Lettori fissi

giovedì 18 gennaio 2024

LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI 
POSTILLE A "GUERRA  E RIVOLUZIONE"



Premessa


In "Guerra e Rivoluzione" (2 voll. Meltemi, Milano 2023) ho affrontato alcuni temi "scabrosi" sui quali il marxismo occidentale non può esimersi di riflettere, se vuole uscire dalle secche in cui lo hanno impantanato decenni di opportunismo, settarismo e dogmatismo. Personalmente ritengo che l'opportunismo (vedi le ricorrenti tentazioni elettoralistiche e la conseguente disponibilità al compromesso con le borghesie liberali), benché pernicioso, abbia causato meno danni del settarismo e del dogmatismo, cioè della riproposizione rituale e ottusa di dogmi che un secolo di storia ha impietosamente falsificato. E' questo crampo ideale che ha impedito alle formazioni neo comuniste di radicarsi nel sociale e  raccogliere consensi (mi riferisco all'arruolamento di nuove leve di militanti, non a qualche manciata di voti) fra i lavoratori e le giovani generazioni. In questo articolo propongo alcuni approfondimenti relativi ai temi affrontati nel libro uscito qualche mese fa. Non toccherò - se non marginalmente - le questioni relative alle trasformazioni strutturali del tardo capitalismo e alle nuove forme di socialismo emerse in Cina e America Latina, perché si tratta di problemi sui quali sono già tornato su queste pagine. Mi concentrerò invece: 1) sulla critica degli "ismi" (economicismo, progressismo, eurocentrismo, universalismo, ecc.) che hanno sterilizzato il marxismo occidentale; 2) sulla questione della forma partito. 







I. GLI "ISMI" CHE HANNO AFFOSSATO

IL MARXISMO OCCIDENTALE



In un dialogo con Onofrio Romano, pubblicato da DeriveApprodi nel 2019 (1), elencavo cinque temi da affrontare per il rinnovamento del marxismo: 1) riconoscere il fallimento della tesi che associa la possibilità della transizione al socialismo a un elevato livello di sviluppo delle forze produttive (le sole rivoluzioni socialiste vittoriose si sono attuate in Paesi "sottosviluppati"); 2) riconoscere che la resistenza delle classi subalterne al capitalismo è motivata da sentimenti di natura "conservativa" e "antimoderna" piuttosto che dagli obiettivi "progressisti" delle sinistre; 3) prendere atto del fallimento della visione immanentista/storicista che associa alla contraddizione oggettiva fra forze produttive e rapporti di produzione la presunta "necessità storica" del crollo del capitalismo; 4) riconoscere la natura contraddittoria del progresso scientifico e tecnologico, contraddizione che non rinvia solo all'uso capitalistico dello stesso, ma al fatto che i suoi modelli di razionalità incorporano i rapporti di forza fra le classi; 5) riconoscere la natura utopistica (fine dello stato, abolizione dei rapporti di mercato, emancipazione dell'individuo da ogni forma di alienazione, ecc.) della visione della società futura condivisa da Marx ed Engels per iniziare a ragionare seriamente sulle forme concrete di transizione in atto in Cina e altri Paesi socialisti.


Ho ripreso il filo di queste riflessioni nel primo capitolo di Guerra e rivoluzione (2) partendo da alcune opere di Costanzo Preve (3) e dell'ultimo Lukács (4). In particolare: da Preve ho mutuato la classificazione dei tre "regimi narrativi" che si intrecciano nell'opera di Marx: grande narrativo (l'idea di una classe destinata "per natura" a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico); deterministico-naturalistico (l'idea della storia come processo governato da una necessità immanente che ne orienta univocamente lo sviluppo); ontologico-sociale (che viceversa concepisce la storia come il frutto di una doppia determinazione: da un lato una insopprimibile base naturale dall'altro l'ininterrotta trasformazione della stessa da parte dell'agire sociale). Mentre cataloga i primi due registri come residui positivisti ed evoluzionisti, Preve accetta la lezione di Lukács laddove il filosofo ungherese opta per il regime ontologico-sociale, che implica la negazione dell'esistenza di un principio teleologico immanente alla storia, nonché l'assunzione del lavoro in quanto ricambio organico uomo-natura quale modello esclusivo dell'agire finalistico umano e quindi quale unica fonte di sviluppo causale della storia (le cui "leggi" non sono determinabili a priori ma riconoscibili post festum). 


Per una discussione dei concetti fondamentali della ontologia lukacsiana (lavoro, storia, ideologia, necessità, libertà) rinvio alle pagine che gli ho dedicato nel libro sopra citato e in lavori precedenti (5). Qui mi limito a osservare come, partendo dalla lezione di Preve e Lukács, gli "ismi" evocati nel titolo di questo paragrafo tendando a ordinarsi in base a una gerarchia "a cascata". Ad esempio: il riferimento all'esistenza di una necessità immanente (forgiata dai vincoli dell'economia) che orienta il processo storico secondo una successione di stadi evolutivi verso il compimento del progresso umano, fino all'emancipazione assoluta del soggetto, è strettamente associato alla visione universalista-eurocentrica che attribuisce ai popoli che per primi hanno imboccato la via dello sviluppo capitalistico la missione di tracciare la via su cui tutti gli altri, prima o poi, dovranno incamminarsi per uscire dalla barbarie. Per ricapitolare i nodi della catena: determinismo storico, economicismo, evoluzionismo, progressismo, utopismo, universalismo, eurocentrismo. Questa costellazione inspira innegabilmente i primi due regimi narrativi marxiani individuati da Preve (vedi sopra), ed è indiscutibilmente egemone in tutte le varianti del movimento marxista (in primis occidentale). Più avanti vedremo che l'ultimo Marx ha parzialmente rettificato il proprio punto di vista. Viceversa Preve e Lukács, che pure hanno preso le distanze dai dogmi dell'economicismo e del materialismo storico (diamat), non sono riusciti a congedarsi compiutamente dal presupposto universalista, come emerge chiaramente allorché affrontano il tema della transizione.  


Vediamo Preve. Discutendo la critica lukacsiana alla sopravalutazione del ruolo dello sviluppo delle forze produttive nella transizione al socialismo, Preve cita il filosofo ungherese laddove afferma che “lo sviluppo delle forze produttive presuppone lo sviluppo delle capacità umane, ma quest’ultimo non produce obbligatoriamente lo sviluppo della personalità umana”. Dopodiché, tentando di chiarire cosa si debba intendere per “sviluppo della personalità umana”, traccia una spiazzante (6) apologia del diritto borghese. Scrive infatti: 1) che l’universalizzazione è possibile solo sulla base del capitalismo; 2) che l’universalizzazione è l’effetto collaterale dell’astrattizzazione, e la possibilità di un rapporto non estraniato fra individuo e genere umano è ontologicamente consentita dallo stesso progetto di astrattizzazione causato dal rapporto capitalistico di produzione; 3) che il comunismo è al di là e non al di qua della soglia ontologica irreversibile prodotta dal diritto borghese formale e astratto; 4) che il comunismo è anche un momento della lotta della personalità individuale per la conquista della genericità in sé. In poche parole: senza universalizzazione (capitalistica-borghese nonché portato della razionalità europea erede della tradizione greca ed ebraico-cristiana) niente emancipazione umana (riferita alla personalità individuale e quindi doppiamente borghese ed eurocentrica).  


Passiamo a  Lukács. Sempre a proposito della transizione al socialismo, nel VI volume della Ontologia  Lukács scrive, a proposito del rapporto fra utopia e realtà, che l'impossibilità della prima di tradursi nella seconda: "non significa tuttavia che essa non eserciti un influsso ideologico. Infatti tutte le utopie che si muovono a livello filosofico non possono (e in genere non vogliono) semplicemente incidere in maniera diretta sul futuro immediato (…) l’oggettività e la verità diretta dell’utopia possono essere anche molto problematiche, ma proprio in questa problematicità è all’opera di continuo, anche se spesso in maniera confusa, il loro valore per lo sviluppo dell’umanità” (7). Il passaggio non è privo di ambiguità: Lukács vuol dire che l'utopia è solo uno strumento dell'agire politico, una ideologia nel senso positivo del termine? Se così fosse, sarebbe coerente con la lettura del marxismo come filosofia della prassi che orienta tutta l'opera del filosofo ungherese. Altrove tuttavia egli sembra sposare la visione marxiana che attribuisce all'individuo comunista un connotato di "autenticità", presentandolo come un soggetto emancipato da ogni forna di estraneazione. Il che equivale a presentare il comunismo come fine della storia, come hegeliano compimento del cammino verso lo spirito assoluto (universale ed europeo!). 


L'ipotesi di chi scrive è che queste aporie nascano, in ultima istanza, dall'idea che la rivoluzione socialista sia il compimento della rivoluzione borghese del 1789, dei presunti principi universali che la società capitalistica ha rinnegato, delegando ai propri eredi la missione di attuarli. Il mio punto è, al contrario, che fra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria esista una discontinuità assoluta  Altrove ho argomentato tale tesi in base al fatto che la borghesia conquista il potere politico allorché ha già saldamente in mano quello economico, laddove le classi lavoratrici sono prive di qualsiasi forma di potere. Mi si potrebbe obiettare che in tal modo pongo una negazione assoluta che elude la possibilità di superare conservandolo (aufhebung) il passato. Non è così: la discontinuità radicale si riferisce alla negazione del modo di produzione capitalistico in quanto anomalia assoluta, nella misura in cui esso è l'unico, come chiarisce Karl Polanyi (8), che pone l'economia al di sopra di tutte le altre forme di relazione umana, trasformando in finte merci la terra, il lavoro e la moneta, per cui il suo superamento implica la conservazione - non come ritorno al passato ma come riequilibrio sistemico - di relazioni umane liberate dalle "leggi" dell'economia. Così vanno intesi quei discorsi che alludono al carattere conservatore e antimoderno della rivoluzione socialista.


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In un post precedente ( https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/antonio-negri-un-uomo-che-voleva.html ), dedicato all'influenza delle teorie di Antonio Negri sulle sinistre italiane, ho rilanciato la tesi secondo cui l'avversione delle sinistre post socialdemocratiche - oggi neoliberali - nei confronti delle classi popolari, accusate  di arcaismo, ignoranza, arretratezza, pigrizia, ecc. , affonda le radici nello schema progressista-universalista. L'universalismo astratto che ispira il discorso liberal democratico sui diritti umani (con il suo correlato linguistico politicamente corretto) è una sorta di "sguardo da nessun luogo" che neutralizza ogni differenza fra identità collettive (di classe, nazionali, etniche, religiose, ecc.), la cui rivendicazione viene liquidata come regressiva, mentre riconosce esclusivamente le differenze individuali. La sinistra compiutamente liberale emersa dalla svolta degli anni Ottanta/Novanta, commenta Alessandro Visalli in due post  in cui discute altrettanti libri di Vincenzo Costa (9), riduce le classi subalterne a "mera particolarità" a fronte dei valori universali difesi dai "ceti medi riflessivi". 






Questo stigma di particolarità, aggiunge Visalli, bolla ogni forma di radicamento o attaccamento sia esso riferito a un territorio o a tradizioni e culture "locali". L'interlocutore privilegiato di queste forze politiche non sono più le classi subalterne bensì la borghesia "illuminata", il cittadino cosmopolita descritto da Ulrich Beck (10) che si trova a proprio agio "nella società del rischio" e  considera conservatore, se non addirittura reazionario, chiunque non condivida questa visione edulcorata di una vita avventurosa, ricca di energia, aperta al nuovo e disponibile al rischio (che lui può permettersi di sfidare in quanto dotato di adeguato capitale relazionale). Per questi soggetti il tema della disuguaglianza economica è marginale e viene affrontato - se e quando viene affrontato - come una questione morale e non come una sfida sistemica. 


Le sinistre cosiddette antagoniste non si discostano significativamente da tale schema. La differenza sta più che altro nella maggiore radicalità con cui rivendicano i diritti - individuali o di piccolo gruppo - dei "diversi" che individuano come i veri soggetti del cambiamento. Categorie come dominio ed emancipazione, rivisitate alla luce di autori come Foucault e Deleuze e/o del marxismo reinterpretato da Negri, perdono il riferimento al mondo della produzione di plusvalore e della sua distribuzione e migrano verso i concetti di esclusione e riconoscimento. Di più: ora sono le classi popolari e la "gente comune" a rappresentare il "potere" da cui emanciparsi, nella misura in cui incarnano le tradizioni culturali che opprimono l'individuo. Il popolo diventa il nemico, commenta Visalli dialogando a distanza con Costa, mentre solo la cultura "alta" è chiamata a sfidare il potere della "normalità"; nasce una tribù di intellettuali ribelli convinti di essere illuminati, sovversivi, unici, di essere "la comunità dei desti contrapposta alla massa dei dormienti". Nella misura in cui non identifica più il potere con una o più classi sociali bensì con il legane sociale in quanto tale, questa visione rappresenta il terreno d'incontro fra destra aristocratica e anarchismo individualista. Nella seconda parte di questo articolo vedremo le implicazioni di tale concezione sul piano dei modelli di organizzazione e azione politica, per il momento basti dire che questa tensione verso una impossibile liberazione da qualsiasi legame assume l'aspetto di una paradossale rivendicazione di una eterna condizione di adolescenza. Un'idea "eccessiva" secondo la definizione di Costa citato da Visalli, che non può definirsi altrimenti che aristocratica e individualista.


A fare da contrappunto a questa ideologia, sono i legami comunitari, perlopiù intessuti di valori tradizionali, che sostanziano l'identità delle classi popolari. Qui Visalli riprende, più che seguire Costa, il discorso già avviato nel suo Classe e Partito (11), laddove nega l'esistenza della classe come entità sostanziale (cioè universale/astratta) definita dal rapporto con i mezzi di produzione,  collegandola piuttosto a concrete strutture di legame sociale e comunitario. La produzione, eventuale e non necessaria, di un "noi", scrive, "è un effetto che non è univocamente determinato dalla posizione comune rispetto ai mezzi di produzione o da comuni interessi economici. Aspettarselo ha condotto ad un’inutile attesa e deviato le forze (...) Inoltre, ha condotto in un cono di ombra il fatto che le strutture di legami, di socializzazione, le culture e la tradizione sono distrutte dal capitalismo". E' questa rimozione a ispirare l'avvaloramento positivo (il carattere progressivo) del modo di produzione capitalistico da parte di Marx (in particolare nel Manifesto e nei testi che precedono la maturità), un vizio d'origine dell'intero movimento marxista che, secondo Costa, è alla radice della insanabile frattura fra avanguardie politiche e classi popolari. Anche se Visalli obietta giustamente che l'idea secondo cui il rapporto di sfruttamento economico è in grado di trasformare direttamente il proletariato in classe universale  "che ha il compito necessario ed inscritto nella storia stessa (dei modi di produzione) di disalienare integralmente il mondo sociale" è attribuibile a Marx (o meglio al Marx che piace a Negri, non a tutto Marx) ma non a Lenin, il quale, non solo pensava che il proletariato non fosse autonomamente in grado di sviluppare una coscienza rivoluzionaria, ma applicava il "marxismo" a tutte le lotte di liberazione, a partire da quelle dei popoli oppressi dall'imperialismo, il che implicava il riconoscendo del valore potenzialmente rivoluzionario delle lotte per la difesa delle tradizioni nazional popolari. 


Costa aggredisce il tema del "cattivo universalismo occidentale" individuandone le radici nell'idea di un senso immanente nella Storia (di matrice ebraico-cristiana, commenta Visalli, e sistematizzato dalla teleologia hegelo-marxiana). Visalli condivide tale approccio (con il distinguo appena illustrato) sottolineando come esso critichi un europeismo "che si impone dissolvendo tutte le altre grandi culture che hanno rapporti con la verità altrettanto complessi"; un atteggiamento che Lévi Strauss in Razza e storia (12) definisce senza  mezzi termini eurocentrismo. Il termine "progresso" è dotato di senso solo ove riferito a civiltà che seguono lo stesso percorso (ad esempio i paesi capitalisti europei).  Viceversa "Se risultassero orientate diversamente e in tale direzione accumulassero esperienze, allora apparirebbero rispettivamente stazionarie. La linea di sviluppo che una perseguirebbe non significherebbe nulla per l’altra". 


Costa può accettare solo in parte tale punto di vista, dal momento che si muove nel solco di un autore come Husserl, convinto che la ragione universale si incarna in Europa perché solo lì è nato il pensiero filosofico. Costa tenta in qualche modo di "depotenziare" il senso di questa tesi riducendo il compito della filosofia alla ricerca di una verità "che si sottrae", dopodiché, tuttavia, deve rispondere alla domanda se questa peculiare caratteristica sia esclusiva della cultura europea o se non costituisca, in forme differenti, l'orizzonte di ogni cultura. "La mia risposta", scrive Visalli, è sì, perché rispondere no "fa ricadere inevitabilmente nella posizione eurocentrica". La risposta di Costa è meno chiara, in quanto condizionata dal timore che, una volta ammesso che ogni civiltà è diversa e unica, si perde ogni possibilità di emettere giudizi di valore: "negare la teleologia, scrive, non è senza rischi, poiché non si può abbandonarla senza pagare un prezzo: quello di scadere in un cieco empirismo e abbracciare un mero relativismo storico al cui interno ogni cultura va bene". Come uscire da questa aporia, dall'alternativa fra universalismo astratto e relativismo assoluto? Costa indica la via della contaminazione fra diversità, ognuna delle quali rivendica la propria verità (storicamente determinata) e chiama questa soluzione "universalismo storico". Il guaio, commenta Visalli, è che, nella mente occidentale, questa accoppiata evoca una concezione del tempo orientata dall'escatologia ebraico-cristiana e dall'idealismo hegeliano verso la salvezza religiosa o il compimento dello spirito assoluto, per cui conclude che varrebbe rinunciarvi e ammettere che "Non esistono valori, principi e culture universali, se non per effetto di una decisione, di una imposizione. In primo luogo interna, volta a ridurre la pluralità e la storia dei conflitti che si sono dati".


La difficoltà di superare l'universalismo, riconoscendone una volta per tutte il carattere "locale", storicamente e geograficamente determinato, nonché la sua funzione ideologica di legittimazione delle ambizioni imperiali dell'Occidente euro americano, non è una prerogativa di Costa: è difficile se non impossibile scovare un approccio critico, per quanto radicale, che, pur riconoscendo quanto appena detto, non finisca per proporre un'idea "alternativa" di universalismo che resta puntualmente impigliata nelle conseguenze associate alla semantica del termine. Proverò a dimostrarlo analizzando tre  esempi che si riferiscono ad altrettanti autori - Massimiliano Tomba, Marco Gatto e Kohei Saito - che aggrediscono gli "ismi" di cui stiamo qui discutendo dal punto di vista, rispettivamente, della critica dell'idea di storia universale, del concetto di eurocentrismo secondo Edward Said, della presunta svolta epistemologica dell'ultimo Marx.  


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Massimiliano Tomba (13) mette in discussione l'idea occidentale di storia come successione di fasi che rappresentano altrettante tappe della marcia dell'umanità verso il "progresso". Si tratta di una visione intrinsecamente eurocentrica e coloniale, argomenta, che dà per scontato l'avvento necessario (in base a presunte "leggi" evolutive immanenti al processo storico) e sostanzialmente positivo, benefico della modernità (intesa invariabilmente come modernità occidentale). Questa critica non è inedita (basti pensare, restando in campo marxista, alle critiche dell'interpretazione teleologica del pensiero di Marx di Gyorgy Lukács e Costanzo Preve, alla rappresentazione del tempo contenuta nella metafora dell'Angelo della Storia di Walter Benjamin, o all'ultimo Tronti (14) e al suo concetto di rivoluzione conservatrice). Tuttavia Tomba ha il merito ha di formularla in modo originale, avvalendosi dei concetti di "incompletezza" del passato e di storia come miscuglio di piani temporali differenti, non ordinabili secondo una successione. 





L'idea di fondo che sostanzia il suo discorso è che forme storiche arcaiche (dal punto di vista moderno) e forme nuove coesistono, generando un campo di lotte e di tensioni il cui esito è per definizione imprevedibile, nonché passibile di generare traiettorie storiche alternative a quelle descritte dalla narrazione eurocentrica. Questi "arcaismi" vengono in generale liquidati come anacronismi destinati ad essere riassorbiti nella "normalità" di un flusso temporale unidirezionale. Vedi l'uso dei termini di sviluppo e sottosviluppo, che serve ad esaltare il primato del modello occidentale caratterizzato dal binomio libero mercato - stato liberal democratico. Del resto questa logica non è esclusiva della cultura liberal democratica ma è condivisa dalla visione ortodossa del marxismo. Tomba cita le rivolte degli apprendisti contro il dominio delle corporazioni medievali, commentando che queste lotte non avevano come obiettivo quello di diventare lavoratori salariati "liberi" di alienare la propria forza lavoro, dopodiché aggiunge che un marxista ortodosso chioserebbe che la loro riduzione alla condizione di lavoratori salariati è comunque un processo "oggettivamente" progressivo, in quanto genera la classe storicamente destinata ad abbattere il capitalismo. Altrove (15) ho a mia volta osservato come la rivolta luddista contro l'introduzione dei telai meccanici sia stata bollata come "oggettivamente" reazionaria, in quanto ostacolava lo sviluppo delle forze produttive, rimuovendo il ruolo svolto da quelle lotte nel processo di formazione della coscienza di classe del proletariato inglese (16). Un analogo esempio di ottusità è l'incomprensione da parte dei marxisti del subcontinente latinoamericano – sia pure con significative eccezioni - del potenziale rivoluzionario delle comunità contadine autoctone, liquidate come residui di forme socioeconomiche precapitalistiche e non riconosciute come protagoniste  della lotta anticapitalista e antimperialista.


Tomba ricasca però nella trappola incorporata nel termine stesso di universalismo allorché cerca di approfondire il concetto di "incompletezza del passato". Nelle lotte dei Diggers inglesi, nella Guerra dei Contadini in Germania, e nei sanculotti della Rivoluzione Francese (il riferimento è ai circoli degli Arrabbiati e degli Eguali), Tomba vede altrettanti esempi di spazi temporali "che sono rimasti chiusi ma possono essere riaperti". Il passato, nella sua visione, si presenta come "un arsenale di futuri possibili che sono stati inibiti e che possono essere fatti riemergere da soggetti storici che operano nell'attualità". Posto che ritengo condivisibile l'idea che certi esiti storici non hanno alcunché di "necessario", dato che le biforcazioni fra differenti esisti possibili sono state spesso decise da fattori contingenti, così come condivido l'idea che soggetti storici che incarnano realtà "anacronistiche" possono essere protagonisti di processi rivoluzionari (vedi gli indios andini); posto tutto ciò, non capisco perché qualificare questi movimenti come "tentativi di dare una diversa direzione al processo di modernizzazione" o come portatori di una "eredità alternativa della modernità". Dietro il fantasma di una modernità alternativa, si riaffaccia infatti lo spettro dell'universalità tout court, sia pure definita come "Insurgent Universality" (così recita il titolo di un libro di Tomba). Perché definire queste "insorgenze" come modelli universali, e non come espressioni di soggettività idiosincratiche in lotta contro il capitalismo per affermare il proprio diritto all'esistenza? 



Sopra una rappresentazione dei Diggers



Il secondo esempio si riferisce al modo in cui Marco Gatto rivisita (17) il concetto di Orientalismo elaborato da Edward Said (18). Ogni cultura, secondo Said, si radica in un preciso contesto e, al tempo stesso, contribuisce a rafforzarlo, nella misura in cui svolge al suo interno un potente ruolo di coesione. l'Occidente, sostiene il noto teorico letterario di origine palestinese, è portatore di una coscienza geografica che implica l'auto attribuzione di una "superiorità di posizione", nel senso che, oltre a istituire l'opposizione binaria Noi/Loro, si arroga il ruolo di estendere i propri valori al resto del mondo. Tutto ciò, commenta Gatto, produce un sistema di pensiero quasi (torneremo più avanti su questo "quasi") inaggirabile, associato a forme di violenza simbolica che possono favorire nelle vittime "processi di interiorizzazione della subalternità, vissuta come un dato naturale". Il concetto di Orientalismo, che descrive questo sguardo occidentale sul mondo, non si riferisce esclusivamente alle relazioni fra Nord e Sud del mondo, ma anche a quelle fra Occidente e Oriente interni a determinati Paesi (Orientalism in One Country), vedi il rapporto fra Settentrione e Meridione d'Italia (che Gatto analizza chiamando in causa i lavori di Ernesto De Martino). L'atteggiamento della civiltà occidentale verso le culture popolari subalterne - non solo i popoli coloniali e semicoloniali ma anche il proletariato operaio e contadino delle nazioni egemoniche - rispecchia i bisogni, gli interessi e il limitato orizzonte umanistico delle classi dominanti. 


Nel momento in cui si pone il problema di come rovesciare questa logica, Gatto si trova combattuto fra Scilla e Cariddi, vive un dilemma che emerge con chiarezza laddove affronta il tema del ruolo dei nazionalismi del Terzo Mondo. Da un lato, le sinistre occidentali guardano con sospetto (se non condannano apertamente, vedi il mio post precedente sul pensiero di Antonio Negri) il fenomeno, al punto che Gatto ricorda giustamente che ci si è potuti chiedere "se gli studi postcoloniali non fossero poi aderenti a una visione appunto capitalistica, se la loro perdurante e infinita decostruzione dell’idea di nazione non mimasse le strategie di annichilimento degli interessi nazionali messe in campo dal dirompente mercato dei flussi finanziari". Dall'altro lato, per quanto ammetta che è solo sul terreno della lotta per l'identità nazionale che è oggi possibile immaginare un ordine mondiale post capitalistico, lo stesso Gatto - al pari di Costa e di Tomba - è preoccupato dai rischi associati alle sirene del relativismo, che rischiano di spianare la strada a forme di essenzialismo e assolutismo etnico, per cui invita a "pensare i fenomeni all’insegna di una sovrapposizione e interconnessione delle identità, senza tralasciare il valore materialistico e inaggirabile di queste ultime" (sottolineatura mia).





Può la soluzione arrivare da un modello universalistico alla Appadurai, fondato sull'esempio del transnazionalismo diasporico e sull'idea di una identità "dislocata"? Altrove ho risposto negativamente a questo interrogativo, criticando le tesi di Appadurai (19). Del resto anche Gatto riconosce che la speranza (io direi l'illusione) nutrita da questo autore di trasformare gli Stati Uniti in laboratorio culturale per la costruzione di un mondo organizzato attorno alla diversità diasporica  "può sembrare oggi superata dalla realtà" (quel può è di troppo). E allora? Dove trovare le risorse ideali e materiali su cui fondare "un nuovo universalismo plurale", lavorando "a favore in un universalismo vieppiù allargato"? Significativamente Gatto non assegna l'onere dell'impresa alla capacità (allo stato inesistente) della civiltà occidentale di auto riformarsi, bensì a una cultura tradizionale che "dovrebbe prendere coscienza della propria limitazione umanistica  (sottolineatura mia) "per attingere a una sintesi più alta", a "un più elevato e universale umanesimo".


Concludo motivando le mie sottolineature: 1) parlando di un sistema di pensiero (l'Orientalismo) quasi inaggirabile si evoca la possibilità che esistano chance di aggirarlo dall'interno. Contro questa ipotesi ribadisco la mia tesi della necessità del passaggio a una forma sociale post capitalistica come iato radicale, salto di civiltà; 2) nella misura in cui si riconosce il valore materialistico e inaggirabile delle identità, la sovrapposizione delle stesse (vedi la "contaminazione" auspicata da Costa) appare a dir poco problematica, per cui ritengo che sia piuttosto sul terreno dell'accettazione della loro irriducibile molteplicità, nonché del reciproco riconoscimento, che può darsi una qualche forma di armonica convivenza; 3) Tomba parla del limitato orizzonte umanistico delle classi dominanti, dopodiché auspica che la cultura tradizionale dei dominati debba a sua volta riconoscere la propria limitazione umanistica, quindi evoca la possibilità che si possa attingere un "più elevato e universale umanesimo". Anche ignorando la problematicità del termine umanistico, il veleno sta nell'aggettivo universale cui viene qui associato: il superamento della limitazione umanistica da parte della cultura tradizionale dei dominati come potrebbe essere diverso dall'allineamento ai valori dell'unica visione umanistica universale storicamente esistente, cioè quella occidentale? Ergo: non si esce dall'Orientalismo accettandone la logica. 


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Il terzo esempio riguarda la rivisitazione degli scritti dell'ultimo Marx da parte del marxista giapponese Kohei Saito (20) e richiede ragionamenti più lunghi e complessi, per cui merita che gli si dedichi uno spazio più ampio. Le argomentazioni di Saito sono raggruppabili in quattro blocchi: 1) critica delle interpretazioni "ortodosse" del pensiero di Marx e ragioni in base alle quali il filosofo giapponese sostiene che nell'ultimo Marx si troverebbero elementi che sottraggono ogni fondamento a tali interpretazioni; 2) analisi delle idee, ancorché disseminate qua e là in forma di abbozzo e non riunite in un discorso unitario e sistematico, che consentono di ipotizzare l'esistenza di un Marx "ecologista", se non addirittura "decrescitista"; 3) esame delle divergenze teoriche fra Marx ed Engels e delle convergenze fra Marx e Lukács; 4) tentativo di configurare una inedita forma di universalismo a partire da tutti questi elementi. 


L'irruzione di alcune tesi formulate dall'ultimo Marx nel dibattito interno al campo marxista non è un fenomeno nuovo. Io stesso me ne sono occupato a più riprese a partire dai contributi di marxisti latinoamericani come Mariategui (21), Dussel (22) e Linera (23), i quali utilizzano l'ultimo Marx come un grimaldello per adattarne l'opera alle concrete condizioni storiche in cui si sono svolte le rivoluzioni anticapitaliste e antimperialiste nel subcontinente. Testi marxiani come la celeberrima lettera a Vera Zasulic in merito alla tesi populista che ipotizzava una possibile transizione diretta delle comunità contadine russe (obscina) al comunismo, senza passare dalla fase capitalistica, la lettera polemica al recensore della prima edizione russa del Capitale e altri frammenti, alcuni dei quali resi disponibili solo di recente (2012) grazie all'edizione MEGA, vengono utilizzati da Saito per mettere in discussione una serie di "regimi narrativi" riscontrabili nel corpus teorico marxiano: centralità della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione; visione eurocentrica della politica internazionale; leggi storiche che configurano come necessaria la transizione dal capitalismo al socialismo; progressismo; evoluzionismo, ecc. Saito trae tuttavia conseguenze più radicali e ambiziose rispetto agli autori sopra citati : il suo scopo infatti non è solo quello di sfruttare questi abbozzi problematici per "aggiornare" il marxismo, onde renderlo più funzionale a quella che considera l'unica vera grande sfida della nostra era, vale a dire l'imminente rischio di catastrofe ecologica globale, ma consiste nel considerare gli appunti dell'ultimo Marx come un vero e proprio cambio di paradigma, una svolta sulla quale sarebbe possibile fondare un nuovo progetto di futuro, universalmente valido per tutti i contesti socioeconomici, storicoculturali e geografici.


Inizio chiarendo che non conosco gli appunti inediti divenuti disponibili grazie all'edizione MEGA del 2012, per cui non mi pronuncio sui giudizi di chi li considera frammenti irrilevanti ai fini di un ripensamento dell'eredità complessiva di Marx. Occorre tuttavia ammettere che Saito non costruisce la propria tesi solo a partire da questi materiali, ma da una vastissima messe di brani estrapolati da tutti e tre i libri del Capitale. Certo si tratta di un "collage" che, per quanto ampio e ben "montato", non mi pare giustifichi l'idea di una svolta epistemologica di centottanta gradi (che Saito definisce la transizione a "una visione non produttivista e non eurocentrica della società futura"). Al tempo stesso, ritengo tuttavia che offra una serie di stimolanti spunti di riflessione.


Kohei Saito



Il nucleo centrale attorno al quale ruota l'argomentazione è il concetto di metabolismo (nel quale rientra anche il lavoro come ricambio organico uomo/natura). Marx, sostiene Saito,  identifica una serie di livelli ai quali l'agire umano determinato dai fini della produzione capitalistica turba gli equilibri naturali e impatta negativamente sia sull'uomo che sull'ambiente. Vedi l'esaurimento dei suoli generato dal loro supersfruttamento da parte dell'agricoltura moderna (Marx avrebbe integrato questo tema nelle sue riflessioni dopo avere letto le teorie del chimico Justus von Liebig, autore viceversa criticato da Engels). Vedi la concentrazione urbana della popolazione favorita dalla produzione capitalistica: sviluppo tecnologico e integrazione dei processi sociali di produzione avvengono al prezzo di minare le sorgenti primarie di ogni ricchezza: la terra e il lavoro. Vedi il conflitto fra tempi della natura e tempi del capitale: la deforestazione avviene a ritmi troppo rapidi per consentire il reintegro delle foreste (conflitto che l'attuale devastazione dell'Amazzonia evidenzia drammaticamente). Vedi infine come, a mano a mano che il conflitto fra città e campagna si estende a livello globale, il Nord del mondo esternalizza i propri problemi ecologici nelle periferie, contribuendo anche in questo modo al loro immiserimento. 


Basta per affermare che l'ultimo Marx avrebbe abbandonato del tutto la propria convinzione in merito al carattere progressivo del capitalismo, arrivando addirittura ad ammettere che la maggiore produttività del capitalismo occidentale non significa necessariamente un vantaggio rispetto alle società non capitalistiche? Di sicuro il fatto che egli abbia rimproverato a Mikhailovsky "di avere equivocato il suo obiettivo scambiando uno schizzo della genesi del capitalismo in Europa occidentale per una teoria storica e filosofica sulle leggi universali dello sviluppo cui tutti i popoli dovrebbero sottostare, a prescindere dalle rispettive circostanze storiche, per approdare una formazione sociale che, grazie alla sua capacità di imprimere un formidabile impulso alle forze produttive del lavoro sociale, garantirebbe il più integrale sviluppo di ogni produttore individuale" sembra testimoniare il superamento della visione della storia come processo direzionato verso il "progresso" da una legalità immanente. Non meno significativa l'ammissione, formulata nella sopra citata lettera alla Zasulic, che le comuni russe (obscina), dal momento che usufruivano del vantaggio di non essere sottoposte - come avveniva in altri paesi - al dominio coloniale, avrebbero potuto godere delle realizzazioni positive del sistema capitalista senza dover passare sotto il suo giogo, transitando così direttamente al socialismo (24). 


Ma Saito "forza" le intenzioni di Marx, affermando che, grazie agli studi di scienze naturali e antropologiche ai quali aveva dedicato gli ultimi quattordici anni di vita, egli avrebbe sviluppato concetti che "sembrano associati all'abbandono delle prime formulazioni del materialismo storico e alla conclusione che sostenibilità e uguaglianza associati a un'economia stazionaria sono fonti di potere per resistere al capitalismo e per una possibile transizione diretta al comunismo". La visione marxiana del post capitalismo sarebbe insomma un "comunismo della decrescita". Affermazione a mio avviso arbitraria nella misura in cui da per scontata l'intenzione di Marx di riconoscere alle comuni rurali precapitalistiche, non solo una superiorità nei confronti delle società capitalistiche "in quanto più consapevoli della regolazione della loro interazione metabolica con la matura", ma anche la missione storica di indicare all'Europa la strada di un possibile futuro alternativo. 


Per Marx, precisa Saito " Non si trattava di invocare un ritorno romantico alla vita di campagna. Infatti Marx aggiunse più volte che le comuni avrebbero dovuto assimilare i frutti positivi dello sviluppo capitalistico. La critica delle forze produttive del capitale non implica il rigetto di tutte le tecnologie". L' Europa occidentale non dovrebbe abbandonare tutti gli  aspetti del proprio sviluppo, bensì combinare tali frutti con il principio dell'economia stazionaria delle società non occidentali fino a realizzare una società comunista concepita come fase superiore delle comuni arcaiche. La precisazione non basta a dissipare la sensazione di trovarsi di fronte a una forzatura che proietta su Marx la visione di Walter Benjamin, il quale descriveva la rivoluzione socialista come "freno a mano della storia", o come quella di Karl Polanyi, il quale concepiva il capitalismo come aberrazione storica, una parantesi temporale in cui l'economia subordina a sé tutti gli aspetti della vita umana sottomettendoli al dominio delle "false merci" (terra, lavoro e denaro), cui dovrà necessariamente succedere - pena la catastrofe - una qualche forma superiore di società "arcaica". 


Mettendo fra parentesi la tesi secondo cui l'ultimo Marx avrebbe rovesciato la sua prospettiva, fino a vedere nel recupero di certe caratteristiche delle società precapitaliste, invece che nella moderna società industriale generata dal capitalismo, il modello della futura società socialista, affronto ora un ultimo punto, vale a dire i giudizi di Saito su Engels e Lukács. Parto dal secondo. Saito ricorda come il filosofo ungherese, nella Prefazione alla ristampa del 1967 di Storia e coscienza di classe (25), abbia autocriticato la sua opera giovanile anche - ma non solo! (26) - perché in essa mancava il concetto di lavoro come attività fondamentale che media il ricambio organico fra uomo e natura, il che rendeva ristretta la sua visione dell'economia. Il punto è effettivamente cruciale perché, come ho scritto nella mia Prefazione all'Ontologia, l'intero impianto teorico dell'ultima, monumentale opera di Lukács si fonda sulla categoria di lavoro come l’unica che consente di inserire un elemento teleologico nella storia umana, senza dimenticare che, trattando del lavoro, Lukács si riferisce quasi sempre alla produzione di valori d’uso. 


Saito ha dunque ragione nell'accostare la visione di Lukács a quei passaggi del I° Libro del Capitale in cui Marx mette in luce la natura trans storica del ricambio organico fra uomo e natura, un processo comune a tutte le forme sociali in cui gli esseri umani hanno vissuto, vivono e vivranno. “Gli uomini, commenta Saito, non possono mai sottrarsi dall'essere parte dell'universale metabolismo naturale. Cibo, abiti, case e anche i più sofisticati prodotti high tech che  ‘smaterializzano’ l'economia usano energia e risorse naturali. Ecco perché Marx scrisse che il lavoro opera su un sostrato materiale che esiste a prescindere dall'intervento umano, e il lavoro umano può solo cambiare la forma dei materiali.” Naturalmente il fatto che gli esseri umani non possano mai emanciparsi da questo vincolo naturale, il fatto che essi sono “embedded” nel metabolismo universale della natura, non deve far dimenticare  che ne sono al tempo stesso distinti a causa delle proprietà emergenti della società, che non esistono nella natura extra umana. E Lukács, ricorda Saito, ne era perfettamente consapevole, tanto che rigettava sia il dualismo cartesiano che un piatto monismo “materialistico”:”Egli enfatizzava la differenza qualitativa fra il sociale e il naturale pur non negandone la continuità” e il suo “materialismo storico” consisteva precisamente in ciò, e quindi differiva, sostiene Saito, da quello della engelsiana “dialettica della natura”. 


Così arriviamo alle critiche che Saito rivolge ad Engels, le quali non sono inedite: si inseriscono nel  consolidato filone di coloro che lo accusano di avere “rimosso” dalle versioni definitive delle sezioni del Capitale, pubblicate dopo la morte dell’autore, una serie di materiali che la pubblicazione dei Mega dimostrerebbe che avrebbero significativamente cambiato il senso dell’opera. Chi ha formulato queste accuse prima di Saito, ha puntato il dito contro la presenza di concezioni “materialiste volgari” nel pensiero di Engels, in particolare nella sua dialettica della natura, concezioni che avrebbero ispirato il Diamat staliniano e più in generale le deviazioni pseudoscientiche del marxismo ortodosso. Gli ortodossi, sostiene Saito, ritenendo che Marx non aveva pressoché nulla da dire in merito allo statuto ontologico della natura nei suoi scritti ufficiali, fecero ricorso alla dialettica della natura di Engels e allo Anti-Dühring per estendere la teoria materialista all'intero universo. Le differenze fra Marx ed Engels vennero così cancellate.


Trovo di scarso interesse questa polemica retrospettiva, sia perché non credo sia dimostrabile una intenzionalità censoria di Engels nei confronti dei testi marxiani, sia perché, pur considerando a mia volta più che discutibili certe sue opinioni in materia di scienze naturali, non credo che si possa sostenere che la sua opera abbia significativamente contribuito alle deviazioni del marxismo novecentesco. Il punto, per quel che mi riguarda, è un altro: è davvero possibile fondare – come tenta di fare Saito - un nuovo progetto di società futura, universalmente valido per tutti i contesti socioeconomici, storicoculturali e geografici a partire dalla presunta svolta ecologista e decrescitista dell’ultimo Marx? Francamente ne dubito. Non perché non ritenga che nell’ultimo Marx esistano spunti per criticare gli “ismi” che hanno affossato il marxismo occidentale, ma perché l’uso politico che ne fa Saito si presenta come un tentativo idealistico di fondare un nuovo modello di razionalità universale da imporre a tutti i popoli e tutte le nazioni a prescindere dalle loro storie, tradizioni, culture e condizioni socioeconomiche. 


il monumento a Marx ed Engels a Berlino



Vediamo ad esempio questo passaggio:  “se una società socialista continua ad aumentare le sue forze produttive per soddisfare ogni genere di bisogni umani ciò sarebbe catastrofico per l'ambiente. Una società più ugualitaria non è automaticamente più sostenibile. Mentre la Terra ha vincoli biofisici le domande sociali sono potenzialmente illimitate. Così Marx viene ad ammettere che i principi dell'economia stazionaria dovrebbero essere riabilitati nelle società occidentali”. Mettiamo fra parentesi la liceità di proiettare le teorie ecologiste contemporanee su Marx e diamo per vera l’ultima asserzione. Dopodiché: la Repubblica Popolare Cinese (e il discorso vale per tutti gli altri regimi socialisti che si sono imposti in Paesi sottosviluppati) non avrebbe dovuto impegnarsi a riscattare ottocento milioni di cittadini dalla povertà assoluta perché questo sforzo ha imposto salati costi ambientali? Altro passaggio: “un socialismo genuinamente democratico non può crescere ai ritmi del capitalismo che emargina e distrugge tutto ciò che rallenta”. Giusto in astratto, ma alle orecchie di quei Paesi per i quali la crescita è l’unica condizione che consenta loro di autonomizzarsi dal dominio dell’imperialismo occidentale, può suonare sinistro. Potrebbero dedurne che per essere genuinamente democratici occorre accettare la miseria. Per tirare le somme: qualsiasi pretesa universalista finisce fatalmente per chiamare in causa idee, valori, categorie, pratiche, visioni del mondo associati alla civiltà che ha partorito il termine, cioè a quell’Occidente che muta continuamente pelle per coniare nuovi ismi che giustifichino il suo dominio.



Alcune considerazioni conclusive 


Mi pare di poter affermare, a conclusione di questa rassegna di opinioni, che la convinzione in merito alla necessità di mandare in soffitta una serie di dogmi profondamente incorporati nella cultura marxista occidentale sia largamente diffusa, anche fra coloro che non si propongono  di liquidare l’eredità di Marx bensì di rivitalizzarla. Fra i bersagli più condivisi penso di potere elencare: l’idea che esistano leggi immanenti al processo storico che ne orientano univocamente la direzione (abbandonarla implica inevitabilmente la critica alle ideologie progressiste ed evoluzioniste); la visione ottimistica in merito allo sviluppo delle forze produttive quale condizione del superamento dei rapporti capitalistici di produzione; il rifiuto della concezione eurocentrica della storia; la critica nei confronti di una sinistra ornai esclusivamente dedita alla rappresentanza degli interessi dei “ceti medi riflessivi” e convertita al liberalismo. 


Se si passa dalla critica al tentativo di definire pratiche e ideali alternativi per una nuova politica orientata al superamento del capitalismo, questa unanimità viene meno, diramandosi in una serie di direzioni che convergono solo parzialmente. E’ vero che esiste un’area comune, circoscritta dai concetti di rivoluzione conservatrice, nonché dalla rivalutazione di determinate caratteristiche delle società arcaiche come modello di una futura società postcapitalista, ma la prospettiva decrescitista di Saito non è assimilabile tout court a quelle di Tomba o di Gatto. Questo rovesciamento di prospettiva sconta inoltre la preoccupazione (ben esplicitata da Costa ma di fatto implicita in quasi tutti gli altri autori citati) che l’abbandono di certe categorie di riferimento (che possono essere tutte ricondotte nell’alveo della tradizione universalista occidentale) rischi di spalancare le porte al relativismo. In concetti come contaminazione (Costa) universalismo plurale e allargato (Tomba, Gatto) socialismo genuinamente democratico (Saito) ecc. si riflette la tendenza a non superare il confine del ripudio dell’universalismo in quanto tale. 


Ciò è dovuto, a mio avviso, all’assenza di un’adeguata riflessione sui limiti dell’utopia socialcomunista classica teorizzata da Marx ed Engels. La visione tradizionale viene abbandonata (assieme alle esperienze socialiste in atto, senza riflettere sul loro contributo innovativo), dopodiché la si rimpiazza con nuove utopie che somigliano a quelle premarxiste, ma che hanno soprattutto il difetto di accampare pretese universali, prescindendo dalle concrete realtà storicoculturali e socioeconomiche cui si vorrebbero applicare. Manca inoltre una chiara ridefinizione del soggetto sociale che dovrebbe metterle in pratica: criticare l’astrazione del proletariato in quanto classe “naturalmente” rivoluzionaria non basta, bisognerebbe definire concretamente la composizione di classe (dal punto di vista economico, culturale, antropologico) cui ci si intende rivolgere. Tutte queste aporie fanno sì che, quando si passa a discutere di progetto politico, si sente prevedibilmente risuonare il canto delle sirene populiste, anarchiche, “orizzontaliste”, alter globaliste ecc. Ma questo è argomento della seconda parte in cui discuterò della forma partito e della forma stato.



Genova Gennaio 2024

(Continua)




Note


(1) C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019.


(2) C. Formenti, Guerra e rivoluzione (2 voll.), Meltemi, Milano 2023.


(3) C. Preve, La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.


(4) G. Lukács, Ontologia dell’essere social (4 voll.), Meltemi, Milano 2023.


(5) Vedi, in particolare, Ombre rosse. Saggi sull'ultimo Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.


(6) Spiazzante in quanto Preve è perfettamente consapevole (e infatti cita vari esempi in merito) del disprezzo che Marx manifestava per il diritto borghese e i suoi principi universali. Del resto anche un filosofo marxista radicale come Domenico Losurdo ha espresso la convinzione che i comunisti non dovrebbero svalutare le conquiste del liberalismo bensì appropriarsene (cfr. La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, Carocci, Roma 2021).


(7) Ontologia, op. cit., vol. IV, p. 522.


(8) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.


(9) Cfr. V. Costa, Categorie della politica. Dopo destra e sinistra; vedi anche L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl.  Le due recensioni si trovano a questo indirizzo web: https://tempofertile.blogspot.com/ .


(10) Cfr. U.. Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2000.


(11) A. Visalli, Classe e partito, Meltemi, Milano 2023.


(12) Cfr. C. Lévy-Strauss, Razza e storia, Einaudi, Torino 2002.


(13) M. Tomba, Insurgent Universality, Oxford University Press, New York 2019.


(14) Cfr. M. Tronti, Dello spirito libero, Il Saggiatore, Milano 2015.


(15) Vedi C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.


(16) Cfr. E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, Penguin Books, London 1991.


(17) cfr. M. Gatto, “Per un universalismo senza restrizioni” in Consecutio Rerum Anno VII N. 14 http://www.consecutio.org/category/numero-14/ ; vedi anche dello stesso autore L’umanesimo radicale di Edward Said, Mimesis, Milano-Udine 2012.


(18) E. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2013.


(19) Cfr. A. Appadurai, Modernità in polvere, Cortina, Milano 2012.


(20) di Kohei Saito è appena uscito in edizione italiana. L’ecosocialismo di Karl Marx, Castelvecchi, Roma 2023. I ragionamenti sulle sue tesi che presento in questo scritto si riferiscono tuttavia a un’altra opera: Marx in the Anthropocene, Cambridge University Press, 2022 (s’intende che le citazioni – talvolta condensate rispetto all’originale - sono tradotte da me).


(21) Cfr. J. C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino 1972.


(22) cfr. E. Dussel, L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009.


(23) A. G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020; vedi anche Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Suenos, Quito 2015. 


(24) Sia la lettera a Vera Zasulic che la polemica con Mikhailovsky si trovano in India, Cina, Russia ( a cura di B. Maffi), Il Saggiatore, Milano 1960.


(25) Cfr.  G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997. Sono tornato sull’autocritica contenuta nella Prefazione alla riedizione del 1967 di quest’opera nella mia Prefazione alla Ontologia.


(26) In quel testo Lukács ironizza su alcune sue posizioni filosofiche dell’epoca dicendo di essere stato a quel tempo “più hegeliano di Hegel”. 


Genova Gennaio 2024



lunedì 1 gennaio 2024

ANTONIO NEGRI
UN UOMO CHE VOLEVA ASSALTARE IL CIELO 
ALZANDOSI SULLE PUNTE DEI PIEDI








Nel momento in cui l'intero patrimonio di idee, teorie, tradizioni e pratiche politiche del marxismo  sembra evaporare nei Paesi Occidentali, mentre rinasce in forme inedite in Asia e America Latina, due eventi distanziati di pochi mesi l'uno dall'altro accentuano la sensazione di vivere la fine di un ciclo storico: mi riferisco alle morti dei due "grandi vecchi" dell'operaismo italiano, il novantaduenne Mario Tronti, deceduto lo scorso agosto, e il novantenne Toni Negri, spentosi poche settimane fa. Commentando la prima su queste pagine (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/08/che-cosa-ho-imparato-da-mario-tronti.html) titolavo "Che cosa ho imparato da Mario Tronti", per commentare la seconda ho scelto, per ragioni che chiarirò più avanti, di titolare "Un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulla punta dei piedi".  Qui non troverete parola in merito al disgustoso luogo comune su Negri "cattivo maestro", che i media di regime hanno prevedibilmente rilanciato, perché le critiche che potrei fare alle sue scelte degli anni Settanta sono marginali rispetto a quelle che intendo rivolgergli qui, riferite piuttosto al suo ruolo - per citare un azzeccato titolo del "Manifesto" - di "attivo maestro". Non troverete nemmeno i ricordi di un rapporto di amicizia ormai lontano nel tempo (negli ultimi decenni ci siamo incontrati in rarissime occasioni). Non troverete nemmeno valutazioni relative alla sua opera strettamente filosofica, compito che delego agli accademici. Qui discuterò solo del Negri teorico del conflitto sociopolitico e dell'influenza  che ha esercitato sulle sinistre radicali post comuniste. 


Parto con una affermazione provocatoria: contrariamente a quanto da lui rivendicato (1), penso che Toni Negri non sia stato un comunista (nel senso storicamente riconosciuto del termine). Co-fondatore negli anni Sessanta dei cenacoli operaisti di "Quaderni Rossi" e "Classe Operaia" (più affini alla sinistra socialista che al PCI); leader negli anni Settanta del gruppo extraparlamentare Potere Operaio che, al pari del "Manifesto" di Rossana Rossanda, ha fortemente contribuito alla demonizzazione del "comunismo reale", poi di Autonomia Operaia, che radicalizzerà il distacco dalla tradizione comunista; infine, a partire dalla svolta postmoderna degli anni Ottanta/Novanta, esponente di un liberalismo radicale di sinistra, come documentato da Impero (2) e opere successive, testi che lo hanno consacrato a "star" mondiale assieme a Deleuze e Foucault, autori con i quali presenta più affinità che con i classici del marxismo. Per estrarre un nucleo unitario da questo percorso, sfrondandolo dalle contraddizioni che caratterizzano una militanza intellettuale e politica che ha attraversato più di mezzo secolo di storia, segnato da conflitti e trasformazioni radicali, metterò prima a confronto le opposte traiettorie seguite da Tronti e Negri a partire da un punto di partenza comune, dopodiché analizzerò alcune caratteristiche distintive delle attuali sinistre radicali, valutando in che misura le idee di Negri abbiano contribuito a plasmarle.







Prima di affrontare il compito, vorrei spiegare perché mi permetto di affermare che Negri non è  stato comunista. Un bel libro di Vladimiro Giacché sulla dialettica hegeliana (3) contiene una sezione antologica che raggruppa una serie di lunghe citazioni dalle opere maggiori di Hegel assieme ad estratti dai testi di autori che le hanno discusse. Fra questi ultimi ho trovato un illuminante testo di Remo Bodei (4). Ragionando sui mutamenti di paradigma, Bodei nota come il sorgere di nuove visioni del mondo si accompagni al ripudio delle forme precedenti, che vengono sottoposte a una sorta di damnatio memoriae. La nuova filosofia assume toni intolleranti e distruttivi nei confronti del sapere e del mondo tradizionali. Ma questa fase non dura a lungo, annota Bodei, perché prima o poi il passato si vendica in due modi: induce il nuovo a farsi a sua volta sistema, ri-appropriandosi nel contempo del vecchio (operazione che Hegel connota con il termine aufhebung), oppure irrigidisce il nuovo in una prassi di sterile ripetizione delle proprie "scoperte", condannandolo a definire la propria identità esclusivamente in opposizione al vecchio (per dira ancora con Hegel: si fossilizza in una postura di negazione assoluta incapace di evolvere in negazione determinata). La rottura fra tradizione comunista e nuova sinistra che si è consumata a partire dagli anni Sessanta/Settanta è un buon esempio di questa dinamica: la critica della tradizione non si è evoluta in alternativa capace di comprendere/inglobare il nucleo vitale della storia passata ma si è irrigidita in rifiuto assoluto, per cui la sinistra emersa da quella transizione fallita è diventata di fatto anticomunista.   


* * *


Forzare la complessa e variegata produzione teorica dell'operaismo italiano degli anni Sessanta in un unico, monolitico edificio teorico è operazione arbitraria. Tuttavia ritengo sia lecito enucleare una serie di elementi che caratterizzavano una visione sostanzialmente comune fra il primo Tronti - quello di "Operai e capitale" (5), per intenderci - e Negri. Entrambi sono convinti che le lotte operaie siano il motore dello sviluppo capitalistico e ne determinino in misura sostanziale tempi e modalità (la si potrebbe definire una visione economicista e soggettivista al tempo stesso). Entrambi attribuiscono all' “operaio massa”, termine con cui definiscono il proletariato industriale della fabbrica fordista, la capacità di sviluppare spontaneamente una coscienza anticapitalista che si estrinseca in obiettivi, pratiche e metodi di lotta del tutto nuovi rispetto alla tradizionale prassi sindacale. Entrambi, a partire dalla convinzione che in questa inedita fase storica il lavoro vivo sia  portatore di una politicità immediata, rinnegano le radici gramsciane cui faceva riferimento (anche se impropriamente) il più grande partito comunista occidentale: quel PCI che, ignorando le potenzialità rivoluzionarie inscritte nella propria base sociale, ha scelto la via “nazional popolare”, sterilizzando la parzialità operaia in funzione di una strategia che perseguiva il progetto togliattiano di “democrazia progressiva”. Entrambi, pur non rinnegando la necessità di una organizzazione rivoluzionaria, non la concepiscono più, leninisticamente, come luogo d'una coscienza politica esterna alla classe, bensì come strumento tattico deputato a coordinare e unificare la lotta spontaneamente rivoluzionaria del proletariato.


Da qui in avanti le strade divaricano. Per Negri, che si considera una sorta di Lenin senza leninismo (6), il fattore soggettivo resta determinante ma va organizzato senza irrigidirlo nella forma partito (questa sarà la filosofia della sua creatura politica, l'Autonomia Operaia Organizzata). Tronti, viceversa, si convince della necessità di riconoscere l'autonomia del politico e quindi l'imprescindibilità della forma partito. Questa svolta si rafforzerà a mano a mano che la ristrutturazione capitalistica e la transizione al modo di produzione postfordista metteranno in luce  quella che egli considera l'irrisolvibile aporia che si annida nella teoria marxista: nella misura in cui la lotta di classe viene concepita come contraddizione immanente al modo di produzione, non esiste alternativa alla riduzione dell’operaio collettivo a capitale variabile; la forza lavoro, in quanto essa stessa capitale, non può divenire autonoma. Si potrebbe dire, per descrivere in poche parole il giudizio critico - e autocritico - di Tronti sull'operaismo, che il “peccato originale” di questa visione teorica è la sua concezione immanente del processo rivoluzionario, l’idea secondo cui il principio del superamento è inscritto nelle dinamiche stesse del modo di produzione, una visione che non coglie come il principio di immanenza si rovesci in principio di cattura (vedi l'affermazione secondo cui occorre essere dentro-contro il rapporto di capitale, affermazione che contiene un germe di auto dissoluzione, nel senso che se non esiste un fuori non esiste possibilità di uscirne). 



Gli imputati al processo del 7 Aprile




Per Tronti la soluzione consiste nella riscoperta del ruolo del politico come mediazione della totalità delle relazioni e dei conflitti sociali, terreno su cui solo il partito può operare. Tronti, annota Franco Milanesi (7), concepisce il politico come visione strategica e organizzazione, capacità tattica e densità di cultura, ceti dirigenti e popolo attorno a un comune progetto di trasformazione, tensione affermativa di volontà, decisione e governo in opposizione alle forze dell’ordine economico; è anche, infine e soprattutto, capacità di tracciare il confine fra amico e nemico (8). Purtroppo la sua speranza di riattivare tale visione è naufragata con la trasformazione del PCI in partito liberale, ma ancor più con il crollo del socialismo reale, eventi che hanno contribuito a diffondere nelle sinistre occidentali non solo il ripudio delle rivoluzioni ispirate al modello bolscevico, ma anche il rigetto dell’intero “secolo breve”, dipinto come un museo degli orrori macchiato da guerre e totalitarismi (9). Per Tronti il Novecento è stato piuttosto un secolo “tragico” che ha imposto decisioni e scelte radicali, senza alternative, il secolo dell’aut aut fra socialismo o barbarie, mentre l’ideologia postmoderna l'ha liquidato con i suoi annunci di “fine delle grandi narrazioni” (10) se non di “fine della storia”(11). Ecco perché l'ultimo Tronti si è ritirato nella nostalgica commemorazione della grande politica novecentesca, contemplando con ironico distacco una realtà che ha assunto la forma d’un eterno presente in cui tutto cambia senza che nulla cambi veramente.


Negli stessi anni in cui Tronti sprofonda nel suo pessimismo tragico, Negri imbocca viceversa un percorso che lo porta a nutrire uno sfrenato ottimismo in merito all'imminente tracollo del dominio capitalistico. Nuovo ma non nuovissimo, perché Negri non ha mai messo in discussione la tesi che attribuisce un ruolo spontaneamente rivoluzionario alle classi subalterne e alla loro capacità di determinare in ultima istanza la direzione di sviluppo delle forze produttive del capitale, ha semplicemente "modernizzato" (o meglio post modernizzato) la tesi in questione. Se è vero che in Occidente l'operaio massa è sparito sotto i colpi della crisi e della ristrutturazione capitalistiche, la sua funzione, sostiene Negri, si è trasferita in una successione di figure - dall'operaio sociale alla moltitudine - che incarnano una soggettività antagonistica a suo avviso ancora più radicale. 

Il concetto di operaio sociale, emerso nel decennio successivo al riflusso delle lotte di fabbrica, è ritagliato sul proletariato giovanile che rifiuta di assoggettarsi alla disciplina del lavoro e pratica l'illegalità diffusa nelle periferie metropolitane, sfruttando i centri sociali come proprie basi, ma anche sul nascente movimento femminista, che frustra le ambizioni neo leniniste dei gruppi extraparlamentari. Tronti descrive questa operazione concettuale come il tentativo di “fabbrichizzare” il sociale, di estendere la qualità dell’antagonismo di fabbrica al sociale diffuso, che viene sovraccaricato di coscienza anticapitalista per compensare il declino di potenza dell’operaio tradizionale. La sopravvalutazione della valenza politica dei comportamenti "indisciplinati" di questi strati sociali è alle radici dell'avventurismo "insurrezionale" di Autonomia Organizzata che legittimò la dura repressione politico-giudiziaria che ne decretò la fine con il processo del 7 Aprile 1979. 

Dal fallimento del progetto di Autonomia Operaia, e dalla dura prova del carcere, Negri e  compagni emergono con l'esigenza di tracciare un confine ancora più netto nei confronti della tradizione comunista. Se negli anni Settanta avevano mantenuto rapporti tattici con le formazioni comuniste combattenti, espressione di frange dissidenti della base del PCI, negli anni Ottanta la loro dissociazione dalla lotta armata è totale, ma soprattutto non riguarda tanto e solo i metodi e le forme dello scontro di classe: implica il ripudio totale della tradizione marxista-leninista. Viceversa il "metodo" della teoria operaista viene sostanzialmente conservato, e riversato in una visione post operaista che tenta di adattarlo alle mutate condizioni della produzione post fordista e alle radicali  trasformazioni antropologiche e culturali indotte dalla controrivoluzione neoliberista. Il nuovo paradigma matura negli ultimi due decenni del Novecento e si consolida nel primo decennio del Duemila con la pubblicazione di Impero e di una serie di testi successivi che ne articolano e approfondiscono i concetti fondamentali (12). 


Antonio Negri e Mario Tronti



La categoria fondativa del discorso post operaista, che rimpiazza progressivamente quella di operaio sociale, è il concetto di moltitudine che, più che rappresentare una nuova forma di soggettività di classe, rispecchia il processo di atomizzazione sociale generato dalla ristrutturazione capitalistica ed è concepito come somma di singolarità individuali e di gruppo che coagulano in potenza antagonista. Si cerca conferma empirica di questa reazione alchemica nel manifestarsi delle più disparate insorgenze di rabbia popolare che accompagnano il dispiegarsi della crisi capitalistica: Forconi, Occupy, Primavere Arabe, Indignados, Gilet Gialli, ecc. in generale senza approfondirne più di tanto composizione sociale e peculiarità geo-culturali, e spesso ignorandone le specificità ideologiche, anche quando di segno reazionario (vedi le manifestazioni filo americane di Hong Kong che vengono nobilitate con l'etichetta di insorgenze democratiche). Difficile ignorare una certa analogia con le teorie populiste di Ernesto Laclau (13); tuttavia l'importanza strategica che questo autore attribuisce al concetto di egemonia e al ruolo del leader carismatico è incompatibile con la visione libertaria e "orizzontalista" associata all'idea di moltitudine. Inoltre, mentre il discorso populista si fonda sulla centralità della dimensione comunicativa e sulla potenza performativa della parola, del discorso, il paradigma moltitudinario rinvia ai principi "classici" dell'operaismo: economicismo, soggettivismo, ottimismo tecnologico, rigetto di ogni struttura gerarchica e di ogni forma di potere politico, nonché demonizzazione dello stato nazione, cui si contrappone un miscuglio di globalismo e localismo.  

Tutti questi ingredienti sono presenti nel calderone che partorisce quel bestseller del movimento "alter globalista" (definizione più appropriata, ancorché meno diffusa, di quella di movimento no global) che è stato Impero. Economicismo, perché il peso delle contraddizioni immanenti al modo di produzione quale fattore determinante d'una presunta crisi terminale del capitalismo viene ingigantito a dismisura; la fede negli effetti della insanabile contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione (forse una delle formulazioni più infelici e datate di Marx) viene corroborata dalle celebri pagine dei Grundrisse in cui si profetizza che, raggiunto un certo livello delle forze produttive del lavoro sociale, la legge del valore può sussistere solo come mera finzione, imposta dal dominio politico e non più giustificata dal ruolo progressivo del capitalismo. 

L'altra faccia della medaglia dell'economicismo è lo sfrenato ottimismo tecnologico: la rivoluzione digitale - esaltata (14) a prescindere dal poderoso potenziamento del controllo capitalistico che essa incorpora fin dalle origini - svolge una funzione mille volte più potente di quella - già poderosa - attribuita da Marx al macchinismo industriale nell'accelerare la maturazione della transizione al socialismo; di più: essa è già di per sé socialistica, nella misura in cui genera uno strato sociale, i lavoratori cognitivi, capace di sviluppare spontaneamente un elevato divello di cooperazione autonoma e indipendente dal comando capitalistico (mentre si tace sul ruolo di tale strato nell'organizzare le nuove funzioni di dominio e sfruttamento degli strati inferiori per conto del capitalismo digitale). La cultura di questo strato di "nerd" diventa, assieme alle insorgenze populiste richiamate poco sopra, il modello che inspira una visione associativa che rigetta ogni forma di autorità e gerarchia sociali e politiche: lo stato, in particolare nella sua forma di stato nazione, assurge a nemico assoluto, a emblema di tutti i mali. 

La globalizzazione economica (di cui pure si riconosce la natura parassitaria inscritta nella diade finanziarizzazione/economia del debito) accelerata dalla rivoluzione tecnologica, nella misura in cui travolge le frontiere nazionali e "unifica" le moltitudini (almeno secondo il delirio negriano che ignora la proliferazione di disuguaglianze e contraddizioni interne alle classi lavoratrici) è la prima amica della rivoluzione. Le rivoluzioni antimperialiste dei Paesi in via di sviluppo sono viceversa fattori di freno rispetto a questa tendenza intrinsecamente positiva, per cui le rivendicazioni di autonomia nazionale sono condivisibili se e finché attivano le energie sovversive dalle masse, divengono nemiche non appena si fanno stato. Non a caso Impero decreta la fine dell'imperialismo e assolve gli Stati Uniti dall'accusa di voler sfruttare il crollo del socialismo reale per instaurare un sistema mondiale di controllo e sfruttamento su tutti i popoli del mondo. Ecco perché è più corretto, come scrivevo poco sopra, parlare di alter globalismo: il "localismo" dei movimenti, sia geografico che culturale (in quanto non persegue l'obiettivo di conquistare il potere ma di limitarlo e controllarlo (15) per tutelare gli interessi specifici di donne, ambiente, minoranze etniche, ecc.), è apprezzato nella

Scontri a Genova 2001

nella misura in cui instaura rapporti federativi fra le diverse "tribù" in vista di mobilitazioni globali (è il modello del ciclo che va da Seattle a Genova). 

Veniamo al soggettivismo: se Negri ritiene di poter riconoscere, come sostiene Tronti, una nuova forma di soggettività di classe nel processo di atomizzazione sociale generato dalla ristrutturazione capitalistica, è perché - dato per scontato che nell'era del capitalismo "immateriale" (16) il motore del conflitto sociale non può più essere la creazione e la spartizione del plusvalore - il capitale opprime e sfrutta la vita stessa più che la forza lavoro, per cui la contraddizione antagonista diviene quella fra il capitale e l'umanità intera. Le nuove dinamiche della lotta anticapitalista vanno analizzate a partire dal concetto foucaultiano di biopolitica e dalle derive desideranti teorizzate da Deleuze. Il capitale può e deve essere battuto sul suo stesso terreno, che è quello dell'accelerazione (17): non solo accelerazione economica e tecnologica, ma anche proliferazione e accelerazione dei bisogni e desideri sociali. Illusione, commenta Tronti, perché “nessuno può essere più moderno del capitale”, nessuno può batterlo a un gioco di cui controlla ogni mossa e ogni regola. Ma anche e soprattutto perché, combinando i fattori sin qui descritti, Negri sogna un capitalismo che esercita ormai un domino senza egemonia, per cui basta che le moltitudini raggiungano un determinato livello di consapevolezza della propria potenza (non potere, parolaccia "sporcata" dalla politica) per dargli una spallata sufficiente a farlo crollare praticamente da solo. E' una visione post rivoluzionaria in cui la transizione non necessita  di poderose concentrazioni di forza, di "assalti al cielo", basta alzarsi appena sulla punta dei piedi per vedere la strada verso l'emancipazione (con il che ho spiegato il titolo di questo articolo). 


***


Quanto di questa visione si è trasferito nella cultura e nella prassi dei movimenti radicali di sinistra? I giovani del 68, argomenta Tronti (18), erano anti autoritari, ma ignoravano che abbattere l’autorità non significa automaticamente liberare le potenzialità dell’essere umano: poteva invece voler dire (ciò che in effetti ha voluto dire) liberare gli spiriti animali del capitalismo che scalpitavano dentro la gabbia di acciaio che il sistema politico aveva costruito come rimedio della lunga crisi dei decenni centrali del Novecento. Negli anni Settanta trionfa in effetti quello che Boltanski e Chiapello hanno definito “il nuovo spirito del capitalismo” (19):  l’esaltazione della soggettività “desiderante” da parte dei movimenti post sessantottini, sempre più disinteressati nei confronti di bisogni e interessi proletari, si converte di fatto in agente di una neo cultura capitalista che fa leva sulle pulsioni consumiste, sull'edonismo individualista “emancipato” da ogni legame sociale e sulla critica radicale dei limiti ("vietato vietare") che la tradizione imponeva nei vari campi dell’esistenza e dell’agire umani. Nel mio ultimo libro ho descritto questa "sinistra del capitale" (20), rilanciando le argomentazioni di autori come Jean-Claude Michéa (21) e Costanzo Preve (22), ma anche ragionando sulla funzionalità del movimento femminista (nella sua versione "emancipazionista") al consolidamento dell'egemonia liberal progressista, di cui l'ideologia politically correct incarna lo spirito autoritario (23).  Nel momento in cui davo alle stampe quelle pagine, il dibattito sulla mutazione genetica delle sinistre occidentali aveva già accumulato una bibliografia sterminata, quindi, per non ripetere quanto già scritto da molti altri, oltre che dal sottoscritto, mi limiterò qui a richiamare alcuni passaggi di un recente lavoro di Vincenzo Costa (24), che ha il merito di descrivere con chiarezza tanto la svolta liberale delle sinistre moderate, quanto il legame di affinità che le connette alle sinistre antagoniste, aggiungendovi un sommario accenno all'identità socio culturale dei soggetti che in esse si rispecchiano. 

Costa liquida come anacronistica l'idea di politica che si attarda a tenere in vita l'asse oppositivo destra-sinistra. Non a caso, scrive, il guru del pensiero neoliberista von Hayek ha spiegato che la grande sfida non è più quella fra destra e sinistra, bensì quella fra liberalismo e socialismo, laddove la sinistra è ormai saldamente attestata nel cuore del campo liberale. Lo conferma il suo sistematico ripudio dell'idea secondo cui il motore del progresso è il conflitto sociale: il concetto di  lotta di classe viene superato in quanto evoca una visione "partigiana" che ostacola il perseguimento del bene comune. Lo conferma la sua opzione per un universalismo astratto che mira a dissolvere le differenze collettive e riconosce solo le differenze individuali. Lo conferma la scelta di abbracciare un'idea di uguaglianza che si riduce all'impegno di mettere tutti in grado di competere usufruendo di pari opportunità. L'inclusione liberal progressista riguarda infatti tutte le esclusioni che non derivano dal mercato, rimuovendo quelle che derivano dal mercato: mentre la critica socialista della disuguaglianza era sistemica, questa critica si fonda sul piano etico. Lo conferma il fatto che la messa inscena dell'opposizione alla destra si basa quasi esclusivamente su argomenti di natura morale (vedi il ruolo fondativo che la destra berlusconiana ha svolto per la costituzione dell'identità della sinistra progressista italiana). Lo conferma una prassi politica che penalizza sistematicamente gli interessi popolari, con governi di sinistra che garantiscono una politica di compressione salariale e di smantellamento dei diritti sociali più efficiente dei governi di destra, politiche che si auto definiscono "riformiste", rovesciando il significato che le sinistre storiche attribuivano al termine. E dato che questa sinistra non parla più alle classi subalterne ma alla borghesia "illuminata" (25) è inevitabile che si associ alla destra per trasformare le regole della politica in senso post democratico (26): le leggi elettorali vengono cambiate in modo da riservare alle élite dominanti il diritto esclusivo di scegliere chi deve essere eletto; viene blindato un sistema bipolare che "taglia" le ali estreme, costringendo le formazioni radicali a sostenere i moderati di entrambi gli schieramenti se vogliono conservare un minimo di peso istituzionale; il sistema mediatico deve negare visibilità a tutto ciò che esula da questo schema progressista/universalista e contribuire a una martellante campagna di demonizzazione delle pulsioni "populiste" e politicamente scorrette delle masse, lasciando intendere che, se queste vanno escluse da ogni chance di partecipazione politica, è perché sono rozze, ignoranti, arretrate, razziste, sessiste, per cui votano in modo "sbagliato". 

In che misura le sinistre antagoniste si discostano dallo schema appena descritto? Meno di quanto si  creda. Intanto perché i rispettivi strati sociali di riferimento, pur se non del tutto sovrapponibili, presentano consistenti analogie. Alcuni di costoro hanno vissuto il riflusso delle lotte operaie seguito agli anni Sessanta e Settanta come una sorta di "tradimento": se il proletariato non riusciva più a incarnare la contraddizione storica (ma sarebbe meglio dire: se non corrispondeva più all'immagine idealizzata e mitizzata che ne era stata costruita) era perché si era "imborghesito", aveva esaurito la propria spinta propulsiva (27), quindi la cultura antagonista ha cercato di identificare nuovi soggetti del cambiamento. I concetti di dominio e emancipazione non vengono più riferiti allo sfruttamento economico bensì alle forme di esclusione che penalizzano i "diversi"; il fronte di lotta si divide in mille battaglie, ognuna delle quali ha come obiettivo il riconoscimento dei diritti particolari (28) di questo o quel gruppo di esclusi, mentre l'esclusione viene concepita come il prodotto di dispositivi culturali basati sulla forza della tradizione per cui a indicare la strada sono, più di Marx, autori come Foucault, che identifica il potere con la tradizione, e Deleuze, che disprezza una "normalità" che non è più appannaggio esclusivo delle classi medie ma appartiene a pieno titolo al proletario imborghesito. 

In forza di questi discorsi, il concetto di potere si estende fino a comprendere praticamente ogni aspetto della vita sociale per cui, commenta Costa, la nozione di emancipazione entra in crisi nella misura in cui ogni progetto emancipativo viene associato al rischio che possa generare nuovi dispositivi disciplinari. La fobia del potere non investe solo stato, istituzioni e partiti, ma anche le forme di leadership che nascono spontaneamente all'interno di strutture orizzontali quali collettivi, assemblee, manifestazioni, ecc. Il potere non va conquistato ma indebolito, controllato, costretto a sviluppare forme di governance che riconoscano e integrino le spinte che arrivano dal basso (29). Infine sinistra progressista e sinistra antagonista condividono il medesimo disprezzo per le masse: l'uomo normale è naturalmente conservatore; è un prodotto passivo delle manipolazioni del potere politico e sociale; è il reazionario che vota Brexit in Inghilterra, Trump in America, Le Pen in Francia, Berlusconi in Italia. 

Perché tanto disprezzo nei confronti della gente comune si chiede Costa? E ancora: a chi si rivolge questo discorso? Sfrutto questi due interrogativi per introdurne un terzo: quanto hanno pesato le idee di Negri in questa svolta? Per semplificare, potremmo dire che le idee appena elencate sono una volgarizzazione del discorso di Negri. Anche Negri segue Foucault e Deleuze nell'opera di ridefinizione del soggetto del cambiamento ma, al tempo stesso si sforza di salvare la marxiana contraddizione strutturale fra capitale e lavoro (sia pure riformulando a modo suo quest'ultimo concetto). Inoltre, nella misura in cui la moltitudine supera e conserva l'idea di operaio sociale, si sforza di tenere insieme l'aristocrazia nerd con il ribellismo delle folle, per cui non può legittimare il disprezzo per le masse. Viceversa le elucubrazioni filosofiche negriane convergono pienamente con l'ideologia e la prassi dei nuovi movimenti nel culto dell'orizzontalismo, nella fobia del potere, nel rifiuto radicale di ogni struttura gerarchica. Non a caso due delle esperienze che più hanno tratto ispirazione dalle sue tesi sono state il movimento no global e Rifondazione Comunista nella fase bertinottiana, entrambi caratterizzati dal tentativo di "sciogliere" la forma partito in una galassia di "singolarità" individuali e collettive. Quanto al secondo interrogativo di Costa (a chi si rivolgono questi discorsi) credo si possa rispondere che parlano agli stessi interlocutori: accademici, studenti, intellettuali, lavoratori "creativi", quadri intermedi delle industrie hi tech, nuove professioni, avanguardie artistiche, ecc. L'elenco potrebbe continuare ma è più facile identificarne il tratto comune  nell'appartenenza geografica ai centri urbani, alle aree metropolitane gentrificate. Un tempo si sarebbe parlato di piccola-media borghesia, ma la frantumazione sociale è oggi tale da evocare una stratigrafia che scende fino agli atomi individuali, un universo di micro-differenze che hanno favorito modalità di appropriazione variegate (dalla condivisione teorica alla mera assunzione di slogan banalizzati) di un discorso complesso come quello di Negri. Una polisemia che ne spiega tanto il perdurante successo editoriale quanto un'influenza estesa ben al di là dei collettivi neo autonomi. 

Resta da sciogliere il nodo dell'anticomunismo. Nei movimenti post sessantottini questo sentimento si è sviluppato nel corso del tempo a partire dagli anni Settanta del Novecento. All'inizio è nato come presa di distanza nei confronti del socialismo reale, seguita agli eventi di Budapest e Praga - e mai associata a una seria analisi delle contraddizioni interne al regime sovietico, sbrigativamente rimpiazzata con l'etichetta di totalitarismo (30). Nuove, potenti spinte in tale direzione sono arrivate dalla svolta berlingueriana (il noto annuncio sull'esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre) e dal fallimento della Rivoluzione culturale in Cina che ha innescato il "pentimento" di un maoismo occidentale da operetta il quale, ignaro della storia e della realtà cinesi, ha liquidato le riforme degli anni Settanta come ritorno al capitalismo. Al momento del crollo del Muro la svolta era compiuta: le torme di giovani (perlopiù appartenenti agli strati sociali descritti poco sopra) che celebrarono questo "trionfo della democrazia", erano del tutto ignare degli effetti di un evento destinato a schiacciare le aspirazioni delle classi subalterne in tutti i Paesi occidentali, e a spalancare la strada al progetto imperiale del capitalismo a stelle e strisce. I fermenti di ripensamento critico dell'eredità teorica marxista maturati in Asia e America Latina non sono mai giunti alle orecchie delle sinistre di casa nostra, schiacciate sui principi e i valori della cultura euro americana, né ha avuto riscontro il lascito dell'ultimo Gyorgy Lukacs (31), il più grande filosofo marxista contemporaneo. Perciò non è azzardato affermare che le attuali sinistre occidentali non sono solo unanimemente schierate nel campo liberale, ma sono dichiaratamente anticomuniste e hanno poco o nulla da spartire con il marxismo.

Eppure Negri, osannato come un guru da queste sinistre geneticamente modificate, non ha mai cessato di dichiararsi comunista e marxista. Ho spiegato perché non ritengo giustificata la prima affermazione. Contestare la seconda è un'altra faccenda. Per dire che Negri non era marxista bisognerebbe dimostrare che le sue interpretazioni del pensiero di Marx erano infondate e del tutto arbitrarie. Il che, come giustamente argomenta Costanzo Preve (32) è per definizione impossibile, nel senso che si dovrebbe ammettere che esista una "interpretazione autentica" dell'opera di Marx. Ipotesi insensata in quanto "cento anni di interpretazioni, scrive, sbarrano la strada del viaggio verso il contatto originale e autentico con Marx”. E aggiunge che i “fraintendimenti” del testo marxiano non sono frutto di “errori concettuali”, bensì “immagini del mondo” che rispecchiano precisi vincoli storici: l’incorporazione del discorso marxiano originario in una neoformazione ideologicaè una forma di esistenza necessaria del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione economico sociale”. Né queste ideologie sono liquidabili come prodotti di una  “falsa coscienza”, dal momento che si tratta di strumenti ideali che gli uomini impugnano nei conflitti che nascono dalle contraddizioni del processo storico. Se ciò è vero, e io credo che lo sia, nessuno può negare a Negri il diritto di proclamarsi marxista. Il che non vieta di criticare il suo "fraintendimento" dell'opera di Marx dimostrandone il valore limitato e contingente (associato cioè agli interessi e alla cultura di strati sociali minoritari) così come gli si può contrapporre una lettura più adeguata ad affrontare le sfide dell'era presente. 





Mi avvio alla conclusione, riassumendo che cosa avrei detto a Negri se avessimo avuto occasione di discutere vis a vis le sue tesi. Gli avrei detto che il modo in cui ha inteso il lascito di Marx si fonda paradossalmente (avverbio giustificato dalla sua fama di eretico) su alcuni aspetti "ortodossi" - e del tutto anacronistici come ho argomentato altrove (33) - della tradizione marxista: un mix di economicismo e storicismo (cioè l'idea che le contraddizioni immanenti al modo di produzione conducono necessariamente al superamento del capitalismo); l'esaltazione acritica del progresso scientifico e tecnologico (le forze produttive del lavoro sociale intese come general intellect); una visione cosmopolita dell'internazionalismo (che comporta il rigetto assoluto della dimensione nazionale) associata all'eurocentrismo (la negazione del ruolo strategico delle rivoluzioni del Terzo Mondo e l'attribuzione del primato culturale, sociale e politico ai popoli europeo e nordamericano); il mito dell'estinzione dello stato e del comunismo come paradiso in terra (residuo di una visione tardo ottocentesca). Gli avrei detto che è proprio questa fedeltà agli aspetti più datati della tradizione marxista che, impedendogli di analizzare le condizioni del superamento del capitalismo nell'attuale, concreta realtà storica, gli ha ugualmente impedito di ridefinire le forme di comunismo oggi possibili. Gi avrei detto infine che, per tutte queste ragioni, considero la sua rivendicazione di identità comunista come una testimonianza simbolica che ha sortito l'effetto involontario di legittimare la cultura di movimenti che tutto sono men che comunisti.

Personalmente non credo che oggi ci si possa definire comunisti senza riconoscere che il testimone della lotta anticapitalista è passato dalle mani dei Paesi occidentali a quelle dei popoli asiatici e latinoamericani (e presto, si spera, africani), i quali, con la loro prassi rivoluzionaria hanno ridefinito le condizioni della transizione al nonché l'idea stessa del socialismo (34). Per quanto riguarda le prospettive di rinascita di un movimento comunista occidentale (35) sprofondato nell'irrilevanza, credo che siano associate al cambio di paradigma cui ha alluso l'ultimo Tronti richiamandosi a Walter Benjamin (36). Sulle tracce del grande eretico della Scuola di Francoforte, Tronti definisce le rivoluzioni novecentesche come altrettanti tentativi di opporsi all’invasione della società da parte dei barbarici istinti animali del capitalismo. Il peccato originale di larga parte della cultura marxista è consistito nel descrivere la rivoluzione socialista come il compimento della rivoluzione borghese, cioè come un’accelerazione verso la modernità. Questo punto di vista, profondamente radicato nella Seconda Internazionale e nella Socialdemocrazia tedesca che ne costituiva il nerbo teorico e organizzativo, si fondava sulla convinzione che lo sviluppo delle forze produttiva avrebbe automaticamente determinato la transizione a una forma sociale più avanzata. Criticando questa illusione, Benjamin affermò che “non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente”, e Tronti aggiunge che, a partire da un determinato momento storico, l’imperativo a essere moderni è coinciso con l'essere per lo sviluppo della società capitalista. A questa concezione continuista si è opposta quella di Lenin, cioè l’idea di una volontà rivoluzionaria che interrompe bruscamente il flusso “normale” degli eventi storici,  imponendo le ragioni della riproduzione sociale contro quelle del progresso economico, il che fa sì che la rivoluzione del 17 presenti caratteristiche conservatrici più che progressiste in senso borghese. 

Un riferimento alla necessità di superare la visione della sinistra progressista che esalta l'individualismo moderno e rimuove - se non demonizza in quanto reazionarie - le ragioni di comunità e tradizione, troviamo anche nel sopra citato libro di Vincenzo Costa, laddove l'autore scrive che le tradizioni sono forme di legame e le lotte del movimento operaio furono sempre lotte per resistere alla dissoluzione del legame, e aggiunge che, ignorando questo fatto storico, il marxismo tende a lasciarsi sfuggire il vissuto delle classi popolari nella misura in cui intende la classe come un dato sociologico statico, definito esclusivamente dal rapporto con i mezzi di produzione e non come articolazione di concrete relazioni umane, struttura di legami personali, famigliari e comunitari. Mi viene da aggiungere che queste considerazioni, che condivido pienamente, andrebbero associate a una critica ancora più radicale della cultura occidentale, nel senso che la rimozione messa in luce da Costa è l'esito necessario e inevitabile dell'individualismo e dell'universalismo astratti che caratterizzano la nostra visione della modernità (37). Ma questo è un altro discorso che mi riservo di  affrontare altrove. 

Un'ultima annotazione: sono consapevole che questo articolo irriterà quegli estimatori di Negri che, oltre a non condividere le critiche che gli rivolgo, considereranno "irriguardosa" la metafora del titolo. Potrei replicare che la critica, per quanto dura, è una manifestazione di rispetto nei confronti di un autore del quale si riconosce l'importanza.  Quanto al titolo invito a leggerlo come un riconoscimento del fatto che Negri l'assalto al cielo voleva ancora darlo, sia pure a modo suo, mentre ritengo che i suoi fan della sinistra "antagonista" non ne abbiano alcuna intenzione. 

Note 

(1) A. Negri (G. De Michele a cura di), Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano 2015.

(2) M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2001.

(3) V. Giacché, Hegel. La dialettica. Introduzione al pensiero hegeliano, Diarkos, Reggio Emilia 2023.

(4) R. Bodei, "La dialettica nella storia della filosofia" in V. Giacché, op. cit.

(5) M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966. 

(6) A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, manifestolibri, Roma 2008.

(7) F. Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica  nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(8) Tronti riprende la definizione della politica come facoltà di tracciare del confine amico-nemico da un grande filosofo conservatore come Carl Schmitt, opzione che gli è stata rimproverata da una cultura di sinistra abituata a guardare il dito invece della luna (luna che nel caso in questione è la convergenza fra le concezioni schmittiana e leniniana del politico).

(9) Cfr. M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001. 

(10) Cfr. J-F Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981.

(11) Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.

(12) Vedi, fra gli altri, Cinque lezioni su Impero e dintorni, Raffaello Cortina, Milano 2003; Movimenti nell'Impero,Raffaello Cortina, Milano 2006; Inventare il comune, DeriveApprodi, Roma 2012.

(13) Cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008;  vedi anche Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano-Udine 2017.

(14) Ho criticato l'ottimismo tecnologico, con particolare riferimento alla rivoluzione digitale, di Negri e altri autori post operaisti nelle seguenti opere: Utopie letali. Contro l'ideologia postmoderna, Jaka Book, Milano 2013 e Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011. 

(15) Pierre Rosanvallon descrive così la filosofia politica dei nuovi movimenti in Controdemocrazia. La politica nell'era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012. 

(16) Sul concetto di capitalismo immateriale cfr. A. Gorz, L'immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

(17) Una versione radicale del concetto di accelerazione in quanto fattore determinante della transizione a una società post capitalista si trova nel manifesto accelerazionista di N. Snricek e A. Williams: cfr. Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero Editions, Roma 2018.

(18) Vedi in proposito Dell'estremo possibile, Ediesse, Roma 2011 e Dello spirito libero, Il Saggiatore, Milano 2015. 

(19) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(20) Cfr. C. Formenti, Guerra e rivoluzione, vol. I (Le macerie dell'impero), Cap.V ("I volti del nemico. Le sinistre del capitale").

(21) Cfr. J-C Michéa, I misteri della sinistra, Neri Pozza, Vicenza 2013; vedi anche Il lupo nell'ovile, Meltemi, Milano 2020.

(22) Ho analizzato il pensiero di Costanzo Preve in un recente articolo apparso su questa pagina:   https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/11/preve-dieci-anni-dalla-morte-luci-e.html  

(23) Per una critica dell'autoritarismo dell'ideologia del politicamente corretto, cfr. J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi, Milano 2018.

(24) Cfr. V. Costa, Categorie della politica. Dopo destra e sinistra, Rogas, Roma 2023.

(25) L'identità socioculturale fra le attuali ideologie sinistra e classi medio alte è attestata dall'analisi dei flussi elettorali, che vedono il voto progressista concentrarsi nei centri gentrificati delle grandi città.

(26) Sul concetto di postdemocrazia cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.

(27) Il concetto di imborghesimento delle classi lavoratrici nasce nel mondo accademico americano negli anni del secondo dopoguerra e trova un autorevole sostenitore, fra gli altri, in Herbert Marcuse.

(28) Sulla proliferazione dei diritti individuali rivendicati dai gruppi sociali più disparati vedi S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.

(29) E' l'approccio politico descritto da Pierre Rosanvallon nel già citato Controdemocrazia (vedi nota 15). Non a caso, Rosanvallon associa questa lettura del concetto di governance al pensiero di Antonio Negri.

(30) Nel mio ultimo libro (vedi nota 20) critico questa semplificazione, ispirata al concetto formulato da quella mediocre pensatrice politica che fu Hannah Arendt, citando fra gli altri gli scritti di Rita di Leo sull'Unione Sovietica (vedi in particolare L'esperimento profano, Futura, Roma 2011). 

(31). Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell'essere sociale, 4 voll. Meltemi, Milano 2023.

(32) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.

(33) Cfr.Felici e sfruttati, cit., Utopie letali, cit. e Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.

(34) In due capitoli del secondo volume (il primo e il terzo) di Guerra e rivoluzione, cit. propongo una riformulazione radicale delle teorie della transizione alla luce, rispettivamente, dell'esperienza della rivoluzione cinese e delle rivoluzioni bolivariane.  

(35) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Carocci, Roma 2021. 

(36) Cfr. W. Benjamin,Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.

(37) La critica dell'universalismo occidentale è impresa ardua che implica fare i conti con una nutrita serie di ismi: progressismo, illuminismo, individualismo, eurocentrismo, ecc. Anche molti degli autori citati in questo articolo (come Michéa, Preve e lo stesso Losurdo), che pure hanno  affrontato questa difficile impresa partendo dalla critica delle sinistre liberal progressiste, sono riusciti solo parzialmente a ridefinire la cassetta degli attrezzi di un pensiero coerentemente anticapitalista e antiborghese. Il che vale anche per il pluricitato Vincenzo Costa che, come argomenta Alessandro Visalli ( https://tempofertile.blogspot.com/2023/12/vincenzo-costa-lassoluto-e-la-storia.html ), resta impigliato nell'alternativa secca fra universalismo "critico" (ma pur sempre radicato nella tradizione europea) e relativismo. 

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