RILEGGERE MARX CON GLI OCCHI DI LUKACS
“Ombre rosse”, che sarà a giorni in libreria per i tipi di Meltemi, è un saggio atipico rispetto ai miei libri precedenti, nella misura in cui prende di petto alcuni nodi teorico-filosofici che altrove erano appena abbozzati, o rimanevano sullo sfondo rispetto all’analisi sociologico-politica. L’esigenza di imbarcarmi in questa impresa è nata un paio d’anni fa, subito dopo l’uscita di un volumetto (1) che conteneva la registrazione di una lunga conversazione fra chi scrive e Onofrio Romano, nel corso della quale tentavamo di capire di quali limiti la teoria marxista dovrebbe sbarazzarsi per riacquistare tutto il suo potenziale rivoluzionario. L’intento non era, come troppo spesso capita, riscoprire l’autentico pensiero di Marx per contrapporlo alle falsificazioni degli epigoni. “Il punto di vista adottato dagli autori di questo libro, scrivevamo, è diverso: partendo dal presupposto che l’originario corpus teorico marxiano - accanto a straordinari elementi di attualità sia sul piano teorico che su quello politico - contiene tesi datate, incomplete e contraddittorie, assume che non lo si possa contrapporre né separare dai tentativi storici di calarlo nella realtà. Pensiamo che sia più utile cercare di capire quali concetti - presenti tanto in Marx quanto nelle varie tradizioni marxiste, anche se con diverse sfumature – vadano aggiornati o addirittura archiviati, in quanto non servono più alla trasformazione rivoluzionaria dell’esistente, se non rischiano di contribuire alla sua conservazione.”
Nella nostra conversazione venivano indicati una serie di punti di criticità: in particolare, affermavamo la necessità: 1) di problematizzare la visione ottimista secondo cui, una volta superata l’estraneità del lavoratore al prodotto del proprio lavoro attraverso il processo di ri-appropriazione dei mezzi di produzione, si passerà automaticamente dal regno della necessità al regno della libertà; 2) di criticare l’ideologia progressista che accomuna certe parti delle opere di Marx al culto liberale della missione “civilizzatrice” della società capitalista; 3) di superare la concezione economicista che associa la fine del capitalismo a presunte ”leggi” immanenti al modo di produzione, ribadendo che, in assenza di un consapevole progetto rivoluzionario, il capitalismo, come qualcuno ha scritto ironicamente, “ha i secoli contati”; 4) di prendere distanza dall’idea che la scienza e la tecnica in quanto tali – a prescindere dal loro ruolo nella determinazione dei rapporti di forza fra le classi sociali - siano fattori necessariamente progressivi, nonché dall’idea che lo sviluppo delle forze produttive sia fattore necessario e sufficiente per la transizione al socialismo; 5) di abbandonare sia la visione evoluzionista del processo storico, sia le sue rappresentazioni provvidenziali, escatologiche; 6) di superare la mistica del Soggetto rivoluzionario come entità sostanziale, predefinita, da rimpiazzare con la consapevolezza della necessità di costruire politicamente tale soggetto.
La ricezione di quella provocazione è stata meno vivace del previsto. Forse perché molti amici, avendo già ragionato su questi argomenti, condividevano le nostre riflessioni. Più probabilmente, temo, perché l’interesse nei confronti della teoria marxista è oggi – almeno qui in Occidente – ai minimi storici. O, peggio ancora, perché la critica del marxismo viene data oggi per scontata ed è inspirata da intenti liquidatori, più che dalla volontà di rivitalizzarlo. Ecco perché ho avvertito la necessità di tornare sulle questioni sopra elencate ingaggiando un corpo a corpo con due mostri sacri del marxismo come Ernst Bloch e György Lukács. Un capitolo, il secondo, è dedicato al Principio speranza di Bloch (2), un’opera in cui ho rintracciato molti dei miti che io e Onofrio Romano criticavamo nel dialogo sopra citato, il terzo discute il capolavoro di Lukács L’ontologia dell’essere sociale (3) che, a mio avviso, contiene la formulazione più completa e convincente della direzione da seguire per proiettare il marxismo oltre i suoi limiti storici. Il primo capitolo si occupa invece di un autore italiano tanto controverso quanto geniale, Costanzo Preve, che è stato oggetto di una rimozione radicale, se non di un vero e proprio linciaggio, per le sue critiche a una sinistra in via di autodissoluzione, formulate in tempi in cui ciò era ancora considerato intollerabile (e forse anche perché la scomunica di cui fu vittima contribuì ad esacerbarne il carattere, innescandone certi atteggiamenti provocatori che gli costarono un isolamento totale). Qui di seguito anticipo le ultime pagine del capitolo conclusivo.
Se e in che misura quanto sin qui discusso può tradursi in un progetto all’altezza dell’attuale realtà storica? Rispondere è compito che trascende l’obiettivo di questo lavoro, per cui mi limito a buttar giù alcuni appunti preliminari. Mi pare evidente che, dalle analisi degli autori esaminati in queste pagine, l’intero impianto del marxismo occidentale ne esce a pezzi. In particolare ne esce a pezzi l’idea – palesemente eurocentrica – secondo cui all’estensione del dominio imperiale delle metropoli capitalistiche sul resto del mondo andrebbe riconosciuto il “merito” di avere creato i presupposti per la transizione al socialismo. Questa idiozia è frutto di un concentrato di tutte le categorie che sono state qui messe sotto accusa: economicismo, evoluzionismo, progressismo, presunte necessità storiche, feticismo della tecnica e delle forze produttive, ecc. Un’idiozia che, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, è divenuta una sorta di pensiero unico delle sinistre “radicali”, a mano a mano che le analisi dei teorici della dipendenza (4) venivano liquidate come “terzomondismo”, lasciando il campo alla certezza che solo la sussunzione del mondo intero sotto il rapporto di capitale può creare le condizioni per una rivoluzione mondiale. A smentire questa visione non sono state tanto le disastrose sconfitte subite dalle classi subalterne occidentali (accompagnate dalla conversione delle sinistre al liberal-liberismo), quanto il fatto che, nel resto del mondo, la penetrazione del mercato non solo non si è automaticamente tradotta in omologazione ai valori, ai principi e ai rapporti sociali e politici di tipo capitalistico, ma ha accompagnato l’emergenza di un’alternativa socialista globale di cui la Cina rappresenta la punta più avanzata. Sul futuro del capitalismo tornano ad addensarsi ombre rosse che vengono dall’Est e dal Sud del mondo.
Il fatto che le sole rivoluzioni socialiste riuscite non siano avvenute in Paesi ad elevato sviluppo economico, ma in regioni del mondo “arretrate”, e che ne siano state protagoniste classi operaie in formazione e larghe masse contadine, alleate con strati di piccola borghesia urbana e guidate da partiti rivoluzionari di impostazione marxista-leninista, è stato finora oggetto di semplici prese d’atto empiriche, mentre è mancato il coraggio di riconoscere che le cose non avrebbero potuto andare altrimenti. In effetti: più la classe operaia è sviluppata, organizzata, capace di contrattare migliori condizioni di vita e di lavoro con i capitalisti, più essa si riduce a capitale variabile, a motore interno del modo di produzione e in fattore di accelerazione del suo sviluppo (come già Marx ed Engels avevano intuito osservando l’evoluzione della Socialdemocrazia tedesca). Al contrario le masse popolari periferiche e semiperiferiche, soggette all’oppressione coloniale e neocoloniale, oltre che a forme di supersfruttamento, si percepiscono e si considerano come esterne al rapporto di capitale (5), anche in ragione delle radicali differenze culturali (tradizioni storiche, religiose, principi e valori morali, ecc.) nei confronti dei Paesi del centro. È in questo contesto che la storia ha generato inedite possibilità trasformative, così come è in questo contesto che partiti rivoluzionari originariamente formatisi alla scuola del marxismo occidentale hanno saputo afferrare tali possibilità ma, per farlo, hanno dovuto adattare la teoria alla concreta realtà storica e sociale in cui operavano (i comunisti cinesi la chiamano sinizzazione del marxismo).
Più di mezzo secolo prima delle riforme cinesi degli anni Settanta, questo rovesciamento dei dogmi marxisti era già avvenuto con la Rivoluzione russa del 1917. L’eresia leninista non è consistita solo nell’avere sostituito la tesi dell’attacco all’anello più debole della catena a quella dell’attacco al livello più elevato di sviluppo del capitale: è consistita ancor più, come osserva Rita di Leo (6), nell’aver liquidato, nei suoi ultimi anni di vita, le visioni estremiste che pretendevano di applicare immediatamente il modello “classico” di transizione alla costruzione del socialismo in Russia; nell’avere compreso che, per superare l’arretratezza dell’economia sovietica e garantire un livello di vita decente alle masse, occorreva reintrodurre robuste dosi di capitalismo nel sistema; occorreva capire che il capitalismo di stato (7), finché fosse rimasto saldamente sotto il controllo dello stato/partito, non avrebbe significato automaticamente la restaurazione del capitalismo; nell’avere infine compreso che, per intraprendere la lunga, faticosa marcia di avvicinamento al socialismo, non si poteva delegare il controllo della produzione a un’autogestione operaia soggetta all’inevitabile influenza di interessi corporativi, ma bisognava concentrare tutto il potere nelle mani del partito (8).
Non abbiamo qui modo di analizzare l’evoluzione del regime sovietico dopo la morte di Lenin, né tantomeno di discutere le cause del suo recente crollo. Resta il fatto che la svolta post maoista in Cina presenta chiare analogie con quella della NEP. Dopo il fallimento del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione culturale, in una situazione che vedeva ottocento milioni di cittadini sotto la soglia di povertà, si è capito che, per avanzare verso il regno della libertà, ci si sarebbe prima dovuti sbarazzare dei vincoli della necessità. Le riforme economiche del 78 e dei successivi decenni, con l’apertura agli investimenti stranieri nelle zone speciali, e la reintroduzione di criteri manageriali nella gestione delle imprese di stato, hanno permesso al Paese di ottenere gli straordinari successi che sono oggi sotto i nostri occhi. Basta il fatto che il processo sia sempre rimasto sotto il rigido controllo politico dello stato/partito, e che il sistema abbia conservato robusti elementi di socialismo, a respingere l’accusa di avere restaurato il capitalismo in Cina? Per il vivace dibattito che agita il campo marxista in merito a tale interrogativo, rinvio a quanto ho scritto altrove (9) , qui mi limito a citare l’opinione (che condivido pienamente) espressa in merito da Giovanni Arrighi: si possono aggiungere a volontà elementi di mercato a un sistema sociale, ma se e finché il mercato resta embedded in un sistema di relazioni politiche, sociali e culturali non capitaliste che ne subordinano il ruolo ad altre finalità, non è possibile parlare di capitalismo.
Certo, le ombre rosse che arrivano da Oriente non annunciano l’avvento del paradiso in terra profetizzato da Bloch. E lo stesso vale per quelle che arrivano da Sud, dai Paesi dell’America Latina impegnati a definire il progetto di un socialismo del secolo XXI. Delineano però le condizioni di un socialismo possibile, di una lunga transizione dall’esito aperto e imprevedibile, caratterizzata dalla convivenza fra economia pubblica ed economia di mercato e dal persistere della lotta di classe. Quanto a noi occidentali: la disarticolazione delle nostre classi operaie ci condanna a un futuro senza speranza di cambiamento? Certamente la ripartenza, dopo la catastrofica sconfitta che abbiamo subito dal regime liberista, si presenta tutt’altro che facile; né – se rifiutiamo le scorciatoie dell’economicismo – possiamo attenderci granché dalla profonda crisi capitalistica in corso, aggravata dalla pandemia. Paradossalmente, la necessità di ripartire da una classe operaia divisa, immiserita, precarizzata, priva di efficaci strumenti organizzativi e di lotta, potrebbe rivelarsi, almeno da un certo punto di vista, un vantaggio: il proletariato forte, numeroso, omogeneo, organizzato del ciclo fordista non è mai uscito, né poteva/voleva farlo, dallo stato di capitale variabile, né si è mai posto – né avrebbe potuto/voluto farlo – obiettivi antisistema. Questo proletariato, che oggi non esiste in quanto soggetto consapevole e unitario, questo proletariato che appare assai più “estraneo” alle dinamiche sociali e politiche rispetto al suo aristocratico predecessore, potrà tornare ad esistere solo come prodotto di un processo di costruzione politica, potrà rinascere solo assieme al partito che riuscirà a guidare tale processo.
Note
1. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019.
2. E. Bloch, Il principio speranza, 3 voll., Mimesis, Milano-Udine 2019.
3. G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Pgreco, Milano 2012.
4. Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.
5. Cfr. N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaka Book, Milano 1972. Zitara applica questo concetto al proletariato meridionale italiano, mentre Samir Amin lo estende a livello mondiale.
6.Per una versione aggiornata delle riflessioni della di Leo sul tema in questione cfr. la trilogia: L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse 2012; Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, Ediesse 2017 e L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, il Mulino 2018.
7. Ai critici della NEP, Lenin replicava con queste parole: “il capitalismo di stato discusso in tutti i libri di economia è quello che esiste sotto il sistema capitalista, laddove lo stato mette sotto il proprio controllo alcune imprese capitaliste. Ma il nostro è uno stato proletario che dà al proletariato tutti i privilegi e che attraverso il proletariato attrae a sé gli strati inferiori della classe contadina. Ecco perché molti vengono sviati dal termine capitalismo di stato. Il capitalismo di stato che abbiamo introdotto nel nostro paese è di un tipo speciale…Noi deteniamo tutte le posizioni chiave. Possediamo il paese, che appartiene allo stato. Ciò è molto importante anche se i nostri oppositori lo negano.“
8. Rita di Leo, nei libri citati in nota (6), sostiene che Stalin, contrariamente alle tesi dei sovietologi “ufficiali”, non avrebbe represso la classe operaia russa; al contrario, avrebbe abbandonato la linea leninista, lasciando ampia autonomia gestionale agli operai di fabbrica. Inoltre la durezza con cui ha perseguitato, oltre ai vecchi intellettuali e tecnici zaristi e ai contadini ricchi, anche i vecchi dirigenti bolscevichi (a loro volta intellettuali di estrazione medio borghese, laddove Stalin faceva eccezione, date le sue origini popolari) sarebbe nata dalla volontà di rimpiazzare l’intera classe dirigente ereditata dal passato con quadri di estrazione proletaria. Effetto di tali scelte sarebbe stato, fra gli altri, quello di creare un rapporto di complicità fra dirigenti di fabbrica di estrazione popolare e forza lavoro, per cui gli operai potevano lavorare a ritmi assai bassi, praticare l’assenteismo, opporsi alle innovazione tecnologiche, ecc. E’ nata così quella divaricazione fra obiettivi ufficiali del piano e realtà produttiva che verrà progressivamente aggravandosi dopo la morte di Stalin, tanto da rendere possibile la nascita di una economia informale emersa dopo il crollo dell’89.
9. Cfr. Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019; vedi anche Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020.
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