Lettori fissi

sabato 12 ottobre 2024

PERCHE' L'OCCIDENTE PERDE

IL REALISMO GEOPOLITICO DI EMMANUEL TODD






A mano a mano che le guerre provocate dal blocco occidentale per puntellare la sua crescente incapacità egemonica si rivelano un rimedio peggiore del male, aumenta il numero degli intellettuali liberal democratici che criticano “dall’interno” le scelte delle élite euro-americane (più americane che euro, vista la totale sottomissione dell’Europa agli Stati Uniti, anche a costo di risultare la prima vittima del dominus d’oltreoceano). In generale si tratta di eredi dell’approccio “realistico” ai conflitti geopolitici che ha un illustre precursore nell’autore della teoria del “contenimento”: quel George Kennan che invitava gli Stati Uniti e i loro alleati ad affrontare la minaccia sovietica attraverso il confronto diplomatico, evitando lo scontro militare aperto. Tale strategia comportava, in primo luogo, un’attenta e approfondita analisi dell’avversario (interessi economici e geopolitici, cultura e valori ideali, potenzialità industriale, scientifica e tecnologica, potenza militare, ecc.) per poterne prevedere mosse e intenzioni. A questa tradizione si iscrive lo storico, sociologo e antropologo francese Emmanuel  Todd, autore di un libro, La sconfitta del’Occidente, appena uscito in edizione italiana per i tipi di Fazi, un testo che sta ottenendo una sorprendente attenzione dai media italiani, di solito solleciti nel silenziare qualsiasi critica, ancorché moderata, nei confronti della politica imperiale a stelle e strisce. 


E’ probabile che ciò che ha consentito al libro di Todd di infrangere la “spirale del silenzio” (1), sia, oltre all'andamento della guerra, che rende sempre più insostenibile lo tsunami di balle propagandistiche che ha invaso giornali, televisioni e social negli ultimi due anni, l’impeccabile curriculum occidentalista dell’autore, scevro da sospetti di inclinazioni “putiniane” o, Dio non voglia, socialcomuniste, così come da simpatie “terzomondiste” nei confronti delle nazioni e dei popoli che manifestano la volontà di sganciarsi da un’area imperiale ormai ridotta a Stati Uniti, Ue, Giappone e “anglosfera” (Inghilterra, Canada, Australia e Nuova Zelanda). 


Emmanuel Todd



Le critiche di Todd – come vedremo assai dure, per non dire feroci – non sono dunque quelle di una serpe in seno sospettabile di svolgere il ruolo di quinta colonna del nemico, bensì quelle di un amico che tenta di mettere in guardia l’Occidente – sebbene ammetta di nutrire scarsa fiducia in merito all'efficacia dei propri ammonimenti – dal proseguire su una strada che lo sta portando verso il suicidio, quasi una riedizione della follia che indusse Hitler a invadere l’Unione Sovietica (il paragone non è di Todd, ma io mi permetto di tradurre così le sue ripetute citazioni del detto “Dio acceca chi vuole perdere”). Ma vediamo perché il nostro considera suicida la decisione di provocare una guerra contro la Russia, mandando al massacro il popolo ucraino. 


Le argomentazioni del libro sono assai articolate e non prive di ripetizioni per cui eviterò di seguirne l’ordine espositivo, raggruppandole piuttosto in due aree tematiche: da un lato, quelle che Todd indica come le cause materiali che a suo avviso concorrono a rendere inevitabile la sconfitta dell’Occidente, dall’altro le cause ideali. Volendo usare una distinzione cara ai marxisti ortodossi, potremmo definirli, rispettivamente, i fattori strutturali e sovrastrutturali e, come vedremo, Todd tende a privilegiare i secondi.  


Parto dall’elenco dei sintomi che l'autore considera altrettanti indicatori della profonda crisi socioeconomica che stanno attraversando gli Stati Uniti: aspettativa di vita più bassa e tasso di mortalità infantile più elevato rispetto a quelli degli altri Paesi avanzati; un alta percentuale di suicidi e omicidi di massa, nonché di cittadini affetti da obesità e patologie relative; abbassamento del livello educativo; infrastrutture obsolete; una popolazione carceraria superiore a quella di Paesi “totalitari” come Cina e Russia; calo della produzione industriale mascherato da un PIL “gonfiato” dalle voci relative ai servizi alla persona, a conferma del fatto che il Paese produce meno di quanto consuma e vive di flussi di importazione finanziati dall’emissione di dollari, il che è possibile grazie al “signoraggio” del dollaro in quanto moneta che funge da riserva mondiale. 


In poche – durissime – parole, Todd descrive l’America come un Paese di “parassiti” che trovano più facile produrre valuta piuttosto che beni materiali e possono farlo a spese del resto del mondo. Infine punta il dito contro l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze che ha scavato un abisso di odio e disprezzo reciproco fra una élite composta dal 30-40% di benestanti super istruiti (fra i quali un’infima minoranza di super ricchi) e la massa del popolo. Quest’ultimo fenomeno ha trasformato di fatto il sistema democratico in una oligarchia di censo, spazzando via i miti della meritocrazia, della mobilità sociale e del “diritto alla felicità”. Anche Todd associa queste défaillance ai processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia innescati dalla rivoluzione neoliberista, tuttavia ritiene che essi siano soprattutto gli effetti di cause più profonde, di tipo culturale e antropologico. Prima di entrare nel merito di queste ultime, tuttavia, cito quella che Todd considera una delle maggiori, se non la maggiore, sorpresa emersa dagli sviluppi della guerra, vale a dire l’incredibile resilienza dimostrata da una Russia che avrebbe dovuto essere messa in ginocchio dalle sanzioni economiche e dagli aiuti militari occidentali all’Ucraina. 


G. Kennan



Dopo due anni di questa duplice “cura” la Russia si è rivelata in grado di compiere una serie di riconversioni economiche (alle quali, suggerisce Todd, si era evidentemente preparata da tempo) che le stanno consentendo di rendersi autonoma dal mercato occidentale, al punto che oggi può vantare un aumento del tenore di vita, bassi tassi di disoccupazione, il raggiungimento dell’autosufficienza alimentare (tanto da potersi permettere l’esportazione di prodotti agricoli). Ma soprattutto, in barba alle profezie dei media occidentali sull’arretratezza delle sue tecnologie militari e sull’incapacità del suo apparato industriale di far fronte allo sforzo bellico, riesce a fronteggiare con relativa facilità l’enorme flusso di mezzi che Usa, Nato e Ue mettono a disposizione di Kiev, pur impegnando solo una frazione del proprio potenziale di uomini e mezzi. Dulcis in fundo: il sostegno popolare al regime di Putin appare incrollabile (anche perché, suggerisce Todd, il leader russo è stato abile nell'imbrigliare il potere degli oligarchi e nel prestare attenzione agli interessi dei lavoratori).


Nasce così un paradosso: un Paese che ha 140 milioni di abitanti a fronte degli 800 e passa milioni dei Paesi occidentali, rispetto ai quali era descritto come molto più arretrato in termini di capacità tecnologica e potenza industriale, rischia seriamente di vincere la guerra. In particolare, Todd insiste sulla difficoltà dell’apparato americano di alimentare un rilancio militare-industriale all’altezza della sfida, mettendola in relazione alla smaterializzazione di un’economia che da decenni produce più denaro che macchinari e di un sistema educativo che, di conseguenza, premia i curriculum in scienze economiche rispetto a quelli in scienze scientifiche e tecnologiche (il 23% dei giovani russi studia ingegneria a fronte del 7,2% di quelli americani, per tacere del divario abissale nei confronti della Cina, avviata al sorpasso sul terreno delle tecnologie avanzate). 


Possibile che gli Stati Uniti abbiano commesso un errore così clamoroso di sottovalutazione delle potenzialità del nemico e delle proprie difficoltà interne? E possibile che l’Europa si sia lasciata coinvolgere in un conflitto che, non solo le sta costando un prezzo elevatissimo, ma è palesemente contrario ai suoi interessi geopolitici? Ha ragione Mearsheimer (2) nel descrivere un Occidente impazzito, tanto incapace di capire l’altro da sé – se non addirittura di ammetterne l’esistenza - quanto obnubilato dall’illusione di rappresentare la totalità del mondo? Todd non è di questo avviso e, per spiegare l’arcano, sposta, come anticipato sopra, il discorso sul terreno dell’analisi antropologica.


Secondo Todd, la débâcle occidentale si spiega sostanzialmente con il tramonto della fede religiosa (e di quella sua versione secolarizzata che sono le ideologie politiche). Seguendo la classica lezione di Max Weber (3), egli sostiene infatti che il primato industriale, tecnologico e commerciale dell’Occidente era fondato sull’etica protestante e sulle sue versioni secolarizzate. Il protestantesimo, assieme all’ebraismo, non hanno solo promosso l’intraprendenza industriale e commerciale, ma anche stimolato lo studio e favorito un alto livello intellettuale delle élite dominanti. Il rovescio della medaglia era (e resta) l’incapacità di comprendere e apprezzare le culture delle altre nazioni del mondo: il protestantesimo ha generato popoli, scrive Todd, che a furia di leggere troppo la Bibbia hanno finito per credersi eletti da Dio. A mano a mano che la fede si indeboliva, passando dalla vitalità originaria al conformismo nei confronti di valori secolarizzati, per implodere finalmente nell’attuale “grado zero” della religione, tale processo ha generato cinismo, amoralità e riduzione del livello intellettuale delle élite, al punto che l’impero neocons a stelle e strisce appare “privo di centro e progetto, un organismo essenzialmente militare guidato da un gruppo privo di cultura i cui unici valori sono potere e violenza”. 


Un ritratto di Max Weber



Viene spontaneo obiettare che il processo in questione dev’essere a sua volta ricondotto alle cause che lo hanno provocato, e in tal senso l’evoluzione del tardo capitalismo (neoliberismo, globalizzazione e finanziarizzazione) e il suo impatto sui rapporti sociali sono i primi indiziati. Ma Todd considera i due processi – economico-sociale e culturale - come reciprocamente autonomi e paralleli e, a tratti, rovescia il nesso causale accordando il primato al secondo.  Per esempio, sostiene che la scomparsa della morale sociale e del sentimento collettivo, associati all’estinzione della fede religiosa, sono i fattori che più di ogni altro hanno favorito l’indebolimento degli stati nazione, fino a trasformare i Paesi occidentali in un’area tanto priva di connotati riconoscibili quanto unificata dai principi e dai valori del neoliberalismo (anche se non sottolinea a sufficienza che ciò vale per le élite cosmopolite occidentali, più che per le rispettive popolazioni). 


Anche nell’indagare l’allineamento europeo, tanto più paradossale in quanto la guerra ha intensificato lo sfruttamento sistemico della periferia europea da parte del centro americano (vedi gli effetti devastanti – soprattutto per la Germania - dell’attentato al gasdotto del Mar Baltico e del blocco dell’interscambio commerciale con la Russia), Todd mischia argomenti materiali e culturali, privilegiando i secondi. Da un lato dice che l’Europa, una volta colonizzata dal meccanismo della globalizzazione finanziaria, non è più in grado di sganciarsi dalle direttive di Washington; dall’altro sostiene che il progetto europeo, nella misura in cui appare svuotato di senso sociale e storico (e anche qui la causa prima sarebbe il venir meno di fedi religiose e ideali), aveva bisogno di un nemico esterno per ricompattarsi. Poi parla del subentrare dell’asse Londra-Varsavia-Kiev a quello Berlino-Parigi alla guida di un’Europa militarizzata, e anche qui la sua attenzione si concentra sulla “russofobia” che accomuna Inghilterra e Paesi dell’Est Europa. Nel caso dell’Inghilterra, si tratterebbe di una riattualizzazione immaginaria del vecchio conflitto imperiale con la Russia, associato alla rimozione della propria insignificanza economica e militare, frutto di decenni di deindustrializzazione, deficit commerciale e privatizzazioni. Nel caso dei Paesi dell’Est Europa, Todd chiama in causa il “debito inconscio e represso” che nutrirebbe il rancore di classi medie sviluppatesi proprio grazie all’occupazione sovietica e alla formazione di élite istruite che ne è derivato. 


Per motivi di spazio, tralascio sia l’analisi che Todd dedica alla conversione bellicista dei paesi scandinavi, sia il suo tentativo di spiegare perché l’Ucraina, nella fase iniziale del conflitto, si è dimostrata più capace del previsto di opporsi alla Russia, inducendo Stati Uniti ed Europa a illudersi  in merito alla possibilità di ottenere una vittoria militare. Vengo invece alla sua valutazione dei motivi che inducono il resto del mondo a schierarsi di fatto con la Russia, consentendole di assorbire lo shock delle sanzioni. Le argomentazioni di Todd non sono sempre coerenti e lineari, tuttavia mi pare che se ne possa estrarre un nucleo essenziale articolato in tre punti. 


Uno. Russia, Cina e il gruppo dei Brics sono impegnati a costruire un’alternativa produttiva, finanziaria, commerciale e in prospettiva monetaria all’area del dollaro. A rendere attrattiva tale alternativa per molte altre nazioni dell’Est e del Sud del mondo concorrono vari fattori, ma Todd insiste in particolare sul fatto che tutti i Paesi in questione sono, a differenza di quelli del blocco occidentale, stati-nazione, il che fa sì che ragionino in termini di realismo strategico e non condividano la mentalità “post imperiale” euroamericana. Di conseguenza, preso atto del palese indebolimento egemonico americano, tendono a riposizionarsi nel nuovo contesto multipolare per sfruttarne le opportunità economiche e politiche. 


Due. La Russia (e in prospettiva la Cina) condividono con il mondo post coloniale una serie di elementi culturali che gli occidentali considerano “arretrati”, né sopportano che l’Occidente pretenda di esportare i suoi principi presuntamente “universali”, come i valori “politicamente corretti” in materia di omosessualità, femminismo, laicità dello stato, ecc. In particolare, dal momento che le loro fedi religiose non hanno subito processi di azzeramento totale simili a quelli che si sono verificati in Occidente, rivendicano questi spazi di diversità culturale (Todd cita l’esempio dell’Islam, che non oppone solo l’Occidente ai Paesi musulmani ma anche al resto del mondo, dove l’islamofobia è meno diffusa o assente). 


Tre. Il terzo argomento è a mio avviso il più interessante (ci tornerò sopra fra breve). Tutti ci siamo interrogati sui motivi delle analogie fra l’anticomunismo del secondo dopoguerra e la russofobia dei giorni nostri, ormai priva di giustificazioni ideologiche (quella della difesa della democrazia, scrive Todd, benché sfruttata propagandisticamente, appare svuotata di senso, dal momento che l’Occidente è più oligarchico della “democrazia autoritaria” russa). Ebbene Todd sostiene che la continuità dell’antagonismo fra Oriente e Occidente (ma anche fra Sud e Nord del mondo) consiste nel fatto che solo da noi i legami comunitari sono stati integralmente dissolti dai processi di atomizzazione individualista innescati dallo sviluppo capitalistico. Viceversa il comunitarismo di origini contadine che aveva favorito l’ascesa del comunismo in Russia (4) (per tacere della Cina) è in qualche modo sopravvissuto al crollo del sistema sovietico grazie alla diversità di strutture famigliari rispetto a quelle occidentali. Questa opposizione vale a maggior ragione per la grande maggioranza dei Paesi del Sud del mondo, così come vale l’annotazione di Todd secondo cui gli interessi popolari occidentali divergono da quelli delle rispettive élite e convergono oggettivamente con gli interessi strategici della Russia (analogamente a quanto avveniva quando la Russia era socialista).


Tutti questi fattori concorrono a indebolire il dominio imperiale dell’Occidente, eppure le nostre élite sembrano ignorarli (nel senso che ne ignorano letteralmente l’esistenza). Al punto che appaiono convinte che, anche solo per  difendere ciò che resta dell’impero, la guerra contro la Russia debba essere prolungata fino a ottenere una impossibile vittoria. Per i leader occidentali, scrive Todd, la possibilità della pace sembra una minaccia maggiore della guerra atomica. Così arrivano a fornire all’Ucraina mezzi di attacco a lungo raggio senza capire che in questo modo spingono la Russia a estendere le conquiste territoriali per tenere a distanza la minaccia, ma soprattutto senza capire – o ignorando irresponsabilmente – la possibilità che la Russia, ove percepisca una minaccia diretta alla propria sicurezza, ricorra, come ha già più volte ammonito, all’uso di atomiche tattiche. Dietro questa apparente follia, Todd individua una motivazione “razionale” che non attiene alla geopolitica bensì alla psicologia: per gli USA, scrive, la sconfitta significherebbe cadere nel ridicolo, per cui viene percepita come una minaccia mortale. Eppure solo con una buona dose di realismo si potrebbe evitare che la sconfitta assuma proporzioni tragiche, o peggio, che il conflitto degeneri in guerra nucleare. 


Soldati russi sul fronte ucraino



Mi avvio a concludere. Credo che l’importanza del libro di Todd consista soprattutto nel dimostrare come l’attuale politica euroamericana risulti, oltre che rischiosa i fini della sopravvivenza della specie,  insensata dal punto di vista degli stessi interessi di lungo periodo dell’Occidente (dal punto di vista, cioè, della conservazione di quanto resta della sua egemonia). Dopodiché ribadisco che l’attenzione che sta ottenendo da un sistema mediatico pur blindato su posizioni belliciste e russofobe, si spiega con il fatto che il suo approccio, ancorché critico, appartiene, al pari della linea editoriale della rivista “Limes” (5), alla tradizione di un certo realismo geopolitico (da Kennan a Kissinger), e anche  con il fatto che le sue argomentazioni sono in linea con i canoni della ragione liberale, come mi appresto a dimostrare. 


In primo luogo - anche senza sposare la rigida distinzione fra fattori strutturali (economici) e fattori sovrastrutturali (culturali) cara al marxismo ortodosso, e anche riconoscendo, con Gramsci e Lukacs (6), il peso “materiale”delle ideologie nella determinazione degli eventi storici – il suo punto di vista appare radicalmente idealista: basti citare le assurde affermazioni “psicologistiche” citate sopra, da quella secondo cui la russofobia dei paesi dell’Est Europa sarebbe il frutto del “debito inconscio e represso” delle loro classi medie nei confronti dell’Unione Sovietica, a quella secondo cui il velleitario bellicismo inglese nascerebbe da sentimenti di nostalgia imperiale. Il nesso causale fra tutti i fenomeni analizzati da Todd – dal degrado socioculturale americano allo svuotamento di senso del progetto europeo – e le mutazioni economiche dell'ultimo mezzo secolo è dimostrato, come lui stesso ammette, dal fatto che tali fenomeni si sono prodotti in un arco temporale – dalla crisi degli anni Settanta a quella dei primi del Duemila – che coincide con i processi di globalizzazione, terziarizzazione e finanziarizzazione associati alla svolta neoliberale. Ciò non significa che le concause culturali siano state marginali, ma che vanno analizzate in quanto contributi sinergici alle mutazioni socioeconomiche. 


Un discorso a parte mi pare vada fatto sulla questione del venir meno delle fedi religiose che Todd indica come la prima ragione del declino occidentale. Il processo di secolarizzazione inizia ovviamente assai prima dei fenomeni che stiamo qui discutendo, ma ciò non significa che gli debba essere attribuita una priorità logica rispetto ad altri nessi causali. Todd è un weberiano “ortodosso”, nel senso che accetta senza riserve – senza tenere conto cioè delle critiche che le sono state rivolte - la tesi di Weber che associa l’etica protestante allo spirito del capitalismo, per cui si capisce come possa affermare che, una volta raggiunto quello che definisce “il grado zero” della religione, le élite capitaliste postmoderne siano divenute incapaci di elaborare una strategia coerente. Questo punto di vista rispecchia tuttavia una visione unidirezionale della storia, la quale procederebbe  irreversibilmente verso una secolarizzazione che si autodistrugge, nel senso che prima ridurrebbe a meri residui i valori e i principi religiosi per poi azzerarli del tutto. 


Questa mitologia “progressista” tipica dell’illuminismo borghese (condivisa sia da chi considera il progresso, da destra, come una catastrofe, sia da chi vorrebbe, da sinistra, accelerarne il corso, sia da chi, come Todd, lo vede come un fenomeno “oggettivo”) impedisce di cogliere non solo le controtendenze che operano nel processo storico, ma anche e soprattutto il fatto che la secolarizzazione è un agente trasformativo: non annienta i valori religiosi ma li conserva superandoli (vedi il concetto hegeliano di aufhebung). L’ideologia neocons ne è un esempio chiarissimo: abbiamo visto sopra come Todd parli di “popoli che a furia di leggere la Bibbia hanno finito per credersi eletti da Dio” ; ebbene questo è esattamente il caso di quel mix di mitologia protestante ed ebraica su cui si fonda la narrazione dell’eccezionalismo americano e della sua missione di “convertire” il resto del mondo. Le fedi religiose che alimentano questo delirio non sono morte, azzerate, sono mutate nel dispositivo ideologico che alimenta il sogno imperiale al di là e oltre l’esaurimento della sua capacità egemonica. Dopodiché tutto ciò non spiega da solo la volontà americana di proseguire la guerra contro ogni ragionevole speranza di vittoria: il punto non è tanto, come scrive Todd, la paura del ridicolo che comporterebbe la sconfitta (un ridicolo che gli USA hanno già sperimentato in Vietnam, in Iraq e in Afganistan), è il fatto che l’Occidente è costretto a difendere disperatamente l’egemonia che gli consente di continuare a vivere alle spalle delle nazioni che gli hanno sottratto il monopolio della produzione di ricchezza materiale.  


Infine: in precedenza ho promesso che sarei tornato sulla questione del rapporto che Todd instaura fra comunismo e tradizioni comunitarie, tradizioni che comportano una compresenza di egualitarismo e accettazione di una autorità centrale che incarna simbolicamente la comunità, e che sarebbero a suo avviso il trait d’union fra Russia, Cina e gli altri Paesi del fronte mondiale che si viene configurando contro il dominio occidentale. Anche qui il rischio consiste nel considerare queste realtà antropologiche (cioè culturali in senso forte, nel senso che determinano in misura significativa le relazioni socioeconomiche e le ideologie politiche, e non solo i valori collettivi e individuali) come “residuali”. Un errore in cui anche il marxismo dogmatico è incorso, non riuscendo a spiegare il fatto che la rivoluzione socialista abbia vinto solo in Paesi “arretrati” (vedi quanto ho scritto altrove in proposito (7)). Per questo ritengo che questa sia l’intuizione più importante contenuta nel libro di Todd. E per lo stesso motivo ritengo che la formazione di un’ampia area mondiale di popoli e nazioni accomunati da una serie di tradizioni che si sottraggono alla omologazione da parte della cultura occidentale rappresenti, a prescindere dalle differenze ideologiche che la striano, una formidabile occasione per la nascita di un fronte antimperialista che in prospettiva potrebbe assumere valenze anticapitaliste (si ripresenta cioè in condizioni storicamente più favorevoli la scommessa del congresso di Baku del 1920 e della conferenza di Bandung del 1955). 


Note 


(1) La sociologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann definisce così la situazione che si instaura allorché la schiacciante maggioranza dell'opinione pubblica condivide una certa idea, per cui chi non la condivide tende a non esprimerla pubblicamente per evitare condanne morali. Cfr. E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio, Meltemi.


(2) Cfr. G. Mearsheimer, La grande illusione, Luiss University Press, Roma 2019. 


(3) Cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Volume primo, Parte Prima, Edizioni di Comunità, Milano 1982. 


(4) Cfr. P. P. Poggio, L'obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia,  Jaka Book, Milano 1976. 


(5) Vedi in particolare "Limes" 2024, N° 4, "Fine della guerra". 


(6) Cfr. in particolare G. Lukacs, Ontologia dell'essere sociale, 4 voll., Meltemi, Milano 2023. Ho discusso il concetto di ideologia come potenza materiale che Lukacs espone in quest'opera, e del suo rapporto con l'analogo concetto gramsciano, sia nella Prefazione all'edizione di Meltemi appena citata, sia nel saggio Ombre rosse, Meltemi, Milano 2022. 


(7) Vedi C. Formenti, Guerra e rivoluzione, Vol I, Cap. I, La cassetta degli attrezzi, Meltemi, MIlano 2023. 




martedì 17 settembre 2024

Con il consenso dell'amico Visalli rilancio questo post appena apparso sul suo blog e dedicato alle posizioni politiche del movimento guidato da Sahra Wagenknecht, un testo che condivido pienamente, nella misura in cui mi pare che quello fondato dalla ex segretaria della Linke sia l'unico progetto politico europeo che stia compiendo qualche passo nella direzione che tutte le forze antimperialiste del Vecchio Continente dovrebbero a mio avviso imboccare.

Carlo Formenti



Circa Sahra Wagenknecht ed i suoi dintorni
di Alessandro Visalli


Nel mio libro del 2023, “Classe e Partito” (1), sulla base dell’analisi materialista degli stessi Inglehart (2) e Beck (3), proponevo di collegare la revoca delle basi materiali di esistenza, e quindi dell’essere sociale, del compromesso keynesiano, nelle quali siamo immersi, alla dissoluzione delle forme di coscienza dello stesso. Ovvero, se pure con gli slittamenti e sfalsamenti necessari, di riconoscere che la tendenza all’individualizzazione di cui parlava Inglehart, la dissoluzione della classe per sé di cui parlava Beck, la dissoluzione della società di cui parlava Laclau (4), le politiche dell’esistenza di Giddens (5), l’ambiente post-metafisico di Habermas, stanno terminando insieme alla revoca delle loro condizioni materiali di esistenza ed emergenza. Questa tesi è, in particolare, descritta nel quadro di quella che chiamavo “la revoca” del compromesso keynesiano, nella quale seguendo la traccia aperta dalla destra libertaria, ma anche le rivolte giovanili ‘artistiche’ di cui parlano in modo esemplare e forse insuperato Boltanski e Chiappello nel loro capolavoro “Il nuovo spirito del capitalismo” (6), quando identificano una nuova configurazione ideologica (nella quale oggi viviamo, forse al prodromo del suo tramonto) nelle ‘aree spia’ del discorso del management motivazionale e nella ‘città per progetti’, viene proposta una nuova forma di trascendenza imperniata sull’individuo meritevole, antiutoritario, liberato e cosmopolita, moralmente avanzato ed autentico (7) Chiaramente si è trattato di un ideale per pochi, egemone per effetto della dissoluzione del contesto ‘moderno’, nel quale la centralità del lavoro e delle agende materialistiche creava la condizione di una dialettica tra classi riconoscibili (8). Questo ambiente, questo Nuovo Spirito, nel quale abbiamo vissuto a partire dalla metà, circa, degli anni Ottanta fin oltre gli anni Zero del nuovo millennio e che, da allora, perde spinta, è stato egemonizzato dai movimenti “a singola scelta” (9) la cui provenienza di classe appare, a ben guardarla, evidente con l’immediatezza di un riconoscimento fisiognomico. 




Il problema è che questa “revoca” per eccesso di successo ha scavato sotto i propri piedi, creando per troppi un ambiente sociale ed esistenziale nel quale il ‘rischio’ di cui allora parlavano con toni positivi sia Beck sia Giddens (ma, in sostanza, tutti i sociologi alla metà degli euforici anni Novanta) ha finito per estenuare il consenso su questo assetto sociale soffocante. La medesima flessibilità che allora appariva ai più liberatoria, dalla società burocratica e organizzata del dopoguerra, ora appare un incubo fatto di angoscia esistenziale, incertezza e narcisismo (10). Il primo sintomo, ma transitorio, è stato l’emergere del ‘Momento populista’ di cui parlava, ad esempio, Carlo Formenti nel suo “La variante populista” (11). In una lunga fase, che ha avuto una fase ascendente negli anni Dieci, a seguito dell’allargarsi della dinamica a cascata delle crisi multiple aperte dal crac del 2007-8 (crisi finanziaria, poi fiscale, quindi politica e sociale), sulla base di quella che, con immagine efficace Moreno Pasquinelli una volta chiamato “la poltiglia sociale prodotta dal tardo capitalismo”, ha preso forma una stagione internazionale di mobilitazioni egemonizzate dai ceti medi ‘riflessivi’, sovraistruiti e sottoimpiegati dalle forme economiche ‘flessibili’(12). Andando alla tesi avanzata nel mio libro, e che certo non posso qui riprodurre nella sua estensione, il populismo, sulla base dei materiali suscitati ispirato ad uno spirito inevitabilmente anarco-libertario e conservatore, è solo il primo segnale che l’essere sociale sta mutando. Ma, allo stesso tempo, sostengo, ne è solo un fenomeno di superficie, preliminare e largamente ‘morboso’ (per usare il noto termine Gramsciano) (13). Abbiamo bisogno di altro e di più: è necessaria la creazione di un ordine sociale che non sia un fragilissimo calice di cristallo; di articolare il bisogno di protezione ed, al contempo, sfidare il principio religioso inconsapevole che affida la salvezza ad un mercato visto come insieme delle libertà originali di un uomo antecedente all’ordine sociale; della risoluzione della contraddizione neoliberale tra protezione pubblica ed ordine sociale (14). 


La mia tesi è che a partire dalla crisi spia della fine degli anni Zero, progressivamente e sulla base degli stessi fallimenti delle mobilitazioni populiste, inizia ad accadere qualcosa di nuovo: la coscienza si riallinea all’essere sociale, dato che, come abbiamo detto, il neoliberismo ha scavato sotto i suoi piedi. Secondo i termini che proponevo di considerare, la maturazione della ‘revoca della revoca’ (15) fa anche venire meno la fase ‘populista’ iniziale nella quale movimenti egemonizzati dai lavoratori della conoscenza, esprimono, nel vuoto dei quadri di senso novecenteschi, la particolare e familiare miscela di individualismo edonista frustrato, rancore cieco, e spinta alla socializzazione destrutturata. Il ritorno alla durezza materiale porterà alla ripresa delle personalità ‘materialiste’ e con esse della lotta di classe, propriamente intesa. 


Superata questa lunga premessa, l’interpretazione che propongo è che, nelle particolari condizioni sociali e politiche della Germania orientale, in cui la distruzione della forma del compromesso fordista in salsa socialista, è stata particolarmente brutale e prolungata nel tempo, il successo della formazione della Wagenknecht mostra questa tendenza. Nell’intervista per New Left Review, dell’aprile 2024, pubblicata su L’Antidiplomatico ( 16) il politico tedesco illustra perfettamente un’agenda politica post-populista e direttamente imperniata su temi materiali che prendono atto dell’esaurimento delle “politiche dell’identità”. Si tratta di una proposta anche post-ideologica nel senso che non guarda alle famiglie politiche della sinistra o destra, ed alle loro marcature simboliche, ma ostinatamente alla loro base di interessi materiali. Ne consegue che non ha alcuna remora a sostenere le imprese del Mittelstand, da una parte, e contrastare gli effetti sociali sui ceti bassi delle politiche ambientali, dall’altra. O di opporsi senza esitazioni la guerra alla Russia e al contrasto alla Cina sulla base di argomenti pragmatici, ignorando l’agenda identitaria occidentale fondata su una pelosa retorica democratica di marca suprematista. Punta a costruire una posizione sull’immigrazione pragmatica, di basilare buon senso, e ben equilibrata (che guarda alle condizioni dei ceti popolari e non al bisogno di badanti delle classi medie superiori, senza negare che una certa immigrazione è necessaria e tutti devono essere aiutati (17)).

Ancora, nel quadro concreto di una competizione elettorale nella quale la BsW si oppone, periferia per periferia, all’ascesa della AfD, ricorda che “la migrazione avverrà sempre in un mondo aperto” e che “spesso può essere un arricchimento per entrambe le parti”, ma, anche, che “è essenziale che la sua portata non sfugga di mano” e che “le ondate migratorie improvvise siano tenute sotto controllo”. Ricordando che l’ascesa imperiosa del razzismo, e della xenofobia, e quindi della AfD è figlia della Merkel.


Infine, non ha paura di dire che la BsW è a favore della transizione energetica e delle politiche ambientali, necessarie, ma non dell’impostazione dei Verdi tedeschi (espressione politica delle classi più alte ed incluse della società) che le fa pagare ai cittadini sulla base di un’impostazione arrogante ed autocompiaciuta. Quella per la quale sembrano dire: “Siamo i più virtuosi, perché possiamo permetterci di comprare cibo biologico. Possiamo permetterci una cargo bike. Possiamo permetterci di installare una pompa di calore. Possiamo permetterci tutto”. Incarnano, ovvero, “un senso di autocompiacimento, anche se fanno aumentare il costo della vita per le persone che faticano a tirare avanti”. Bisogna, infatti, impostare politiche ambientali che “la grande maggioranza delle persone può accettare, sia dal punto di vista economico che sociale”, con “ampia copertura pubblica”. 


Nel suo “Contro la sinistra neoliberale” (18), la parte più forte è quella in cui denuncia i “moralisti senza empatia” della “sinistra alla moda”, la quale, ottenuto ormai l’essenziale e messa al sicuro la propria vita (a volte per generazioni), si concentra sul linguaggio e si sente così in alto da essere solo cittadina del mondo (ovvero di nessun posto). Una sinistra, lo dicono tutte le indagini post elettorali dell’Occidente ormai da decenni, che si aggrega nei luoghi ‘centrali’ e connessi, frequenta solo se stessa specchiandosi beata. Ottiene professioni ben pagate nel settore dei servizi avanzati, si sente liberale perché se lo può ben permettere. Una sinistra che vive nel vuoto e lo coltiva. 

Quindi bisogna avere bisogno degli altri. Cercare il pieno, non il vuoto. Individuare il senso della vita non nella ‘immane collezione di merci’ (19), ma, piuttosto nel sentirsi parte di una comunità, in termini della condivisione di un’appartenenza e di un progetto di futuro (20). Un’appartenenza, anche, ad una ‘nazione’, termine che la politica tedesca ricorda giustamente essere figlio della rivoluzione francese, non avere base etnica, né religiosa, né, tantomeno, razziale. Senza paura di riferirsi anche al valore delle tradizioni (tra queste sono anche quelle delle democrazie popolari, di massa, ormai tanto lontane da noi sotto l’effetto della spinta della reazione neoliberale degli anni Ottanta e Novanta). 


Con questa agenda, spiegabile secondo il metodo della deduzione sociale delle categorie, è perfettamente logico che si trovi nel suo discorso anche un apprezzamento per la CDU pre svolta neoliberale, ed un “capitalismo addomesticato, con una forte componente sociale”, e, al contempo, trovi il suo posto la critica della svolta verso le ‘politiche dell’identità’ (tardiva e difensiva) della Die Linke che ha lasciato a suo tempo. Quindi l’attacco ai “discorsi privilegiati”, sulla “diversità”, che sono alienanti per elettori che in sostanza vogliono, piuttosto, “pensioni dignitose, salari dignitosi, e pari diritti”. Tutto ciò, di nuovo, precisando che “siamo favorevoli a che tutti possano vivere e amare come desiderano. Ma c’è un tipo esagerato di politica identitaria in cui devi scusarti se parli di un argomento se non hai un background migratorio, o devi scusarti perché sei etero”.


Nel post “Poche note” (21), in questo stesso blog sostenevo, in linea con questa proposta, che è il momento di aggiornare l’analisi concreta. Sfuggire al gioco specifico dell’Occidente della lotta culturale intorno all’ombelico, agli intrattenimenti. All’inseguimento eterno di aggregazioni di nuvole di senso continuamente riaggregate intorno nuovi significanti vuoti di cui sembra esserci cataloghi infiniti. Di cui ci sono continue riproposizioni e provocazioni sempre più creative. È il momento di tornare alla durezza di un’analisi che sta alle cose, ai fatti. Come scrivevo questi fatti oggi sono la postura neocoloniale e la guerra tra neoblocchi, contemporaneamente di potenza e di civilizzazione, che si affaccia prepotentemente sulla scena del mondo. Si affaccia e pretende la mobilitazione totale contro l’Altro, del quale si nega in effetti la stessa esistenza come tale. Mobilitazione che oblia l’intera storia di scambi, arricchimenti reciproci, densa presenza, per richiedere solo l’ossessiva affermazione di sé come ‘eletto’; legittimato alla completa distruzione, fisica e morale di chi non riconosce l’altura morale sulla quale pretendiamo essere (22).


In attesa di parole migliori Sahra chiama questa posizione “sinistra conservatrice”, ma, precisa, è “un po’ di più di un revival di sinistra”, incorporando anche altre tradizioni il cui catalogo segnala. 


Si tratta piuttosto di un nuovo essere sociale che inizia a tradursi in forma politica:

  • - buon senso economico,
  • - giustizia sociale,
  • - pace, 
  • - libertà di espressione (che supera il politicamente corretto).


Tutto semplice, in fondo.


Note


1) Alessandro Visalli, Classe e partito, Meltemi, Milano, 2023.


(2) Si veda, ad esempio, Ronald Inglehart, La società postmoderna, Editori Riuniti, 1998 (ed.or. 1996); Roland Inglehart, Valori e cultura politica, Petrini ed. 1993 (ed. or. 1990).


(3 Si veda Ulrich Beck, Costruire la propria vita, Il Mulino 2008 (ed. or. 1997); Ulrich Beck, Potere e contropotere nell’età globale, Laterza 2010 (ed. or. 2002); Ulrich Beck, La società del rischio, Carocci 2001 (ed. or. 1981); Ulrich Beck, I rischi della libertà, Il Mulino 2000 (ed. or. 1994).


(4) Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza 2008 (ed.or. 2005); Ernesto Laclau, Marxismo e populismo, Castelvecchi 2018; Ernesto Laclau, Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, 2017 (ed. or. 2104); Ernesto Laclau, Emancipazione, Orthonsesis 2016 (ed. or. 1996); Ernesto Laclau, Politica e ideologia nella teoria marxista, Castelvecchi 2021 (ed. or. 2012.


(5) Si veda Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino 1994 (ed. or. 1990); Anthony Giddens, Identità e società moderna, Ipermedium libri, Napoli 1999 (ed. or. 1991).


(6  )Luc Boltanski, Éve Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, 2014 (ed. or. 1999).


(7) Si veda Alessandro Visalli, Classe e partito, cit., p. 147.


(8) Se pure solo idealmente rappresentabili come “borghesia” e “proletariato” (termine duale in effetti mai realmente esistito, ma sempre effetto di una struttura discorsiva imposta da una lotta politica).


(9) I quali rinunciano a proporre un progetto complessivo di società, in favore dell’emersione di un tema, proposto costantemente come ‘emergenza’: la liberazione sessuale (a partire dagli anni Sessanta almeno), il razzismo, la libertà di orientamento personale, la crisi climatica ed ambientale, il femminismo. Al posto della frattura di classe ne sono proposte altre che tagliano diagonalmente il corpo sociale, rendendo di fatto impossibile la mobilitazione in favore di un cambiamento ‘modale’ (ovvero del modo di produzione).


(10) Su questo termine cruciale si veda Richard Sennett. A partire dal suo studio del 1974, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, 2006. Quindi, Richard Sennett, L’uomo flessibile, Feltrinelli 1999; Richard Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino 2006. Ma anche, Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, Colibrì, 2020 (ed. or. 1979).


(11) Carlo Formenti, La variante populista, Derive e Approdi, 2016. Poi si veda, dello stesso autore, Carlo Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo!, Meltemi 2019; Carlo Formenti, Guerra e Rivoluzione, Meltemi 2023.


(12) Secondo il termine proposto da David Harvey. Si veda, ad esempio, David Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore 1993, (ed. or. 1990); David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, 2007 (ed. or. 2005); David Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, 2011 (ed. or. 2010).


(13) Si veda, Alessandro Visalli, op.cit., p. 316.


(14) Per questa agenda si veda idem, p. 327 e pag. 295. Al contempo si veda, per una più estesa chiarificazione, il bel libro di Onofrio Romano, La libertà verticale, Meltemi 2019.


(15) Si veda, Idem, cap. 3.5 “La revoca della revoca: il ritorno della storia”, p. 174 e seg.


(16) La Germania (e l’Europa) che ha in mente Sahra Wagenknecht”, L’Antidiplomatico, 12 settembre 2024.


(17) Personalmente, intorno al 2018-19, ho a lungo scritto su questo tema. Uno dei post più completi è “Immigrazione e questione sociale”, Tempofertile, 19 settembre 2018, quindi, “Uscendo dall’ipocrisia dei rispettivi muri: cosa significa accogliere”, Tempofertile, 13 gennaio 2019.


(18) Sahra Wagenknecht, Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore 2022 (ed.or. 2021).


(19) “La ricchezza delle società in cui domina il modo di produzione capitalistico si manifesta come una ‘immane raccolta di merci’”, Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Cap. I, Einaudi, Torino, 2024, p. 41.


(20)  Sahra Wagenknecht, Contro la sinistra neoliberale, op.cit., p. 284.


(21) Alessandro Visalli, “Poche note, e provvisorie”, Tempofertile, 8 settembre 2024.


(22) Si veda, ad esempio, Alessandro Visalli, “La fine della modernità. Logiche della dipendenza e dei sistemi-mondo”, Tempofertile, 26 aprile 2024; ma anche Alessandro Visalli, “Circa Trump”, Tempofertile, 4 agosto 2024; infine, Alessandro Visalli, “Si intravede”, Tempofertile 15 giugno 2024.

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