Lettori fissi

mercoledì 4 gennaio 2023

SULLA CRISI DEL MOVIMENTO COMUNISTA IN ITALIA



Un anno e mezzo fa (maggio 2021) spiegavo su questa pagina le ragioni per cui, dopo qualche decennio in cui, pur non avendo mai smesso di professarmi comunista, non ho svolto militanza attiva, sentivo l'esigenza di impegnarmi concretamente in un progetto politico. A sollecitare tale scelta, scrivevo, era lo spettacolo degli effetti che quarant'anni di controrivoluzione liberale hanno prodotto in termini di degrado della qualità della vita e dei livelli di coscienza civile e politica di miliardi di esseri umani. Dopodiché esprimevo la convinzione che, per cambiare le cose , non occorresse ricostruire una "sinistra", termine che ha perso ogni valenza positiva agli occhi delle masse popolari, ma rilanciare l'obiettivo del superamento della società capitalista verso il socialismo. 


Nello stesso post analizzavo le ragioni del  fallimento delle esperienze ascrivibili all'area dei populismi e sovranismi di sinistra, un'area che, per motivi che ho descritto in alcuni  miei  libri, mi era parsa più vitale delle formazioni neo/post comuniste residuate dal tracollo del PCI prima e di Rifondazione Comunista poi (1). Infine, interrogandomi su quali requisiti minimi avrebbe a mio avviso dovuto avere una formazione politica all'altezza delle sfide del nostro tempo, ne elencavo cinque: 1) un forte impegno nella ricostruzione dell’unità del proletariato distrutta da decenni di guerra di classe dall’alto, a partire dal lavoro teorico di ridefinizione del concetto stesso di classe finalizzato ad analizzare le nuove forme dell’oppressione e dello sfruttamento capitalistici, ma soprattutto non fine a sé stesso ma alla ricostruzione del partito di classe; 2) una radicale presa di distanza  dalle sinistre liberali e/o presunte “radicali”, a partire  dal ripudio dell’ideologia antistatalista e antipolitica che è il tratto distintivo della cultura dei movimenti post sessantottini - un'ideologia demenziale che rinuncia alla lotta per il potere politico (bollato come l'incarnazione del male) e sogna di poter cambiare il mondo “a partire da sé”; 3) una chiara consapevolezza della incompatibilità fra quel cosmopolitismo borghese che è oggi la cifra del progressismo di sinistra, e l’internazionalismo proletario da intendere come rapporto di solidarietà attiva fra proletari e popoli oppressi e sfruttati, il che implica che la sovranità popolare e la democrazia non possono prescindere dalla sovranità nazionale, perché nessun popolo privato della sua sovranità può decidere liberamente del proprio futuro (l'opposizione più radicale alla Ue è corollario imprescindibile di tale punto); 4) Una coerente posizione antimperialista che identifichi negli Stati Uniti il nemico principale, in quanto superpotenza incapace di gestire il proprio declino egemonico e di accettare un mondo multipolare, e disposta, onde evitare tale declino, a scatenare una nuova guerra mondiale contro Cina, Russia e tutti i Paesi che non accettano i diktat occidentali. Nessuna aggressione imperialista – motivata con la difesa dei "diritti umani" da parte di potenze che quei diritti hanno sempre calpestato – contro qualsiasi Paese può essere tollerata. Ciò vale per la Russia, l’Iran, la Siria, che socialisti non sono, ma vale a maggior ragione per i Paesi socialisti come Cuba, il Vietnam, la Bolivia, il Venezuela e – soprattutto – quella Cina che le sinistre liberal progressiste considerano un Paese autoritario e neocapitalista (dal punto in questione deriva, da un lato, una chiara presa di posizione in favore della Russia nello scontro in corso con il regime neonazista ucraino e il rilancio della parola d'ordine dell'uscita dell'Italia dalla Nato, dall'altro lato una ridefinizione del concetto stesso di transizione al socialismo a partire dall'esperienza cinese e dagli insegnamenti che essa offre in merito alle ragioni del fallimento dell'Urss); 5) il rifiuto di assumere una posizione “codista” nei confronti del movimento femminista (e più in generale della cultura del politicamente corretto) nella misura in cui del femminismo anticapitalista delle origini è rimasto poco o nulla, laddove l'attuale femminismo mainstream mette al centro della propria agenda politica il riconoscimento dei diritti individuali ed è divenuto parte integrante dell'establishment neoliberale (2). Concludevo scrivendo che il Partito Comunista guidato da Marco Rizzo mi sembrava la formazione politica che più si avvicinava a soddisfare i requisiti appena elencati. Dopodiché in un post pubblicato pochi giorni dopo, annunciavo di avere accettato di presentarmi come capolista del PC alle elezioni comunali di Milano. 


Dopo diciannove mesi, molta acqua politica è passata sotto i ponti. Sul piano internazionale, abbiamo assistito allo scoppio della guerra in Ucraina e alla sua rapida degenerazione nel prodromo della Terza guerra mondiale, con gli Stati Uniti, l'Europa e la Nato direttamente impegnati al fianco del regime neonazista di Kiev (mentre la tensione nei mari prospicienti la Cina è pericolosamente aumentata). Abbiamo avuto la più clamorosa conferma del ruolo subalterno della Ue nei confronti degli Usa: pur pagando il prezzo più alto della guerra tanto in termini di contraccolpi economici, quanto in termini di ridimensionamento del proprio ruolo geopolitico (con Germania e Francia ridotte a muoversi al traino del blocco anticomunista e russofobo  dei Paesi est europei), l'Europa non è stata capace di ritagliarsi il minimo margine di autonomia nei confronti degli Stati Uniti, mentre i suoi media e i suoi partiti di destra, centro e sinistra (a partire da quelli di casa nostra) sono più impegnati di quelli d'oltreoceano ad alimentare una forsennata campagna bellicista. Sul piano nazionale, il governo "tecnico" del proconsole atlantista Draghi (remake ancora più ferocemente antidemocratico di quello di Monti) ha lasciato il posto al governo Meloni, il primo governo dichiaratamente di destra radicale dalla fine della Seconda guerra mondiale (che incarna una sorta di neoliberalismo in salsa Tatcher de noantri più che un regime neofascista, come una certa retorica di "sinistra" va predicando). Ciò è avvenuto dopo una tornata elettorale anticipata che ha visto, a destra il trionfo della Meloni a spese di  Salvini e Berlusconi, a "sinistra" il tracollo del PD e una timida ripresa dell'M5S. E all'estrema sinistra?


Purtroppo ho avuto ragione - contro l'infondato ottimismo di alcuni amici e compagni - nel prevedere che la somma di tutti i partitini neo comunisti (camuffati dietro sigle para populiste/para sovraniste o neo arcobaleno) non avrebbe raggiunto il 3%. Ma il punto non è questo, almeno per chi come il sottoscritto da tempo va predicando che compito principale di un partito comunista nell'attuale contesto storico dovrebbe essere impegnare le sue esigue risorse nell'affondare radici nel corpo di classe, invece di sprecarle in velleitarie campagne elettorali. Il vero punto è il marasma teorico e ideologico che ha accomunato tutti i protagonisti di questa poco nobile gara. Sorvolo su ciò che resta di Rifondazione, su Unione Popolare e sul Partito Comunista Italiano guidato da Alboresi, ultime incarnazioni della deriva inarrestabile in cui sono affondati i resti del PCI negli ultimi vent'anni.  Mi preme invece accennare ai motivi della mia profonda delusione nei confronti del PC di Rizzo, nel quale avevo riposto qualche speranza per le ragioni sopra esposte. In due post usciti sul mio profilo Facebook ho espresso la mia radicale perplessità in merito all'operazione Italia Sovrana e Popolare: mi è parsa sbagliata la scelta di sacrificare l'identità simbolica del partito a una mini-coalizione che, non solo ha riproposto la fallimentare logica delle liste arcobaleno, ma lo ha fatto alleandosi con una forza dagli ambigui connotati ideologici; mi è parso sbagliato il tentativo di intercettare i confusi fermenti di scontento di strati piccolo borghesi, con la motivazione che oggi sono i soli ad agitarsi mentre le classi lavoratrici sonnecchiano, per tacere della motivazione ancora peggiore - frutto di uno scoraggiante pressapochismo teorico che rinuncia a priori a qualsiasi serio tentativo di analisi di classe - secondo cui questi strati sarebbero oggi compiutamente "proletarizzati" (3); mi è parso sbagliato proseguire su questa strada ignorando lo sfascio organizzativo che ha provocato, causando la fuoriuscita di molti compagni; mi è parso sbagliato "annacquare" quei temi di politica internazionale che mi avevano indotto a vedere in quel partito un'alternativa credibile agli altri "cespugli"; mi è infine parso sbagliato compiere l'ennesimo infruttuoso investimento di tutte le energie sul terreno elettorale invece di concentrarle sulla costruzione del partito di classe. 


Non è mio costume esprimere il dissenso con dichiarazioni e gesti  "teatrali", che servirebbero solo a esacerbare i rapporti con compagni nei confronti dei quali continuo a nutrire amicizia e rispetto, mi limito quindi a formalizzare la mia decisione di defilarmi rispetto a qualsiasi organizzazione pretenda di rappresentare il nucleo di un nuovo partito comunista. D'ora in poi il mio impegno sarà rivolto a contribuire ai difficili, faticosi ma indispensabili tentativi di costruire una rete di relazioni fra gli spezzoni della diaspora comunista che lo sfascio degli ultimi anni si è lasciato alle spalle.  Non si tratta di fondare un ennesimo partitino, né tanto meno un ennesimo mini cartello elettorale, ma di gettare le basi di un lungo, paziente lavoro di costruzione di un'avanguardia di classe. Nelle pagine che seguono trovate un estratto di alcune pagine dell'ultima parte del secondo volume di Guerra e rivoluzione  (il primo sarà in libreria il prossimo 27 gennaio per i tipi di Meltemi) nelle quali abbozzo un'analisi delle radici lontane della crisi del movimento comunista italiano (in questa anticipazione ho effettuato alcuni tagli, segnalati dai puntini di sospensione fra parentesi, cambiato alcune brevi frasi rispetto al testo originale e introdotto due titoli di paragrafo che nel libro non esistono).    


Sull'eredità eurocomunista 

Ciò che più colpisce della galassia dei partitini nati dalla dissoluzione del PCI (...) è il loro scarso, per non dire inesistente, impegno nell’indagare le cause di un evento sorprendente: come mai il più grande partito comunista occidentale ha potuto trasformarsi, praticamente dalla sera alla mattina, nemmeno in un partito socialdemocratico, bensì direttamente in un partito liberale. Al posto delle riflessioni ci sono state rabbia, delusione, risentimento, accuse di tradimento nei confronti del gruppo dirigente. Ma quali fattori politico culturali hanno favorito la selezione di quel gruppo dirigente? A confermare che su ciò si è ragionato poco o nulla è il fatto che, discutendo con i compagni, capita di ascoltare nostalgici panegirici di un leader come Enrico Berlinguer, vale a dire dell’uomo che ha officiato il compromesso storico con la DC; che, dopo avere proclamato l’esaurimento della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’ottobre, ha dichiarato di sentirsi al sicuro sotto l’ombrello protettivo della NATO; che, prima di presentarsi ai cancelli della Fiat nell’80, quando la battaglia era già persa, aveva benedetto la svolta opportunista di Lama - svolta che nei decenni successivi è divenuta aperta resa nei confronti di tutte le “riforme” volute dai padroni e dai loro rappresentanti politici.  

Se non si riesce a fare i conti con la figura del fondatore dell’eurocomunismo, figurarsi se ci si possono aspettare riflessioni critiche nei confronti dell’eredità teorico politica del “migliore”. Eppure la discutibile interpretazione del concetto gramsciano di “nazional popolare” elaborata da Palmiro Togliatti, è senza dubbio alla radice di molti errori successivi. Per decenni la base del partito si è illusa che la tesi della “lunga marcia attraverso le istituzioni” fosse un diversivo tattico. In realtà si trattava di una svolta che cambiava le regole del gioco rispetto allo storico dibattito sull’alternativa riforme-rivoluzione (...). Per contestualizzare tale dibattito nell’attuale fase storica, occorre chiarire che il punto non è  l’alternativa fra rivoluzione violenta e presa del potere attraverso le elezioni, bensì è il seguente: si va al potere per governare il sistema esistente, sia pure “democratizzandone” certi dispositivi, oppure perché lo si concepisce come il primo passo verso un cambiamento sistemico? Rivoluzioni come quelle venezuelana e boliviana sono del secondo tipo, come confermano le Costituzioni alle quali hanno dato vita; l’ascesa al potere del PCI immaginata da Togliatti, prevedeva viceversa una cogestione con i partiti borghesi (a partire dalla DC), che mai avrebbe consentito di avviare un cambio di sistema (ritenuto impossibile anche a causa della collocazione geopolitica del Paese (...). Si tratta di capire come e perché quel riformismo, che non metteva in discussione la natura, le funzioni e gli obiettivi di questo Stato, limitandosi a rivendicare un’applicazione più rigorosa dei principi della Costituzione, abbia ispirato infiniti compromessi con il nemico di classe (...). 


Questo mix di elettoralismo ed opportunismo è il marchio indelebile che i partitini neocomunisti hanno ereditato dal PCI. A mano a mano che perdevano voti ed iscritti, riducendosi a “cespugli”, secondo l’ironica definizione degli avversari, cresceva il loro spasmodico impegno per conquistare uno straccio di deputato, senatore, consigliere regionale o municipale. Le scarse risorse organizzative ed economiche venivano spese per realizzare tale obiettivo, piuttosto che per ricostruire il partito di classe. Questa ossessione, associata alle piccole ambizioni di un personale politico di qualità decrescente, in quanto non più forgiato dal fuoco delle lotte, ha innescato la competizione che ha alimentato la frammentazione, fino all’esito grottesco della pletora di marchi con la falce e il martello che ci siamo abituati a vedere sulle schede elettorali. Inutile aggiungere che l’abbassamento del livello culturale di quadri e gruppi dirigenti ha fatto sì che, oltre a ereditare i difetti del vecchio PCI, queste formazioni non hanno mai avviato una seria riflessione sul rinnovamento teorico del marxismo, sulle ragioni del crollo sovietico e del successo cinese, sull’evoluzione del sistema capitalistico globale, sulla sua crisi, né tanto meno,  sulle trasformazioni sociali e culturali subite dalle classi lavoratrici occidentali.  


In una certa misura, anche i partitini della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta, poi confluiti nei movimenti “post politici” dei decenni successivi, sono il prodotto della svolta eurocomunista. Dopo averla contrastata riproponendo pappagallescamente i principi del marxismo leninismo (in forme che Lenin avrebbe liquidato come estremino infantile), e dopo essere stati asfaltati dal riflusso delle lotte operaie e dalla controffensiva capitalista, si sono convertiti a loro volta al neoliberalismo, sia pure in versione “progressista” (...). Una parabola che si sovrappone in buona parte a quella di Rifondazione comunista, esperienza politica che, non fosse oggi ridotta a un patetico e ininfluente residuo, meriterebbe una riflessione ad hoc, nel senso che rappresenta un originale (qui l’aggettivo non ha connotati elogiativi) tentativo di far confluire in un unico calderone i peggiori difetti del vecchio PCI (elettoralismo e tatticismo opportunistico) con i peggiori difetti del movimentismo postsessantottino (estremismo parolaio, individualismo, democraticismo piccolo borghese, autoreferenzialità delle classi medie “riflessive”).



Partito di massa/partito di quadri 


Se è vero che costruzione della classe e costruzione del partito dovrebbero essere processi intrecciati, mi sembra chiaro che porre la questione del blocco sociale rivoluzionario prima che questi due processi abbiano raggiunto un adeguato livello di maturazione è sbagliato e controproducente, in quanto rischia di regalare l’egemonia agli strati superiori di classe media, creando le condizioni per una rivoluzione passiva. Il successo delle rivoluzioni socialiste realizzate da alcuni movimenti populisti latinoamericani sembrerebbe smentire tale tesi. La contraddizione è però apparente, in quanto i movimenti in questione sono il prodotto di condizioni socioeconomiche, culturali e storiche ben diverse dalle nostre. In particolare: 1) si tratta di rivoluzioni antiliberiste, antimperialiste e di emancipazione nazionale e razziale, realizzate  in contesti regionali che hanno favorito la convergenza di interessi fra masse contadine di etnia india, classe operaia e sottoproletariato urbani, piccola e media borghesia progressiva su obiettivi radicali di riforma costituzionale, redistribuzione della ricchezza e cambiamento di matrice produttiva; 2) a guidarle sono stati leader rivoluzionari di grande capacità politica come Chávez; Morales e Linera, temprati da lunghe e dure esperienze di lotta, i quali hanno saputo innovare creativamente la teoria socialista e mobilitare avanguardie politiche altrettanto esperte e affidabili; 3) infine il processo rivoluzionario ha potuto usufruire di strutture di democrazia diretta e partecipativa sorte nel corso di lotte precedenti. Per inciso: i partiti comunisti locali, caratterizzati da posizioni teoriche e ideologiche dogmatiche, sono stati incapaci di assumere un ruolo egemonico, finendo per venire assorbiti e  integrati in nuovi partiti rivoluzionari come il PSUV venezuelano e il MAS boliviano.


Il progetto di replicare queste esperienze nei Paesi a capitalismo avanzato messo in atto da movimenti populisti di sinistra come Podemos, è fallito perché ispirato al tentativo del filosofo argentino Ernesto Laclau di “universalizzare” il modello delle rivoluzioni latinoamericane: si è puntato a “costruire un popolo”, cioè un blocco sociale rivoluzionario, prima di lavorare all’unificazione delle classi lavoratrici e alla costruzione d’un partito rivoluzionario radicato nel sociale; si è tentato di egemonizzare i movimenti di massa contro le politiche neoliberiste  attraverso l’uso dei nuovi media e non reclutandone e organizzandone politicamente le avanguardie; si è mirato a ottenere in tempi brevi una maggioranza elettorale in grado di conquistare il governo, senza capire che la guida del governo in assenza di un progetto di mutamento sistemico sarebbe stata di breve durata, né avrebbe consentito di modificare i rapporti di forza fra le classi. Questa linea politica, oltre a produrre gravi compromessi su temi strategici, come l’atteggiamento nei confronti del blocco atlantico e delle sue guerre imperialiste e la mancata tutela degli interessi nazional popolari nei confronti delle politiche neoliberiste della UE, ha progressivamente eroso il consenso delle masse popolari fino ad azzerare le velleità maggioritarie. Anche in questo e altri casi, i comunisti organizzati nei partiti tradizionali hanno svolto un ruolo marginale, muovendosi a rimorchio dei populisti.  


In Italia, a fronte della riduzione delle sinistre nella migliore delle ipotesi a opposizione del re nella peggiore a agenti diretti degli interessi delle élite dominanti, lo spazio politico liberato dal loro fallimento è stato per alcuni anni occupato da un movimento come l’M5S, il quale, più che una sinistra populista è stato, sul piano organizzativo il collettore delle velleità “sovversive” di strati piccolo borghesi vecchi e nuovi, penalizzati dalla crisi e in stato di agitazione permanente fin dai tempi di Tangentopoli, sul piano elettorale e dell’opinione pubblica, un megafono della rabbia delle classi subalterne schiacciate dalla crisi. Allorché questa falsa alternativa si è ridimensionata a causa delle sue grottesche contorsioni di linea politica, nella galassia dei partitini neo comunisti sì è diffusa l’illusione di poterne ereditare l’effimero consenso popolare. 


Suggestionata dalle sirene populiste, frammentata sul piano organizzativo e penalizzata dal mancato rinnovamento teorico, la piccola famiglia dei comunisti italiani tenta di mettere il carro davanti ai buoi, punta cioè alla costruzione di un blocco sociale prima di avere avviato la ricostruzione della classe e del suo partito; spera di utilizzare la base elettorale dei grillini come scorciatoia per bypassare i tempi necessari a selezionare le avanguardie presenti nei  fronti di lotta, formarle come quadri politici, riunificare le disiecta membra del movimento comunista, elaborare un programma rivoluzionario e forgiare gli strumenti per metterlo in atto. Tornano i soliti vizzi – opportunismo, elettoralismo, codismo, demagogia, ecc. – aggravati dall’urgenza imposta dalla crisi economica e geopolitica mondiali. Così si gratta la pancia al movimento No Vax, evitando di depurare la sacrosanta rabbia che lo alimenta dalle scorie complottiste e dai deliri pseudoscientifici di alcuni esponenti; si strizza l’occhio ai movimenti sovranisti, senza storcere il naso di fronte ad alcune componenti chiaramente di destra;  si tessono intese elettorali con reduci dell’M5S in cerca di sponde per riconquistare un seggio. Confondendo questi frammenti semi organizzati di ceto politico con i sentimenti di frustrazione e di rabbia delle masse popolari che costoro pretendono di rappresentare, si crede di poter costruire su simili fragili fondamenta un partito di massa, senza “perdere tempo” a costruire un partito di quadri. 


Note 

I libri in cui mi sono occupato delle potenzialità politiche del populismo e del sovranismo di sinistra sono Utopie letali (Jaka Book, Milano 2013); La variante populista, (DeriveApprodi, Roma 2016) e Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano 2019) . Quanto alle esperienze di militanza cui mi riferivo nel post in questione si trattava di Eurostop, propaggine della Rete dei Comunisti riassorbita, di fatto, in Potere al Popolo e nel cartello elettorale di UP, ma soprattutto del progetto politico di Nuova Direzione che, dopo avere lasciato Eurostop in disaccordo con la scelta di confluire in PaP, avevo contribuito ad avviare assieme ad altri amici e compagni, scommettendo sull'esistenza di uno spazio politico per un movimento populista/sovranista di ispirazione esplicitamente socialista che si è rivelato inesistente.  


(2) La letteratura sulla confluenza del femminismo mainstream nell'area del liberalismo "progressista" è ormai ampia: si vedano, in proposito, gli scritti di un'autrice come Nancy Fraser.


(3) Le tesi sulla cosiddetta proletarizzazione dei ceti medi riemergono ciclicamente. Si pensi al successo che ottennero fra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta, quando i movimenti della sinistra extraparlamentare le cavalcavano per legittimare il presunto ruolo rivoluzionario dei movimenti studenteschi (da cui proveniva la grande maggioranza dei loro militanti). La storia si è poi incaricata di dimostrare come la schiacciante maggioranza di quei "nuovi proletari" - esaurito il ciclo di lotte cui avevano partecipato -  sia prontamente rientrata nei ranghi di una piccola media borghesia fatta di nuove professioni e nuovi strati tecnico-impiegatizi, se non addirittura manageriali, ben integrati nei valori, nei principi e nelle regole nell'emergente sistema neoliberista (vedasi in proposito L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014). Oggi si tenta di riproporla, associandola  all'effervescenza dei ceti medi impoveriti, impossibilitati a svolgere ruoli e mansioni all'altezza delle competenze professionali acquisite, o titolari di attività produttive messe a rischio dalla crisi economica, dagli effetti della pandemia del Covid19 e/o della guerra russo-ucraina, il tutto senza considerare che tali effervescenze sono motivate dalla speranza di riacquisire i propri privilegi più che dalla comprensione delle cause politico-economiche delle proprie paure, disagi e frustrazioni che non vengono attribuite al sistema neoliberale bensì al fatto che a tale sistema viene impedito di esercitare i suoi effetti benefici da politici disonesti e corrotti.   

venerdì 30 dicembre 2022

LA VERITA' SULLA GUERRA RUSSO-UCRAINA








In un mondo ideale, quando scoppia una guerra come quella oggi in atto fra Russia e Ucraina, che minaccia di avere gravi conseguenze non solo per le popolazioni coinvolte ma per l'intero pianeta, la prima preoccupazione di chi è in grado - per cultura e competenze - di analizzare le cause reali del conflitto, dovrebbe essere quella di trasmettere le proprie conoscenze al largo pubblico dei non addetti, non solo per aiutarlo a farsi un'opinione corretta su quanto sta accadendo, ma anche per stimolarne l'impegno a fare il possibile, se non per porre fine alla strage, almeno per limitare i danni. Purtroppo non viviamo in un mondo ideale, bensì nell'Italia attuale, cioè in un Paese inglobato in due blocchi economici, politici e militari, l'Unione Europea e la Nato, asserviti agli interessi di una superpotenza come gli Stati Uniti che, oltre a essere la prima responsabile della guerra, è anche determinata a fare sì che essa si prolunghi il più a lungo possibile, nella speranza di rallentare il proprio declino, danneggiando non solo una delle nazioni belligeranti, quella Russia che assieme alla Cina è la sua maggiore controparte geopolitica, ma anche gli "alleati" europei, i quali, dovendo pagare un prezzo elevato ove il conflitto si prolungasse, vedrebbero ridursi la propria capacità competitiva nell'ambito del blocco occidentale. Non stupisce quindi che le classi intellettuali sopra evocate - giornalisti, accademici, esperti di storia, politica ed economia, ecc. -, invece di svolgere un ruolo di informazione obiettiva sui fatti e di analisi scientifica delle loro cause, siano impegnati in una forsennata campagna propagandistica contro una delle parti belligeranti, presentandola come l'unica responsabile della guerra, se non come l'incarnazione del male assoluto.


In questa situazione, ogni tentativo di offrire una visione il più possibile completa e obiettiva degli eventi storici che stiamo vivendo, va premiato diffondendone la conoscenza fra tutti coloro che, consapevoli dell'infame campagna di disinformazione cui siamo sottoposti, sono in cerca di argomenti per contrastarla. Questo post è dedicato a quello che, a mio avviso, è il più consistente dei tentativi in questione, almeno di quelli di cui sia finora venuto a conoscenza. Il suo autore è lo storico e studioso di politica internazionale Marco Pondrelli e il lavoro cui mi riferisco è Ucraina tra Russia e Nato (Anteo Edizioni). Il libro si articola in quattro capitoli dedicati, nell'ordine, alla storia di Russia e Ucraina e dei loro rapporti dall'alto medioevo ai giorni nostri, al cambio di regime che Stati Uniti e Nato hanno fomentato nel 2014 in Ucraina e alle sue conseguenze fino all'intervento russo, a una ricostruzione delle complesse e contraddittorie correnti storiche che hanno portato all'attuale situazione della Russia post sovietica, agli interessi degli altri attori internazionali - Stati Uniti, Europa e Cina in primis - indirettamente coinvolti nel conflitto. Nell'esporne le argomentazioni mi atterrò allo stesso ordine.       


Pondrelli ricostruisce i primi passi della nazione russa partendo dal VI secolo della nostra era, epoca in cui gli slavi orientali si insediano nell'attuale Ucraina, regione anticamente abitata da popolazioni che greci e romani chiamavano Cimmeri. I discendenti degli slavi orientali daranno vita alla Rus, che avrà come capitale Kiev, fondata nell'anno 882, città che solo ai primi del 1000 si emanciperà da Bisanzio diventando sede metropolita. Sembrerebbe dunque che, almeno inizialmente, Russia e Ucraina siano stati una cosa sola, tuttavia Pondrelli ci spiega come già allora le cose fossero più complesse: mentre l'Ucraina occidentale  e la Bielorussia subivano l'influenza dell'Europa cattolica, quelle orientali erano legate a Bisanzio (quindi alla chiesa ortodossa) ed esposte agli influssi dell'impero mongolo.  Questa differenza, annota Pondrelli, è all'origine della visione geopolitica dell'Intermarium, un asse immaginario tracciato fra Baltico e Mar Nero e concepito come baluardo contro la barbarie asiatica (tesi rilanciata dalle potenze occidentali dopo la rivoluzione del 1917). 


Annotato che quella narrazione è frutto di una manipolazione ideologica (l'Orda d'Oro mongola era tutt'altro che barbarica, visto che si fondava su strutture statali ibridate con quelle del Celeste Impero cinese, più avanzate di quelle occidentali), Pondrelli passa a descrivere l'evoluzione della parte orientale, l'area "grande russa" centrata sul principato di Novgorod, regione che nel XIII secolo dovette lottare su due fronti: i mongoli a Est, gli Svedesi e i cavalieri teutonici a Ovest (un famoso film di Eisenstein  celebra la vittoria del principe Aleksander Nevksy su questi ultimi). Dal XIV secolo Mosca rimpiazza Novgorod nel ruolo di capitale dei grandi russi e sconfigge i mongoli. Nel XVII secolo una insurrezione cosacca (celebrata da Gogol nel racconto Taras Bulba) caccia i polacchi (Pondrelli osserva in merito che la Polonia non è stata solo oppressa dalla Russia ma, prima che polacchi e lituani venissero cacciati, ha svolto a sua volta il ruolo  di oppressore). Infine, dopo la dissoluzione della nazione polacca, l'attuale Ucraina verrà spartita dagli imperi austriaco e russo fino alla Prima Guerra mondiale e alla rivoluzione del 1917, perpetuando l'opposizione fra le regioni occidentali e orientali. 


Prima di passare all'attualità, Pondrelli ripercorre le tappe dell'integrazione dell'Ucraina nell'Urss ricordando come, benché Lenin fosse un convinto assertore del  principio di autodeterminazione dei popoli, a decidere del destino della regione sia stata di fatto la guerra civile fra l'esercito rosso e le formazioni bianche sostenute dalle potenze occidentali. La tesi del presunto genocidio del popolo ucraino perpetrato dai sovietici si basa tuttavia su fatti relativi a un periodo successivo, risale cioè alla carestia dei primi anni Trenta che, secondo la propaganda occidentale, sarebbe stata utilizzata da Stalin per sterminare sia i kulaki (i contadini ricchi) che gli ucraini in quanto entrambi si opponevano alla collettivizzazione forzata (i proprietari macellavano il bestiame e nascondevano il grano invece di consegnarlo alle cooperative agricole statali). Pur non nascondendo gli errori commessi dal regime  (1), Pondrelli contesta sia il merito (il sequestro forzato di bestiame e derrate alimentari fu una mossa obbligata per impedire che la carestia mietesse molte più vittime; inoltre è insensato attribuire al regime una "programmazione" della carestia, così come si sono attribuite all'intenzionalità di Mao le vittime della carestia successiva al fallimento del Grande Balzo in avanti) sia le dimensioni del cosiddetto Holodomor (genocidio): a moltiplicare a dismisura il numero dei morti furono prima la propaganda nazista, poi la campagna anticomunista orchestrata da Reagan, basata sulle tesi di storici che, come Conquest, attingevano a fonti giornalistiche inattendibili (come i racconti di un certo Thomas Walker che spacciò per dati di fatto raccolti in mesi di permanenza in Unione Sovietica  osservazioni relative a un viaggio di appena 13 giorni).


Pondrelli smonta poi l'operazione di "santificazione" di Bandera come padre della patria ucraina, frutto di uno smaccato tentativo di revisionismo storico, in base al quale Bandera sarebbe stato il leader di formazioni nazionaliste ucraine che, nel corso della Seconda Guerra mondiale, si sarebbero battute sia contro i sovietici che contro i nazisti, laddove esistono ampie e inoppugnabili prove che tali formazioni furono strettamente legate all'esercito nazista occupante e ne condivisero i crimini di guerra, fra l'altro partecipando attivamente allo sterminio di centinaia di migliaia di ebrei ucraini. La bufala di Bandera eroe nazionale impegnato su due fronti si basa sul fatto che Hitler ne ordinò a un certo punto l'arresto ma ciò, spiega Pondrelli, non fu dovuto a controversie ideologiche, bensì al fatto che Bandera rivendicava  una Ucraina indipendente (pur senza metterne in discussione l'alleanza con il Reich nazista!) come del resto dimostra il fatto che egli venne liberato nel 44 onde permettergli di combattere contro i sovietici a fianco dei nazisti.   


La dissoluzione dell'Urss nel 91e la conseguente autonomizzazione dell'Ucraina (con la incorporazione di territori come la Crimea e le regioni del Donbass abitate da popolazioni di chiara identità russa) residua quindi un Paese in cui, a seguito di tutte le traversie storiche appena descritte,   convivono lingue, tradizioni, culture e religioni diverse per cui si pone il problema della scelta di un collante che ne definisca l'identità nazionale. Questo collante, sostiene Pondrelli, è divenuto in tempi rapidi una sorta di russofobia che ha preso il posto dell'anticomunismo. La contrapposizione ideologica non aveva infatti più ragione di essere, visto che l'evoluzione dei due Paesi nell'era post sovietica aveva imboccato strade simili, caratterizzate dall'ascesa degli oligarchi che si erano appropriati delle ricchezze sottratte al controllo statale (la differenza, annota Pondrelli, consiste nel fatto che, diversamente da quanto successo in Russia, gli oligarchi ucraini sono riusciti a svolgere un ruolo direttamente politico: vedi il caso di un personaggio come la Tymoshenko). Restava, potente, il fattore della contrapposizione nazionalista, alimentato dalle mire occidentali che, come  era apparso chiaro fin dal vertice di Budapest del 2008, prevedevano di integrare l'Ucraina nella Nato (del resto in quell'anno l'accordo di non espansione della Nato a Est dopo la riunificazione tedesca era già stato violato da tempo). La Russia è riuscita a scongiurare l'inevitabile per alcuni anni, stipulando una serie di compromessi, l'ultimo dei quali ha visto come protagonista il presidente ucraino Yanukovych, finché l'Occidente ha deciso di rompere gli indugi promuovendo  il golpe del 2014, egemonizzato da formazioni estremiste di destra che si sono macchiate di crimini come il massacro di Odessa. A partire da quel momento, gli eventi si succedono rapidamente al ritmo di tessere di domino in caduta: dal referendum per il ricongiungimento con la Russia in Crimea, alla nascita delle repubbliche popolari nella regione russofona del Donbass, al fallimento degli accordi di Minsk, finché l'intensificarsi della guerra civile e l'annuncio di un possibile, imminente ingresso dell'Ucraina nella Nato provocano l'inevitabile intervento russo.


Un'immagine della guerra russo-ucraina



Tuttavia non è solo l'Ucraina a essere divisa fra un'anima occidentale (oggi prevalente) e un'anima orientale. Questa tensione, ricorda Pondrelli, è stata una costante storica anche per la Russia, come testimonia il simbolo dell'impero zarista, l'aquila a due teste che guardano una a oriente l'altra a occidente, direzioni vissute di volta in volta come promesse di espansione e minacce di invasione. Di qui il perpetuarsi della lotta fra la corrente occidentalista e quella slavofila proseguita anche nell'esperienza sovietica. Assediata dalle potenze occidentali la Russia dei Soviet, argomenta Pondrelli, ha dovuto scegliere fra due vie: fare i conti con il peso della tradizione nazionale (una via che la Cina socialista ha imboccato con sempre più decisione a partire dalle riforme degli anni Settanta), oppure agire da "straniero in patria" in attesa della rivoluzione mondiale (2). Si potrebbe dire (con molta approssimazione, in quanto le due opzioni si sono sempre ibridate a vicenda) che due figure come Stalin e Trotsky incarnano simbolicamente queste due alternative. L'ala occidentalista, nella sua forma estrema, è stata egemonica negli anni della privatizzazione selvaggia, quando la politica economica era ispirata da "esperti" come Anatolij Cubajs che, ispirandosi alle teorie di von Hayek e Friedman, predicavano la shock therapy, cioè la transizione immediata al libero mercato secondo i canoni del Washington consensus senza passare da fasi intermedie. Questa scelta si è dimostrata catastrofica non solo sul piano economico (il PIL è calato del 19%; il tenore di vita del 49%; la produzione industriale del 46%; gli investimenti del 25%; mentre il  debito pubblico e la povertà sono aumentati, rispettivamente, dell'11% e del 40%), ma ancor più su quello geopolitico che ha visto la Russia sempre più marginalizzata rispetto alle altre grandi potenze ed esposta al rischio di una vera e propria balcanizzazione sul tipo di quella jugoslava (3).


Zelensky con Biden



E' questo contesto che ha favorito l'ascesa di Putin, il quale ha isolato l'ala occidentalista radicale, ha consentito agli oligarchi di conservare le ricchezze di cui si erano appropriati in cambio alla rinuncia a svolgere un ruolo politico (4), infine ha ripreso il controllo dei confini per garantire gli interessi e la sicurezza del Paese (la guerra contro i terroristi islamici in Cecenia e gli interventi militari in Georgia e in Siria rientrano in questa strategia). Questa nuova assertività preoccupa l'0ccidente ma soprattutto gli Stati Uniti, che vedono risorgere un poderoso ostacolo alle loro mire di espansione a Est. Di qui l'ossessivo ripetersi di campagne propagandistiche che rappresentano il presidente russo come "il nuovo Hitler", ignorando  il fatto che in Russia esiste un Parlamento eletto a suffragio universale e che il regime gode di ampio sostegno popolare, e dando rilievo a un'opposizione di destra del tutto marginale, laddove  l'unica opposizione che veramente conti nel Paese è quella di un partito comunista profondamente rinnovato che non guarda al passato bensì all'esperienza cinese. Ed è alla Cina che Putin è a sua volta indotto a guardare come al proprio unico alleato, a mano a mano che l'aggressività occidentale cresce fino a tentare di inglobare l'Ucraina nella Nato, piazzando i propri missili nucleari a pochi minuti di volo da Mosca. Le cause della guerra contro l'Ucraina sono insomma simili a quelle che avevano quasi scatenato la Terza Guerra mondiale quando l'Urss aveva inviato i propri missili a Cuba. Del resto, osserva Pondrelli, il fatto che la Russia impegni solo una minima parte delle sue risorse militari, dimostra che  il suo obiettivo strategico non è invadere l'Ucraina, bensì riprendere il controllo sulle regioni di lingua ed etnia russa e costringere l'Ucraina a rinunciare all'ingresso nella Nato. 


Putin con Xi Jinping



Quanto al ruolo - o meglio all'assenza di qualsiasi ruolo autonomo- dell'Europa, Pondrelli ricorda come a preoccupare gli Usa e a indurli a provocare il conflitto sia stato, ancor più delle rinnovate ambizioni russe, il timore del saldarsi di un asse russo tedesco che sembrava configurarsi nei primi anni del nuovo millennio: un asse Russia-Germania (e quindi Europa, visto il ruolo egemonico di Berlino nella Ue) e la sua possibile proiezione verso la Cina, impegnata a costruire la Nuova Via della Seta, rappresenterebbe infatti un compattamento del continente eurasiatico che taglierebbe fuori gli Stati Uniti. Ecco perché, conclude Pondrelli, la guerra ucraina è anche e soprattutto una guerra contro l'Europa, per staccarla dalla Russia e indebolirla economicamente, un progetto che gli Stati Uniti stanno mettendo in atto con l'appoggio dell'Inghilterra e dei Paesi  dell'Est Europa. 


Note


(1) Sulle conseguenze dell'abbandono della NEP decisa da Lenin (che anticipava di mezzo secolo le riforme cinesi dell'era post maoista) da parte di Stalin, e della conseguente decisione di imboccare la strada della collettivizzazione forzata cfr. quanto scrive Rita di Leo in L’esperimento profano, Futura, Roma 2011.


(2) In un certo senso, la sinizzazione del marxismo messa in atto dal PCC, che mixa i principi marxisti con elementi della tradizione culturale cinese, può essere considerata un esempio riuscito della prima via (cioè fare i conti con la tradizione nazionale), laddove l'adattamento della teoria marxista alle concrete condizioni storiche della Russia da parte di Stalin non è stato abbastanza radicale, nella misura in cui è rimasto legato ad alcuni dogmi che hanno condizionato lo sviluppo del Paese (vedi nota precedente). Al tempo stesso la via di Trotsky - che negava la possibilità stessa di costruire il socialismo in un solo Paese - era ancora più dogmatica e avrebbe quasi certamente condotto alla dissoluzione dell'Urss già nel periodo dell'interguerra.


(3) Ne Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (Laterza, Roma-Bari 2017) e in altri testi Domenico Losurdo mette giustamente in luce come la balcanizzazione e successiva colonizzazione della Russia sia un antico sogno occidentale del quale l'invasione da parte del Terzo Reich hitleriano rappresentò il più tragico tentativo di mettere in atto. 


(4) Anche da questo punto di vista sembre che Putin si inspiri alla lezione cinese, nella misura in cui il socialismo in stile cinese si fonda appunto sulla libertà accordata a certi imprenditori di accumulare ricchezze senza consentire loro di convertire il potere economico in potere politico. La differenza è che in Cina la proprietà pubblica e il controllo dei settori strategici dell'economia da parte dello Stato-partito restano ampiamente maggioritari mentre in Russia sono stati smantellati.    

lunedì 12 dicembre 2022

USA, NATO, UE L'ABBRACCIO INSCINDIBILE FRA I TRE DELL'APOCALISSE




I. Le guerre illegali della NATO. Sul libro di Daniele Ganser. 

Daniele Ganser è uno storico svizzero che insegna all'Università di San Gallo, dirige l'Istituto Svizzero per la Ricerca sulla Pace e l'Energia ed è autore di libri che hanno suscitato l'ira degli ayatollah atlantisti, come La storia come mai vi è stata raccontata. Gli eserciti segreti della NATO, uscito in edizione italiana qualche anno fa per i tipi di Fazi. Sempre Fazi manda in libreria il suo ultimo lavoro, Le guerre illegali della NATO, che si spera possa insufflare qualche dubbio nelle teste di quelli che si bevono le balle di un sistema mediatico occidentale ormai ridotto a dispensatore di veline per conto di Washington. Eppure questo libro, che i detrattori hanno già iniziato a bollare come “complottista”, non svela alcunché di nuovo o inedito: si limita perlopiù a riportare ciò che gli stessi vertici dell'Amministrazione Usa e dell'Alleanza Atlantica hanno ammesso qualche anno dopo eventi che i media avevano manipolato per ingannare l'opinione pubblica mondiale (del resto, se le menzogne emergono dopo un congruo intervallo di tempo il loro impatto è nullo, o comunque non basta a rimediare al danno provocato all'epoca in cui sono state diffuse). 

Ma passiamo ai contenuti del libro a partire dal titolo. Perché Ganser definisce illegali le guerre della NATO? La risposta è che nessuno dei conflitti (con l'eccezione della prima guerra contro l'Iraq provocata dall'invasione del Kuwait) scatenati da Washington e dai suoi alleati soddisfa i requisiti fissati dall'ONU nel 1945, secondo i quali la guerra come metodo di risoluzione del conflitto fra le nazioni aderenti all'Organizzazione è ammessa solo in due casi: il diritto all'autodifesa e un mandato formale da parte del Consiglio di sicurezza. In tutti gli altri casi, compresi i tentativi di una nazione di rovesciare il governo legittimo di un'altra nazione anche senza un intervento militare diretto (per esempio sostenendo forme di opposizione violente o ricorrendo a guerre sotto copertura), si tratta di guerre illegali. 

 Perché questa legalità internazionale è stata sistematicamente disattesa senza che i responsabili abbiano subito sanzioni, benché nel 1945 sia stata istituita la Corte internazionale di giustizia dell'Aia, e nel 1998 la International Criminal Court che, in teoria, sarebbe tenuta a procedere contro i colpevoli di crimini di guerra non solo se semplici soldati o ufficiali ma anche se presidenti, ministri o generali? Il fatto è che i responsabili delle aggressioni illegali non sono stati quasi mai arrestati e puniti perché troppo potenti e perché i media non osano riconoscere e denunciare i loro crimini come tali. Si aggiungano i limiti connaturati alla struttura decisionale dell'ONU: solo il Consiglio di sicurezza (5 membri permanenti con diritto di veto – Usa, GB, Francia, Russia e Cina - più dieci senza diritto ed eletti ogni dieci anni) può decidere se e quando ricorrere alla forza (le decisioni del Consiglio sono vincolanti per tutti i 193 membri dell'Organizzazione purché approvate da almeno 9 membri e in assenza di veto), laddove le risoluzioni dell'Assemblea hanno il carattere di semplici raccomandazioni. Di fatto, ciò significa che l'Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza e il segretario generale finiscono per sancire il volere dei membri più influenti, per cui processi e condanne per crimini di guerra ci sono stati solo se e quando l'hanno voluto i vincitori, che erano in grado di imporre la loro decisione sui vinti. Come se non bastasse, gli Usa separano il diritto nazionale da quello internazionale, per cui se un loro cittadino viola delle leggi interne viene arrestato, ma se viola la legge internazionale per “servire il Paese” non subisce alcuna conseguenza (se non viene premiato). Nel 2002 il Congresso ha addirittura approvato una legge che autorizza il presidente a liberare con la forza i cittadini statunitensi chiamati a rispondere delle loro azioni di fronte alla Corte penale internazionale. 

Daniele Ganser



Più avanti proverò a ragionare sui motivi per cui Ganser considera gli organismi internazionali appena descritti come un fattore di progresso, a prescindere dalla loro incapacità di impedire che le relazioni internazionali siano governate dal diritto del più forte. Ma prima stilerò il lungo elenco delle guerre illegali che gli USA e la NATO hanno scatenato dagli anni Cinquanta a oggi (provocando fra i venti e i trenta milioni morti, poco meno della metà di quelli causati dalla Seconda guerra mondiale), e prima ancora riassumerò il modo in cui Ganser descrive l'impero americano e la NATO in quanto suo strumento di dominio mondiale. 

 Lo storico svizzero definisce gli USA un impero per i seguenti motivi: 1) in quanto dominano la finanza mondiale grazie al “signoraggio” del dollaro: dalla decisione unilaterale di Nixon che ne ha decretato la fine della convertibilità, gli Stati Uniti si stampano da soli la loro moneta che svolge il ruolo di riserva internazionale; 2) perché hanno più di 700 basi militari sparse per il mondo, il che li mette in condizione di intervenire in tempo reale su tutti i possibili scenari di guerra; 3) perché nel 2015 hanno speso 600 miliardi in armamenti (a fronte dei 200 della Cina e degli 80 della Russia, ma con la guerra in Ucraina la cifra sta lievitando a livelli ancora più stratosferici); 4) perché a decidere come e perché impiegare tutta questa potenza non è un regime democratico bensì una oligarchia di censo dominata da una élite ricca e potente (come ha ricordato l'ex presidente Jimmy Carter in un'intervista, i candidati alla presidenza devono disporre di almeno 200-300 milioni di dollari per competere con qualche chance di successo; e quasi nessuno dei senatori dispone di un patrimonio inferiore a qualche milione); 5) perché a decidere se scatenare una guerra, o assassinare qualche nemico al di fuori e al di sopra di qualsiasi legalità internazionale, è la cricca dell'NSC (il National Security Council) il pugno di “ottimati” che compongono il “cerchio magico” del presidente; 6) perché, come già ricordato, non riconoscono l'autorità della Corte penale internazionale in quanto temono che possa limitarne gli interessi; 7) infine perché la NATO (nata nel 1949), più che come un'alleanza fra diversi Paesi è sempre stata il braccio armato degli USA. A confermarlo basterebbe il fatto che si è sistematicamente adeguata a tutte le decisioni americane (i suoi membri votano all'unisono con gli Stati Uniti in sede ONU), mentre il suo segretario europeo ha un ruolo puramente di facciata, in quanto l'effettivo potere decisionale è concentrato nelle mani del supremo comandante militare per il territorio europeo, sempre americano. Quanto al suo millantato carattere difensivo, esso è stato definitivamente smentito allorché, invece di sciogliersi dopo la caduta dell'Urss e il venir meno del Patto di Varsavia, si è progressivamente allargata ad Est, fino a contare gli attuali 30 membri, facendosi sempre più aggressiva. Veniamo ora all'atto di accusa di Ganser sui crimini imperiali. 


Iran. Nel 1951 il governo Mossadeq nazionalizza il petrolio persiano sottraendolo al controllo delle multinazionali inglesi, le quali si rivolgono agli Stati Uniti per provocarne la caduta (in cambio dovranno cedere una quota consistente del petrolio agli “amici” americani). Nel 1953 il capo della CIA Allen Dulles avvia una operazione di regime change, stanziando un milione di dollari per tutti gli interventi necessari a rovesciare il governo legale. Fra i vari metodi utilizzati per destabilizzare il regime, si fa ricorso ad attentati terroristici contro i musulmani che vengono attribuiti al governo in carica e ai comunisti che lo sostengono. Caduto Mossadeq viene annullata la nazionalizzazione e le imprese inglesi e americane si spartiscono il bottino. 

 Guatemala.  Nel 1951 il presidenze Arbenz vince le elezioni con un programma che prevede di espropriare le terre dei latifondisti e redistribuirle ai braccianti senza terra, scatenando l'ira della multinazionale United Fruit di cui sono azionisti sia il direttore della CIA Allen Dulles che suo fratello John Foster Dalles, segretario di Stato. Bande armate organizzate e addestrate dalla CIA scatenano la guerriglia penetrando nel Paese dal vicino Honduras. Il presidente tenta di fronteggiarle acquistando armi dai Paesi occidentali ma questi si rifiutano, piegandosi alle pressioni USA. Arbenz le acquista allora dalla Cecoslovacchia e gli USA usano questo fatto come prova che il Guatemala si appresta ad aderire al blocco comunista, sfruttando la propaganda occidentale per giustificare la propria ingerenza che, nel 1954, raggiunge il proprio obiettivo regalando il potere al dittatore di destra Somoza, il quale reintegra immediatamente la United Fruit nei suoi “diritti”. 

 Egitto. Nel 1956 Nasser nazionalizza la società che gestisce il canale di Suez, gettando nel panico Inghilterra e Francia, che erano state fino ad allora garanti degli interessi commerciali associati al controllo del canale. A violare la legge internazionale aggredendo un Paese membro dell'ONU senza il mandato del Consiglio di sicurezza sono quindi questa volta francesi e inglesi (con il supporto di Israele, che fa così le prove generali della guerra del 67), due potenze che, godendo del diritto di veto, si sottraggono alla condanna internazionale. Sono tuttavia indotte a rinunciare di fronte all'ultimatum dell'Unione Sovietica e al mancato appoggio degli USA, irritati perché l'aggressione è avvenuta senza il loro consenso. 

 Cuba. Dopo la vittoriosa rivoluzione del 59 Castro avvia una riforma agraria che prevede, fra le altre cose, l'esproprio di aziende americane. Benché il nuovo regime non si definisca socialista, il presidente Eisenhower avvia immediatamente dei tentativi per rovesciarlo, che prevedono, fra le altre cose, il blocco delle importazioni dello zucchero di canna. L'Avana si vede costretta a rivolgersi ai mercati dell'Est Europa e, dopo il moltiplicarsi di attentati (aerei statunitensi lanciano bombe incendiarie su coltivazioni e fabbriche), e a fronte del rifiuto dei Paesi occidentali di venderle le armi necessarie a difendersi, deve rivolgersi a Mosca (come era avvenuto per la crisi del Guatemala, ciò viene immediatamente usato come prova del carattere comunista del regime). Il Consiglio di sicurezza dell'ONU si lava le mani, rimbalzando le richieste cubane di intervento all'OAS (l'Organizzazione degli Stati Americani controllata dagli USA), la quale sposa la tesi statunitense secondo cui il terrorismo è un affare interno cubano (Ganser ricorda che nel 1975 una commissione del Senato americano rivelerà che furono orditi numerosi attentati alla vita di Castro). Sempre all'inizio dei 60 Eisenhower decide di reclutare, armare ed addestrare reparti di profughi anticastristi in Guatemala per organizzare l'invasione dell'Isola, e Kennedy ne eredita il piano approvando l'impresa, miseramente fallita, dello sbarco alla baia dei Porci (successivamente lo stesso Kennedy ammise la propria responsabilità nell'operazione, mentre nel 1998 sono stati desecretati documenti dai quali emerge come si fosse arrivati a progettare l'affondamento di una nave Usa nella baia di Guantanamo, per creare un casus belli). 

Gli invasori si arrendono ai cubani



Com'è noto, Mosca reagì installando propri missili sull'isola provocando la crisi che portò il mondo sull'orlo di una guerra nucleare. Dopodiché l'aggressione americana è proseguita sotto forma dell'embargo economico mantenuto da tutti i presidenti succeduti a Kennedy e tuttora in atto. In nessuno di questi passaggi l'ONU è stato capace di giocare un qualsiasi ruolo (l'Assemblea generale approva ogni anno una mozione che condanna il blocco senza che ciò abbia il minimo effetto). 

 Vietnam. Dopo la sconfitta dell'esercito francese che tentava di restaurare il dominio coloniale sul Vietnam (1954) gli USA fecero insediare come presidente del Vietnam del Sud Ngo Dinh Diem dopodiché, constatato che i suoi metodi disumani e la sua corruzione rischiavano di far collassare il regime, lo fecero liquidare da un golpe militare (come successivamente rivelato dai Pentagon Papers) ed entrarono direttamente in guerra a fianco del nuovo governo. Come scusa del proprio coinvolgimento usarono il cosiddetto incidente del Tonchino (una bufala secondo cui siluranti nordvietnamite avrebbero attaccato un cacciatorpediniere americano). Anche in questo caso l'ONU manifestò la sua totale incapacità di porre fine all'aggressione, durata fino alla vittoria del Vietnam del Nord nel 1975. Nel corso di questo lungo e sanguinoso conflitto (tre milioni di morti vietnamiti, in maggioranza civili, e oltre cinquantamila soldati americani), furono commessi ripetuti crimini di guerra anche contro Laos e Cambogia, che non erano direttamente parte in causa. 

Un'immagine della caduta di Saigon



 Nicaragua. La vittoria elettorale del movimento sandinista all'inizio degli anni 80 scatenò l'ira di Reagan, che li considerava comunisti, per cui decise di replicare il copione dell'intervento USA contro il Guatemala degli anni 50, avviando una guerra per procura affidata all'esercito mercenario dei contras (armati e addestrati dai corpi speciali nordamericani). Queste bande si macchiarono di crimini orrendi ai danni della popolazione civile che rimasero tuttavia impuniti perché Reagan allungò la mano protettiva del suo governo sui “combattenti per la libertà”. Il progetto di regime change fallì, ma l'impotenza delle istituzioni internazionali fu clamorosamente confermata dal fatto che, benché la International Criminal Court avesse riconosciuto la responsabilità degli USA condannandoli a risarcire il Nicaragua per la loro aggressione, gli Stati Uniti rifiutarono di pagare un solo dollaro. 

 Serbia. Secondo la testimonianza dell'ex agente CIA Robert Baer, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, gli USA avevano immediatamente progettato di destabilizzare la Jugoslavia smembrandola in vari staterelli e, a tale scopo, si impegnarono ad applicare la lezione imperiale britannica, aizzando l'uno contro l'altro i vari gruppi etnici che prima convivevano pacificamente. Una delle prime armi messe in campo fu la politica del debito: Croazia e Slovenia, le regioni più ricche, si proclamarono indipendenti per non essere costrette a finanziare il debito federale, e Germania (e Vaticano!) si precipitarono a riconoscerne la sovranità, creando i presupposti di una guerra civile (rispetto alla quale l'ONU si dichiarò incompetente in quanto si trattava di un affare interno) combattuta a suon di pulizie etniche incrociate. Sempre Baer racconta che il progetto occidentale prevedeva fin dall'inizio di affibbiare la parte dei cattivi ai serbi. Ciò emerse chiaramente quando, finita la guerra fra serbi e croati nel Nord del Paese, scoppiò la guerra di tutti contro tutti (serbi ortodossi, croati cattolici, musulmani) in Bosnia. USA e NATO, con la compiacente collaborazione di tutti i media occidentali, attribuiscono tutti i genocidi ai serbi, sorvolando su quelli commessi da croati e musulmani, e appoggiano i musulmani importando nel Paese i mujaheddin già utilizzati contro i russi in Afganistan. Dopo gli accordi di Dayton, la NATO torna all'attacco appoggiando i secessionisti kossovari (di cui vengono ignorati i crimini e le pratiche di pulizia etnica contro la popolazione serba). Riprendono quindi i bombardamenti indiscriminati contro la Serbia (cui partecipano non solo gli Usa ma diversi Paesi NATO fra cui l'Italia e la Germania, che si ritrova così in guerra per la prima volta dopo il 45, con la benedizione del ministro Verde Fischer). L'ultimo atto della tragedia è la morte nel carcere del Tribunale dell'Aia dell'ex presidente serbo Milosevic, definito con totale sprezzo del ridicolo “il nuovo Hitler” dagli stessi media che linciano lo scrittore austriaco Peter Handke per averne preso le difese (1). 

 Afganistan. Questa parte del libro frutterà sicuramente all'autore l'accusa di complottismo, in quanto rilancia i dubbi che alcuni giornalisti hanno espresso in merito alla possibilità che i servizi USA siano coinvolti nell'attentato delle Torri . In effetti tale ipotesi può sembrare al limite del fantastico, anche se certe rivelazioni a posteriori hanno dimostrato, che quando è in ballo la geopolitica, la realtà supera spesso la fantasia. Quel che è certo è che allo stato non esistono prove ma solo qualche indizio inquietante come il crollo del World Trade Center 7, che pur non essendo stato colpito da un aereo in volo, è “imploso” con modalità analoghe a quelle provocate con esplosivi per demolire vecchi edifici. In ogni caso l'ironia della “guerra al terrorismo” dichiarata da Bush dopo l'attentato consiste nel fatto che i “nemici” sono in questa circostanza quelle stesse organizzazioni appoggiate dall'Arabia Saudita che, come quella di Bin Laden, erano “combattenti per la libertà” quando attaccavano i sovietici in Afganistan ma diventano terroristi quando rivolgono le armi contro l'Occidente. Ganser ricorda che nemmeno in questo caso la guerra era legale secondo i requisiti ONU: è pur vero che il Consiglio di sicurezza adottò, su pressione USA, una risoluzione che rafforzava il diritto all'autodifesa (già previsto dallo statuto) e stabilì che nessuno stato possa offrire rifugio a chi progetta attentati terroristici, ma visto che non esistevano prove inoppugnabili che l'attacco in questione fosse partito dall'Afganistan, l'aggressione della NATO (anche qui come nel caso della Jugoslavia gli americani furono affiancati da molti altri Paesi dell'Alleanza, Italia compresa), restò priva di legittimazione internazionale. Com'è noto la guerra è durata più di vent'anni ed è finita da poco con il ritiro occidentale che ha lasciato il Paese sotto il controllo degli integralisti islamici. 

Fuga da Kabul



 Iraq 
 La guerra promossa da Bush padre è stata l'unica, in questo elenco di aggressioni, a rispettare i requisiti ONU per giustificare il ricorso alla forza. La prima guerra del Golfo fu infatti approvata dal Consiglio di sicurezza in seguito all'aggressione di Saddam nei confronti del Kuwait (il dittatore iracheno aveva probabilmente pensato di poter agire indisturbato, dopo che gli USA lo avevano appoggiato nella guerra con l'Iran). Anche in questo caso, tuttavia, per legittimare la guerra agli occhi dell'opinione pubblica mondiale, si ricorre alla menzogna: una ragazza che si spaccia per infermiera d'ospedale, mentre era parente di un politico kuwaitiano, dichiara di avere assistito all'uccisione di decine di neonati in un reparto di maternità da parte degli invasori (prima di diventare il nuovo Hitler, come avverrà qualche anno più tardi, Saddam fu dunque denunciato come il nuovo Erode). Ben più clamorosa la bufala utilizzata da Bush junior e Blair nel 2003 per giustificare la seconda guerra del Golfo (questa volta senza mandato ONU): non solo si millantano falsi legami fra Saddam e l'attacco terrorista alle Torri ma si accusa l'Iraq di essere in possesso di inesistenti armi di distruzione di massa, come ebbe a riconoscere un pentito generale Colin Powell anni dopo avere esibito false prove davanti all'Assemblea dell'ONU. 

 Libia. Gheddafi ha segnato il suo destino fin da quando, salito al potere (1969), iniziò a sottrarre la Libia al dominio delle multinazionali occidentali. Ciò gli è valso una serie di aggressioni motivate di volta in volta con la presunta responsabilità libica in una serie di attentati terroristici avvenuti in Europa, a partire dal 1986, quando Reagan, dopo avere accusato Gheddafi di avere organizzato un'attentato a Berlino in cui erano morti due soldati americani, fece bombardare la Libia uccidendo la figlia adottiva del presidente (che era presumibilmente il vero bersaglio). La NATO ha realizzato l'obiettivo nel 2011, sfruttando una guerra civile alimentata dagli occidentali per assassinare Gheddafi, provocando quella situazione di caos e ingovernabilità della regione che dura tutt'oggi. 

 Siria. Anche il presidente siriano Assad, dopo Milosevic e Saddam, è stato definito il nuovo Hitler (ormai è una specie di tic dei media occidentali che, per quanto appaia ridicolo agli occhi di qualsiasi persona sensata, fa sempre il suo porco effetto propagandistico). Anche in questo caso si è provveduto a costruire il mostro per realizzare un progetto di regime change che ha radici lontane. Un giornalista francese, racconta Ganser, rivela che già nel 2008, nel corso di una conferenza Bilderberg (noto think tank ultraconservatore), l'allora segretario di Stato Condoleezza Rice chiese la caduta del governo siriano. A condividere il progetto erano almeno altri tre Paesi NATO: Inghilterra, Francia e Turchia, i quali trovarono alleati locali nei regni del Qatar e dell'Arabia Saudita (ai quali Assad aveva rifiutato il permesso di far passare sul proprio territorio un gasdotto che avrebbe danneggiato gli interessi dell'alleato russo, in quanto principale fornitore di gas per l'Europa). L'occasione per scatenare il conflitto furono le manifestazioni della primavera araba che, iniziate pacificamente, vennero infiltrate da agenti provocatori allo scopo di farle degenerare in guerra civile. Dopo che questa fu iniziata furono nuovamente utilizzate, come in Afganistan e nei Balcani, le bande degli integralisti islamici, ma in questo caso la strategia del caos si è rivoltata contro l'Occidente perché ha favorito l'espansione della minaccia terrorista internazionale dell'ISIS, dopodiché il conflitto si è convertito in una guerra di tutti contro tutti (USA, Francia, Turchia, Curdi, Inglesi, Russi) senza riuscire a rovesciare Assad, ma causando centinaia di migliaia di vittime e costringendo milioni di siriani a emigrare. 

 Ucraina. L'ultimo caso trattato da Ganser è quello siriano, ma io preferisco finire questa sintesi con la guerra ucraina perché è quella che meglio di tutte permette di mettere in luce sia i meriti che le contraddizioni dell'approccio pacifista dell'autore. Ganser muove da un dato di fatto che politici e media occidentali hanno cercato in tutti modi di rimuovere, minimizzare se non addirittura di negare: nel 1990 il segretario di Stato USA Baker aveva rassicurato Gorbacev sul fatto che la NATO non si sarebbe ampliata a Est. Sappiamo invece com'è andata: l'Alleanza si è progressivamente estesa fino ai confini della Federazione russa. Già nel vertice di Bucarest del 2008 Bush auspicò l'inclusione di Ucraina e Georgia, ignorando il pericolo di una possibile reazione russa. Ne derivò il conflitto fra russi e georgiani per il controllo dell'Ossezia (vinto dai russi) mentre, nel frattempo, alcuni esperti di geopolitica americani, come George Friedman, del think tank neocons Strafor, dichiaravano apertamente che si sarebbe dovuto coinvolgere Germania e Russia in una guerra per realizzare il duplice obiettivo di indebolire l'Europa e rafforzare l'impero a stelle e strisce: Germania e Russia si sarebbero indebolite a vicenda consentendo di replicare il principio divide et impera che Reagan aveva applicato con successo al conflitto fra Iran e Iraq. 

 Qui apro un primo inciso: Ganser torna più volte sul ruolo degli appartenenti ai think tank neocons, gente come l'appena citato Friedman o come Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, inseriti nell'amministrazione Bush dal gennaio 2001, o come l'attuale sottosegretaria di Stato Victoria Nuland. A mio avviso il peso di questi figuri ne esce sopravvalutato, allo stesso modo in cui Ganser sopravvaluta l'impatto delle distorsioni istituzionali che hanno trasformato la democrazia americana in un'oligarchia dominata da un pugno di super ricchi e di loro funzionari. Con questo voglio dire che il limite di Ganser consiste nel vedere l'impero ma non l'imperialismo, non coglie, cioè, i fattori strutturali, causali (vale a dire le dinamiche evolutive del sistema capitalistico) che hanno fatto sì che gli USA assumessero l'attuale ruolo egemone e che li inducono oggi a ricorrere ai metodi descritti in questo libro per conservare tale ruolo (a prescindere dagli individui chiamati a metterli in pratica). 

 Ma torniamo all'Ucraina. L'idea di integrarla nella NATO era già presente, come si è visto, nel 2008, ed è da quell'anno che inizia un sistematico lavoro di preparazione dell'ennesima operazione di regime change da parte dei servizi americani, operazione giunta a compimento con il colpo di stato del 2014 contro il governo legittimo di Yanukovich (la cosiddetta “rivoluzione arancione”). Subito dopo il nuovo regime inizia la guerra civile contro le regioni russofile del Donbass, e contemporaneamente la Russia, forse in modo inaspettato, nel senso che la NATO non aveva previsto che potesse reagire militarmente, rioccupa il territorio della Crimea. Infine, dopo otto anni di tira e molla, accordi diplomatici inattuati, pressioni sempre più dure di Kiev sulle regioni orientali del Paese, Putin decide di invadere l'Ucraina. Così dopo l'accusa di complottista, Ganser si guadagnerà anche quella di “putiniano”, soprattutto perché sostiene che la reintegrazione della Crimea nel territorio della Federazione russa non può essere definita una annessione, ma va considerata una secessione, dal momento che gli abitanti della Crimea non hanno mai cessato di considerarsi cittadini russi. In effetti Ganser non manca di dichiarare che l'aggressione russa è illegale al pari di tutte quelle della NATO, così come non manca di definire illegali gli interventi russi in Ungheria (1956), Cecoslovacchia (1968) e Afganistan (1979). Ovviamente ciò non basterà a giustificare la sua posizione agli occhi di un sistema informativo occidentale schierato senza se e senza ma al fianco dell'impero USA e della NATO, un sistema che considera i pacifisti come Ganser “utili idioti” al servizio dei “nuovi Hitler” di turno. 

Un'immagine della guerra russo-ucraina



 Riconosciuti la coerenza e il coraggio del pacifista svizzero, tocca però mettere in luce un altro limite intrinseco al suo contributo, che consiste nell'adottare un punto di vista astrattamente legalitario (2). Pur avendo ampiamente dimostrato l'assoluta impotenza delle istituzioni internazionali a far rispettare le regole fissate nel 1945 per impedire che si ripetano le tragedie delle due guerre mondiali, e pur avendo spiegato come, allo stato dei fatti, vale a dire in una situazione in cui viene fatta sistematicamente valere la legge del più forte (e così sarà finché l'impero USA e la NATO potranno continuare a imporla con la complicità di un'opinione pubblica mondiale manipolata da un sistema informativo blindato), Ganser insiste nel dire che “sarebbe tuttavia sbagliato concludere che tutte le organizzazioni internazionali sono inefficaci” e che “se non ci fosse l'ONU avremmo un mondo in cui i più forti imporrebbero i loro interessi” (come se lui stesso non ci avesse dimostrato che è già così!). Ingenuità? No, la parziale cecità di Ganser consiste, come detto poco sopra, nel vedere l'Impero senza vedere l'imperialismo, senza cogliere cioè le cause strutturali, profonde degli orrori che denuncia. Il fatto è che Ganser non è marxista, quindi non si rende conto che il governo della legge che invoca non è altro che un'astrazione dietro la quale si nascondono i concreti rapporti di forza che governano i rapporti fra classi sociali, nazioni e popoli. Quei rapporti di forza che fanno sì che l'Europa, come sta confermando il suo coinvolgimento nella guerra ucraina, non abbia la minima chance di sganciarsi dalla NATO, che è la gabbia che la tiene avvinta e sottomessa al dominio imperiale. Ma di questo nel prossimo paragrafo. 

 
II.Perché l'Europa deve accettare di svolgere il lavoro sporco. A margine di due articoli di Manolo Monereo e Fosco Giannini 

 Per gli integralisti che sognano un nuovo secolo americano, scrive Manolo Monereo (3), il vero Occidente risiede Oltreoceano, mentre il Vecchio Continente ha perso ogni residua capacità di egemonica. Per costoro l'Europa non potrebbe nemmeno svolgere il ruolo di alleato strategico, se la fine del Patto di Varsavia non avesse permesso di integrare nella NATO (contro ogni accordo con la Russia, vedi sopra) quei Paesi dell'Est che apportano il contributo del loro fanatismo nazionalista e anticomunista. Unificazione tedesca e ampliamento della Ue (e della NATO) a Est hanno creato i presupposti di una rimilitarizzazione del Vecchio Continente, in barba alle retoriche sulla unità europea come strumento di pacificazione. Contrariamente a quanto previsto da alcuni analisti geopolitici, il processo in questione non è stato tuttavia il presupposto della creazione di un polo imperiale europeo autonomo, se non alternativo a quello USA. Al contrario, l'esito è stato la fine di ogni velleità di autonomia e un drastico ridimensionamento delle aspirazioni egemoniche di Francia e Germania. 

Ciò, argomenta Monereo, non stupisce, ove si consideri che il vero obiettivo delle élite europee è sempre stato creare un'organismo transnazionale in grado di neutralizzare la capacità contrattuale delle classi lavoratrici dei rispettivi Paesi e non dare vita a degli Stati Uniti d'Europa capaci di competere sul nuovo scenario geopolitico mondiale. Ciò ha spianato la strada al progetto imperiale americano che assegna all'Europa il ruolo di testa di ponte per stabilire il proprio controllo sull'Eurasia. Nessuno lo ha spiegato più chiaramente di Zbigniew Brzezinski, scrive Monereo citando le parole dell'esperto geopolitico polacco-americano: “Oggi una potenza non eurasiatica detiene la preminenza in Eurasia e la supremazia globale degli Stati Uniti dipende direttamente da quanto a lungo e quanto efficacemente riuscirà a mantenere la sua preponderanza sul continente eurasiatico”. Da un lato si tratta quindi di impedire possibili convergenze fra gli interessi russi e tedeschi; dall'altro di garantire la continuità del ciclo egemonico (4) americano, la cui fine potrebbe segnare la fine dello stesso sistema capitalistico. Per capire la portata della posta in gioco occorre saper leggere le linee di frattura che caratterizzano il mondo attuale, che Monereo descrive così: “a) Il relativo declino della superpotenza statunitense. Le grandi potenze non scompaiono da un giorno all'altro, tanto meno quando si tratta degli Stati Uniti, che restano di gran lunga la più grande potenza militare del mondo; il declino è sempre relativo e relazionale, cioè nella competizione globale emergono altri Paesi che la mettono in ombra e la sfidano oggettivamente; b) La rinascita della Cina, tornata a essere una grande potenza economica, tecnologica e finanziaria, a cui si aggiungono la ricostruzione della Russia e l'emergere di nuove potenze – come l'India – che tornano a far sentire il loro grande peso storico, demografico e, sempre più spesso, economico; c) L'asse di gravità del sistema mondiale si sta spostando rapidamente verso l'Asia. Non si tratta solo di un cambiamento epocale, ma anche storico-culturale. Ciò che è in discussione, dopo 500 anni, è l'egemonia dell'Occidente; d) La novità è l'aggravarsi della crisi ecologica e sociale del pianeta in un contesto di risorse sempre più scarse, di ricorrenti conflitti militari e di intensificazione dei processi migratori”. 

 Se lo scenario è questo, non si vede come l'Europa possa ambire a svolgere un ruolo più che marginale. Fosco Giannini ribadisce questa tesi commentando (5) un'intervista e un articolo dell'autorevole opinionista del Corsera Sergio Romano. Nella prima, costui, ancorché atlantista sul piano geopolitico e liberale sul piano ideologico, ha dichiarato: “Io credo che se avessimo in qualche modo aiutato Putin, per esempio senza insistere per l’allargamento della Nato fino ai confini della Russia e lasciare che l’Ucraina chiedesse di far parte della Nato, mettendola, per così dire, in una lunga sala d’aspetto piuttosto che lasciarla sperare, beh tutto sarebbe stato probabilmente diverso e meno imbrogliato”. Nel secondo auspicava la costruzione di un esercito europeo autonomo dalla, anche se non alternativo alla, NATO. Giannini nota giustamente come questa tesi trovi una eco nelle posizioni di una certa sinistra “europeista critica” che “a partire dall'“impossibilità” di uscire dalla NATO (una "realpolitik" che diviene una resa) si affidano, per giungere a ciò che essi pensano potrebbe essere un “contraltare” della NATO, alla costruzione, alla presenza attiva di un esercito europeo autonomo”. Una posizione che non solo rimuove il fatto che un polo politico-militare, oltre che economico, europeo non sarebbe meno imperialista e aggressivo di quello americano, ma è del tutto irrealistico ove commisurato allo scenario geopolitico descritto poco sopra da Monereo. 

Per concludere: se vuole difendere in propri interessi, che richiedono di mantenere le classi lavoratrici in una posizione del tutto subalterna, l'Europa capitalista non ha altra scelta se non restare a sua volta subalterna agli USA e svolgere il lavoro sporco per conto dell'Impero, anche al costo di rimetterci sul piano economico.

Note

(1) Sull'incredibile vicenda del processo a Milosevic vedi il dossier Slobodan Milosevic. In difesa della Jugoslavia che raccoglie numerose testimonianze e interventi, fra i quali quelli dello scrittore Premio Nobel austriaco Peter Handke, in merito alle modalità con cui fu costruito il mostro da linciare onde legittimare i crimini NATO contro la Serbia. Dai documenti emerge chiaramente come Milosevic fosse riuscito a controbattere le accuse rivoltegli e a mettere sotto accusa i suoi accusatori, finché fu lasciato morire senza assistenza nel carcere del tribunale dell'Aia. Emerge inoltre la forsennata campagna di diffamazione cui fu sottoposto Hanke per averne preso le difese. 

(2) In merito ai limiti dell'approccio legalitario con cui i pacifisti in buona fede tentano di porre argine ai crimini dell'imperialismo occidentale, valgono sempre le pungenti parole di Marx sia contro la retorica borghese sui cosiddetti "diritti umani", sia contro l'illusione di risolvere conflitti governati dai rapporti di forza fra classi sociali, popoli e nazioni attraverso le procedure formali di un diritto che implementano di fatto quegli stessi rapporti di forza. 
 
(3) Cfr. Manolo Monereo, "la nuova NATO nell'era del declino occidentale" consultabile sulla pagina Facebook della rivista "Cumpanis" (https://www.facebook.com/cumpanisrivista).

(4) Sul concetto di ciclo egemonico vedi G. Arrighi Adam Smith a Pechino. genealogie del XXI secolo, recentemente dieditato da Meltemi.

(5) Cfr. F. Giannini, " Sergio Romano e l'esercito imperialista europeo", consultabile sulla pagina Facebook della rivista "Cumpanis" (https://www.facebook.com/cumpanisrivista)

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