Uniti. La mia paura era che quella che è conosciuta come la “trappola di Tucidide” sarebbe arrivata e sarebbe arrivata presto. Come è noto, questa espressione si riferisce ai conflitti e alle guerre che vanno di pari passo con il declino delle potenze egemoniche e la loro sostituzione con quelle emergenti. Questo è il punto in cui siamo ora (…). La guerra ritorna in Europa e ritorna la prodigiosa capacità degli Stati Uniti di creare conflitti militari lontano dai suoi confini. Infine, una riflessione. Gli Stati Uniti rimangono una superpotenza di gran lunga la più forte a livello economico, politico e politico-militare. Quello che stiamo vedendo sono manovre in una strategia globale preventiva con la Cina come obiettivo finale. Questo conflitto emergente è solo l’inizio

Concludo ribandendo alcuni punti cruciali. Lo schieramento della Ue al fianco dell’Ucraina, sostenuta con massicci aiuti economici e  militari, è il segnale di una svolta che sposta l’asse del processo di costruzione dell’Unione dal piano economico al piano politico-militare. Già coinvolta nella macelleria jugoslava, l’Europa si mette al servizio del progetto Usa-NATO, che mira a far esplodere la Federazione Russa in una miriade di staterelli colonizzabili dal capitale occidentale. La Germania, che pure non aveva interesse a scatenare questa guerra, dalla quale rischia di subire seri contraccolpi, ha riscoperto la sua tradizione militarista mettendosi alla testa della mobilitazione bellicista. Per gli Stati Uniti, l’Ucraina ha un interesse strategico marginale (il vero nemico è la Cina) ma l’occasione di indurre l’Europa a trazione tedesca a combattere una guerra per procura contro il nemico secondario andava  sfruttata, perché in questo modo l’America ottiene il duplice risultato di indebolire sia il massimo alleato del nemico principale che gli “amici” europei, i quali, comunque vada, dovranno pagare un conto salato. Ciò vale soprattutto per l’Italia, dove il proconsole imperiale Draghi è disinvoltamente passato (con l’appoggio dell’intero arco dalle forze parlamentari) dallo stato di emergenza pandemico allo stato di emergenza bellico. La mobilitazione totale in vista della Terza guerra mondiale – di fatto già iniziata – è partita, e una Italietta disposta a rinnegare l’articolo della Costituzione che sancisce solennemente il ripudio della guerra, rischia di pagare un prezzo ancora più devastante di quello che il Fascismo le impose ottant’anni fa, facendola scendere in campo al fianco del Terzo Reich.


Note

(1) L’intreccio fra le due economie è durato a lungo ed ha avuto un notevole impatto in entrambi i Paesi: gli investimenti americani in Cina sono stati numerosi e consistenti, la Cina ha finanziato il debito americano con massicci acquisti di titoli di stato, infine l’afflusso di prodotti cinesi a basso costo ha consentito ai padroni americani di abbassare gli oneri di riproduzione della loro forza lavoro (alimentando quella che è stata definita Wal Mart Economy, dal nome della catena discount americana che vendeva i prodotti in questione).  Tuttavia gli Stati Uniti non avevano previsto che la Cina avrebbe sfruttato l’interscambio (non solo con gli Usa e altri Paesi occidentali ma anche con Taiwan, Il Giappone e la Corea del Sud) per acquisire know how che hanno dato un formidabile impulso allo suo sviluppo, consentendo alla “fabbrica del mondo” di diventare in tempi brevissimi un agguerrito competitore degli occidentali sul mercato globale. 


(2) Nella Seconda Parte analizzeremo la logica profondamente diversa della strategia cinese rispetto a quella della globalizzazione euroamericana:  investimenti infrastrutturali che favoriscono lo sviluppo delle economie locali (invece di “aiuti” finanziari che strangolano chi li riceve), nessuna interferenza nei confronti degli affari interni dei Paesi beneficiari (invece di condizioni capestro che reclamano riforme antipopolari o sostegno a fazioni interne che promettono cambiamenti di regime favorevoli agli interessi occidentali), prestiti  a tassi agevolati e a lunga scadenza (invece della “trappola del debito” gestita da FMI e Banca mondiale).   


(3) In realtà, come vedremo nella Seconda Parte, la strategia cinese non è finalizzata a “rimpiazzare” gli Usa nel ruolo di dominus mondiale, ma piuttosto a sostituire al mondo monopolare nato dal crollo dell’Urss un mondo multipolare basato sul reciproco rispetto e riconoscimento.   


(4)  Viene rilanciata la politica obamiana del Pivot to Asia, si arruolano Australia, Giappone, Corea e altri Paesi dell’area nel tentativo di costruire di una barriera di contenimento della potenza cinese nel Mar Giallo, si minaccia l’intervento americano in caso di guerra con Taiwan, si foraggia l’opposizione a Hong Kong e si orchestrano continue campagne propagandistiche contro presunti “genocidi” a danno delle popolazioni del Tibet e del Xinjiang.   


(5) Significativa la decisione del governo rosa-verde- giallo tedesco di aumentare fino al 2% e oltre il bilancio della Difesa, il che risponde a una richiesta che gli Stati Uniti avanzavano da tempo, chiedendo all’Europa di assumere in prima persona il costo economico della propria sicurezza.   


(6) Wolfgang Streeck (cfr. Come finirà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi, Meltemi, Milano 2021) sostiene per esempio che il crollo del capitalismo è inevitabile, ma non comporta minimamente la transizione a qualcosa di “meglio”, a una civiltà più avanzata e progredita perché, data l’attuale assoluta assenza di alternative (su questo personalmente non concordo), la crisi sfocerà assai probabilmente nella catastrofe e nel caos. 


(7) Cfr. T. Fazi, W. Mitchell, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Meltemi, Milano 2018.


(8) Cfr. A. Spannaus, Perché vince Trump, Mimesis, Milano-Udine 2016; vedi anche, dello stesso autore, La rivolta degli elettori, Mimesis, Milano-Udine 2017.


(9) Cfr. Big Farms Make Big Flu, 2016.


(10)  Cfr. D. Burgio, M. Leoni, R. Sidoli (a cura di), Il Covid è nato negli Usa? La Città del Sole, 2021. Nella mia Postfazione al volume scrivevo: “Il piatto forte della guerra fredda, tuttavia, continua a essere l’accusa (smentita dall’OMS oltre che da numerosi scienziati occidentali) secondo cui l’epidemia del Covid 19 sarebbe stata provocata da un virus sfuggito da un centro di ricerca di Wuhan. L’attendibilità di questa accusa è la stessa (cioè pari zero) del famoso “incidente” del Golfo del Tonchino, che diede avvio ai bombardamenti su Hanoi, e della “pistola fumante” che Colin Powell sventolò sotto il naso dei delegati Onu per giustificare la seconda guerra irachena. Posto che le autorità provinciali cinesi hanno commesso – come riconosciuto dallo stesso governo centrale – un errore di sottovalutazione iniziale del problema, il vero motivo per cui si è messa in piedi questa campagna di disinformazione, è la necessità di distogliere l’attenzione dalla disastrosa gestione occidentale (a partire dagli Stati Uniti) della pandemia, costata milioni di morti a causa dei tagli alla sanità pubblica e dei processi di privatizzazione, laddove la Cina ha compiuto il miracolo di controllare in tempi rapidissimi una emergenza che poteva rivelarsi disastrosa in un Paese con un miliardo e mezzo di abitanti. Ma soprattutto occorre distogliere l’attenzione dagli indizi che provano come il virus circolasse in Spagna, Italia, Francia e Usa mesi prima della sua identificazione a Wuhan, mentre non mancano fondati sospetti che a innescarlo possa essere stato un errore commesso in un centro di ricerca militare situato in Virginia, come viene denunciato nel libro che avere appena letto, per cui il sito di Cumpanis ha lanciato  la petizione all’OMS - alla quale anche chi scrive ha aderito - perché si indaghi sul sito di Fort Detrick.”


(11) La differenza di atteggiamento fra il cittadino cinese, che tollera anche limitazioni drastiche alla propria libertà individuale in situazioni di emergenza, e quello dei cittadini dei Paesi occidentali, assai meno disponibili ad accettare analoghe misure, sta tutta nel diverso grado di fiducia nel fatto che lo Stato agisca nell’interesse generale della comunità: altissimo nel caso dei primi scarso nel caso dei secondi.  

 

(12) Anche in questo caso la competizione in campo scientifico si è immediatamente tradotta in competizione economica e geopolitica: i vaccini russi, cinesi e cubani sono stati scartati come meno efficaci e, di fatto, si è impedito venissero utilizzati nei Paesi occidentali, un mercato rigorosamente “riservato” ai prodotti made in Usa delle multinazionali del Big Pharma, le quali hanno così potuto realizzare favolosi profitti. Per inciso, anche gli aiuti gratuiti offerti da Paesi non occidentali nella prima fase della pandemia, sono stati rapidamente rimossi dai media, per impedire che lasciassero tracce nella memoria collettiva. Per tacere del rifiuto di rendere disponibili i brevetti ai Paesi del Terzo Mondo che, in questo modo, hanno funzionato da incubatore di nuove varianti del virus.


(13)  I movimenti spontanei sorti per contestare l’imposizione del regime vaccinale sono stati purtroppo caratterizzati, ad eccezione di esigue minoranze in grado di distinguere fra uso discriminatorio di strumenti burocratici come il green pass, pericolosità reale del virus e validità scientifica dei vaccini (a prescindere dagli interessi dei produttori), da derive complottiste, antiscientifiche e anarcoidi che ne hanno favorito l’isolamento e la messa in ridicolo.    

 

(14) https://www.cumpanis.net/manolo-monereo/?fbclid=IwAR3ha9pTaDtinn5kROZungEl3XNk81ht64AfQAwGOuxsbKbw9dw1yOfZdG8 


giovedì 3 marzo 2022

2013: I NAZISTI AL POTERE IN UCRAINA


[Testo tratto da A. Pascale, Il totalitarismo “liberale”. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2018, pp. 109-114.






Per quanto riguarda il caso ucraino tutto ha inizio sul finire del 2013. Il presidente ucraino Yanukovich e il suo governo si trovano ad un bivio, dovendo sostanzialmente scegliere la direzione strategica da far prendere al proprio Paese: da una parte l’integrazione con l’Unione Europea, dall’altra la collaborazione storica con la Russia. Tra il 30 novembre e il 17 dicembre Yanukovich rifiuta la proposta europea, impostata sostanzialmente sulle ricette tipicamente liberiste, e accoglie invece l’accordo con Putin, più vantaggioso economicamente (1). Apriti cielo. Yanukovich viene dipinto immediatamente come un dittatore che si oppone ai diritti, alla libertà e alla democrazia garantiti dall’Unione Europea. Yanukovich sicuramente non è Lenin né un santo, ma è quantomeno difficile definirlo dittatore, in quanto regolarmente eletto nelle elezioni del 2010, riconosciute dall’OCSE come «elezioni trasparenti» (2). Godendo di una maggioranza strutturata in particolare sul consenso delle regioni orientali (quelle più “russofone”) governa un Paese cercando di mantenere una posizione di equilibrio tra UE e Russia, sfruttando pragmaticamente la rivalità crescente tra le due aree geopolitiche per trarne il massimo vantaggio economico; è ben consapevole, inoltre, della difficoltà di poter orientare nettamente in una precisa direzione strategica un Paese spaccato in due non solo politicamente ma anche culturalmente (ad ovest gli ucraini simpatizzanti della Tymoshenko, ad est le componenti russe e/o filorusse). La decisione di rimanere sotto l’alveo di Mosca porta all’esplosione di alcune manifestazioni di protesta (ribattezzate Euromaidan) che i nostri media hanno subito presentato come non-violente, popolari, di massa e diffuse in tutta Ucraina. Mobilitazioni che sarebbero state ingiustificatamente represse con la forza e con l’utilizzo dei cecchini... In realtà tali manifestazioni degenerano spesso e volentieri nella truce violenza (3), il che comporta inevitabilmente una reazione delle forze dell’ordine. In esse emerge con forza il ruolo giocato dai nazifascisti (in particolar modo dai partiti Svoboda e Pravy Sector, descritti come i corrispondenti ideologici degli italiani Forza Nuova e CasaPound), che caratterizzano i movimenti in chiave esplicitamente anticomunista, contro il ruolo di pacificazione giocato dal Partito Comunista Ucraino. Le proteste inoltre sono localizzate principalmente nell’ovest del Paese, ossia nella zona ucraina più filo-occidentale che aveva dato la maggioranza relativa alla Tymoshenko. Per quanto riguarda i cecchini è altamente probabile che fossero in realtà paramilitari di Euromaidan. Tale sconcertante verità emerge infatti dall’intercettazione di un dialogo tra Catherine Ashton, Alto Rappresentante per la Politica Estera e Difesa dell’UE, e Urmas Paet, ministro degli esteri dell’Estonia (4). Fu insomma architettata una strategia della tensione per far ricadere le colpe sul governo e screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica e del mondo intero. Un inganno che sul momento è servito a simpatizzare per la causa degli “oppressi” ma che ha avuto il prezzo carissimo di 94 morti e oltre 900 feriti. 


La strategia funziona perfettamente, tanto che i media possono alfine esultare per la cacciata del «dittatore» e per «l’avvento della democrazia», omettendo però di ricordare che in questo clima di tensione, la fuga di Yanukovich (avvenuta il 22 febbraio 2014) avviene senza aver dato dimissioni formali, tanto da rendere problematico definire il cambio di governo successivo come legittimo. In questi casi c’è chi parla di rivoluzione e chi di golpe. Difficile però parlare di rivoluzione per un governo che vede tra i suoi membri oligarchi e nazifascisti, favorendo una repressione di massa dei comunisti (fino alla loro completa messa fuorilegge) (5) e degli ebrei (6) mentre si discute di togliere diritti e autonomie alle regioni in cui la maggioranza demografica è composta dalle popolazioni russe. Proprio queste regioni sono quelle che decidono di opporsi più duramente al nuovo regime, avviando inizialmente pratiche pacifiche ed istituzionali. È il caso del referendum secessionista della Crimea, svoltosi il 16 marzo 2014 e giudicato subito come illegittimo, anzi come una manovra imperialista di Putin, condannato come aggressore, terrorista e dittatore che bisogna punire al più presto con sanzioni severe. C’è da chiedersi come un giorno si possa parlare di rivoluzione e il giorno dopo condannare come antidemocratico un referendum che ha visto un’affluenza del 90% della popolazione e che ha dato come responso un 96% favorevole al ritorno della regione alla Russia. Si parla di ritorno perché la Crimea è storicamente una regione russa, donata da Chruščëv alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina nel 1954. Non c’è dubbio, però, che a pesare nella scelta del popolo di Crimea siano state anche considerazioni materiali e ideali: promesse di miglioramenti dei salari e delle pensioni, di introduzione del TFR e di garanzia della tutela della regione come Stato laico, multietnico, multireligioso e antifascista. Tutto il contrario insomma di quel che offre il governo degli oligarchi ucraini. Stimolati dall’esempio della Crimea, presto si ribellano anche le regioni del Donbass, segnando la nascita delle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk (successivamente riunitesi nell'Unione delle Repubbliche Popolari di Novorossija) (7) sostenute da un moto di resistenza popolare in cui i comunisti sono in prima linea (tra loro anche il comandante Mozgovoj, che verrà ucciso il 23 maggio 2015), riuscendo a far approvare anche importanti richiami filosovietici nelle Costituzioni provvisorie che vengono adottate. In questo contesto è innegabile che Putin abbia manovrato diplomaticamente e militarmente per favorire e fomentare tali rivolte. È normale, d’altronde, che non potesse accettare passivamente un colpo di Stato teso ad introdurre a pochi chilometri da Mosca un governo comprendente membri nazisti e totalmente asservito all’UE e alla NATO. Chomsky ha spiegato perfettamente il concetto: è come se il Patto di Varsavia fosse stato allargato al Sud America e fosse oggi in trattativa con Messico e Canada. Come reagirebbero gli USA (8)?


Ne consegue una guerra cruenta dovuta alla volontà del nuovo governo ucraino di prevenire successivi atti secessionisti. I nostri media si guardano bene però dal descrivere nel dettaglio il sanguinoso conflitto, attribuendo violenze bipartisan anche ad atti di particolare ferocia su cui la responsabilità è fin da subito chiara. Il caso più clamoroso è l’efferato massacro di Odessa del 2 maggio 2014 (9), nel quale muore anche il giovane comunista Vadim Papura (diventato un simbolo della repressione) (10) di cui sono disponibili svariate immagini sul web che mostrano la crudeltà sadica degli assassini nazifascisti. Non mancano testimonianze sul fatto che i maggiori crimini siano stati compiuti dalle forze dell’esercito ucraino che non hanno esitato ad utilizzare bombe cluster, fosforo bianco e truppe paramilitari naziste. Violenze tali che non sono mancati molteplici casi di insubordinazione e diserzione di massa tra i soldati ucraini, incapaci di capire il senso del conflitto (11). 


È stato dato ampio risalto mediatico all’interventismo di Putin e della Russia nelle vicende militari, oltre che in quelle politiche, su tutta la guerra civile ucraina. Si è parlato molto meno però dell’interventismo occidentale su tutta la vicenda, nonché delle pesanti responsabilità dell’UE e degli USA per quanto riguarda l’inasprimento del conflitto. Eppure, fin dall’inizio, le manifestazioni di Euromaidan sono state fomentate e incentivate dalla presenza attiva a Kiev di vari statisti occidentali, tra cui spicca la presenza del senatore repubblicano statunitense Joseph McCain, più volte sul palco insieme a Oleh Tyahnybok, leader della formazione neonazista Svoboda. Victoria Nuland, portavoce del Dipartimento di Stato USA, ha presenziato a diversi incontri con esponenti politici golpisti. Non sono mancate posizioni di sostegno ai golpisti da parte del presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz (12), seguito a ruota anche da Gianni Pittella, capogruppo parlamentare dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (eletto tra le file del PD). Questo interventismo politico incondizionato affonda le radici su una preparazione meticolosa del golpe durata anni. È stato accertato che le “squadracce” neonaziste che hanno imperversato a Kiev sono state addestrate nei campi NATO dell’Estonia almeno dal 2006 (13). La già citata Victoria Nuland dichiarò pubblicamente già nel dicembre 2013 che gli USA avevano investito 5 miliardi di dollari nelle vicende ucraine (14). A chiudere i sospetti e a dare garanzie di verità è un’intercettazione rivelata da Wikileaks che conferma come il golpe sia stato orchestrato almeno dal 2010. In una telefonata Viktor Pynzenyk (ex ministro delle finanze e ora parlamentare membro del partito Oudar che fa capo a Vitali Klitschko) spiegava all’ambasciatore americano la lunga serie di misure antisociali (privatizzazioni, riforme pensioni, aumento prezzi risorse energetiche, diminuzione Stato sociale, ecc.) che erano disponibili a concedere per l’ingresso nell’UE (15).


Note

1)  A. Mazzone, La Russia batte l'Europa e si compra l'Ucraina, Panorama (web), 18 dicembre 2013.

2)  Redazione La Repubblica, Ucraina, Yanukovich vince di misura. L'Osce: “Elezioni trasparenti”, La Repubblica (web), 8 febbraio 2010.

3) P. Sorbello, Ucraina: violenza sulla piazza, L'Indro, 23 gennaio 2014.

4) G. Masini, Kiev, ecco la telefonata choc che scredita il nuovo governo. Chi ha pagato i cecchini?, Il Giornale (web), 5 marzo 2014. 

5) R. Allertz (a cura di), Avviate in Ucraina le procedure per la messa al bando dei comunisti, Marx21.it, 24 luglio 2014.

6) AC-Solidarité Internationale PCF, Le associazioni ebraiche ucraine denunciano le azioni antisemite dei manifestanti di estrema destra “filo-europei”, Marx21.it, 11 febbraio 2014; per un ulteriore riscontro su un sito più “neutro” si veda Redazione Il Messaggero, Ucraina, attacco a una sinagoga sul Mar Nero. Scoppia un incendio, è il secondo attacco a un tempio ebraico, Il Messaggero (web), 20 aprile 2014. 

7)  A. Benajam, Cos’è la “Novorossija”?, 11 settembre 2014.

8) Redazione L'Antidiplomatico, Chomsky: “L'Ucraina nella Nato? Come se il Patto di Varsavia si fosse allargato a Canada e Messico”, L'Antidiplomatico, 16 aprile 2015.

9) Si veda a riguardo D. Scalea, La strage di Odessa e la stampa italiana: censura di guerra?, Huffington Post (web), 5 luglio 2014 e L. Tirinnanzi, La strage di Odessa e le ipocrisie dell’Occidente, Panorama (web), 9 maggio 2014.

10) Partito Comunista di Ucraina, Vadim Papura, giovane comunista vittima del massacro fascista di Odessa, Marx21.it, 6 maggio 2014.

11) L. Tirinnanzi, Diserzioni nell’esercito ucraino, in 400 sconfinano in Russia, Panorama (web), 5 agosto 2014. 

(12) S. Pieranni, Schulz: «Sì, trattiamo anche con Svoboda», Il Manifesto (web), 27 febbraio 2014.

(13) Rete Voltaire, I manifestanti di Maidan addestrati dalla NATO nel 2006, Voltairenet.org, 7 febbraio 2014.

(14) G. Rossi, Gli Usa dinanzi alla crisi ucraina: le gaffe di Victoria Nuland, il realismo di Henry Kissinger, Secolo d'Italia (web), 18 marzo 2014.

(15) Wikileaks, Former Tymoshenko insider calls her destructive, wants her out of power, Wikileaks.org, 24 febbraio 2010.



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