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domenica 23 marzo 2025


UNICITÀ DELL’OLOCAUSTO E ABERRAZIONE NAZISTA
OVVERO: COME RIMUOVERE GLI ORDINARI CRIMINI OCCIDENTALI 
E LA MEMORIA DEI GENOCIDI COLONIALI






I.


Le violente reazioni polemiche con cui politici, intellettuali e giornalisti occidentali di ogni colore ideologico (ad eccezione di qualche minoranza) hanno replicato alle accuse di genocidio allo stato israeliano, sono la conferma che tali accuse – più che fondate – toccano un nervo scoperto, in quanto mettono in questione un mito alimentato e condiviso da tutti i regimi liberal-democratici euroatlantici. Per inciso, che le accuse siano più che fondate non è testimoniato solo dal numero spaventoso di vittime di ogni età e sesso provocate dal terrorismo aereo praticato dal governo di estrema destra di Netanyahu, ma da quei rari intellettuali israeliani che, come Ilan Pappé (1), denunciano da tempo le pratiche criminali del regime sionista. 


Di più: lo conferma il significato originario – prima che venisse mistificato da decenni di propaganda ideologica – del termine genocidio, coniato, come ricorda lo storico Leonardo Pegoraro (2), dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin negli anni della Seconda Guerra mondiale. Costui definì genocidio la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico, non riferendosi solo all’annientamento fisico delle vittime, ma anche alla soppressione delle istituzioni di autogoverno, alla distruzione della struttura sociale e della classe dirigente, al divieto di usare la propria lingua, alla privazione dei mezzi di sussistenza, alla criminalizzazione di una determinata fede religiosa, all’umiliazione e la degradazione morale. Mi pare chiaro che molti, se non tutti, questi criteri si applicano ai crimini che vengono quotidianamente perpetrati contro la popolazione palestinese. 


Partendo da tale definizione, Pegoraro contesta la testi “unicista” che attribuisce alla Shoah l’attributo di unico evento storico suscettibile di essere definito genocidio. La cultura e la prassi genocidaria, argomenta, esistono fin dalla più lontana antichità, come testimoniato dall’Iliade e (lupus in fabula) dall’agghiacciante invito divino del Deuteronomio che recita: “Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei” (20:16-17).Gli unicisti descrivono la Shoah come un evento irriducibile a ogni spiegazione storica e razionale, una catastrofe unica nella sua orribile dismisura. La storia dimostra al contrario che esistono innumerevoli altri eventi paragonabili in termini di velocità, portata, intensità, efficienza e crudeltà.


Ilan Pappé



Storie antiche, come lo sterminio dei Galli da parte di Cesare o i milioni di morti causati dalle invasioni mongole? Non solo, replica Pegoraro: anche e ancor più storie moderne, non imputabili unicamente a regimi totalitari e a ideologie incompatibili con la cultura liberal democratica, come teorizzato da Hannah Arendt (3). Basti ricordare che Hitler, fervente ammiratore del colonialismo inglese e dei suoi metodi (tornerò più avanti sul punto), lo assunse come modello da mettere in pratica nell’Europa Orientale, da cui voleva estirpare le etnie slave per rimpiazzarle con quella germanica (4). Fenomeno coloniale prima e più che fenomeno totalitario dunque, come Pegoraro argomenta ricordando i genocidi dei popoli nativi commessi, fra gli altri,  da Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Ecco perché l’Occidente è tanto sollecito nel celebrare la memoria della Shoah: non per esorcizzare la possibilità che possa ripetersi, bensì per nascondere i propri scheletri nell’armadio, cioè per occultare il fatto che è la sua storia a grondare più di ogni altra del sangue di massacri di massa. 



II.


A Costanzo Preve (5) dobbiamo la più dura requisitoria che mi sia capitato di leggere contro l’uso propagandistico di quella che questo autore chiama la “religione olocaustica” finalizzata a rimuovere le politiche criminali dell'imperialismo occidentale. La sua analisi parte dall’affermazione che la cultura ebraica viene sempre più spesso eretta a simbolo dell’occidentalismo imperiale, in nome di una presunta identità ebraico-cristiana dell’intero Occidente e dell’Europa in particolare, evocata per legittimare uno scontro di civiltà (6) di ispirazione razzista (islamofobica e non solo). Discutere le argomentazioni teologiche con cui Preve nega l’esistenza stessa di una nostra presunta radice ebraico-cristiana, a partire dalla incompatibilità fra il “tribalismo” di un culto fondato sul rapporto esclusivo fra Dio e il popolo eletto e l’universalismo cristiano, richiederebbe troppo spazio. Mi limito a citare le seguenti due tesi che ritengo di poter condividere: 


1) L’inscalfibile alleanza fra Stati Uniti e Israele si fonda, oltre che sulla convergenza di interessi economici e geopolitici (Israele come baluardo del dominio occidentale sul Vicino Oriente e sulle sue risorse), sulla condivisione di valori religiosi secolarizzati che sono, più che ebraico-cristiani, ebraico-protestanti (calvinisti). Il “sionismo cristiano” delle élite neocons Usa è infatti di matrice esplicitamente calvinista, si fonda sulla teoria della predestinazione individuale che si è secolarizzata in teoria delle predestinazione del popolo anglosassone (l’eccezionalismo americano), associato al popolo ebraico nel ruolo di popolo eletto (con le relative  implicazioni colonialiste e razziste).


2) Quanto appena affermato non implica affatto una condanna della cultura e della civiltà ebraiche in toto. Quest’ultima appare infatti attraversata da molteplici sfumature e correnti, in particolare da quelle correnti eretiche del messianesimo in cui si manifesta una reazione universalistica a un’identità religiosa particolaristica. Ciò vale per Gesù (di qui la tesi di Preve sull’incompatibilità fra cristianesimo originario e ebraismo ortodosso), così come vale per i moderni messianismi rivoluzionari: da Spinoza ai vari Benjamin, Bloch e Lukacs passando per Marx.


Costanzo Preve



Facciamo un passo indietro. Che il culto della memoria della Shoah presenti i tratti di un’ideologia religiosa, scrive Preve, è attestato, fra le altre cose, dall’introduzione del reato di negazionismo nei sistemi giuridici europei (un fatto eccezionale, sia perché non applicato ad altri crimini di guerra, sia perché viola la libertà d’opinione): un interdetto che non ha lo scopo di difendere la memoria dei milioni di vittime dei lager bensì quello di legittimare un nuovo regime mondiale di dominio. Inchiodando l’Europa a un complesso di colpa inespiabile, l’élite statunitense ne ha infatti sancito la subordinazione alla propria egemonia culturale prima ancora che economico-militare. 


Un’egemonia talmente schiacciante che ha rimosso ogni traccia di opposizione ai valori dell’ordine liberal-liberista, mettendo all’indice la memoria stessa delle ideologie anticapitaliste novecentesche (vedi la delibera del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo); un'egemonia che silenzia qualsiasi critica nei confronti del genocidio del popolo palestinese; un’egemonia che ha trascinato l’Europa in una guerra contro la Russia contraria ai propri interessi e che, ora che gli Stati Uniti escono dal conflitto dopo averlo provocato, induce le élite europee a proseguirlo per inerzia, svenandosi economicamente e aggravando ulteriormente la propria marginalità geopolitica. 




III.


Veniamo all’altra “unicità” costruita dalle “democrazie” occidentali per nascondere sotto il tappeto la polvere dei propri crimini. Mi riferisco alla mostrificazione di Hitler e del nazismo come un’aberrazione irripetibile estranea alla storia e ai valori della “civile” Europa. 


“Varrebbe la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di avere applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa”. 


Aimé Césaire



Quelle appena citate sono le famose – ancorché sistematicamente ignorate – parole di Aimé Césaire nel suo Discorso sul colonialismo (7). Si tratta della più appassionata e veemente denuncia sia dei secoli di genocidi occidentali perpetrati contro i popoli del Sud del mondo (e tuttora in corso), sia del tentativo di liquidare il nazismo come un “unicum” storico che nulla ha a che fare con le liberal democrazie euroatlantiche, le quali credono di essersi ripulite di ogni sospetto di complicità celebrando il processo-farsa di Norimberga. 


Poco sopra ricordavo l’ammirazione di Hitler per i metodi del colonialismo inglese (“nessun popolo, scriveva il Furher in Mein Kampf, ha saputo preparare le sue conquiste economiche meglio che con la precisa brutalità della spada, né le ha sapute difendere con più spregiudicatezza degli inglesi”). Di questa affinità elettiva fra Hitler e il colonialismo inglese (ma anche spagnolo, portoghese, francese, olandese, americano e italiano) erano lucidamente consapevoli gli intellettuali neri appartenenti all’ambiente dell’anticolonialismo militante fra le due guerre mondiali e nel secondo dopoguerra, come - oltre a Césaire - i vari Du Bois, Williams, Fanon, Padmore, Carmichael e Robinson (8) tutti concordi con l’affermazione di Padmore secondo cui “quando il popolo britannico parla di fascismo dovrebbe guardare all’interno del proprio impero”. 


Alla storica Caroline Elkins, che cita questi autori a proposito del concetto di fascismo coloniale (sinonimo, per molti di essi, di liberal fascismo) dobbiamo la più dettagliata e documentata denuncia (9) di due secoli di crimini imperiali britannici. Sulla scia di Cedric Robinson (10), la Elkins ricorda come il capitalismo razziale britannico, che aveva alimentato la propria accumulazione primitiva con il sacrificio di milioni di schiavi nelle colonie antillane e del Nord America (11), si sia rivolto, dopo la perdita degli Stati Uniti, verso l’Oriente e l’Africa, senza trascurare la vicina Irlanda. 





In India la Compagnia delle Indie, prima che il Paese venisse sottoposto al governo della Corona, affamò il Bengala provocando trenta milioni di morti. Ma anche dopo il passaggio di consegne, gli eccidi e le repressioni condotte con metodi che nulla hanno da invidiare ai lager nazisti proseguirono fino all’indipendenza raggiunta nel secondo dopoguerra. Queste oscenità furono legittimate, fra gli altri, da un distinto intellettuale liberale come John Stuart Mill, il quale scrisse che gli Indiani erano un “popolo senza storia” (ignorando che India e Cina erano già civiltà millenarie quando la Gran Bretagna era un’isola popolata da selvaggi) caratterizzato da una cultura primitiva, e aggiunse che il dispotismo è giustificato quando si ha che fare con i barbari (nota bene: la Elkins riferisce che nessuno degli alti burocrati finiti sotto inchiesta per le atrocità commesse in India fu mai condannato, anzi vennero tutti assolti ed elogiati da governanti, media e opinione pubblica come meritevoli paladini dell’Impero).


Sempre ispirandosi al concetto di capitalismo razziale, la Elkins dimostra inoltre come l’uso del razzismo come fattore legittimante dei peggiori crimini colonialisti non abbia seguito esclusivamente la “linea del colore”: per giustificare i metodi disumani adottati nella guerra anglo-boera di fine Ottocento e nella successiva guerra civile irlandese, la Gran Bretagna discriminò razzialmente irlandesi e afrikaner, paragonandone le culture a quelle dei neri e usando immagini e metafore disumanizzanti per descriverne l’aspetto e gli stili di vita. 


In tutte queste circostanze, lo stato di diritto della patria imperiale, sbandierato come fiore all’occhiello della civiltà anglosassone, era sistematicamente sospeso, mentre venivano adottate leggi ad hoc che garantivano il ricorso pressoché illimitato a violenza e coercizione. La giustificazione era sempre quella coniata dal cantore dell’epopea imperiale britannica, Rudyard Kipling, cioè quel “fardello dell’uomo bianco” che spettava alla superiore cultura europea per “civilizzare” i popoli barbari. In poche parole: non è vero che violenza e liberalismo sono elementi che non possono convivere o che convivono solo episodicamente e in condizioni eccezionali; al contrario: la prima è connaturata alla seconda nella misura in cui è il frutto delle sue ambizioni di modernizzazione/civilizzazione del mondo, di un concetto di libertà modulato sull’individualismo proprietario e dei principi classisti/razzisti incorporati nel suo sistema giuridico.


Qual è dunque la differenza fra i crimini coloniali dell’imperialismo britannico (americano, francese, spagnolo, portoghese, olandese, italiano, giapponese, ecc.) e i crimini nazisti? Non il numero delle vittime: i milioni di neri, arabi, indiani, amerindi, cinesi, vietnamiti, irlandesi, ecc. massacrati dalle liberal democrazie, superano di decine di volte quelli della Shoah. Non la ferocia: i metodi usati da tutti gli imperialismi occidentali per stroncare la resistenza degli altri popoli, descritti con agghiaccianti particolari nel libro della Elkins, non hanno nulla da invidiare a quelli praticati nei lager del Terzo Reich. 





La vera differenza, come scrive Césaire (vedi sopra), è la ipocrisia. È il ricorso a giustificazioni moraleggianti (il fardello dell’uomo bianco) al posto delle brutali rivendicazioni di dominio naziste. È la farsa di Norimberga, dove si è celebrata la giustizia dei vincitori ignorando i crimini di guerra anglo-americani (come il terrorismo aereo sulle città tedesche ormai indifese e le atomiche di Hiroshima e Nagasaki) mentre nelle celle dei detenuti tedeschi (come documenta la Elkins) si conducevano interrogatori con metodi da Gestapo. È, infine, l’elevazione al rango di eroe nazionale e mondiale di Winston Churchill, feroce reazionario che simpatizzò per il nazismo finché sperò di poterlo usare contro l’URSS (non a caso aveva sostenuto la guerra civile dei Bianchi contro il giovane regime sovietico), fautore dei lager per i prigionieri afrikaner durante la guerra boera, difensore dei crimini britannici in India, teorico ante-litteram del terrorismo aereo nella guerra coloniale irachena (poi applicato dagli Usa in Vietnam e da Israele a Gaza), complice della spietata repressione della resistenza irlandese, ecc. ecc. Insomma, una sorta di Goehring britannico con sigari e bombetta, rispetto al quale la Tatcher fa la figura di una dolce vecchietta. 



IV.


A mò di postilla all’analisi dell’apporto della Elkins alla ricostruzione della storia dei crimini dell’imperialismo inglese, vale la pena di segnalarne la denuncia delle responsabilità dei governi inglesi succedutisi dal primo al secondo dopoguerra, i quali, con le loro scelte, hanno creato i presupposti dell’apparentemente irrisolvibile conflitto arabo-israeliano e del conseguente carnaio palestinese che funesta il Vicino Oriente da più di mezzo secolo. 


La tragedia inizia con la celebre Dichiarazione di Balfour (1917) con cui l’omonimo segretario agli esteri auspicava – in vista della spartizione dell’Impero Ottomano, destinato a scontare la propria alleanza con gli Imperi Centrali -la “costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”. Secondo Balfour, ricorda la Elkins, il sionismo, giusto o sbagliato, buono o cattivo che fosse, era più meritevole di ottenere attenzione rispetto ai “pregiudizi dei settecentomila arabi che ora abitano quella terra antica”. Come si vede, fin d’allora il razzismo anglosassone, assai più profondo (e condito di islamofobia) nei confronti degli arabi piuttosto che degli ebrei, assieme a quella che Elkins definisce una “interazione fra romanticismo biblico e più ampie considerazioni geopolitiche”, lasciavano ampiamente prevedere da quale parte l'imperialismo occidentale si sarebbe schierato rispetto ai conflitti regionali. 


Dopo che le Nazioni Unite (nel 1922) ebbero affidato alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina, iniziò il calvario della popolazione araba che lottò a più riprese, e sempre inutilmente, per ottenere la revoca della Dichiarazione Balfour e il contenimento dell’emigrazione ebraica, favorita dalle illimitate concessioni di acquisto delle terre (quasi un terzo dei contadini arabi in miseria era già stato espropriato nel 1930, e la pur limitata espansione industriale garantiva posti di lavoro quasi esclusivamente agli operai ebrei). 





il ministro Balfour


Le ripetute rivolte contro le autorità britanniche furono puntualmente soffocate nel sangue, e la repressione toccò il vertice con l’arrivo dell’ufficiale dei servizi inglesi Onde Wingate. Costui, già distintosi come macellaio in alcune guerre coloniali, appena sbarcato in Palestina (nella seconda metà degli anni Trenta) fu colto da una crisi mistica e si legò con gli ambienti sionisti radicali ( fu anche amico di Ben Gurion, che si sarebbe distinto nelle pulizie etniche contro gli arabi nel secondo dopoguerra). Devoto alla causa sionista e pieno di disprezzo per la razza araba, Wingate (tuttora celebrato come un eroe in Israele) organizzò le Squadre Speciali Notturne (formazioni miste anglo-ebraiche) che praticarono il terrorismo sistematico contro i ribelli arabi. 


Oggi la propaganda sionista (e angloamericana) ricorre spesso all’argomento dell’appoggio che gli arabi ricevettero dai nazisti prima e durante la Seconda Guerra mondiale, ma questo argomento (al pari di quello usato contro l’indiano Bose e i suoi seguaci, che si arruolarono dell'esercito giapponese per combattere contro gli Inglesi) può funzionare solo rimuovendo tutte le ragioni di odio che un popolo aveva accumulato in decenni di oppressione, sottoposto alla stretta della doppia tenaglia dell’imperialismo inglese e del terrorismo sionista. Torna insomma il motivo della ipocrisia e della doppia morale che l‘Occidente ha sempre adottato nei confronti dei crimini propri e altrui.



V.


L’ultima tappa di questo percorso dedicato ai crimini dell’Occidente riguarda un curioso libro – Barbarie Numérique (Barbarie digitale) – di Fabien Lebrun (12). Curioso perché si tratta di un saggio a dir poco ambizioso, ancorché monumentale, in cui l’autore, oltre ad offrire una documentatissima e agghiacciante descrizione delle sofferenze che secoli di oppressione coloniale hanno imposto al popolo congolese (e questa è la parte di gran lunga più utile e interessante del lavoro), propone una critica (condivisibile ma non originalissima) dell’utopia digitale e dei suoi miti (a partire dalla presunta smaterializzazione e virtualizzazione dell’economia e delle relazioni sociali); ripropone la tesi (anche questa già ampiamente condivisa in campo marxista) dell’accumulazione primitiva come condizione permanente del capitalismo dalle origine ai giorni nostri; abbozza infine una discutibilissima teoria generale del capitalismo globale in cui manca qualsiasi riferimento a controtendenze oggettive e resistenze soggettive.


Parto dalla critica del digitale. La retorica dell’immateriale che ha accompagnato fin dalle origini la narrazione della cosiddetta rivoluzione digitale, argomenta Lebrun, si inscrive in quella “cultura del post” (post moderno, post industriale, ecc.) inaugurata dal celebre saggio di Jean-François Lyotard (13) e adottata da una certa sinistra postmoderna infatuata del presunto ruolo progressivo delle nuove tecnologie, la quale ha contribuito, assieme al culto mediatico dei guru della Silicon Valley, a squalificare e condannare come retrograda qualsiasi critica dello sviluppo tecnologico (Lebrun cita quanto già aveva scritto in merito Gunther Anders (14)). Tema e argomenti tutt’altro che nuovi (15) come già detto, ma Lebrun li integra con una corposa mole di dati: i 34 miliardi di device digitali che esistono oggi sulla terra pesano più di 220 milioni di tonnellate; uno smartphone contiene una cinquantina di metalli diversi e per essere prodotto richiede una quantità smisurata di energia, risorse naturali e acqua, per cui, se si aggiungono le infrastrutture necessarie a far funzionare reti e terminali è evidente quanto sia falso il concetto di “dematerializzazione.


La verità, scrive Lebrun, è che il digitale è un macro-sistema tecnico che divora sempre più elettricità (carbone, petrolio, gas, nucleare). L’industria digitale è inseparabile da quella mineraria e dunque dall’estrattivismo: estrattivismo per il digitale (cioè per produrlo) e dal digitale (vedi la sua proprietà di affinare i metodi di ricerca delle risorse da estrarre), infine estrattivismo “virtuale” dei Big Data che, nella misura in cui promuovono la fusione fra vita privata e vita pubblica, riescono a estrarre valore dalla vita stessa, cioè dalle informazioni che ognuno di noi regala al macro-sistema per il solo fatto di connettersi alla rete, una inedita forma di lavoro produttivo che miliardi di persone svolgono gratuitamente, sedotti dalla cultura dell'illimitato generata dai social (16).


L’estrattivismo, come vedremo fra poco, è all’origine delle attuali sventure del Congo (con questo nome Lebrun connota un’area più ampia della nazione che condivide il nome del bacino del fiume omonimo: praticamente l’intera Africa dei Grandi Laghi e parte dell’Africa Centrale) un’area perseguitata della “maledizione delle risorse naturali”. Ma le disgrazie della regione risalgono assai indietro nel tempo nella misura in cui si tratta del territorio più martoriato dalla tratta atlantica, dal 1500 al 1800, a partire dall'insediamento portoghese nell’isola di Sao Tomé, al centro delle prime rotte negriere fra Portogallo Congo e Brasile, cui faranno seguito quelle tracciate da Inglesi e Francesi per le Antille e il Nord America. 


Dopo avere ricordato la lezione di Eric Williams sul contributo del commercio triangolare fra Europa, Africa e America all’accumulazione primitiva in Inghilterra e in Francia, Lebrun arriva all’era moderna e alla conferenza di Berlino del 1885 che spartì l’Africa fra le grandi potenze coloniali e assunse l’incredibile decisione di riconoscere il Congo come possedimento personale del re belga Leopoldo. Costui passerà alla storia come il più efferato assassino della storia del colonialismo occidentale. Per alimentare i profitti generati dal commercio di avorio e caucciù costui imporrà ai neri ritmi di lavoro estenuanti, punendo i riottosi e i “pigri” con il taglio della mano, con le decapitazioni e con la distruzione di interi villaggi e i massacri di donne e bambini perpetrati con metodi orribili da mercenari europei di varie nazionalità. Ancora più morti costò la costruzione di alcune ferrovie, al punto che, dal 1880 al 1930, si calcola vi siano state dieci milioni vittime (a proposito di genocidi…). I crimini del sovrano belga erano ben noti e furono denunciati da molti intellettuali, come lo scrittore americano Mark Twain, ma le nazioni occidentali si guardarono bene dall’intervenire perché il Congo di Leopoldo funzionava da paradiso fiscale ante litteram, attirando investimenti finanziari e industriali da tutto il mondo. 


Alcune vittime di re Leopoldo del Belgio



Con l’assassinio di Lumumba, che dopo l’indipendenza aveva osato parlare di nazionalizzazione delle risorse minerarie, si è passati, scrive Lebrun, dal colonialismo al neocolonialismo. E con la caduta di Mobutu negli anni Novanta, si intrecciano inestricabilmente i destini del Congo con quelli della rivoluzione digitale. I sistemi patrimoniali – le cleptocrazie – nati dal fallimento delle guerre d’indipendenza devono lasciare il posto alle politiche neocoloniali del Washington Consensus imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale. E il Congo, che ha la disgrazia di ospitare le più grandi concentrazioni di coltan, terre rare e altri minerali indispensabili allo sviluppo dell’industria digitale, diventa il teatro di una guerra di tutti contro tutti cui partecipano stati, multinazionali, mafie, bande armate di ribelli e mercenari, tutti impegnati ad assumere il controllo delle risorse vitali per lo sviluppo delle nuove tecnologie (fra le vittime di queste guerre civili che coinvolgono anche il Ruanda, l’Uganda e il Burundi vanno annoverati anche il milione di Tutsi trucidati dall’etnia Hutu e l'incalcolabile numero di profughi provocati dalle guerre civili in Sudan, Angola e Congo Brazzaville, mentre a spartirsi il bottino sono Francia e Belgio da un lato Stati Uniti e Gran Bretagna dall’altro). Fin qui la cronaca degli orrori. Quanto al tentativo di Lebrun di inquadrarla in un’analisi più complessiva delle dinamiche della globalizzazione capitalistica, vanno distinti due livelli. 


Il primo livello si riferisce alla tesi della sostanziale analogia, se non identità, fra queste forme neocoloniali e gli orrori dell’accumulazione primitiva tramite enclosure descritti da Marx nel Primo Libro del Capitale (17). L’estrattivismo praticato nel Congo e in molti altri Paesi del Sud del mondo, argomenta Lebrun, è una riproposizione su scala planetaria della separazione violenta fra lavoratori (in questo caso fra popoli e nazioni intere) e mezzi di produzione (in questo caso materie prime, territori e altre risorse), un processo che Harvey definisce accumulazione per espropriazione (18), e che Samir Amin propone di contrastare adottando strategie di delinking dal mercato capitalistico globale (19). Tesi del tutto condivisibile anche se non originale, come anticipato in precedenza.


Il secondo livello, cioè il tentativo di Lebrun di tracciare uno schema complessivo del processo di mondializzazione capitalista, mi lascia invece francamente perplesso. Sintetizzo i principali motivi di tale perplessità:1) il potere di seduzione, nonché di corruzione civile, culturale, se non addirittura antropologica, della tecnologia digitale viene descritto come irresistibile (non a caso Lebrun cita Gunther Anders, il filosofo della obsolescenza umana di fronte al soverchiante potere della tecnica); 2) il processo di globalizzazione/ mercificazione dell’economia e della società mondiali viene a sua volta descritto come in grado di omologare senza residui nazioni, popoli, civiltà, culture, ignorando le controtendenze, le resistenze e le resilienze di ogni tipo che lo frenano e contrastano; 3) questa cornice astratta e immaginaria esclude di fatto ogni capacità di resistenza e di lotta: nell’analisi di Lebrun esistono solo vittime ridotte a oggetto, subordinate al processo di valorizzazione oppure ridotte esse stesse a merce: le lotte di liberazione nazionale sono fallite, degenerate in regimi locali al servizio dell’imperialismo; ugualmente fallite le rivoluzioni socialiste, le quali hanno dato vita a forme di capitalismo di stato (per Lebrun capitale privato e di stato pari sono, né è prevista alcuna autonomia del politico). In parole povere: il capitale e la tecnologia, che con il digitale sono giunti a fondersi in un poderoso mega sistema, appaiono in questo modo onnipotenti e invincibili. Tutto ciò nulla toglie al contributo di Lebrun alla descrizione dei crimini dell’Occidente capitalista, “democratico” e liberale, che è l’obiettivo di questo articolo. Con buona pace del trio europeista Serra, Vecchioni, Scurati. 


Note


(1) Cfr. I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, Roma 2008; vedi anche Brevissima storia del conflitto fra Israele e Palestina, Fazi, Roma 2024.


(2) Cfr. L. Pegoraro, I dannati senza terra, Meltemi.


(3) Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.


(4) Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005; vedi anche Il peccato originale del Novecento, Laterza.


(5) Vedi , in particolare, C. Preve, Opere, Vol. II, Manifesto filosofico del comunismo comunitario, Schibboleth, Roma 2022.


(6) Cfr. S. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2000.


(7) A. Césaire, Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2020.


(8) Vedi la serie di post sul pensiero radicale nero e sugli autori citati che ho pubblicato su questo blog.


(9) Cfr. C. Elkins, Un’eredità di violenza, Einaudi, Torino 2024.


(10) Cfr. C. Robinson, Black Marxism, Alegre, Roma 2023.


(11) Sul rapporto fra schiavismo e accumulazione primitiva cfr. K. Marx, il Capitale, vol. I, cap. XXIV.


(12) Cfr. F. Lebrun, Barbarie Numérique, L’Échappée 2024.


(13) Cfr. J-F Lyotard, La condizione postmoderna, (tr. Di C. Formenti), Feltrinelli, Milano 1980.


(14) Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2007.


(15) Gli argomenti critici di Lebrun sono stati anticipati, fra gli altri, da chi scrive il quale, a partire da Incantati dalla Rete (Cortina 2000), ha pubblicato numerosi saggi sull’argomento: vedi, fra gli altri, Mercanti di futuro (Einaudi 2002); Cybersoviet (Cortina 2008); Felici e sfruttati (EGEA 2011); Utopie letali (Jaka Book 2013).


(16) Cfr. C. Formenti, Felici e sfruttati, cit.


(17) Cfr Nota 11.


(18) Vedi in particolare, fra le opere di D. Harvey, La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo (il Saggiatore 2006) e L’enigma del capitale (Feltrinelli 2011).


(19) Cfr. Samir Amin, La déconnextion, La Découvert, Paris 1986. 

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