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lunedì 18 novembre 2024

I POPOLI AFRICANI CONTRO L'IMPERIALISMO
3. AMILCARE CABRAL


Amilcar Cabral è l’ultimo intellettuale rivoluzionario africano di questo trittico in cui ho già presentato le idee di Said Bouamama e Kevin Ochieng Okoth. Nato in Nuova Guinea da genitori capoverdiani nel 1924, quando il Paese era ancora una colonia portoghese, nel 1945 ottenne una borsa di studio che gli consentì di frequentare l’Università di Lisbona dove conseguì la laurea in agronomia e dove rimase fino al 1952, ma soprattutto dove conobbe quelli che sarebbero diventati, assieme a lui, i leader delle guerre di liberazione delle altre colonie portoghesi, fra i quali l’angolano Mario Pinto de Andrade e il mozambicano Eduardo Mondlane. Rientrato in patria con l’incarico di agrimensore, si mise alla testa della lotta per l’indipendenza nazionale che si concluse vittoriosamente nel 1973 pochi mesi dopo la sua morte (nel gennaio di quell’anno venne assassinato da agenti portoghesi). Il suo contributo teorico, politico e culturale alla rivoluzione anticolonialista e antimperialista e allo sviluppo della teoria marxista, è di ampio respiro e resta un punto di riferimento obbligato per capire le dinamiche della lotta di classe in Africa. Per presentarne il pensiero, ho utilizzato qui un’antologia che raccoglie testi di discorsi tenuti nel corso dei suoi viaggi in giro per il mondo per raccogliere  solidarietà  alla lotta del popolo guineano (“Return to the Source”, Monthly Review Press). Alla fine trarrò le conclusioni di questo percorso in tre tappe.  



Return to the source: come riprendere il cammino storico dell’Africa 

 interrotto dal colonialismo






1. Teoria e prassi come momenti di un unico processo di apprendimento


Nei dibattiti in campo marxista ricorre di frequente lo slogan “senza teoria niente rivoluzione”, ripreso pedissequamente da alcuni testi di Lenin. Purtroppo tale enunciato viene spesso interpretato come un attestato di superiorità del momento teorico rispetto al momento della prassi: prima viene la teoria, poi, se e soltanto se la teoria è giusta (cioè se i sacri testi del marxismo-leninismo sono stati correttamente interpretati), viene la pratica (organizzazione, programma politico, tattica, strategia, ecc.). Posto che ritengo questo schema alieno al reale pensiero di Lenin (opinione che qui non argomenterò, per non allontanarmi eccessivamente dallo scopo di questo scritto) ciò che è certo è che si tratta di un punto di vista incompatibile con le idee che Cabral nutriva in merito. 


Nel corso dei dibatti raccolti nell’antologia sopra citata, gli è stato chiesto di frequente se il movimento da lui guidato si ispirasse alla teoria e all’ideologia del marxismo-leninismo. Tutte le sue risposte sono varianti di un medesimo principio, ben rappresentato dalla seguente metafora: “la rivoluzione è come un vestito che dev’essere adattato di volta in volta all'uno o all’altro corpo”. Per tradurre la metafora, spiega: i primi due obiettivi che ci siamo posti sono stati 1) definire chi siamo e chi è il nostro nemico; 2) partire dalle condizioni attuali, concrete (storiche, economiche, politiche, geografiche, ecc.) del nostro Paese, restando sempre ben consapevoli che avremmo dovuto avere il coraggio di inventare il percorso della nostra rivoluzione, scartando a priori qualsiasi schema o modello “precotto”. In altre parole: abbiamo costruito la nostra teoria definendo di volta in volta quali possibilità concrete di azione ci erano offerte dal contesto in cui ci trovavamo a operare.


Scendendo nel merito della domanda sul marxismo-leninismo, ammette: quando abbiamo iniziato a progettare la nostra lotta di liberazione sapevamo ben poco di teoria; certamente poi abbiamo studiato, ma sempre in  funzione di adattare i principi che apprendevamo dalle altrui esperienze alla nostra concreta realtà storica. Detto in sintesi: la nostra ideologia, quando ci siamo preparati a cominciare la lotta, si riduceva a pochi punti: liberarci dal dominio straniero, imboccare la via dello sviluppo economico e sociale e mantenere il potere saldamente nelle mani del popolo. Certo non ignoravamo il concetto di imperialismo, ma non potevamo illuderci di mobilitare la gente in nome della “lotta antimperialista” (di che parlate, ci avrebbero chiesto), potevano farlo solo basandoci sulla loro esperienza quotidiana di sofferenza e sfruttamento. Oggi, dopo anni di lotta antimperialista anche i bambini sanno cosa vogliono dire colonialismo e imperialismo.


Eppure da questo approccio dimesso, da questa concezione “di basso profilo” che molti marxisti accademici liquiderebbero come puro empirismo, sono scaturiti una serie di contributi tutt'altro che marginali alla cassetta degli attrezzi del movimento marxista internazionale su temi quali classe e rivoluzione, la cultura popolare come fattore di lotta anticapitalista, stato nazione e partito, transizione socialista, postc colonialismo e neo colonialismo ecc. 



2. Analisi della composizione di classe e teoria del soggetto rivoluzionario


La composizione socio economica della pur piccola nazione africana (La Guinea Bissau ha un territorio paragonabile a quello del Belgio) appare, nella meticolosa ricostruzione di Cabral, estremamente complessa, striata com’è da linee etniche e culturali, oltre che da articolazioni regionali, livelli di reddito e ruoli produttivi. Nei suoi scritti, Cabral tiene conto della specificità delle colonie portoghesi rispetto ad altri imperi occidentali. Il Portogallo, in quanto nazione meno sviluppata d’Europa, non è mai stato nelle condizioni di permettersi la possibilità di concedere l’indipendenza alle proprie colonie, assicurandosi nel contempo la continuità di un controllo di tipo neo coloniale sulle loro risorse. Il regime fascista di Lisbona ha invece incentivato l’emigrazione dei propri cittadini nelle colonie africane per ridurre le tensioni generate dagli alti tassi di disoccupazione, per cui la quota di coloni bianchi era più numerosa rispetto alla maggior parte degli altri domini coloniali europei.  


Cabral inizia la sua analisi da questa componente, concentrata nelle città, che presenta le stesse caratteristiche del paese d’origine: ai vertici i manager delle imprese industriali e commerciali e i quadri superiori dell’amministrazione coloniale; subito sotto i colletti bianchi e i quadri intermedi; alla base della piramide i lavoratori salariati, in maggioranza operai specializzati e in ogni caso pagati meglio della mano d’opera locale. La grande maggioranza degli appartenenti a questo gruppo era ovviamente ostile alla lotta per l’indipendenza nazionale. Dopodiché Cabral spiega che la strategia del regime coloniale per dividere gli africani è consistita nel riprodurre lo stesso tipo di stratificazione all’interno di una parte della popolazione urbana autoctona, instillando nella piccola borghesia degli “assimilati” (impiegati, tecnici amministrativi e intellettuali) un senso di superiorità nei confronti del resto della popolazione e una mentalità simile a quella dei colonizzatori.        


Questa strategia ha funzionato poco, in quanto una parte della piccola borghesia indigena (della quale lo stesso Cabral era un esponente) ha “tradito” la propria classe, tanto da assumere il ruolo di nucleo costitutivo del movimento. Su quali altri strati sociali questo nucleo ha potuto contare, per riuscire a realizzare il proprio progetto politico? Cabral sottolinea l’assenza di una vera e propria classe operaia di tipo occidentale, ad eccezione dei portuali (fin dall’inizio parte attiva della lotta) e di alcuni altri tipi di salariati dediti a lavori precari e saltuari. Restando in città, esisteva poi un settore di lumpen proletariato (piccoli criminali, prostitute, ecc. che hanno spesso svolto il ruolo di spie e informatori per l’amministrazione coloniale), ma soprattutto una massa di giovani di recente inurbazione che si sono rivelati un prezioso serbatoio di quadri. 


Quanto al resto del paese le larghe masse contadine rappresentavano ovviamente il gruppo più interessato – in quanto più sottoposto a oppressione e sfruttamento – alla lotta di liberazione. Tuttavia, annota Cabral, occorre tenere presente che, diversamente dalle masse contadine protagoniste della rivoluzione cinese, questo strato sociale non aveva alle spalle una lunga tradizione di rivolte. Inoltre, per poterle politicizzare, il movimento ha dovuto fare i conti con la presenza di diversi gruppi etnico-religiosi dotati di strutture sociali differenti. I Balantes, in prevalenza animisti, non avevano gerarchie sociali e politiche precise (a prendere le decisioni erano i consigli degli anziani), e coltivavano terre considerate di proprietà comune (anche se ogni famiglia poteva detenere propri attrezzi di lavoro e una quota di prodotto necessaria alla sussistenza). 


Una danza tradizionale Balanta



Viceversa i Fula, perlopiù musulmani, erano un gruppo semifeudale gerarchicamente strutturato: capi, nobili e sacerdoti ai vertici, artigiani nel mezzo e contadini privi di diritti alla base. Anche l’etnia Fula non prevede la proprietà privata della terra, ma i contadini sono obbligati a lavorare per i nobili. Quanto alla condizione femminile: relativamente libere le donne Balantes, oppresse le donne Fula anche per il contesto tradizionalmente poligamico. Ovviamente queste differenze hanno influito sulle possibilità di mobilitazione: mentre i Balantes hanno risposto positivamente, è stato più difficile ottenere successi con i Fula, le cui élite apparivano legate al potere coloniale, ad eccezione dei Dyulas – una casta di commercianti nomadi – che si sono rivelati utili per diffondere notizie, idee e informazioni da un villaggio all’altro. 


Una donna di entia Fula



Una volta analizzato questo quadro complesso, il movimento ha dovuto risolvere una questione fondamentale: come unire le tessere del mosaico sociale in un fronte rivoluzionario? Il primo passo è stato costruire un partito (il PAIGC – Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde) per organizzare politicamente il popolo (un processo durato tre anni). La molteplicità dei soggetti etnici e sociali coinvolti ha reso difficile la realizzazione di tale obiettivo, che ha potuto  essere realizzato solo preservando i valori culturali positivi di tutti i gruppi per fonderli in una dimensione nazionale unitaria. Ed è qui che Cabral dimostra la sua creatività teorica, partendo dal principio secondo cui non si sarebbe dovuto perdere di vista il carattere di classe della cultura, pur in presenza di una struttura di classe embrionale quale quella appena descritta. 


Ispirandosi ai processi rivoluzionari latino americani – Cuba ai tempi in cui scriveva, ma avrebbe osservato con altrettanto interesse le più recenti rivoluzioni bolivariane  – Cabral ipotizza che un processo rivoluzionario innescato dai settori patriottici della piccola borghesia urbana e dai giovani di recente inurbazione e successivamente esteso alle masse contadine, avrebbe potuto oltrepassare i limiti della lotta anticolonialista e antimperialista e assumere carattere socialista, pur in assenza di una classe operaia di tipo occidentale (1). La protagonista di questa prima tappa del processo è quella che Cabral definisce classe-nazione ma, prima di analizzare le tappe successive, occorre spiegare come e perché egli attribuisse alla cultura popolare africana lo stesso potenziale anticapitalista della classe operaia occidentale (2). 



3. Il valore della cultura come fattore rivoluzionario


Nei suoi scritti Cabral dedica molto spazio e attenzione al valore della cultura come fattore di resistenza alla dominazione coloniale. Da un punto di vista marxista “ortodosso” (dal quale vanno espunte tanto la concezione gramsciana di egemonia (3), quanto le riflessioni dell’ultimo Lukacs (4)  sull’ideologia come potenza materiale) questo punto di vista potrebbe essere accusato di dare peso eccessivo alla dimensione “sovrastrutturale” della lotta anticapitalista; al tempo stesso il suo slogan “return to the source” potrebbe suggerire una concessione alle lusinghe dell’approccio culturalista ed essenzialista dei teorici della Negritudine e della Blackness (vedi i due post precedenti).


Niente di tutto questo. Cabral è perfettamente consapevole del rischio di sottovalutare il pericolo associato agli elementi regressivi del passato, esaltando acriticamente la realtà sociale e le tradizioni dell’Africa pre coloniale, presentata come “naturalmente” comunitaria, egualitaria, in equilibrio armonico con la natura, ecc. Né condivide l’illusione di poterla restaurare come se nulla fosse successo nel periodo che separa  la colonizzazione dalla conquista dell’indipendenza. Lo slogan return to the source e il concetto di “ri-africanizzazione” della coscienza popolare africana (5) possono essere compresi solo tenendo conto del fatto che Cabral intende il termine cultura in senso storico-materiale. 


In quanto prodotto storico la cultura, argomenta, riflette in ogni momento la realtà materiale e spirituale di una società. Il colonialismo vecchio e nuovo ha costantemente tentato di autolegittimarsi negando l’esistenza stessa di una storia e di una cultura africane (“L’Africa non esiste” amava dire il dittatore fascista portoghese Salazar, quasi anticipando il detto di Margaret Tatcher “la società non esiste”). Ma la verità è che la storia e la cultura africane esistevano da secoli allorché furono interrotte con la violenza dai colonizzatori (il colonialismo va considerato, scrive Cabral, come il blocco della storia di un determinato paese che produce l’accelerazione dello sviluppo storico di altri paesi (6)) e i popoli africani non saranno liberi finché non torneranno alle vie della propria tradizione culturale (rielaborata attraverso l’esperienza della lotta antimperialista).


Antonio de Oliveira Salazar



Il ritorno è possibile nella misura in cui le culture tradizionali hanno dimostrato di possedere un alto grado di resilienza, malgrado il tentativo dei colonizzatori di eradicarle e/o renderle funzionali al proprio dominio. Una potenza che intende imporre il proprio dominio su un popolo straniero, argomenta Cabral, deve infatti scegliere fra due vie: o annienta l’intera popolazione (è la via del colonialismo stanziale/insediativo che mira a sostituire le popolazioni autoctone con la propria: vedi il genocidio degli indigeni nordamericani e australiani, il progetto nazista di occupazione della Russia e il progetto sionista di sterminio-cacciata del popolo palestinese), oppure deve imporre la propria cultura al popolo dominato. In Africa le potenze coloniali europee hanno tentato di percorrere la seconda via, ma hanno fallito. Sia perché la colonizzazione non è durata abbastanza a lungo per ottenere un grado  significativo di distruzione della cultura dei popoli dominati, sia perché la cultura è il più ovvio e immediato fattore di resistenza alla dominazione straniera.


In particolare, spiega Cabral riferendosi alla realtà della Guinea Bissau, fuori dai centri urbani la cultura dei colonizzatori ha avuto un’influenza minima, per non dire nulla. E’ per questo che la rivoluzione, pur essendo partita da settori di piccola borghesia urbana e di strati giovanili di recente inurbazione, ha potuto avere successo solo mettendo radici nelle larghe masse contadine. A svolgere un ruolo determinante in tal senso è stato il partito (vedi paragrafo precedente) che, in quanto promotore dell’interscambio fra élite e masse, ha permesso alle prime di comprendere la ricchezza della cultura popolare e alle seconde di accrescere la propria consapevolezza politica venendo a contatto con strati sociali ed etnie diverse (7). Tutto ciò aiuta a comprendere meglio la definizione di classe-nazione adottata da Cabral, per connotare una forma di lotta di classe in assenza di una composizione sociale di tipo occidentale. 



4. Cenni di storia della guerra di liberazione in Guinea Bissau


Interrogato sulle strategie della guerriglia contro l’esercito dei colonizzatori in alcuni dei dialoghi raccolti nel volume di cui stiamo discutendo, Cabral ha spiegato che fin dall’inizio sono state compiute due scelte che si sono rivelate decisive. In primo luogo si è adottato il principio di limitare  quanto più possibile le perdite, il che voleva dire non affrontare il nemico sul suo stesso terreno e in situazioni a lui favorevoli, costringendolo a disperdere le proprie forze (difficile non notare l’analogia con la regola seguita dall’esercito popolare cinese nella guerra contro i giapponesi e il Kuomintang : uno contro dieci strategicamente dieci contro uno tatticamente). A tale scopo si è evitato, contrariamente a quanto fatto da altri movimenti di liberazione nazionale, di coinvolgere i paesi limitrofi dislocando le unità combattenti oltre confine. Lo stratagemma ha funzionato, perché i portoghesi, convinti che gli attacchi sarebbero arrivati dall’esterno, hanno schierato il grosso delle truppe lungo i confini, sguarnendo il centro del paese. Quindi i guerriglieri hanno potuto assumere il controllo delle regioni centrali per poi marciare verso il fuori. Inoltre la dispersione delle truppe nemiche, e le scarse e inefficienti vie di comunicazione, hanno favorito gli attacchi per scompaginarne la logistica. 


Un’altra analogia con i principi della guerra di liberazione cinese emerge laddove Cabral sottolinea il fatto che la guerriglia è sempre stata sotto la guida del partito: benché le singole unità combattenti godessero del massimo di autonomia, onde garantire flessibilità e mobilità dell’azione, non è mai stato messo in discussione il principio secondo il quale la guerriglia era il braccio armato del partito.


Guerriglieri del PAIGC



Infine, e questo è un altro aspetto che, assieme a quelli evidenziati nei paragrafi precedenti,  conferma il carattere teoricamente avanzato e innovativo dell’esperimento politico-sociale, oltre che militare, della rivoluzione anti coloniale della Guinea Bissau, Cabral evidenzia con orgoglio che, nelle zone liberate, si è provveduto a costruire quelli che sarebbero stati gli elementi del futuro stato indipendente: amministrazione, sanità, educazione, tribunali, prigioni, ecc. Parlando a un convegno internazionale non molto prima del suo assassinio e della proclamazione dell’indipendenza, ha annunciato che si stavano preparando elezioni locali in vista dell’elezione della prima Assemblea nazionale, e ha dichiarato che, mentre al momento le decisioni politiche venivano prese dal partito, subito dopo l’indipendenza sarebbero spettate alle istituzioni popolari elettive. Il che ci porta direttamente ad affrontare le questioni relative al rapporto fra liberazione nazionale, emancipazione sociale e natura politica dello stato generato dalla guerra antimperialista. Questioni che, come abbiamo visto nei due post precedenti, sono oggetto di dure polemiche in merito alle cause del fallimento di molti stati post coloniali a fronte dell’offensiva neocolonialista. 



5. Stato-nazione e rivoluzione sociale


Come abbiamo appena messo in luce, nella Guinea Bissau la lotta di liberazione coloniale è andata di pari passo con la costruzione del nuovo stato nazionale, che è venuto prendendo forma a mano a mano che quote crescenti di territorio venivano liberate. Abbiamo anche evidenziato come, secondo Cabral, queste nuove istituzioni popolari, frutto di una larga partecipazione democratica, si pensava sarebbero subentrate al partito nel ruolo di decisori politici. Sappiamo che tale progetto, condiviso da altri movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale, fra cui quelli di Angola e Mozambico, non si è realmente concretizzato, mentre la controffensiva neocoloniale ha spento  i sogni africani di emancipazione. Sappiamo infine che le cause del fallimento sono state attribuite, da sinistra, al fatto stesso di avere scelto la via della costruzione di nuovi stati-nazione, inevitabilmente destinati a ingabbiare il movimento rivoluzionario in nuove strutture di potere e oppressione politica e sociale, da destra, al fatto di avere adottato ideologie, come il marxismo e il modernismo occidentali, aliene alla realtà e alla tradizione africane, laddove l’unica possibilità di emancipazione era associata alla riscoperta delle culture originarie del continente. 


L'assemblea Nazionale



A prescindere da queste opposte diagnosi, e dal peso da attribuire agli errori soggettivi piuttosto che alle cause oggettive del fallimento, occorre porsi i seguenti interrogativi: la sconfitta era inevitabile, inscritta nella necessità storica? La transizione dalla liberazione nazionale alla costruzione del socialismo era e resta tuttora un’utopia irrealizzabile? A quali condizioni i progetti di quella che Kevin Ochieng Okoth chiama Red Africa (vedi post precedente) possono tornare di attualità? 


Accennerò a questi argomenti nelle conclusioni relative al trittico africano che si chiude con questo articolo, ma prima vorrei completare l’analisi del pensiero di Cabral, dimostrando come la sua visione della Guinea Bissau post coloniale sia coerente con i concetti innovativi di lotta di classe e di lotta culturale descritti nei paragrafi precedenti. 


“Lo sfruttamento non ha colore”, sentenzia Cabral in un passaggio a conclusione del quale chiarisce che l’obiettivo strategico della rivoluzione anti coloniale non è conquistare il diritto di inalberare una bandiera nazionale ma di porre fine allo sfruttamento, non solo da parte dei colonialisti bianchi ma anche della borghesia nera. Stabilito che a dirigere la lotta è stata perlopiù, se non esclusivamente, la piccola borghesia urbana, Cabral si dice consapevole del fatto che la tendenza di questo strato sociale è inevitabilmente (“è l’essere sociale che determina la coscienza”, per dirla con Marx) quella di monopolizzare la direzione politica del movimento, ed è per questo, aggiunge, che il PAIGC si è sempre sforzato di controllare la composizione sociale dei propri vertici. Ma ciò è sufficiente per sventare il rischio che il potere finisca nelle mani di una nuova élite nera?


Per rispondere, Cabral torna a misurarsi con il dogma marxista che pone al centro della lotta al socialismo la classe operaia.  Posto che la rivoluzione in Guinea Bissau ha dovuto scontare l’assenza di una vera classe operaia, salvo esigue minoranze, e posto che essa non avrebbe potuto vincere se a condurre la lotta fosse stato un singolo strato sociale, per cui non si è trattato di lotta si classe in senso classico bensì di lotta di popolo, per la quale Cabral, come si è visto, ha coniato il concetto di classe-nazione. Posto tutto ciò, Cabral si chiede: chi controllerà il potere politico dopo la liberazione? Dell’assenza di una vera classe operaia si è appena etto; quanto alla classe contadina, che pure rappresenterebbe il più ovvio candidato ad assumere tale ruolo visto che rappresenta la maggioranza del popolo, essa non dispone delle competenze necessarie (che potrà acquisire solo a conclusione di un lungo processo di acculturazione politica); infine, non esistendo una borghesia moderna, si torna al fatto che solo la piccola borghesia dispone degli strumenti per costruire e governare l’apparato statale. 


E allora? Dato per scontato che appena ottenuta l’indipendenza ed esaurita la funzione della classe-nazione si riapriranno i conflitti di classe, argomenta Cabral, l’unica chance di indirizzare il paese sulla via del socialismo è che la piccola borghesia si suicidi in quanto classe, “sciogliendosi” nelle larghe masse popolari per addestrarle svolgere il compito di governare il paese. Quanto al programma socio-economico: per avviarsi sulla via della transizione, argomenta, il primo compito è quello di rivoluzionare l’agricoltura. Rivoluzione tecnico-produttiva perché, in assenza di proprietà privata della terra (che come si è visto appartiene alle comunità di villaggio), l’obiettivo non è quello classico della ridistribuzione delle terre. La struttura più adatta per piantare i primi semi di una società socialista, scrive Cabral, è piuttosto la forma cooperativa, che potrebbe sfruttare l’esistenza di una tradizione di cooperazione spontanea a livello di famiglie e villaggi.





Se Cabral non fosse stato assassinato dagli agenti dell’imperialismo, assieme alla maggior parte dei leader africani di tendenza marxista, questo programma politico avrebbe avuto qualche possibilità di riuscita? Forse no, data la formidabile pressione economica e militare esercitata dalle potenze neocolonialiste occidentali e l’opportunismo di molte élite africane post coloniali. Tuttavia ciò non giustifica la perdita di interesse che, a partire dagli anni Settanta del 900, le sinistre radicali occidentali hanno manifestato nei confronti del contributo teorico e ideologico delle rivoluzioni di liberazione nazionale, liquidandolo come “terzomondismo”. 


Questa cecità conferma il giudizio di Cabral, il quale, parlando dell’offensiva neocoloniale fondata sugli “aiuti” allo sviluppo e sulla complicità delle neoborghesie compradore, disse che, se tale offensiva avesse vinto, si sarebbe trattato di una sconfitta della classe operaia mondiale piuttosto che dei popoli colonizzati, visto che lo sfruttamento di questi ultimi avrebbe finanziato la creazione di un’aristocrazia operaia occidentale refrattaria a qualsiasi progetto di trasformazione rivoluzionaria. Mai profezia fu più azzeccata.



Per concludere 

Bouamama, Okoth, Cabral: 

il rapporto fra lotta di liberazione nazionale

e rivoluzione socialista  


Provo a sintetizzare quelli che considero gli spunti più interessanti del percorso sulle lotte di classe in Africa che ho proposto negli ultimi tre post.  


In primo luogo, ritengo che tutti e tre gli autori che ho preso in esame, sia pure con approcci e punti di vista diversi, diano un contributo importante alla critica del preteso universalismo della cultura occidentale. In primo luogo perché smontano il mito colonialista e razzista dei “popoli senza storia” che è a lungo servito per giustificare l’espansionismo delle nazioni occidentali a spese del resto del mondo. Questa narrazione, che rivendica alle tradizioni greco-latina ed ebraico-cristiana il monopolio del progresso culturale, sociale e politico, era già parsa ridicola a fronte delle millenarie tradizioni asiatiche (Cina, India e non solo) e amerindie (Maya, Aztechi, Inca) ma, a mano a mano che anche la storia del continente africano (e non più solo quella dell’antico Egitto) esce dal cono d’ombra in cui l’aveva occultata l’ideologia “orientalista” (8), suona, più che ridicola, criminale se è vero che, come argomenta Cabral, la dominazione coloniale ha interrotto e bloccato la storia di determinati paesi per produrre l’accelerazione dello sviluppo storico di altri paesi.


A mano a mano che questa narrazione si è fatta insostenibile, perlomeno nelle sue forme più becere, è stata rimpiazzata dal paradigma dello “scontro di civiltà” (9), il quale, mentre riconosce l’esistenza di storie, tradizioni e valori diversi e non meno antichi di quelli occidentali, ribadisce che la storia, la tradizione e i valori dell’Occidente sono superiori in quanto sono gli unici che, nella misura in cui garantiscono la libertà e il diritto individuali, possono essere considerati “veramente” universali (anche se, come Marx ha ironicamente commentato, si riducono ai diritti e alla libertà dell’individuo borghese). 


Ma il merito dei nostri tre amici è anche quello di non legittimare le contronarrazioni dei teorici essenzialisti e culturalisti (Afropessimisti, Decoloniali, ecc.) che, attraverso i concetti di Negritudine, Blackness e consimili, tentano di evocare universalismi “alternativi” a quello occidentale, screditando in quanto “eurocentriche” le teorie e le ideologie che, come il marxismo e il patriottismo antimperialista, hanno ispirato le lotte di liberazione nazionale.  


Restando in tema di eurocentrismo. In diversi scritti (10) ho duramente criticato il carattere innegabilmente eurocentrico (con le dovute eccezioni) della tradizione marxista occidentale, riferendomi, in particolare, alla tesi economicista secondo cui la transizione al socialismo è possibile solo laddove lo sviluppo delle forze produttive abbia raggiunto un determinato livello, e al suo corollario, in base al quale a tale livello la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione fa sì che la transizione assuma il carattere di “necessità” storica. A Lenin va il merito di avere liquidato questo dogma, sia introducendo il concetto di “anello debole” della catena (la rivoluzione socialista è possibile piuttosto laddove le élite dominanti non sono più in grado di esercitare la propria egemonia), sia riconoscendo il ruolo strategico delle lotte di liberazione nazionale nel creare le condizioni della rivoluzione socialista mondiale. Gli autori che abbiamo appena discusso compiono un ulteriore, decisivo passo avanti in tale direzione.


Se la rivoluzione cinese e le rivoluzioni latinoamericane avevano già ampiamente dimostrato (11) come la rivoluzione socialista non sia monopolio esclusivo della classe operaia di tipo occidentale, ma possa essere realizzata da (e storicamente sia stata realizzata solo da) larghe masse popolari in prevalenza contadine, i nostri tre autori hanno ulteriormente esteso il concetto di lotta di classe anticapitalista: 1) evidenziando come le comunità nere della diaspora abbiano contribuito al superamento dei conflitti interetnici e al sorgere di una coscienza panafricanista rivoluzionaria, 2) mettendo in luce come le culture tradizionali possano, a determinate condizioni, assumere il ruolo di soggetti antagonisti paragonabili alla classe operaia occidentale, 3) criticando coloro che attribuiscono il fallimento dei progetti politici post coloniali al fatto di avere assunto la forma-stato, dimenticando che l’obiettivo della costruzione dello stato nazione ha un significato del tutto diverso  nel contesto dei mondi colonizzati rispetto al contesto europeo, 4) dimostrando che il decentramento  della produzione nei paesi in via di sviluppo e il permanere dello sfruttamento neo coloniale di interi continenti è la causa fondamentale della sconfitta del proletariato industriale occidentale, per cui il testimone della rivoluzione socialista è ormai passato nelle mani del resto del mondo. 


Ciò vuol dire che essa è “necessariamente” destinata a vincere in Asia, Africa e America Latina? Affermare tale tesi vorrebbe dire attribuire ai popoli di recente o futura emancipazione lo stesso "destino" storico che abbiamo a lungo attribuito al proletariato occidentale. Ma il futuro non è nelle mani di nessuna presunta “legge” storica, bensì delle soggettività concrete che tentano di costruirlo, al di là dei miti essenzialisti e universalisti. Così come la sconfitta dell'ondata di lotte rivoluzionarie degli anni Settanta in Africa non era un destino inevitabile (come ogni passaggio storico avrebbe potuto avere un esito diverso) allo stesso modo non esiste alcuna garanzia che una nuova ondata avrà successo.  


Note 


(1) Il dibattito in merito alla opportunità di realizzare una rivoluzione socialista in assenza di un moderno proletariato industriale può essere fatto risalire alla celebre lettera alla Zasulic, nella quale Marx discute sulla possibilità - teorizzata dai populisti - che le comunità contadine russe (obscina) riuscissero a passare direttamente al socialismo senza transitare dalla fase capitalista (cfr. K. Marx. F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore, Milano 1960). La discussione è stata ripresa in America Latina da autori come Mariategui (Saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino 1972), Dussel (L'ultimo Marx, il Manifesto Libri, Roma 2009) e Linera (Forma valor y forma comunidad, quito 2015). Quest'ultimo, in particolare, ha sostenuto che le comunità originarie andine, in ragione della loro resistenza nei confronti delle relazioni sociali di tipo capitalistico, possono essere considerate una classe antagonista a tutti gli effetti. Cabral aggiunge una tessera importante a questo dibattito.


(2) Il concetto di cultura di Cabral è di tipo materiale-antropologico nella misura in cui rinvia alle pratiche di produzione e riproduzione della vita e delle relazioni sociali.


(3) Sul concetto gramsciano di egemonia Cfr. Quaderni dal carcere, 4 voll. Einaudi, Torino 2014. 


(4) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell'essere sociale, 4 voll.. Meltemi 2023.


(5) Sul concetto di ri-africanizzazione della cultura, vedi, fra gli altri, Ngugi Wa Tiong'o, Decolonizzare la mente, Jaka Book, Milano 2015. 


(6) Sulla relazione di interdipendenza sviluppo/sottosviluppo cfr., fra gli altri, A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020. 


(7) Qui vi è una chiara analogia con la visione leniniana del rapporto fra partito e classe:  da un lato il partito deve essere costantemente a contatto con le masse e integrarne le avanguardie al proprio interno, dall'altro le masse possono assumere coscienza politica solo imparando a conoscere i rapporti fra tutti gli strati che compongono la società.


(8) Cfr. Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2013.


(9) Cfr. S. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2000. 


(10) Cfr. in particolare C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll. Meltemi, Milano 2023. 


(11) Vedi op. cit., vol. II ("Elogi dei socialismi imperfetti"), capitoli 1 e 3. 


 





 

lunedì 11 novembre 2024

I POPOLI AFRICANI  CONTRO  L’IMPERIALISMO
2.  KEVIN OCHIENG  OKOTH




Il trittico africano, iniziato con le recensioni a due libri di Said Bouamama; prosegue con questo secondo post che anticipa la mia postfazione al libro Red Africa, di Kevin Ochieng Okoth che sarà in libreria per i tipi di Meltemi il prossimo 22 Ottobre. Ritroverete qui molti temi trattati nei lavori di Bouamama, come la critica dell’approccio “culturalista” (a partire dai miti della negritudine) al processo di emancipazione dei popoli post coloniali dal dominio imperiale dell’Occidente, e come il rifiuto del tentativo di liquidare il marxismo come “eurocentrico” e quindi inservibile per guidare le nazioni africane sulla via dello sviluppo autonomo. Rispetto a Bouamama, Okoth analizza più estesamente e a fondo il ruolo determinante che le lotte afroamericane hanno svolto nella formazione di uno spirito panafricanista rivoluzionario. Infine, come avrete modo di vedere, il punto di vista di Okoth appare più severo di quello di Bouamama nei confronti degli errori e delle scelte opportuniste delle élite che hanno guidato le lotte di liberazione nazionale (ma su questo tema tornerò in sede di conclusione dopo avere pubblicato la terza e ultima puntata di questo trittico, dedicata al pensiero di Cabral).      



Kevin Ochieng Okoth




Red Africa. Idee per riportare Marx in Africa



Mezzo secolo fa, una feroce controffensiva dell’imperialismo occidentale, guidata dagli Stati Uniti, stroncava la speranza dei Paesi non allineati, molti dei quali pervenuti da poco all’indipendenza, di imboccare la via dello sviluppo e della transizione al socialismo. Prima di tale sconfitta, esistevano realmente le condizioni oggettive e soggettive per liberare una gran parte dell’umanità dall’oppressione e dallo sfruttamento? Il libro di Kevin Ochieng Okoth tenta di rispondere al quesito, analizzando nel contempo le cause del fallimento di quel grandioso movimento. Ma soprattutto descrive il livello più avanzato – quello che nel libro viene chiamato Red Africa – che quel ciclo di lotte ha espresso sul piano politico, teorico e ideologico. Il punto di vista dell’autore non è onnicomprensivo, nel senso che non si occupa di tutte le lotte rivoluzionarie del Terzo Mondo: accenna solo episodicamente a quelle asiatiche e latinoamericane concentrandosi invece su quelle delle popolazioni africane e afroamericane (statunitensi e caraibiche) e descrivendo la nascita e il tramonto di quell’internazionalismo nero che, dal Secondo dopoguerra agli anni Settanta del secolo scorso, ha incendiato le due sponde dell’Atlantico. 


L’interesse di questo lavoro, tuttavia, non è esclusivamente, e forse nemmeno prevalentemente, di tipo storico perché esiste già – anche se poco nota in Italia – un’ampia bibliografia sugli eventi che vi sono descritti; è anche e soprattutto di tipo teorico, nella misura in cui tocca quattro temi cruciali del dibattito in ambito marxista (e più in generale antimperialista): 1) le lotte dei neri contro il colonialismo, il razzismo e l’imperialismo sono assimilabili a quelle degli altri popoli oppressi, oppure coinvolgono una dimensione specifica che può essere colta solo evocando lo statuto “ontologico” dell’essere neri (Blackness nel libro)? 2) la teoria marxista è in grado di interpretare le complesse e stratificate relazioni di oppressione e sfruttamento (economico, razziale, coloniale, ecc.) che oppongono bianchi e neri, oppure incorpora una serie di elementi eurocentrici che ne inficiano la comprensione del fenomeno?; 3) i residui di comunitarismo (o comunismo primitivo) e le tradizioni culturali precapitalistiche incorporano un potenziale anticapitalistico, oppure si tratta di formazioni sociali storicamente regressive, inutilizzabili, se non dannose, ai fini di una trasformazione in senso socialista? 4) la nascita di stati-nazione formalmente indipendenti a seguito delle lotte anticoloniali è stata una tappa ineludibile del processo di emancipazione dei Paesi del Terzo Mondo, oppure si è trattato, come sostiene Antonio Negri, del “dono avvelenato”(1) dei movimenti di liberazione nazionale, che ne ha agevolato l’integrazione nel sistema neoliberista? 


Nella prima parte riassumerò l’analisi storica dell’autore. Nella seconda entrerò nel merito dei quattro quesiti appena elencati, la cui importanza trascende a mio avviso i temi affrontati da Okoth, nel senso che aiuta a capire le ragioni del fallimento di quel marxismo occidentale che non solo non ha dato un contributo significativo alle lotte delle nazioni postcoloniali, ma soprattutto non ha saputo riconoscere che da quelle lotte è emersa una visione innovativa del marxismo che rappresenta un antidoto all’irrigidimento dogmatico che la teoria ha subito alle nostre latitudini.


1.

Nel ventennio che va dalla conferenza di Bandung (1955) alla crisi petrolifera degli anni Settanta, si gioca una partita che vede, da una parte, il fronte unito dei popoli del Terzo Mondo, molti dei quali convergono nel movimento dei Paesi non allineati e, dall’altra, il blocco occidentale, impegnato nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Okoth definisce “spirito di Bandung” il tentativo da parte dei primi di fondare la solidarietà non sulle affinità razziali e culturali, bensì sul rifiuto comune di colonialismo e imperialismo. La denominazione di “non allineati” esprime una rivendicazione di autonomia rispetto ai due contendenti della Guerra Fredda, il che non implica la rinuncia all’obiettivo di perseguire un’inedita forma di socialismo terzomondista. Si tratta di una velleità che, per quanto non egemonizzata (anche se in varia misura sostenuta e appoggiata) dal blocco sovietico, rappresenta un’intollerabile sfida agli interessi economici e politici dell’imperialismo occidentale, soprattutto a quelli degli Stati Uniti, impegnati a instaurare un vincolo neocoloniale sulle regioni del mondo che si sono appena emancipate dal dominio delle potenze europee (è il motivo per cui l’America, dopo la sconfitta francese di Dien Bien Phu, si sostituisce all’esercito francese nella guerra contro il Vietnam).


Gli Stati Uniti hanno un’ulteriore ragione di paventare le turbolenze del Terzo Mondo. Lo spirito di Bandung, che permea i leader delle lotte di liberazione nazionale nel continente africano, ha infatti contagiato i neri d’America. Leader afroamericani radicali come Malcolm X viaggiano in Africa e tornano con la convinzione della necessità di dare vita a un internazionalismo nero. Il Black Campus Movement, che investe gli atenei nel decennio ’65-’75, secerne un miscuglio di marxismo, nazionalismo e panafricanismo, mentre i Black Studies, che nascono sotto la spinta di questo ciclo di lotte, vengono concepiti come strumento per formare gli “intellettuali organici” della rivoluzione nera. La controffensiva Usa sul fronte interno è durissima sia sul piano militare che su quello culturale e ideologico. Sul primo, si è assistito a una campagna di omicidi mirati e di incarcerazioni, che ha sistematicamente smantellato le organizzazioni delle sinistre nere radicali. Per quanto riguarda il secondo, Kevin Ochieng Okoth descrive dettagliatamente il processo di “normalizzazione” dei Black Studies che vede l’espulsione/marginalizzazione dei docenti “pericolosi” e la loro sostituzione con professori neri “moderati”.


A offrire gli strumenti ideologici di questa contropropaganda provvedono, in particolare, due scuole di pensiero: l’afropessimismo 2.0 e gli Studi Decoloniali (assieme a certe correnti del pensiero postcoloniale). L’afropessimismo 2.0 (nel libro AP 2.0) viene così definito per distinguerlo dall’afropessimismo “classico” (che attribuiva i problemi delle nazioni di recente indipendenza alla cultura politica africana, inefficiente e corrotta “per natura”). I suoi guru – fra i quali Frank Wilderson e Jared Sexton – propongono un’“ontologizzazione” della Blackness, sostenendo che la violenza contro i neri non è il prodotto del supersfruttamento economico e dell’oppressione coloniale, bensì di una presunta “necessità ontologica” inscritta negli stessi fondamenti della modernità occidentale: il mondo moderno necessita della violenza contro i neri, per cui il Nero/Schiavo viene disumanizzato ed escluso a priori dall’esercizio della politica. Ne consegue che non è impegnandosi nella politica che può ottenere riconoscimento e riscatto.


Il punto di vista degli Studi Decoloniali – che hanno il loro massimo esponente in Walter Mignolo (2) – è ancora più radicale: la questione della decolonizzazione può essere affrontata e risolta solo attraverso un approccio simbolico-culturale. Accantonata la categoria marxista di sfruttamento, l’emancipazione dei neri può arrivare solo dalla riscoperta delle proprie radici identitarie e culturali; il delinking dall’economia e dalla politica metropolitane auspicato dal marxista Samir Amin (3) viene rimpiazzato dal delinking dall’episteme occidentale. Sia queste due scuole che molti esponenti degli Studi Postcoloniali liquidano le lotte di liberazione nazionale (soprattutto se ispirate dall’ideologia marxista) in quanto “stataliste”, nella misura in cui abbracciano quel concetto di stato-nazione che è tanto consustanziale alla modernità occidentale quanto alieno alle tradizioni politico-culturali africane; il marxismo è irrimediabilmente “eurocentrico” e dunque incapace di interpretare le contraddizioni specifiche della condizione coloniale. Queste posizioni non sono egemoniche solo nelle università angloamericane (e sempre più in quelle del resto del mondo occidentale), ma si diffondono anche fra gli intellettuali neri di tutto il mondo, Africa compresa, dove, come vedremo fra poco, contribuiscono a rafforzare l’egemonia delle neoborghesie postcoloniali.





La controffensiva imperialista sul fronte africano non è meno feroce che negli Stati Uniti e, sebbene negli anni Settanta la vittoria vietnamita e le rivoluzioni delle ex colonie portoghesi riuscissero a tenere alta la bandiera della via socialista alla liberazione nazionale, già a quell’epoca il grosso del lavoro per Washington e le altre potenze neocoloniali era sostanzialmente compiuto. In primo luogo, attraverso gli assassinii mirati di molti leader africani (Patrice Lumumba in Congo, Omar Blondin Diop in Senegal, Pio Gama Pinto in Kenya, Amílcar Cabral in Guinea Bissau, fra gli altri) o golpe di destra, come quello che ha rovesciato il presidente ghanese Nkrumah. Poi, con la cooptazione di buona parte delle borghesie nazionali che avevano guidato le rivoluzioni di liberazione nazionale, comprese quelle che avevano esibito la bandiera del “socialismo africano” (Senghor in Senegal, Kenyatta in Kenya, Touré in Guinea, Nyerere in Tanzania). Infine, sfruttando la crisi del debito seguita alla crisi petrolifera, che ha messo le nazioni del Terzo Mondo nelle mani del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dei loro “aiuti”, vincolati all’adozione di politiche liberiste.


Okoth attribuisce la scarsa capacità di resistenza di questi pseudosocialismi africani nei confronti dell’offensiva occidentale, oltre che alle difficoltà oggettive associate alla costruzione di nuove entità nazionali, alla debolezza ideologica dei rispettivi leader. Occupandosi in particolare di Senghor, ne mette in luce lo stretto rapporto con il concetto di Negritudine. Questo movimento politico-culturale ha avuto il merito – soprattutto grazie a Aimée Césaire (4) – di esaltare la bellezza, lo spirito e le forme dell’arte e della cultura africane, favorendo nel contempo lo sviluppo di un sentimento di orgoglio antirazzista nelle popolazioni di colore. Senghor lo ha però sfruttato per alimentare il mito dell’originarietà del comunitarismo africano come fondamento di una via alternativa al socialismo. In particolare, rovesciando la prospettiva di Althusser (5), Senghor ha contrapposto il Marx “umanista” delle origini al Marx “scientista” della maturità, sostenendo che il primo era più funzionale al progetto di un socialismo con caratteristiche africane.


Dal canto loro, leader come Kenyatta, Touré e Nyerere hanno formulato progetti ancora più drastici di “africanizzazione” del socialismo, respingendo in toto il marxismo in quanto ideologia eurocentrica (in sintonia con le posizioni dell’AP 2.0 e degli Studi Decoloniali, richiamate poco sopra). Okoth liquida questo approccio accusandolo senza mezzi termini di essere una mascheratura ideologica delle borghesie nazionali per giustificare la propria resa agli interessi imperialisti occidentali, come dimostra il fatto che tutti questi regimi hanno represso le opposizioni di sinistra.


Del tutto diverso il giudizio di Okoth sulle lotte di liberazione delle ex colonie portoghesi (Guinea Bissau, Capoverde, Angola e Mozambico). Questi movimenti (Red Africa nel libro) si sono sviluppati in un contesto del tutto particolare e diverso da quello di altri Paesi africani: a partire da una composizione di classe che vedeva la presenza di masse di coloni bianchi poveri emigrati dalla madrepatria in cerca di lavoro, nonché di una piccola borghesia nera progressista che, pur avendo subito un processo di assimilazione, nutriva sentimenti patriottici; nonché dalle condizioni favorevoli create dalla Rivoluzione dei Garofani, che ha rovesciato il regime fascista di Salazar nel 1974. Ma soprattutto si tratta di movimenti che hanno optato per una visione marxista del processo rivoluzionario (con diverse sfumature: mentre la base contadina e studentesca subiva l’influenza cinese, le élite dirigenti sono rimaste perlopiù filo-russe, anche se non dogmaticamente marxiste-leniniste). In particolare, Okoth esalta la concezione del processo rivoluzionario sviluppata da Amílcar Cabral, una visione che, sempre secondo Okoth, ha favorito la sperimentazione, nelle zone liberate nel corso della guerra anticoloniale, di forme avanzate di democrazia diretta e partecipativa. Un esperimento che la concentrazione nelle mani dello stato-partito avrebbe poi liquidato. Ma di questo parlerò nella prossima parte.


2.


Riparto dai quattro temi teorici elencati nell’introduzione.


1) Sulla Blackness.

Con la sua approfondita critica del concetto “monolitico” di Blackness, Okoth offre un importante contributo alla comprensione degli effetti politico-culturali della “svolta linguistica” nelle scienze sociali, smascherandone la natura funzionale al progetto di spoliticizzazione del conflitto di classe in generale e del conflitto fra popoli del Terzo Mondo e centri metropolitani in particolare, nonché la negazione dell’intimo rapporto fra lotta di classe e lotta antirazzista. L’AP 2.0 e gli Studi Decoloniali, da un lato, “ontologizzano” la condizione dei neri evocando  la figura del Nero/Schiavo, che, oltre a essere un prodotto necessario della modernità in quanto tale – e non delle esigenze dell’accumulazione primitiva del capitale –, diviene così qualcosa di assolutamente diverso dagli altri soggetti razzializzati dall’oppressione coloniale; dall’altro lato, spostano il progetto dell’emancipazione dal terreno della critica dell’economia politica a quello della decolonizzazione dei linguaggi e dei saperi.


Questa operazione è non a caso un prodotto del milieu accademico anglosassone, e di una casta intellettuale priva di rapporti con i soggetti di lotta. Per smontarla, Okoth dimostra come tale approccio sia frutto di una visione che si concentra sull’esperienza afroamericana negli Stati Uniti, ignorando sia l’esistenza di differenti forme di schiavismo in America Latina, Africa e mondo islamico, sia la pluralità delle tipologie di relazione fra razzismo e sfruttamento capitalistico – una pluralità che rispecchia le differenti forme che l’oppressione imperialista assume in diversi contesti regionali. Stabilito che la Blackness, in quanto categoria ontologica, è un mero costrutto accademico, Okoth dedica un intero capitolo del libro a respingere il maldestro tentativo di arruolare il giovane Fanon di Pelle nera, maschere bianche (ETS, Roma 2015) nel campo dei teorici delle radici esclusivamente psichiche e identitarie del conflitto razziale, opponendolo al Fanon antimperialista e anticapitalista de I dannati della terra (Einaudi, Torino 2007).


2) A proposito dell’eurocentrismo marxista.


Che nel pensiero di Marx ed Engels, e più in generale nella tradizione del marxismo occidentale (in assai minor misura in Lenin, che tuttavia non può essere agevolmente inquadrato in tale tradizione), esistano elementi di eurocentrismo è un dato di fatto innegabile, come è stato ampiamente argomentato, fra gli altri, da Hosea Jaffe (6). Del resto ciò appare inevitabile ove si considerino il periodo storico e il contesto geografico in cui si è svolto il lavoro teorico dei padri fondatori del comunismo, così come è certificato dal persistere di tracce di progressismo illuminista, evoluzionismo e positivismo nella loro opera (vedasi la sopravvalutazione del ruolo dello sviluppo delle forze produttive, la visione teleologica del processo storico, ecc.) (7). Che tali elementi inficino la capacità del marxismo di offrire un contributo decisivo all’analisi delle lotte per l’emancipazione dei popoli coloniali, come sostenuto dagli autori criticati da Okoth, è tutt’altra storia.





Okoth si avvale di un’ampia bibliografia per dimostrare come Marx abbia descritto, sia pure in modo non sistematico, il peso strategico del lavoro non retribuito nell’accumulazione del capitale, oltre ad analizzare la relazione fra accumulazione primitiva, razzismo e schiavismo, nonché la persistenza di forme di sfruttamento precapitalistiche come fenomeni permanenti e strutturali del modo di produzione e non come meri residui. Ma soprattutto valorizza la svolta dell’ultimo Marx (8), riferendosi alla famosa lettera a Vera Zasulic  (9) e al suo confronto critico con i populisti russi in merito alla possibilità che le comunità contadine russe fossero in grado di approdare al socialismo senza passare dalla fase capitalistica. L’approccio di Okoth, per inciso, è condiviso da diversi marxisti latinoamericani, come il peruviano Carlos Mariategui (10) e il boliviano Álvaro Linera (11). Ignoro se Okoth conosca questi contributi, quel che è certo è che considera il pensiero di Amílcar Cabral come la punta più avanzata della corrente di pensiero che chiama Red Africa, e Cabral ha espresso posizioni analoghe a quelle appena richiamate attribuendo alla “classe nazione” il ruolo di protagonista della prima fase della rivoluzione anticoloniale; fase alla quale, per transitare verso il socialismo, dovrebbero seguire una seconda fase, in cui emergono le differenze di classe nella società postcoloniale, e una terza fase, caratterizzata dal suicidio delle avanguardie piccolo borghesi in quanto classe come preludio alla rivoluzione sociale. In un passaggio illuminante del libro che avete appena letto, leggiamo che il vero problema non è cosa può fare il marxismo per queste rivoluzioni, bensì cosa possono fare queste rivoluzioni per il marxismo. Concordo pienamente, nel senso che molte rivoluzioni del Terzo Mondo, in Asia (Cina e Vietnam), in Africa (Guinea, Angola e Mozambico), in America Latina (Cuba, Venezuela, Bolivia), hanno stimolato profonde rielaborazioni della teoria marxista che oggi rappresentano, rispetto all’esausto marxismo occidentale, strumenti assai più affilati per una rivoluzione anticapitalista mondiale.


3) Culture tradizionali e transizione socialista


Certe forme di comunitarismo primitivo vanno considerate come meri residui precapitalistici, oppure possono esprimere (vedi punto precedente) un potenziale anticapitalista? Su questo problema la posizione di Okoth non è del tutto chiara. Da un lato, laddove critica i “socialismi” africani che rifiutano l’eurocentrismo marxista e assumono i valori e le pratiche solidali delle formazioni sociali precoloniali come base di una via alternativa al socialismo, sembra propendere per la prima alternativa, citando gli autori che rifiutano come regressive le infatuazioni “nostalgiche” e primitiviste. Dall’altro, non può non prendere atto che anche le ideologie dei movimenti che chiama Red Africa integrano in qualche misura il marxismo con le culture tradizionali dei Paesi in cui operano (pena il distacco fra élite culturalizzate e masse popolari). In poche parole, come conferma il fatto che nel libro mancano riferimenti ai marxismi latinoamericani citati poco sopra (né, tanto meno, al socialismo “con caratteri cinesi”), si ha la sensazione che Okoth fatichi a discostarsi dal modello “canonico” di socialismo e comunismo formulato da Marx ed Engels a fine ’800. Ciò detto, la vera questione che sta dietro a tutto ciò è squisitamente filosofica: il valore universale di un’esperienza rivoluzionaria si misura in relazione alla sua approssimazione a un qualche dogma teorico, oppure anche, se non soprattutto, in relazione ai suoi risultati pratici? E più in generale: esiste un criterio universale di giudizio che non sia il prodotto “locale” della razionalità occidentale? Tuttavia, non è ovviamente questa la sede per affrontare un interrogativo così impegnativo.


4) Stato-nazione e rivoluzione anticoloniale


Anche sulla questione dello stato-nazione la posizione di Okoth non è scevra di ambiguità. Da un lato, polemizza con le correnti dell’anarchismo nero che esaltano l’esperienza dei maroons (gli schiavi fuggiaschi caraibici) che fondavano comunità autosufficienti e autogestite, senza stato, e afferma a più riprese che l’aspirazione all’autodeterminazione dei popoli coloniali è necessariamente associata alla costruzione di stati-nazione, l’unico strumento che possa consentire loro di affermare la propria identità e i propri interessi in un mondo fatto di stati-nazione. Dall’altro, però, cita anche la boutade di Negri secondo cui lo stato-nazione è il “dono avvelenato” delle rivoluzioni anticoloniali (12) e, mentre esalta le forme di democrazia diretta sperimentate nelle zone liberate durante le guerre di liberazione delle ex colonie portoghesi, sembra attribuire la loro successiva sparizione all’affermarsi di un potere centrale monopolizzato da stati-partito modellati sull’esperienza dei socialismi reali. Questa concessione allo Zeitgeist postmoderno delle sinistre occidentali è in sintonia con la parte finale del settimo capitolo, laddove Okoth esalta Andrée Blouin, la femminista nera che sostiene che, se avessero comandato le donne, la rivoluzione anticoloniale avrebbe avuto tutt’altro esito(13).


Personalmente ritengo tuttora valida l’idea, formulata un secolo fa da Lenin, che il principio di autodeterminazione e la lotta per l’indipendenza nazionale dei popoli coloniali (oggi post-) siano stati e siano tuttora parte integrante della rivoluzione antimperialista e anticapitalista mondiale, e che la costruzione di stati-nazione, pur con tutte le contraddizioni associate a tale processo, sia stata e resti tuttora una tappa fondamentale dell’emancipazione dei popoli e delle classi sfruttate ed oppresse. Ciò appare più che mai valido nell’attuale contesto storico, caratterizzato dalla crisi del processo di globalizzazione guidato dall’imperialismo Usa, in cui molte nazioni postcoloniali lottano per sottrarsi al dominio economico, politico e culturale che l’occidente è riuscito a ristabilire su questi popoli dopo il raggiungimento dell’indipendenza formale – una lotta che potrà avere successo solo assumendo caratteri anticapitalistici. Concludo dicendo che il libro di Okoth, malgrado alcuni limiti che ho cercato di mettere in luce in quest’ultima parte, è senza dubbio un importante contributo alla comprensione delle lotte di classe in Africa, e più in generale nei Paesi del Terzo Mondo: un’impresa strategica che le sinistre postmoderne hanno abbandonato da tempo.


Note
(1) Cfr. M. Hardt, A.Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001.
(2) Cfr. W. Mignolo, C. Walsh, Decolonialità. Concetti, analisi, prassi, Castelvecchi, Roma 2024.
(3) Cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986.
(4) Anche se Okoth rimprovera all’autore del Discorso sul colonialismo il fatto di non essersi mai veramente emancipato dall’egemonia culturale francese, tanto da appoggiare lo status di dipartimento d’oltremare della Martinica, gli riconosce il merito di avere formulato una delle più dure e coerenti denunce del razzismo, arrivando ad assimilare i crimini del nazismo a quelli delle liberaldemocrazie occidentali. Ciò che il borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo rimprovera a Hitler “non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa”. Cfr. A. Césaire, Discorso sul colonialismo, onbre corte, Verona 2020, p. 57.
(5) Cfr. L. Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967.
(6) Cfr. H. Jaffe, Davanti al colonialismo, Jaka Book, Milano 1995. Chi scrive si è occupato del tema dell’eurocentrismo in Marx ed Engels nell’articolo L’eurocentrismo “funzionale” di Marx ed Engels sul blog ”Per un socialismo del secolo XXI” (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/02/leurocentrismo-funzionale-di-marx-ed.html).
(7) Troviamo una delle più accurate analisi di queste tracce della cultura borghese ottocentesca nel corpus delle opere marxiane in C. Preve, La filosofia imperfetta, FrancoAngeli, Milano 1984. Ne ho a mia volta discusso nel primo capitolo, La cassetta degli attrezzi, del primo volume del mio ultimo libro, Guerra e rivoluzione, Meltemi, Milano 2023. 
(8) Cfr. E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, Roma 2009.
(9) Cfr. K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 1960.
(10) Cfr. J.C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino 1972.
(11) Cfr. A.G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Sueños, Quito 2015.
(12) Si veda nota 1.
(13) Messa fra parentesi questa tesi ideologica indimostrabile, confesso di essere rimasto irritato dal fatto che la Blouin critica ferocemente Lumumba per essersi arreso ai propri carnefici perché ricattato dal fatto che la sua famiglia era nelle loro mani. Secondo Blouin ha così dimostrato di anteporre i propri sentimenti alla causa rivoluzionaria, cosa che lei, scrive, si sarebbe invece sempre rifiutata di fare. Ammesso che questa rivendicazione sia fondata, ciò dimostrerebbe solo che, per essere veramente rivoluzionaria, una donna dovrebbe allinearsi ai valori di un eroismo guerriero di stampo prettamente maschile, un punto di vista che non credo molte femministe sarebbero disposte a condividere. 

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