Lettori fissi

domenica 13 giugno 2021

 LA GUERRA FREDDA CONTRO LA CINA

OVVERO L'AUTOGOL DELL'OCCIDENTE 



Mentre scrivo queste pagine, il neo presidente Biden viaggia per il mondo nel tentativo di costruire un fronte euroatlantico in funzione anticinese e antirussa, ovviamente sotto egemonia statunitense. Un progetto che costerebbe caro agli alleati europei (per i quali uno sganciamento dalla partnership economica con la Cina comporterebbe effetti catastrofici), per cui è prevedibile che raccoglierà molti consensi sul piano formale assai meno sul piano sostanziale. Ancor più irrealistico appare l’obiettivo di rompere il legame fra Cina e Russia, convincendo la seconda a schierarsi con l’Occidente, soprattutto perché fondato non su aperture e concessioni, bensì su continue provocazioni politico-militari – vedi Ucraina e Bielorussia – e sanzioni economiche (con il risultato che per la Russia l’alternativa obbligata diventa quella fra capitolazione e ulteriore avvicinamento alla Cina). Pura stupidità,  sopravalutazione delle proprie forze, sottovalutazione di quelle degli avversari? Probabilmente un mix di questi fattori, ma soprattutto c’è l’ottusa ripetizione di vecchie strategie inadeguate al nuovo contesto mondiale, così come c’è una chiara incomprensione della logica di un competitor – la Cina – assai diverso dall’Urss, il rivale sconfitto qualche decennio fa. A tale proposito, per chi volesse dotarsi di un minimo di conoscenze attendibili – al posto dell’indigeribile paccottiglia che ci viene quotidianamente propinata dai media di regime, con la complicità di non pochi intellettuali “di sinistra” – su cosa è la Cina di oggi, è consigliabile la lettura de La via cinese. Sfida per un futuro condiviso, di Fabio Massimo Parenti, professore associato alla China Foreign Affairs di Pechino e docente al Lorenzo de Medici, The Italian International Institute di Firenze (il libro è appena uscito da Meltemi). Qui di seguito anticipo alcuni argomenti di questo lavoro. 

Il volume è introdotto da un breve testo di Shaun Rein, amministratore delegato del China Market Research Group, che evidenzia i principali errori (errori che si trasformano in fatti nella testa dei cittadini disinformati) che circolano in Occidente sulla Cina, concentrandosi in particolare su tre cliché: 1) i cinesi non sostengono il loro governo o, se lo sostengono, vuol dire che hanno subito il lavaggio del cervello. Si tratta palesemente di un punto di vista razzista, commenta Rein, secondo il quale il cinese medio sarebbe un idiota incapace di giudicare l’operato dei propri leader, dopodiché aggiunge che, al contrario, i cinesi manifestano un alto livello di consenso nei confronti del regime perché consapevoli di quanto quest’ultimo abbia migliorato le loro condizioni, e di come si sia preso cura di loro nel corso della pandemia, il che li riempie di orgoglio e di patriottismo; 2) la Cina non innova, si limita a copiare le idee altrui. A smentire questo luogo comune basterebbe il semplice fatto che i maggiori brand cinesi sono oggi all’avanguardia nell’innovazione. Non solo: a consolidare ulteriormente il loro primato, argomenta Rein, contribuiscono paradossalmente quelle sanzioni occidentali che le inducono a concentrarsi sull’innovazione interna e sull’autosufficienza nella catena delle forniture tecnologiche, spingendole a estendere le proprie competenze in campi sempre nuovi; 3) l’abilità tecnologica cinese è molto indietro rispetto a quella occidentale. Questa suona ormai come un’illusione autoconsolatoria per un Occidente che, negli ultimi decenni, avendo imboccato la via della finanziarizzazione, ha progressivamente ridotto gli investimenti in ricerca, mentre la Cina moltiplicava di vari ordini di grandezza gli investimenti strategici a lungo termine in  settori come la medicina, i trasporti, la logistica, l’intelligenza artificiale, i veicoli elettrici, ecc.  Passando al testo di Parenti, mi concentrerò su tre temi: le peculiarità storico culturali della società cinese e del sistema politico che le incarna; qual è il reale significato della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, d’ora in avanti indicata come BRI); le differenze fra la visione occidentale e visione cinese del processo di globalizzazione.    


Sulle nostre incomprensioni. 

La nostra incapacità di capire la Cina si riflette nelle risposte apodittiche e diametralmente opposte (1) che tendiamo a dare all’interrogativo se questo Paese sia da considerare socialista o capitalista (sia pure con modalità sui generis). In effetti è l’interrogativo stesso a essere mal posto o addirittura privo di senso, se avulso dalla conoscenza di una civiltà millenaria che, benché abbia subito un rapido e radicale processo di modernizzazione economica, politica e sociale, resta ancorato a un retroterra filosofico – l’etica confuciana – che ne ha determinato e continua a determinarne l’evoluzione non meno del marxismo (che, contrariamente a quanto sostenuto da molti intellettuali di sinistra (2), è ancora l’ideologia ufficiale dello stato-partito cinese). Al pari di altri autori (3) che, come lui, conoscono bene la realtà politica e sociale cinese dall’interno, Parenti mette in luce alcune delle conseguenze più significative di tale retaggio confuciano, sia nei confronti dell’etica pubblica che dello stesso assetto istituzionale del Paese. Per quanto riguarda il primo aspetto, sostiene, va ricordata la grande importanza che il confucianesimo attribuisce ai legami familiari e all’armonia sociale, assieme alla centralità degli interessi collettivi rispetto agli interessi individuali e di gruppo, tutti fattori che hanno contribuito alla facile accoglienza e al rafforzamento dei principi comunitari del marxismo. Quanto all’apparato istituzionale, è del tutto sbagliato vedere nello stato e nel partito cinesi una sorta di replica del modello sovietico. In primo luogo, perché la mentalità cinese è fortemente pragmatica, per cui rifugge dall’adesione a modelli astratti (“se c’è un  modello cinese, scrive Parenti, consiste nella volontà di sperimentare differenti modelli”). Secondariamente, perché, anche in questo caso, fa valere le sue ragioni un’antichissima tradizione che considera la netta separazione di ruoli fra governati e governanti come una virtù e non come un vizio, ma soprattutto perché, a fronte di tale separazione, la totale e sollecita risposta dei primi nei confronti dei bisogni e delle esigenze dei secondi è considerata un imprescindibile obbligo morale, per cui chi sgarra nei confronti di tale obbligo è passibile di dure sanzioni (solo nell’anno scorso – cioè nel 2020 – , ricorda Parenti, sono stati sanzionati 7000 dirigenti statali e politici per avere mancato al proprio dovere). 

Quanto appena asserito ci porta a sfatare un quarto luogo comune, da aggiungere ai tre contestati in precedenza, vale a dire quello secondo cui il regime cinese sarebbe totalitario e il suo sistema politico non comporterebbe alcun tipo di partecipazione democratica al processo decisionale. In primo luogo, va ricordato che, a partire dagli anni Ottanta, centinaia di milioni di cittadini cinesi partecipano alle elezioni di villaggio, basate sul suffragio universale e alle quali possono liberamente partecipare candidati indipendenti. Ai livelli superiori, dalle amministrazioni cittadine e provinciali a quelle centrali, vigono invece tre tipi di democrazia che Parenti definisce, rispettivamente, democrazia a posteriori, meritocrazia politica verticale e democrazia consultiva. 

La democrazia liberale di tipo rappresentativo è una democrazia procedurale che seleziona “a monte” – attraverso il voto – i rappresentati del popolo ma che, per varie ragioni (sulle quali Parenti non si sofferma, mentre vengono approfondite in un lavoro di Daniel Bell (4), un altro intellettuale che vive da tempo in Cina) non assicura – come testimonia la crescente sfiducia dei cittadini occidentali nei confronti dei rispettivi regimi politici – la democraticità delle politiche a “valle” del processo elettorale. Democrazia a posteriori significa che i rappresentanti del popolo in Cina vengono selezionati con altri metodi, vale a dire attraverso una rigorosa valutazione delle loro esperienze e prestazioni pregresse, prestazioni che vengono misurate in termini di soddisfacimento dei bisogni delle masse, di riduzione dei tassi di povertà e inquinamento ambientale, ecc.  La valutazione non arriva solo dai gradi superiori della gerarchia, ma anche dal basso, attraverso canali spontanei e informali che vanno dalle manifestazioni di protesta al tamtam delle denunce e delle rivendicazioni attraverso le piattaforme di microblogging. Ironicamente, questi fenomeni vengono presentati dai media occidentali come sintomi dell’esistenza di una consistente massa di dissidenti e cittadini insoddisfatti, laddove, spiega Parenti, il regime li considera strumenti preziosi per misurare il tasso di soddisfazione o insoddisfazione popolare e procedere alle eventuali, opportune rettifiche di indirizzo politico. 

La piramide gerarchica che viene costruita per mettere in atto questa democrazia a posteriori, si basa sul principio di “meritocrazia politica verticale” (5), cioè su un sistema di durissime selezioni per scegliere funzionari statali, dirigenti politici e quadri di partito (a partire dalla decisione se accogliere o meno le domande di iscrizione che pervengono alle cellule di base). Una volta ammessi alla carriera politica o amministrativa (spesso strettamente intrecciate se non coincidenti) si sale solo se si fa bene (applicando i criteri e i metodi di valutazione illustrati poco sopra). Gli organi di partito sono il Congresso Nazionale (ogni cinque anni) la Commissione Centrale, il Politburo e il Comitato Permanente del Politburo, composti, rispettivamente di 370, 25 e 7 membri selezionati sulla base dell’anzianità (6). Il vertice statale coincide con il Consiglio di Stato (cui partecipano i ministeri chiave) mentre l’organo legislativo è il Congresso Nazionale del Popolo (anche questo in carica per cinque anni) che conta circa 3000 delegati e del quale fanno parte, a ulteriore smentita della natura monolitica e totalitaria del regime, 800 delegati degli altri otto partiti ammessi dalla costituzione e 500 delegati indipendenti, oltre a rappresentanti delle minoranze etniche.  

Infine esiste un importante organo di democrazia consultiva, la Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (CCPPC) in cui siedono rappresentanti di varie componenti della società civile (imprenditori, giornalisti, ricercatori, scienziati, ecc.) che hanno il compito di elaborare analisi e fare proposte per le autorità dello stato-partito: “Da qui discendono, scrive Parenti, i piani di sperimentazione di nuove politiche, esperimenti pilota, correzioni delle politiche vigenti, nonché lo sviluppo di strategie di lungo termine e, in generale, i processi di pianificazione”. Se a questa complessa e articolata struttura aggiungiamo gli ampi margini di autonomia di cui godono le amministrazioni locali, è evidente che non ci troviamo di fronte a un rigido e immodificabile apparato burocratico (7), caratteristico dei regimi totalitari, bensì a un sistema articolato e flessibile in cui le interazioni scorrono sia dall’alto verso il basso che dal basso verso l’alto (e anche in senso trasversale, in quanto si tende a favorire lo scambio e la diffusione delle migliori pratiche). 


L'Assemblea Nazionale del Popolo 



Un’altra idea di globalizzazione 

Nel tratteggiare le differenze fra globalizzazione neoliberale e globalizzazione a trazione cinese, Parenti richiama sinteticamente l’ampio patrimonio di contributi marxisti all’analisi del fenomeno, a partire dagli effetti generati dalla prima a partire dalla controrivoluzione neoliberale e  monetarista degli anni Ottanta (rapido e drammatico aumento delle disuguaglianze, processi di destabilizzazione economica, politica e sociale). In particolare, sulla scia di autori come Samir Amin (8), mette in luce come, esauritasi la fase della colonizzazione diretta, Stati Uniti ed Europa, abbiano messo in atto nuove forme di oppressione e sfruttamento attraverso la loro supremazia tecnologica, militare e finanziaria. L’intera politica degli “aiuti” occidentali è apparsa finalizzata a mantenere i Paesi del Terzo mondo in una condizione di dipendenza (9) obbligandoli a seguire precise politiche (liberalizzazione dei mercati, privatizzazione dei servizi pubblici e strategici, ecc.) in cambio dei prestiti ricevuti (10).

A conferma del fatto che la globalizzazione neoliberale non è stata un fenomeno “oggettivo” frutto di presunte “leggi” economiche, bensì un lucido progetto egemonico occidentale trainato dagli Stati Uniti, Parenti cita il fatto che, partire dai primi anni del 2000,  cioè ancor prima che la lunga crisi iniziata nel 2008 e proseguita con la pandemia innescasse processi di controtendenza, le élite politiche occidentali avevano già cominciato a teorizzare la necessità di invertire il processo di globalizzazione, nella misura in cui si erano rese conto del fatto che alcuni Paesi emergenti (i cosiddetti BRICS) rischiavano di trarne eccessivo vantaggio e di diventare pericolosi competitor. Così il NIC (National Intelligence Council), in un rapporto del 2004, sosteneva appunto la necessità di un rallentamento del processo per penalizzare questi scomodi commensali che si erano uniti al banchetto del sistema economico globale.

Quando Xi Jinping, in un famoso discorso al Forum di Davos di qualche anno fa, sostenne viceversa le ragioni di un rilancio del processo d’integrazione dell’economia mondiale, furono in molti a vedervi una conferma dell’esistenza di un progetto egemonico “simmetrico” – altrettanto imperialista e neo coloniale – rispetto a quello occidentale. In particolare, si è insistito sul fatto che gli aiuti cinesi funzionano come una “polpetta avvelenata” che ha lo scopo di intrappolare i Paesi che li accettano nella “trappola del debito” (cioè di replicare una strategia che le potenze occidentali applicano sistematicamente da decenni!) e di condizionarne in questo modo le scelte politiche nazionali e internazionali. 

A questa ed altre accuse replica in una “Appendice” al libro (intitolata Come la Cina sta costruendo un modello non imperialista dello sviluppo internazionale) Michael Dunford, visiting professor presso l’Accademia delle Scienze di Pechino, il quale scrive che, se gli aiuti cinesi sono per certi versi simili a quelli occidentali, gli obiettivi, i principi e le pratiche differiscono molto. Gli aiuti cinesi si basano infatti sui cinque principi della convivenza pacifica (non interferenza, non imposizione, non uso della forza, cooperazione vantaggiosa per tutti, uguaglianza fra i Paesi), rispettando “il desiderio dei Paesi che sono stati vittime dell’imperialismo e del dominio coloniale e semicoloniale di vedere rispettata la loro sovranità e integrità territoriale, di essere trattati da pari a pari e di non subire interferenze nei loro affari interni”. Infine non è vero che impongano condizioni capestro ai Paesi debitori: la Cina fornisce trasferimenti, prestiti senza interessi, “capitale paziente” (a lungo termine)  e assistenza agevolata attraverso una serie di istituzioni finanziarie ad hoc.  Parenti ribadisce questa tesi scrivendo che la Cina si è agganciata alla globalizzazione neoliberale con modalità sui generis, preservando la propria indipendenza e autonomia politica e promuovendo nuove forme di internazionalizzazione, una modalità alternativa di proiezione internazionale che si fonda appunto su nuove istituzioni internazionali e meccanismi di cooperazione in varie aree del mondo, né comporta una massiccia proiezione militare e l’attivazione un sistema creditizio soffocante. È proprio questa modalità diversa, ed autonoma anche sul piano amministrativo oltre che politico, rispetto alle istituzioni della globalizzazione neoliberale che provoca le dure reazioni di Stati Uniti ed Europa, reazioni che si sono intensificate da quando la Cina ha lanciato il progetto della nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), del quale andiamo ora a occuparci. 


Xi Jinping a Davos 



Gli equivoci sulla BRI 

La BRI è il più chiaro esempio dello stile cinese di proiezione internazionale che abbiamo appena descritto. La definizione di Nuova Via della Seta, con il suo corteggio di riferimenti storici agli scambi fra gli antichi imperi romano e cinese e ai successivi sviluppi, come il leggendario viaggio di Marco Polo, sono certamente suggestivi (al loro immaginario si sono recentemente inspirati decine di libri e anche qualche film, fra cui alcuni colossal prodotti dagli stessi cinesi) ma possono risultare depistanti. La BRI è un’iniziativa (Parenti spiega che si è preferito questo termine a strategia per sottolinearne lo spirito di apertura, laddove parole come progetto e strategia evocano piani e obiettivi ben definiti) di dimensioni colossali (sono previsti investimenti pari a un trilione di dollari) ed estremamente articolata e complessa. In pratica si tratta di avvolgere l’intera Eurasia, dalla Cina al Mediterraneo, oltre al continente africano, con una fitta rete di linee ferroviarie, rotte navali, cavi in fibra ottica, da supportare con nuove installazioni aeroportuali, nodi stradali,  stazioni ferroviarie, ecc.

Questa priorità accordata agli investimenti infrastrutturali è un'altra delle caratteristiche che distinguono la globalizzazione in stile cinese da quella occidentale, prevalentemente di natura finanziaria. Si tratta di una scelta non causale perché, come scrive Parenti, la Cina tende così a esportare un modello di sviluppo economico fondato sulla interconnettività che ha già dimostrato la sua efficienza sul piano nazionale. Alle prese con gli squilibri fra macroregioni generati dai tumultuosi ritmi di crescita innescati dalle zone speciali (situate soprattutto nelle aree costiere) che si erano lasciati indietro le aree interne del Paese, oltre che con la povertà di alcune province. penalizzate da caratteristiche geografiche che tendevano a marginalizzarle, i governi degli ultimi decenni hanno messo in atto strategie di investimenti infrastrutturali che hanno consentito a chi era rimasto indietro di recuperare il proprio ritardo. Quindi la Cina, ancor prima che fosse lanciata la BRI, ha proposto lo stesso modello in Africa, dove ha promosso la costruzione di nuove tratte ferroviarie  che hanno favorito la nascita di mercati regionali che prima non esistevano (le potenze occidentali si erano ben guardate di fare altrettanto, perché il loro obiettivo non era favorire lo sviluppo dei Paesi africani bensì mantenerli in una situazione di sottosviluppo che permetteva di continuare a sfruttarli). 

Come chiarito nel precedente paragrafo, questo tipo di interventi è stato bene accolto dai Paesi interessati 1) perché inspirati da un principio di partnership inclusiva e non coercitiva (non sono stati imposti vincoli politici di sorta alla sovranità e all’autonomia dei Paesi destinatari); 2) perché hanno generato un aumento delle interconnessioni fra regioni diverse del continente, collegando fra loro spazi che erano rimasti disconnessi e marginalizzati, favorendone in questo modo lo sviluppo. Ciò detto è chiaro che tutto questo non è frutto di puro spirito di solidarietà: la Cina in questo modo si assicura un duplice vantaggio: da un lato, favorire lo sviluppo dei Paesi post coloniali vuol dire assicurarsi nuovi mercati di sbocco per i propri prodotti, dall’altro in questo modo guadagna punti rispetto all’Occidente sul piano del soft power. Tuttavia, argomenta Parenti, concentrarsi su quest’ultimo aspetto, assimilando la BRI a una sorta di Piano Marshall cinese, concepito principalmente, se non esclusivamente, con l’obiettivo di contrapporsi ai competitor geopolitici, è profondamente sbagliato perché proietta sulla Cina la logica egemonica tipica degli Stati Uniti e dei suoi partner occidentali. Viceversa la Cina, come già sosteneva Giovanni Arrighi qualche anno fa (11) non aspira a sostituire gli stati Uniti nel ruolo di nuovo egemone globale, ma mira piuttosto a favorire la nascita di un nuovo ordine multipolare più equo ed equilibrato di quello attuale. 





Naturalmente nemmeno quest’ultimo obiettivo è accettabile per una superpotenza come gli Stati Uniti che, dopo il crollo dell’Urss, si era illusa di poter assumere il controllo totale e incontrastato del mondo. Ed è per questo che, a mano a mano che questa illusione si è dimostrata impraticabile (non solo per la crescita della Cina ma anche per l’emergere di nuove potenze regionali come la Russia, l’Iran e la Turchia e per lo scoppio di una serie di rivoluzioni in America Latina), la politica americana si è fatta sempre più aggressiva, scatenando una serie di guerre “umanitarie” locali (giustificate con l’obiettivo di “esportare” la democrazia e i diritti umani nei Paesi che non si allineano ai diktat di Washington). Così, dopo avere assistito all’inasprimento della relazioni Usa-Cina sotto Trump, vediamo oggi che il neo presidente Biden minaccia di generare livelli di tensione ancora più elevati (come sottolinea Parenti, siamo passati dallo slogan America First di Trump a quello, assai più preoccupante, America is Back, Ready to Lead the World, di Biden). Anche nella nuova guerra fredda contro la Cina la propaganda americana fa leva soprattutto sull’argomento delle presunte violazioni dei diritti umani, parlando addirittura di genocidio ai danni della popolazioni uigure dello Xinjiang. Ironicamente, queste accuse – oltre che prive di qualsiasi prova documentale - ignorano il fatto che, in quella regione, la Cina ha combattuto e vinto la lotta contro quello stesso terrorismo di matrice islamica che abbiamo sperimentato in Occidente, ma per gli Stati Uniti quegli stessi terroristi che il governo americano ha imprigionato in condizioni disumane a Guantánamo, in Cina si trasformano magicamente in combattenti per la libertà (per inciso gli Usa finanziano l’East Turkestan Islamic Movement, una formazione affiliata all’Isis che opera nello Xinjiang).  

Non meno pretestuosa (e smentita dall’OMS oltre che da numerosi scienziati occidentali) l’accusa secondo cui l’epidemia del Covid 19 sarebbe stata provocata da un virus sfuggito da un centro di ricerca di Wuhan. Posto che le autorità provinciali cinesi hanno certamente commesso – come riconosciuto dallo stesso governo centrale – un errore di sottovalutazione iniziale del problema, il vero motivo per cui si è messa in piedi questa  campagna di disinformazione, è la necessità di distogliere l’attenzione dalla disastrosa gestione occidentale (in particolare negli Stati Uniti) della pandemia, costata milioni di morti, laddove la Cina ha compiuto il miracolo di controllare in tempi rapidissimi una emergenza che poteva rivelarsi disastrosa in un Paese con un miliardo e mezzo di abitanti. Ma soprattutto occorre distogliere l’attenzione dagli indizi che proverebbero che il virus circolava in Spagna, Italia, Francia e Usa mesi prima della sua identificazione a Wuhan, mentre non mancano sospetti che a innescarlo possa essere stato un errore commesso in un centro di ricerca militare situato in Virginia (12). Oggi è difficile prevedere se questa politica provocatoria e aggressiva resterà sul terreno della guerra fredda o rischierà di provocare una vera e propria guerra, con conseguenze devastanti per l’intera popolazione mondiale, quel che è certo è che, come osserva Parenti, gli Stati Uniti stanno adottando la vecchia strategia che avevano usato contro l’Unione Sovietica contro un avversario nuovo e in un contesto economico, politico e sociale completamente mutato, il che finirà inevitabilmente per rivoltarglisi contro. Come già detto in apertura di articolo, ci troviamo di fronte a un mix di stupidità, sopravalutazione delle proprie forze e sottovalutazione di quelle dell’avversario. 

Note 

(1) Le posizioni più critiche parlano apertamente di restaurazione del capitalismo (Gaulard, 2014; Minqi Li, 2008) se non addirittura di neoliberismo dalle caratteristiche cinesi (come David Harvey, il quale però ha recentemente rettificato questa posizione); altri (come Samir Amin e Domenico Losurdo), usano il termine capitalismo di stato, ma aggiungono che il persistere del conflitto di classe all’interno del Paese fa sì che il suo futuro possa evolvere in diverse direzioni; altri ancora preferiscono ricorrere alla definizione di economia socialista di mercato o socialismo di mercato (Herrera – Long, 2019; Gabriele, 2020); un’autrice come Pun Ngai (2012, 2016) s’impegna soprattutto a documentare l’asprezza della condizione operaia cinese e delle conseguenti lotte di fabbrica; infine Arrighi (2008), autore di quello che è probabilmente il più approfondito studio teorico sull’enigma cinese, lo inquadra in una prospettiva di lungo periodo che prospetta una radicale ridefinizione degli equilibri economici e  geopolitici planetari nel XXI secolo.

(2) Sul legame fra le politiche del PCC e la teoria marxista cfr. Zhang Boyng, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona?, Marx Ventuno Edizioni, 2019. Vedi anche Andrea Catone (a cura di), La via cinese, Marx Ventuno edizioni 2015 e AAVV, Marx in Cina, Marx Ventuno Edizioni 2015. 

(3) Vedi, in particolare, D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019. 

(4) Bell (vedi nota precedente) sostiene che il sistema cinese è la più clamorosa smentita della tesi secondo cui la democrazia liberale di tipo occidentale è il sistema verso cui ogni Paese tende ad a evolvere “naturalmente”, a mano a mano che sviluppa un’economia di mercato e raggiunge diffusi livelli di benessere. Tutte le ricerche condotte sui cittadini non solo della Cina, ma anche di altre società asiatiche orientali, rivelano che queste persone non hanno affatto una idea “procedurale” di democrazia, alla quale, contrariamente a noi, non attribuiscono alcun valore, bensì un’idea sostanziale; si preoccupano cioè assai più delle conseguenze positive che un determinato sistema politico è in grado di produrre. Per il cinese comune, la democrazia non ha nulla a che fare con i “principi” e i “valori” della democrazia liberale, si riferisce piuttosto al grado di tutela e di sicurezza che lo stato e il partito sono in grado di garantire, al fatto se fanno o meno gli interessi della maggioranza del popolo, il che fa sì che il livello di legittimità del sistema politico cinese, grazie ai clamorosi miglioramenti in termini di lotta alla povertà e di accesso ai servizi sociali (educazione, sanità ecc.) descritti in precedenza, sia molto più alto di quello che i cittadini di molti Paesi occidentali riconoscono ai rispettivi governi. Del resto, aggiunge Bell, la contropropaganda del PCC nei confronti delle incessanti campagne occidentali sulle violazioni cinesi dei diritti civili e individuali, ha buon gioco dal momento che la crisi della governance nelle democrazie occidentali è sempre più grave ed evidente. Lo stesso ideale del suffragio universale, che aveva raggiunto connotazioni quasi religiose, comincia a subire un processo di desacralizzazione: a finire sotto tiro non è più solo quella “tirannide della maggioranza” che inquietava Alexis de Tocqueville, bensì il fatto che la maggioranza dei cittadini – come dimostrano le percentuali sempre più basse di partecipazione alle elezioni – percepiscono di non avere più alcun potere sul governo e che l’utilità del voto individuale è pari quasi a zero. Ma soprattutto il peso soverchiante delle élite e delle lobby economiche e finanziarie è ormai sotto gli occhi di tutti: infime minoranze sono in grado di esercitare un’enorme influenza sul processo politico, imponendo scelte che vanno a esclusivo beneficio dei propri interessi.


(5) Sempre Bell descrive così il concetto di meritocrazia politica verticale: come nell’antica Cina imperiale il sistema politico ha lo scopo di selezionare una élite attraverso esami e valutazioni delle prestazioni ai livelli di governo locali. La proverbiale durezza e competitività dei percorsi universitari è il primo ostacolo che devono affrontare sia i candidati alla carriera politica che a quella statale (due percorsi che si intrecciano fino a coincidere). Il passo successivo consiste nei non meno impegnativi esami per il pubblico impiego, dopodiché si può accedere ai livelli più bassi di governo, e ogni successiva promozione (senza escludere i rischi di retrocessione) dipende esclusivamente dalla qualità delle prestazioni realizzate (Bell annota come i criteri di valutazione abbiano subito variazioni nel tempo, in base agli obiettivi politici che il centro considera prioritari: nella prima fase delle riforme si è guardato soprattutto ai ritmi di crescita, successivamente sono subentrati altri criteri, come i livelli di consenso della cittadinanza, il miglioramento delle condizioni ambientali, ecc.). Infine, negli ultimi tempi, la formazione politica dei quadri del PCC prevede che trascorrano lunghi periodi in comunità rurali povere, una sorta di reminiscenza addolcita delle pratiche imposte nel periodo della Rivoluzione Culturale.


(6) Ancora Bell spiega come il fatto che ai vertici approdino puntualmente i quadri più anziani, non venga considerato negativo in quanto rispecchia il punto di vista confuciano, in base al quale,  qualità come l’autocoscienza, il senso del limite e l’empatia aumentano con l’esperienza di vita, per cui si presume che i leader politici più anziani abbiano imparato a vivere per la politica e non di politica. Tuttavia ricorda che, al tempo stesso, si tende a mandare in pensione chi supera i 70 anni, tenendo conto dell’inevitabile tendenza al calo fisico e mentale. 


(7) I principi di elasticità e flessibilità che inspirano le politiche cinesi in campo economico sarebbero, secondo alcuni autori (cfr. Herrera R., Long, Z., La Chine est-elle capitaliste?, Editions Critiques, Paris 2019) il motivo di fondo del successo di un modello che ha saputo evitare le rigidità del socialismo sovietico. 


(8) Cfr. Amin, S. L’implosion du capitalisme contemporain, Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2014; vedi anche Classe et nation,  Nouvelles Editions Numeriqués Africaines, Dakar 2015. 


(9) Per il dibattito teorico in campo marxista sul concetto di dipendenza, cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020. 


(10) Come esempio significativo di queste pratiche occidentali Parenti cita il controllo neo coloniale della Francia sui Paesi dell’Africa occidentale, un controllo sia di tipo militare che finanziario (quest’ultimo sotto forma di emissione di valuta).  


(11) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008. 


(12) Vedi la petizione all’OMS (lanciata dal sito Cumpanis e alla quale anche chi scrive ha aderito) perché si indaghi sul sito di Fort Detrick in Virginia:  https://www.facebook.com/cumpanisrivista/photos/a.102932748089522/316715023377959   




sabato 29 maggio 2021

SULLA FILOSOFIA IMPERFETTA DI COSTANZO PREVE

Ovvero: come valorizzare le intuizioni di un marxista eretico, riconoscendone i limiti ma anche andando al di là delle scomuniche di cui fu vittima 


Dopo il post su Bordiga, proseguo la riflessione su alcuni autori che, pur avendo portato un contributo significativo alla teoria marxista, sono stati messi all’indice e rimossi dalla sinistra a causa delle loro tesi “eretiche” e politicamente “scorrette”. Questa seconda puntata è dedicata al pensiero di Costanzo Preve.   

In uno dei miei ultimi lavori (1) ho dedicato un paragrafo al “caso Preve”, nel quale osservavo come il contributo di questo autore controverso e geniale alla teoria marxista sia stato oggetto di una rimozione radicale, se non di un vero e proprio linciaggio ideologico, sia per le sue critiche feroci a una sinistra in via di autodissoluzione (formulate in tempi in cui ciò era ancora considerato intollerabile), sia perché la scomunica di cui fu vittima a causa di tale “colpa”, contribuì ad esacerbarne il carattere ombroso, innescando certi suoi atteggiamenti provocatori che gli costarono un isolamento pressoché totale. In questo scritto proverò a spiegare i motivi per cui ritengo importante – tanto sul piano teorico quanto sul piano politico – rivisitarne certe intuizioni che meritano di essere approfondite cercando, al tempo stesso,  di evidenziarne limiti e contraddizioni. A tale scopo prenderò in esame due testi distanziati da un quarto di secolo: La filosofia imperfetta (1984) e Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale (2009) (2). La parte dedicata a quest’ultimo testo anticipa alcuni dei temi che affronto nella Prefazione che ho scritto per una nuova edizione, prevista per il prossimo settembre. 


Costanzo Preve



1) La filosofia imperfetta 

Il libro del 1984 si articola in cinque parti dedicate, rispettivamente, 1) ai tre “discorsi” che, secondo Preve, sostanziano il corpus teorico marxiano; 2) ad alcune delle principali correnti marxiste del Novecento; 3) al pensiero di Heidegger, indicato come la vetta più elevata del pensiero borghese novecentesco; 4) all’utopia concreta di Ernst Bloch; 5) all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs. Tratterò esclusivamente delle prime due e della quinta, ignorando le sezioni dedicate a Heidegger e Bloch, sia per motivi di spazio, sia perché meno rilevanti rispetto alle questioni che intendo qui sollevare. I tre discorsi marxiani oggetto della prima parte sono: il discorso grande-narrativo, il discorso deterministico-naturalistico e il discorso ontologico-sociale (nella descrizione di quest’ultimo Preve fa ampiamente ricorso al capolavoro dell’ultimo Lukacs (3), che pur essendo trattato nella quinta e ultima parte, informa di sé tutte le parti precedenti). 

Prima di affrontare la critica dei discorsi grande-narrativo e deterministico-naturalistico, segnalo che le stesse questioni sono affrontate – in modo meno sistematico e con terminologie differenti - in un dialogo fra il sottoscritto e Onofrio Romano, pubblicato da DeriveApprodi con il titolo Tagliare i rami secchi (4). Personalmente, ma credo di poter parlare anche a nome di Onofrio Romano, devo dire che quando registrammo il nostro colloquio non conoscevo ancora il testo di Preve del 1984, per cui, leggendolo,  sono rimasto particolarmente colpito dalla convergenza dei punti di vista, in assenza di qualsiasi confronto diretto fra gli autori. 

La definizione più sintetica – e graffiante - di discorso grande narrativo che troviamo nel testo di Preve è la seguente: metafisica immanentistica di un Soggetto che marcia cantando verso l’utopia sintetica di una società integralmente trasparente. Per chiarire meglio il senso di alcuni dei termini evocati (soggetto con la maiuscola, utopia sintetica, società trasparente) aggiungo quest’altro passaggio: La categoria di soggetto (così come si presenta nella cornice di questa narrazione, nota mia) è titolare di un’essenza che pretende di contenere in sé, in modo immanente, una teleologia necessaria, la quale funge da supporto teorico di una concezione del comunismo come utopia sintetica, in cui pubblico e privato, individuale e collettivo, si fonderanno insieme. Per semplificare: ciò che Preve pone alla nostra attenzione critica è il fatto che Marx fa propria, in alcune parti della sua opera, la tesi secondo cui il proletariato sarebbe “per sua stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico, nonché di protagonista di un rivolgimento sociale e politico in grado di generare un mondo in cui le contraddizioni fra pubblico e privato, individuale e collettivo risulterebbero superate, pacificate. Una pretesa che – sia detto per inciso – lo stesso Marx (per tacere di Lenin) mette in questione, laddove pone la distinzione fra classe in sé e classe per sé, aggiungendo che la conversione della prima nella seconda non è inscritta in alcun dispositivo destinale (la cui sola esistenza giustificherebbe la Esse maiuscola attribuita a tale soggetto metafisico). Mettiamo per ora fra parentesi la questione del comunismo come “società trasparente”, che verrà ripresa più avanti, e passiamo al discorso deterministico naturalistico, che appare strettamente intrecciato con quello appena descritto, con il quale condivide la tendenza a una sorta di antropomorfizzazione della storia, nella misura in cui affianca alla narrazione di un soggetto collettivo capace di fondare il senso e la direzione del processo storico, l’ipotesi che tale processo sarebbe animato da una necessità immanente. 

A fungere da modello ideale di questa seconda narrazione, argomenta Preve, è il concetto di necessità elaborato dalla scienza ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità di anticiparne e prevederne gli esiti processuali. Ebbene, secondo Preve (e credo sia difficile contestare questa sua convinzione), anche in Marx esistono tracce di una mentalità scientifico-idealistica in ragione della quale la moderna produzione capitalistica assume il volto di una entità cosalmente impersonale. In ciò si avverte chiaramente l’influenza del concetto di storia naturale, influenza che fa sì che le legalità di tipo naturalistico vengano estese sotto forma di specifici vincoli necessitanti a quella sezione della natura chiamata società.  Dire che il comunismo è lo sbocco inevitabile, “scientificamente” prevedibile, della natura dinamica della moderna produzione capitalistica, argomenta Preve, non è diverso dal dire che il comunismo è il passaggio dalla preistoria alla storia attuato dal proletariato rivoluzionario. Se la teoria marxiana si potesse ridurre a queste due narrazioni, che contengono quattro miti (del soggetto, dell’origine, della fine e della trasparenza) avrebbero ragione i suoi più sofisticati detrattori borghesi, come Max Weber e Martin Heidegger (ai quali Preve dedica una parte che non ho qui modo di discutere). Senonché Preve sostiene, non solo che la teoria marxiana non può essere contenuta in questa cornice mitico-messianica, ma anche che gli elementi in questione sono secondari rispetto al filone fondamentale del pensiero di Marx che, come chiarito dall’ultimo Lukacs (5) è di tipo ontologico-sociale, per cui esclude a priori qualsiasi teleologia automatica della storia. 

Approfondiremo quest’ultima asserzione più avanti, discutendo della filosofia di Lukacs e della lettura offertane da Preve. Prima affronterò la seconda parte del libro, nella quale l’autore prende avvio dal seguente interrogativo: visto che i marxismi dopo Marx  si sono quasi sempre inspirati alle due narrazioni mitiche sopra descritte, piuttosto che all’ontologia sociale, è possibile superarli a partire da una interpretazione autentica  dell’opera del maestro? La risposta non può che essere negativa, perché cento anni di interpretazioni sbarrano la strada del viaggio verso il contatto originale e autentico con Marx. Ma soprattutto occorre tenete presente che i “fraintendimenti” del testo originale non sono frutto di “errori concettuali”, bensì “immagini del mondo” (concetto che Preve ruba ad Heidegger) che rispecchiano precisi vincoli storici: L’incorporazione del marxismo autentico in una formazione ideologica è una forma di esistenza necessaria del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione economico  sociale). Questo punto di vista è omologo a quello del Lukacs critico delle ideologie di cui mi sono occupato su questa pagina (6) e che Preve rilancia a sua volta così: l’ideologia non è riducibile al concetto di “falsa coscienza”, ma è lo strumento sociale con cui gli uomini combattono in conformità ai propri interessi i conflitti che nascono dal contraddittorio sviluppo economico. Lo spazio ideologico è un sistema di regni combattenti né è prevedibile che scompaia in una totalità pacificata. Sull’ultima affermazione dovremo tornare perché, come vedremo, è in contraddizione con altre affermazioni dello stesso Preve, per ora possiamo accontentarci del concetto secondo cui le varianti (i “fraintendimenti”) del marxismo vanno lette come espressione di differenti insiemi di interessi conflittuali, storicamente determinati. Nel libro Preve analizza, fra le altre, due di tali varianti nel modo che descriverò qui di seguito.

La prima variante è il marxismo della Seconda Internazionale che ha avuto il suo massimo esponente in Kautsky. Costui, scrive Preve, non era un “rinnegato” (secondo l’accusa di Lenin). Al contrario, la sua era una versione “ortodossa” dell’ideologia marxista, non nel senso (del tutto impossibile, come sopra argomentato) della perfetta coincidenza con il pensiero di Marx, bensì nel senso di un punto di vista che rispecchiava la visione delle magnifiche sorti e progressive del proletariato industriale tedesco fra fine Ottocento e primo Novecento, una “immagine del mondo” che rispecchiava quella specifica composizione di classe e l’ascesa politica della socialdemocrazia che la rappresentava. La visione kautskyana del capitalismo, scrive Preve, era incorporata nel discorso deterministico naturalistico (evoluzione automatica di un organismo complesso destinato al “crollo”), mentre quella del proletariato era incorporata nel discorso grande narrativo (crescita cumulativa della coscienza politica di un soggetto associata alla crescita della grande industria moderna). Per questo gli era alieno il concetto leniniano di “anello debole” – che, come anche Gramsci riconobbe, era la vera “eresia” (7) – in quanto aveva sempre ragionato in base alla teoria di una transizione al socialismo che sarebbe necessariamente dovuta avvenire nei punti alti della produzione capitalistica.


Karl Kautsky 



La seconda variante è quella dell’operaismo italiano. Pur rendendo omaggio alle analisi dei Quaderni Rossi (e di Rainero Panzieri in particolare) sull’evoluzione dell’organizzazione capitalistica del lavoro e della composizione di classe nelle grandi imprese degli anni Sessanta, Preve nota come da quell’analisi si sia fatto derivare un concetto di composizione di classe che veniva eletto a unica forma di manifestazione concretamente empirica della classe operaia stessa. In altre parole, nella narrazione operaista, la composizione astrattista dell’operaio massa diveniva sinonimo della classe in quanto tale (e addirittura della classe in sé, nella misura in cui veniva tolta la stessa distinzione marxiana fra classe in  sé e classe per sé (8)), con il risultato che questo racconto è entrato in crisi non appena è entrata in crisi la concreta composizione di classe su cui si basava. Preve scriveva nell’84, quindi non ha fatto in tempo a valutare le successive metamorfosi concettuali (dall’operaio sociale ai lavoratori della conoscenza) che il post operaismo ha escogitato per adattare una realtà radicalmente mutata al paradigma originario, ha però fatto in tempo a cogliere due tendenze teoriche specifiche della corrente “negriana” del post operaismo, in ragione delle quali, da un lato, si vaneggia sul “divenire comunista” del capitalismo, nella misura in cui il comunismo viene ridotto all’orizzonte del consumo di beni e servizi privi ormai del “valore” (lavoro) fruito da un unico soggetto collettivo (…) questi beni e servizi sono prodotti da macchine automatiche mentre il soggetto fruitore è affidato alla automaticità macchinica post moderna di flussi desideranti (9)); 2) dall’altro lato, la lotta di classe viene presentata come scontro fra potere e potenza, il primo identificato con il comando capitalistico, che cerca di reimporre l’infamia del lavoro produttivo (..) quando ormai non rimarrebbe che consumare gratis i prodotti senza valore della macchine, la seconda consistente nella forza vitale metafisicamente promanante dai nuovi soggetti sociali (giovani, donne, ecc.).

Facciamo un passo indietro al tema dei tre discorsi di Marx. Abbiamo visto come Preve liquidi i primi due – quello grande narrativo e quello deterministico naturalistico – identificando nel discorso ontologico-sociale l’asse portante del contributo che Marx ha dato alla liberazione umana dal giogo del modo di produzione capitalistico. È venuto il momento di definire cosa intende Preve con il termine discorso ontologico-sociale. Ecco la definizione: la proposizione ontologico-sociale è fondata sull’esistenza di una sola scienza, la storia, caratterizzata da processualità e specificità, e ancora: nel momento in cui Marx fa della produzione e riproduzione della vita umana il problema centrale, compare la doppia determinazione di una insopprimibile base naturale e di una ininterrotta trasformazione sociale di questa. Il materialismo storico non è ricerca di presunte leggi deterministiche, perché la conoscenza tipizzata del passato, cioè la ricostruzione dei nessi causali che ne hanno determinato lo sviluppo può avvenire solo post festum. Nessuna necessità immanente, nessuna teleologia perché teleologia e causalità sono compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire finalistico dell’uomo e, al tempo stesso, costituisce quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società. 

Così Preve nella prima parte, dove anticipa il suo corpo a corpo con l’ultimo Lukacs che avverrà nella quinta e ultima parte. È da qui che Preve trae l’idea del lavoro come                fondamento categoriale dell’ontologia sociale, che non è filosofia della storia ma assieme di possibilità ontologiche concrete e inscindibilmente collegate ai vari modi di produzione. Lukacs nega ogni forma di teleologia tanto nei processi naturali che in quelli sociali, la storia non ha il diavolo in corpo, ma è il prodotto delle decisioni alternative che gli esseri umani compiono per realizzare un fine determinato (e l’attività lavorativa è il modello di questa prassi fatta di decisioni alternative ed è, quindi, il modello di ogni agire umano). La teleologia sta solo in queste decisioni alternative, mentre la causalità nasce dal fatto che esse generano sequenze causali necessarie che a loro volta danno luogo a specifiche soglie di irreversibilità storica. Né il soggetto delle decisioni è in grado di controllare la “direzione” delle sequenze causali che mette in atto (per questo le “leggi” del processo sono ricostruibili solo post festum). Le leggi economiche infatti non sono altro che la sommatoria impersonalizzata delle alternative individuali (“non sanno ciò che fanno ma lo fanno”, ripete Lukacs ossessivamente sulle tracce di Marx). 


Gyorgy Lukacs



Prima di proseguire è il caso di “tradurre” questi due ultimi paragrafi. Semplificando drasticamente: per Lukacs (e per Preve che ne sposa le tesi) 1) il lavoro, in quanto attività umana volta a modificare la natura al fine di realizzare un prodotto che esiste già come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è il modello di ogni processo teleologico, o meglio è l’unica via attraverso cui il fattore teleologico penetra nel mondo reale, visto che né la storia naturale né quella umana incorporano una teleologia immanente; 2) il lavoro, inteso non solo come ricambio organico uomo-natura, ma anche e soprattutto in quanto somma di decisioni dirette a influenzare la coscienza di altri uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente”(10), gli atti lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che producono effetti necessari e irreversibili, nonché imprevedibili da coloro che le mettono in atto, ed è per questo che le ”leggi” del processo storico sono comprensibili solo post festum; 3) da 1) e 2) deriva che la realtà sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo causale naturalistico, bensì come un insieme di possibilità generate dal combinato disposto delle decisioni umane e dalle catene causali da esse generate; 4) queste possibilità non potranno mai essere realizzate senza l’intervento della posizione teleologica umano sociale; il che significa: 5) che la trasformazione rivoluzionaria del presente non  avviene in ragione di processi “automatici” ma solo grazie alla conversione della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole (il cui esito non è necessario/prevedibile ma appartiene a sua volta all’ordine della possibilità). Fin qui si è visto come in questo libro Preve segua quasi passo passo la lezione di Lukacs, ora vedremo come, quando si impegna nel tentativo di offrirne una attualizzazione politica, se ne discosti progressivamente, fino a “fraintenderne” (per il significato del termine vedi sopra) talvolta lo spirito e talaltra anche la lettera. 

In primo luogo, Preve dà per acquisito il fatto che Lukacs si collochi nel campo del “marxismo occidentale”, in opposizione – sia pure non sempre esplicita – con il “marxismo orientale”. Ricostruire i termini di tale opposizione richiederebbe qui troppo spazio, per cui mi limito a ricordare che Preve – diversamente da Domenico Losurdo, che ha fatto a sua volta ricorso a tale distinzione (11) – negativizza il marxismo orientale assimilandolo, di fatto, al Diamat staliniano, e concedendo solo qualche limitato credito al maoismo (laddove la Cina post maoista viene assimilata all’URSS in quanto Paese in cui si sarebbe restaurato il capitalismo), mentre pur criticando il marxismo occidentale (vedi sopra l’analisi del kautskismo e dell’operaismo) ne salva il superiore potenziale di sviluppo filosofico. In questo senso manifesta, oltre a una tendenza dogmatica che riproduce l’eurocentrismo di Marx ed Engels (12), anche una totale chiusura nei confronti delle inedite sfide teoriche poste dagli sviluppi del “socialismo reale”, liquidando con un’alzata di spalle, per esempio, la suggestione di un’autrice come Rita di Leo, la quale si poneva l’obiettivo di analizzare come funziona concretamente un modello di società caratterizzato dalla dominanza del fattore politico sul fattore economico. Posto che Lukacs, pur esplicitamente critico nei confronti dello stalinismo, non ha mai abbandonato la speranza nella riformabilità dei sistemi a socialismo reale (per cui avrebbe sicuramente accolto con estremo interesse l’esperimento cinese), Preve come giustifica questa sua attribuzione di Lukacs al campo del marxismo occidentale? Per rispondere mi concentrerò su due temi, che chiamano entrambi in causa la mancata critica dell’universalismo astratto quale imprescindibile presupposto del pensiero filosofico occidentale (universalismo che Lukacs assume contraddittoriamente, mentre Preve sposa integralmente). I temi in questione sono l’ideologia giuridica e la questione della estraniazione.

Parto dalla questione del diritto. Preve parte dalla constatazione che, per Lukacs, la riproduzione sociale è un complesso di complessi relativamente autonomi (linguaggio, economica, diritto, sessualità, guerra, arte ecc.) che mutano nel tempo e muta anche la collocazione di ognuno di essi nella gerarchia riproduttiva dell’insieme sociale. Da qui discende il fatto che nessuno di tali complessi può essere inquadrato in una gerarchia fissa che attribuisce all’economia il ruolo di struttura e a tutti gli altri quello di ideologie sovrastrutturali. Ciò vale, ovviamente, anche per il diritto. Preve sfrutta quindi questo passaggio per forzare una presunta valorizzazione lukacsiana del potenziale emancipativo contenuto nella formalità e nell’astrattezza del diritto borghese. Ora ciò è in contraddizione con la negazione di Lukacs di una concezione astratta della storia come progresso verso livelli sempre più elevati di civiltà (concezione che peraltro lo stesso Preve dovrebbe rifiutare, nella misura in cui essa si basa implicitamente sulla presupposizione di una tendenza al “meglio” immanente al processo storico). Inoltre lo stesso Preve riconosce che Marx tende a vedere nei discorsi di tipo etico una variante della concezione giuridica della società, concezione da lui respinta in quanto dal superamento dello sfruttamento non deriva una “giustizia socialista” bensì il superamento della forma giuridica in quanto consustanziale alla forma economica (per cui il diritto è per definizione diritto borghese e non “diritto umano”). Tuttavia Preve si distanzia qui da Marx e dal disprezzo dei diritti umani tipico delle legislazioni del socialismo reale. 

Eppure in nessun passaggio di Lukacs ho trovato qualcosa che possa giustificare questa presa di distanza, per cui mi pare che Preve vada a cercarla piuttosto in quella parte finale della Ontologia dove Lukacs affronta le questioni della estraniazione e della transizione al socialismo (una parte, come ho sottolineato nelle mie “Glosse” (13), in cui il discorso appare abbozzato e tutt’altro che risolto). L’estraniazione, argomenta Preve, è generata dal fatto che mentre lo sviluppo delle forze produttive presuppone lo sviluppo delle capacità umane, quest’ultimo non produce obbligatoriamente lo sviluppo della personalità umana. E qui Preve si avviluppa (ma va detto che anche Lukacs si barcamena faticosamente fra diverse piste) in una serie di contraddizioni. Cosa si intende per sviluppo della personalità umana? Posto che Preve afferma che l’universalizzazione è possibile solo sulla base del capitalismo; posto che l’universalizzazione viene concepita come effetto collaterale dell’astrattizzazione e che la possibilità del rapporto non estraniato fra individualità particolare e genere umano è ontologicamente consentita dallo stesso progetto di astrattizzazione causato dal rapporto capitalistico di produzione; posto che (a proposito di diritti umani) Il comunismo è al di là e non al di qua della soglia ontologica irreversibile prodotta dal diritto borghese formale e astratto; posto che il comunismo è visto anche come momento della lotta della personalità individuale per la conquista della genericità in sé. Posto tutto ciò, non siamo qui pericolosamente vicini a regredire all’universo mitico che Preve ci invita a rinnegare nella prima parte? 

È pur vero che Preve cerca di salvare capra e cavoli aggrappandosi al concetto di possibilità (il capitalismo rende possibile, non necessario il passaggio a un rapporto non estraniato fra particolarità e generalità,  lo sviluppo delle forze produttive rende possibile non necessario lo sviluppo della personalità umana, ecc.), ma questo non basta a dissipare la sensazione che si riaffacci la visione di un processo lineare e irresistibile verso il paradiso del comunismo realizzato come regno di una personalità umana universale e pacificata, cioè verso la fine della storia. Il tutto reso possibile solo dal flusso principale della storia (borghese e occidentale), messa al riparo delle deviazioni laterali del “barbarico” comunismo orientale. Insomma siamo in pieno clima anni Ottanta, all’inizio del processo di marcescenza di un comunismo occidentale che di lì a poco sarà pienamente reintegrato nel regime neoliberale. Per capire se e in quale misura la catastrofe ha contribuito a modificare l’atteggiamento di Preve faremo ora un salto di 25 anni, fino al testo del 2009.                                


2) Il nemico principale

Nei 25 anni che separano La filosofia imperfetta da  L’atteso ritorno del nemico principale è successo di tutto: la caduta dell’Unione Sovietica, lo scioglimento del Pci e la sua trasformazione in partito liberale, la degenerazione della sinistra radicale convertitasi nei nuovi movimenti, esclusivamente votati alla rivendicazione di diritti civili e individuali, il tragico arretramento dei rapporti di forza delle classi subalterne occidentali, travolte dai processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia e dal tradimento delle loro organizzazioni tradizionali; l’ascesa della Cina socialista, sempre più in grado di contendere agli Stati Uniti l’egemonia mondiale.  


Come ha cambiato tutto ciò l’immagine del mondo di Preve? Non ne ha fortunatamente provocato la conversione all’ideologia mainstream della sinistra liberale; al contrario, ha suscitato il suo odio nei confronti di questa sinistra fino a ripudiare il significato stesso di tale parola, al punto da indurlo ad assumere provocatoriamente certe suggestioni della Nuova Destra, nella misura in cui rilanciano concetti e parole d’ordine già patrimonio delle sinistre rivoluzionarie, come nel caso di questa citazione del filosofo francese Alain de Benoist: Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico. Perché citare De Benoist: una reazione dettata dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase di decomposizione; o semplicemente perché quelle affermazioni apparivano condivisibili a prescindere dal campo ideologico da cui provenivano? Sciogliere questo dubbio mi sembra secondario rispetto al fatto che gli inquisitori si sono concentrati sulla fonte della citazione, ignorandone il contenuto; si sono cioè precipitati a condannare il dito ignorando la luna che il dito indicava. Molti altri “intellettuali eretici” “- come Jean-Claude Michéa, Hosea Jaffe, Domenico Losurdo fra gli altri – sono stati messi all’indice, ma solo Preve è stato sottoposto a un  vero e proprio linciaggio, rimuovendo il suo contributo alla comprensione dell’epoca di passaggio che il mondo vive in questo inizio di secolo. Ma veniamo al modo in cui Preve sviluppa la suggestione di De Benoist.  


Nel definire il nemico principale sul piano economico, Preve sostituisce il termine modo di produzione capitalistico al termine capitalismo, in quanto il primo consente di calare la determinazione del concetto astratto di capitalismo nella pluralità delle società capitalistiche concrete (vedi in proposito l’analogo concetto espresso nel precedente libro), ma soprattutto preferisce usare il termine società di mercato, in quanto economia di mercato è definizione troppo generica, in quanto lo scambio mercantile convive tranquillamente con formazioni sociali precapitalistiche (ma anche con formazioni sociali postcapitalistiche, anche se, come vedremo più avanti Preve non condivide tale affermazione). Il modo di produzione capitalistico è una società di mercato nel senso che, diversamente da tutte le formazioni sociali che la hanno preceduta, fa dello scambio mercantile il fattore coattivo di tutti i rapporti sociali (14). Una centralità ossessiva che, con l’avvento della globalizzazione neoliberale, attinge livelli tali da caratterizzarla come nemico globale e complessivo del Genere Umano in quanto tale. 


Passiamo al nemico principale in politica, cioè quel liberalismo che, scrive Preve, rappresenta, con la società capitalistica di mercato, uno dei due volti inscindibili di un’unica forma oligarchica di dominio. Nel trattare il tema Preve compie due mosse. La prima, destinata ad aggravare la sua posizione di fronte al tribunale delle sinistre, consiste nel prendere le distanze da chi insiste nell’indicare quale nemico assoluto il Fascismo benché questo regime appaia irreversibilmente tramontato. L’antifascismo senza fascismi è il sintomo del fatto che il liberalismo, di destra centro e sinistra, nella misura in cui dispone esclusivamente della ricchezza privata quale unico criterio di riconoscimento sociale, necessita di una serie di ideologie di legittimazione etica integrativa, la principale delle quali è l’esaltazione degli immortali valori dell’antifascismo. La seconda mossa chiama invece in causa tre diverse critiche radicali dell’individualismo liberale: la prima appartiene a Michéa, il quale rilancia il detto di Marx secondo cui l’uguaglianza formale e astratta finisce inevitabilmente per accrescere le disuguaglianze reali; la seconda è quella di Castoriadis, il quale riconosce nel liberalismo le stigmate del disincanto come valore, del narcisismo come profilo antropologico e del nichilismo come nuova metafisica di fondazione; la terza rievoca un detto di Mo Ti  (antico filosofo cinese) che recita: in una società in cui ognuno considera di fatto valido il proprio criterio di giudizio e disapprova quello degli altri, la conseguenza è che i più forti si rifiuteranno di aiutare i più bisognosi, ed i più ricchi si rifiuteranno di dividere le loro ricchezze.


Nel definire il nemico principale sul piano sociale, la borghesia, il discorso di Preve si fa più originale, nella misura in cui si discosta dal concetto marxiano di borghesia come insieme dei proprietari privati dei mezzi di produzione. In primo luogo perché osserva come il processo di produzione capitalistico possa essere messo in moto da soggetti non-borghesi, come la realtà contemporanea dimostra ampiamente, tanto che oggi il termine più corretto da adottare sarebbe oligarchie capitalistiche. Inoltre, e qui il ragionamento si fa più sottile, perché la borghesia “classica” era portatrice di una “coscienza infelice” che induceva le sue menti più brillanti a rinnegare il proprio ruolo storico. Coscienza infelice di cui oggi non rimane traccia alcuna se non nella patetica figura di quelle “anime belle” che trasformano l’impotenza in supremo valore morale. 


Quanto ai motivi per cui Preve concorda con de Benoist nell’indicare negli Stati Uniti il nemico principale in geopolitica, cito qui di seguito le sue motivazioni: E siccome questa superpotenza, oggi, è anche il supremo garante strategico-militare del capitalismo (1), della società di mercato (2), del liberalismo politico (3), della teologia interventistica dei diritti umani (4), della nuova religione olocaustica del complesso di colpa interminabile dell’umanità (5), della sottomissione dell’Europa costretta alla cosiddetta “posizione del missionario” (6), della proliferazione di basi militari atomiche in tutto il mondo (7), del modello culturale televisivo del rimbecillimento antropologico universale (8), della secolarizzazione del presunto mandato messianico assegnato da Dio ad una nazione protestante eletta (9), più altre determinazioni che qui non riporto per brevità, ne consegue che non il popolo americano, non la nazione americana, ma soltanto la superpotenza geopolitica imperiale americana è il nemico principale. Esaurito il ragionamento sul concetto di nemico principale vengo a tre degli argomenti trattati in questo libro che mi paiono più interessanti: 1) gli spunti critici nei confronti di certi aspetti del pensiero di Marx, che riprendono temi trattati nel libro analizzato in precedenza; 2) il problema della difficoltà di tradurre l’identità di classe in azione politica; 3) il giudizio storico sul socialismo reale (e anche qui rileviamo elementi di continuità con l’opera precedente).  


Sulle critiche a Marx. Preve rifiuta l’idea del comunismo come fine della storia, intesa come fine del conflitto sociale, e quindi come fine della politica. La formula da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, che Marx associa a una visione irenica che dipinge un futuro in cui la politica dovrebbe dissolversi in amministrazione della cose, piace molto alla sinistra postmoderna e “antipolitica” dei giorni nostri, ma fa venire i brividi a Preve, il quale non crede in una utopistica ricomposizione di tutti i conflitti fra interessi collettivi (e qui mi pare si possa affermare che c’è un chiaro passo avanti rispetto ai discorsi sulla possibile realizzazione futura di una “personalità umana universale e pacificata” che abbiamo letto sopra). Preve rifiuta inoltre la separazione fra storia del pensiero politico e storia del pensiero economico moderni: il modo di produzione capitalistico, scrive, coincide in tutto e per tutto con ciò che chiamiamo modernità, per cui il tentativo di salvare il contenuto emancipativo della modernità, qualificandola come il solo aspetto culturale specifico della legittimazione simbolica del modo di produzione capitalistico può avere quale unico risultato l’esaltazione di quella divinità idolatrica chiamata Progresso. Marx non era esente dalla fascinazione da parte di questa divinità, soprattutto laddove esalta il carattere “progressivo” dei rapporti capitalistici nella misura in cui soppiantano i precedenti rapporti schiavistici e feudali. 

Scrive Preve in proposito: Personalmente, non sono un ammiratore incondizionato di questo aspetto borghese-progressivo del pensiero di Marx, ed anzi lo considero uno dei punti più deboli e datati del suo pensiero. Ma non è questo il problema. Il fatto è che Marx non ha chiarito bene quale sia il criterio che permette di stabilire quando questa funzione progressiva cessa, e quando comincerebbe invece la funzione regressiva. Per essere più precisi, Marx ha bensì fornito un criterio di giudizio, ma l’ha fornito errato, individuandolo nel momento storico dell’insorgenza dell’incapacità di sviluppare ulteriormente le forze produttive, con conseguente stagnazione, parassitismo, eccetera. Insomma, il capitalismo diventerebbe “reazionario” soltanto quando non è più in grado di sviluppare le forze produttive ed i capitalisti da imprenditori creativi diventano percettori oziosi di rendite, tipo i signori feudali. Ora, mi sembra chiaro che questo volenteroso criterio è del tutto errato. Il capitalismo continua a produrre imprenditori di valore ed a sviluppare in modo vertiginoso le forze produttive. Ed allora non può essere questo il criterio giusto. Il criterio deve tornare ad essere pienamente filosofico, e cioè “umanistico”, e deve essere individuato nel modello di illimitatezza della produzione capitalistica complessiva e nell’imbarbarimento sociale ed antropologico delle forme di vita capitalistiche. E qui devo dire che il passo avanti maturato in questo quarto di secolo che separa le due opere mi sembra decisivo, nella misura in cui Preve si sbarazza delle illusioni in merito al potenziale emancipatorio del capitalismo che ancora nutriva nel precedente lavoro 


Veniamo alla possibilità di tradurre in azione politica l’identità di classe. Qui Preve è decisamente più vicino a Lenin che a Marx. Già nel libro precedente aveva ammesso che a tutt’oggi non possediamo una teoria dello stato e del partito che abbia veramente superato Lenin, nel senso che resta valido il giudizio leniniano in merito  alla incapacità delle classi subalterne, serrate nella morsa di un sapere limitato alla particolarità e prossimità diretta, di comprendere i meccanismi della riproduzione politica, economica e geopolitica della società in generale. Il guaio è, argomenta Preve, che la borghesia (che oggi veste i panni delle nuove oligarchie capitalistiche) è una signora classe, assai più coesa e abile del volonteroso e confuso proletariato. E a confonderlo ancora di più contribuiscono quegli intellettuali “di sinistra” che si impegnano a descrivere il secolo delle rivoluzioni proletarie come un museo degli orrori (15), che demonizzano il Novecento quasi volessero prevenire la malaugurata ipotesi che le classi subalterne ci possano riprovare. 



la caduta del Muro




Viceversa Preve non si limita a difendere il Novecento dall’accusa di essere stato il secolo degli orrori: difende anche l’esperienza del comunismo novecentesco dalle denigrazioni che gli arrivano dagli esponenti del settarismo di sinistra. Questa è senz’altro una novità rispetto al ripudio totale che 25 anni prima aveva manifestato nei confronti del socialismo reale, e che ora invece sostiene che andrebbe rivendicato come un esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico, anche se ovviamente deformata da rapine burocratiche di vario tipo. Tuttavia questo cambiamento di prospettiva non si spinge fino a mettere in discussione l’affermazione dogmatica secondo cui questo gigantesco esperimento di ingegneria sociale sarebbe fallito ancora prima di concludersi con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche. Ammesso e non concesso che ciò sia vero, è inspiegabile la rigidità con cui Preve liquida anche la rivoluzione cinese, rifiutandosi di prendere atto del fatto che, in questo caso, l’esperimento ha prodotto – invece del disastro russo – la straordinaria ascesa della Cina al rango di grande potenza mondiale, in grado di confrontarsi da pari a pari con il “nemico principale” statunitense. Preve arriva addirittura a liquidare il regime postmaoista con la sprezzante definizione di “capitalismo confuciano”. 


Dietro questa clamorosa semplificazione si nasconde certamente il deficit di conoscenza economica, sociale e politica di un filosofo che evidentemente ignora - o sottovaluta - le argomentazioni di autori come  - fra gli altri - Giovanni Arrighi (16), che descrivono la Cina come un sistema socialista con presenza di mercato e con conflitti di classe che potrebbero condurlo sia verso una restaurazione capitalistica, sia verso una più avanzata forma di socialismo. In particolare, Arrighi sottolinea come il permanere del controllo statale sui settori produttivi strategici e sulle banche, di uno sviluppato sistema di servizi pubblici, e di una politica estera difficilmente definibile come imperialistica, inducono a prendere atto del fatto che, finché il potere politico mantiene il controllo sull’economia, si può aggiungere mercato a volontà senza che il sistema possa essere definito capitalista (discorso che ricorda l’argomento di Rita Di Leo citato in precedenza, che tuttavia, come si è visto, Preve si rifiuta di accogliere). Se a ciò si aggiunge lo straordinario risultato di avere ridotto il numero dei cittadini in condizioni di povertà da più di ottocento a quattordici milioni, di avere mantenuto i livelli di occupazione nel momento in cui la crisi li aggrediva duramente nei paesi capitalisti occidentali, e di avere pilotato l’economia del Paese da un modello mercantilista fondato sui bassi salari a un modello autocentrato, grazie ad un aumento consistente e generalizzato delle retribuzioni, è evidente che il “miracolo” cinese, più che a una conversione del Partito-Stato ai principi e ai valori del liberismo, è da attribuirsi al permanere di consistenti elementi di socialismo (ed è esattamente per questo che scatena l’aggressività del capitalismo occidentale). 


Ma non è solo questione di ignoranza e disinformazione. Qui gioca, a mio parere, il nodo filosofico che avevamo evidenziato discutendo le tesi della Filosofia imperfetta, e che un quarto di secolo dopo è rimasto irrisolto. Il fatto è che Preve non riesce a realizzare che, così come riconosce che il modo di produzione capitalista – in  quanto astratta categoria idealtipica – esiste solo attraverso una pluralità di formazioni sociali concrete, dovrebbe riconoscere che lo stesso vale per il rapporto fra il modello ideale di socialismo e la realtà delle diverse, concrete società socialiste in cui tale modello si è storicamente incarnato. Ritengo che ciò gli è impedito dal fatto che è rimasto legato a categorie filosofiche “universali”, né la frequentazione della ontologia sociale lukacsiana basata sul lavoro è bastata a riportarlo con i piedi per terra. Preve non riesce a digerire il “socialismo in  stile cinese” perché non  riesce ad afferrare la specificità storico-geografica di un immenso Paese con millenni di storia alle spalle, che ha sviluppato il suo grandioso esperimento sociale in coerenza con la concezione del tempo che ha ereditato dalle sue tradizioni culturali, e che ha elaborato un concetto di transizione socialista concepito come un processo secolare, caratterizzato da avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte. Non ci riesce perché resta ancorato a una visione del mondo sostanzialmente eurocentrica, tipica di quel marxismo occidentale del quale, pur odiandolo, non ha potuto sbarazzarsi del tutto.  


Note

(1) Cfr. C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019, pp. 86-90.

(2)  La filosofia imperfetta. Proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984; una nuova versione di Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale è prevista per il prossimo settembre per i tipi di Inschibbolleth.

(3) G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Pgreco, Milano 2012. 

(4) C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi, Roma 2019.

(5) Vedi nota 3

(6) “Glosse all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs” apparse in quattro puntate su questo blog.

(7) Mi riferisco ovviamente alla nota frase di Gramsci secondo cui i bolscevichi avevano fatto una rivoluzione “contro il Capitale”, nel senso che la loro impresa aveva sovvertito l’idea marxiana, condivisa dall’ortodosso Kautsky, secondo cui la rivoluzione avrebbe potuto svolgersi solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico. 

(8) Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966. 

(9) Più su Marx, del quale si valorizza quasi esclusivamente il “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, la retorica post operaista si fonda soprattutto sulle teorie di autori come Michel Foucault e Gilles Deleuze.

(10) Come ho notato altrove (vedi nota 6) questa formulazione somiglia alla definizione di potere in Max Weber.

(11) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.

(12) Sull’eurocentrismo di Marx ed Engels ho ragionato in un post apparso su questo blog, a partire dall’antologia di loro scritti India, Cina, Russia (a cura di Bruno Maffi), il Saggiatore, Milano 1960. 

(13) Vedi nota 6.

(14) Un ragionamento che rievoca le tesi di C. Polanyi ne La grande trasformazione (Einaudi, Torino 1974), senonché Preve non apprezza il contributo di questo autore nella misura in cui – come sostengo in questo scritto – lo stesso Preve resta impaniato in una visione “continuista” (ancorché non  teleologica) del processo storico.

(15) Cfr. M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001. 

(16) Cfr- G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008. Del dibattito in campo marxista sulla natura dell’economia e della società cinesi mi sono occupato ne Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020.   



     


giovedì 20 maggio 2021

CINQUE BUONE RAGIONI PER ESSERE COMUNISTI 

(E NON DI SINISTRA) 


In coda a un  dibattito sulle "Prospettive del comunismo oggi" al quale ho partecipato ieri sera (trovate qui il video: https://fb.watch/5BfY9aMSQW/ ) Marco Rizzo ha annunciato la mia candidatura come capolista del Partito Comunista alle prossime elezioni municipali di Milano. I motivi che mi hanno convinto a compiere questa scelta erano già impliciti nel post "Riflessioni autobiografiche di un comunista (finora) senza partito", che avevo pubblicato non molti giorni fa su questo blog. Ma ho ritenuto che fosse il caso di ribadirle e sintetizzarle qui di  di seguito.    





Perché il comunismo è un’ideologia più giovane e vitale del liberalismo  

Chiarisco che il termine ideologia è qui inteso nel senso forte, positivo che Gramsci e Lukacs gli attribuivano: non falsa coscienza bensì l’insieme dei valori, principi, visioni del mondo, conoscenze, memorie collettive, ecc. che costituisce l’identità sociale e antropologica di una determinata classe (anche quando essa perde consapevolezza di sé dopo avere subito una dura sconfitta da parte degli avversari). Ciò posto, va ricordato che l’ideologia comunista è giovane: se ne fissiamo la nascita alla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels (1848) non ha ancora due secoli di vita (mentre il liberalismo ne ha almeno sei). I suoi fondatori furono troppo ottimisti nel prevederne il trionfo in tempi brevi. Oggi sappiamo che la via è lunga e difficile, costellata di avanzate e ritirate, vittorie (come quelle del 1917 in Russia e del 1949 in Cina) e sconfitte (come quella del 1989 che ha visto il crollo dell’Urss). Ma sappiano anche che, malgrado i cinque monopoli (Samir Amin) sui quali può contare il nemico di classe (sui mezzi di produzione, sulla finanza, sulle tecnologie, sulle conoscenze scientifiche, sui media), e malgrado il disastro dell’89, la via socialista ha dimostrato una poderosa capacità di resilienza, soprattutto nell’Oriente e nel Meridione del mondo, al punto che oggi, grazie ai trionfi dello stato/partito cinese, è di nuovo in grado di contendere al capitalismo occidentale il dominio mondiale, come dimostrano 1) la forsennata guerra fredda che Usa e Ue stanno scatenando contro il “pericolo giallo”, 2) la paura che li sta costringendo a riscoprire keynesismo e statalismo per recuperare il consenso delle classi subalterne, martoriate da decenni di neoliberismo e dagli effetti delle crisi che questo sistema criminale ha innescato. Ma non c’è solo la Cina: oggi l’America Latina (Cuba, Venezuela, Bolivia e ora il Cile che rialza la testa a mezzo secolo dal golpe di Pinochet) è di nuovo in lotta contro il neoliberalismo e gli Stati Uniti faticano a controllare il loro “cortile di casa”. 





Perché il comunismo è un’ideologia diversa (e incompatibile) con quella di una sinistra che si è meritata l’odio delle classi popolari. 

L’equivoco della identificazione fra comunismo e sinistra è nato all’inizio degli anni Settanta, quando gli strati piccolo borghesi che si riconoscevano nel movimento studentesco e nei gruppetti extraparlamentari innalzarono la bandiera dell’alleanza operai/studenti, rilanciando parole d’ordine e obiettivi del movimenti rivoluzionari del Novecento in modo astratto e libresco, usandoli come una maschera estetizzante dei loro reali obiettivi, che si riducevano a una rivoluzione dei costumi, e all’emancipazione dalle forme più arcaiche di controllo gerarchico (paternalismo famigliare, clientelismo politico, corporazioni professionali, gerarchie generazionali, ecc.), ormai superate dallo stesso sviluppo capitalistico che richiedeva una radicale modernizzazione culturale. Dissolta la spinta delle lotte operaie, stroncate dalla crisi e della ristrutturazione capitalistiche (e tradite dalle loro organizzazioni tradizionali, che in quegli anni decisero di allinearsi alle politiche neoliberiste in economia e neoliberali in politica (promuovendo il compromesso al ribasso con i padroni in fabbrica e dissociandosi dai Paesi socialisti per schierarsi a fianco del blocco occidentale e del suo braccio militare, la Nato), quegli strati piccolo borghesi sono tornati a svolgere il loro ruolo di agenti e funzionari del regime capitalistico. Hanno dato vita a movimenti (come il femminismo e l’ambientalismo) che rivendicavano riforme fondate sul riconoscimento identitario di questo o quel gruppo sociale e del tutto compatibili con il processo di modernizzazione di un sistema mai messo in discussione e hanno rinunciato completamente a porsi il problema della conquista del potere politico (di qui il rifiuto fobico nei confronti dello stato, identificato come il male assoluto, e del socialismo, condannato in quanto regime “autoritario”). Questa deriva è proseguita fino ai giorni nostri, toccando vertici deliranti con l’instaurazione della cultura autoritaria e violenta del politicamente corretto adottata, dalle sinistre di governo assieme a un’ideologia femminista ormai totalmente integrata nella cultura neoliberale. Questa deriva, assieme al fatto che queste sinistre hanno approvato leggi antipopolari - come l’abolizione dell’articolo 18 - ha fatto sì che oggi il popolo dei Paesi occidentali odi le sinistre, come dimostrano le analisi dei flussi elettorali che vedono i centri gentrificati votare a sinistra e le periferie proletarie votare a destra o astenersi. L’equivoco degli anni Settanta è stato brevemente richiamato in  vita da populismi di sinistra come Syriza, Podemos, la sinistra americana di Sanders, France Insoumise (l’Italia ha prodotto solo l’aborto dell’M5S che non è nemmeno riuscito ad accreditarsi come una nuova sinistra alternativa al PD, sia pure ultramoderata). Questi movimenti, che pure erano inizialmente sembrati in grado di smarcarsi dall’immagine deteriorata delle sinistre tradizionali, e di interpretare il ruolo di rappresentanti delle spontanee ribellioni popolari contro le politiche neoliberali, sono falliti a causa: 1) del mancato radicamento sociale, avendo assunto la forma di partiti “leggeri” fondati sulla comunicazione e sul tentativo di catturare un’opinione pubblica trasversale; 2) della scelta di fare propria la cultura politicamente corretta delle sinistre (Podemos è arrivato a qualificarsi come partito femminista – Unidas Podemos – piuttosto che come partito di classe); 3) dall’essersi alleati in posizione subordinata con le vecchie sinistre in funzione “antifascista” (anche quando tale minaccia appariva frutto della propaganda del regime neoliberale più che rappresentare un rischio reale); 4) dal fatto che, fin dalle origini, i loro quadri appartenevano perlopiù a strati sociali piccolo borghesi come era avvenuto negli anni Settanta (anche se oggi si tratta di gruppi che presentano una composizione professionale diversa, legata soprattutto alle modificazioni indotte dalle nuove tecnologie). Tutto ciò ha fatto sì che abbiano seguito rapidamente lo stesso destino delle sinistre tradizionali, guadagnandosi il rigetto delle classi popolari che si erano brevemente illuse di trovare una nuova rappresentanza per i propri interessi. In conclusione: oggi sinistra è sinonimo di liberalismo di sinistra, per cui chi si dichiara (non a parole, ma perché sinceramente intenzionato a rappresentare gli interessi delle classi subalterne e la speranza di un radicale cambiamento di civiltà, e non solo del modo di produzione) comunista non può, né deve, avere più alcunché da spartire con queste sinistre.  


Perché comunismo vuol dire dare priorità agli interessi, ai bisogni e ai valori comunitari rispetto agli interessi, ai bisogni e ai valori individuali

La propaganda anticomunista batte ossessivamente sul tasto della libertà e dei diritti individuali. Ma la presunta “universalità” dei diritti dell’individuo (borghese), come già annotava Marx, si riduce di fatto alla tutela dei diritti dell’uomo proprietario. Il diritto “uguale” fra soggetti astratti si rovescia nel diritto disuguale fra soggetti concreti, visto che solo un’infima minoranza di quest’ultimi dispone delle risorse necessarie per far valere i propri diritti, mentre per tutti gli altri questi si riducono a pure affermazioni di principio (non a caso la nostra Costituzione – tanto odiata dai liberal liberisti – afferma la necessità di garantire le condizioni per la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale fra i cittadini). Oltre che dell’individuo proprietario, il diritto borghese si premura di tutelare i diritti dell’individuo consumatore: il diritto del consumatore si afferma a danno dei diritti del lavoratore (costretto ad accettare salari bassi e ritmi di lavoro infernali per contenere il costo delle merci). Certo il lavoratore è a sua volta consumatore, ma se accetta il punto di vista borghese viene messo contro i suoi fratelli – e contro se stesso. Senza dimenticare che, in nome dei diritti del consumatore (occidentale!) si perpetrano crimini tanto ai danni dell’ambiente, quanto dei popoli schiavizzati dei Paesi poveri. E ancora: in nome del desiderio (trasformato in diritto) individuale di avere figli delle coppie gay, si legittima l’infame pratica dell’utero in affitto che riduce donne in difficoltà a ridursi a “contenitori” di bambini (a loro volta ridotti a “prodotto”) per conto terzi. E a legittimare la mercificazione del corpo femminile è, paradossalmente, proprio il movimento femminista (o almeno la sua componente neoliberale, oggi mainstream) che, del resto, da tempo ha assunto questa prospettiva, nella misura in cui considera il corpo come una sorta di oggetto, una “proprietà” (vedi sopra) individuale. Al posto degli interessi dell’individuo proprietario e consumatore, il comunismo difende gli interessi, il benessere e la sicurezza dell’individuo produttore in quanto parte organica della collettività (l’individuo non vive nel vuoto: è il prodotto di molteplici determinazioni sociali) impegnata a riprodurre se stessa e a garantire il prevalere del bene comune. Quanto diversi siano gli effetti di queste due visioni del mondo, lo abbiamo potuto misurare grazie alla differenza nella gestione della pandemia da parte della Cina rispetto a quella del mondo occidentale: da un lato, il diritto alla salute e alla sicurezza del popolo intero, dall’altro il diritto al profitto delle Big Pharma che ha richiesto, assieme allo smantellamento dei sistemi sanitari pubblici voluto dai governi neoliberali, il tributo di milioni di morti. Ma noi occidentali siamo liberi…di crepare.


Perché il comunismo è internazionalista e non cosmopolita 

Che la globalizzazione sia stata frutto di una legge economica “oggettiva”  è una mistificazione liberal-liberista fatta propria dalla sinistra. Una narrazione che nasconde come dietro il processo di internazionalizzazione dei capitali si celi la “guerra di classe dall’alto” che il capitalismo ha avviato a partire dalla dagli anni Settanta del secolo scorso. L’esercito di questa  guerra sono state le grandi imprese transnazionali, armate della loro capacità di muovere capitali, merci e persone inseguendo le condizioni più favorevoli offerte da mercati del lavoro, politiche fiscali e sistemi giuridici locali. Ma pensare che ciò significhi la fine dello stato nazione è un’idiozia, perché  le multinazionali non avrebbero potuto espandersi senza il sostegno e l’aiuto dei rispettivi stati di origine. La globalizzazione è un processo politico sostenuto e accompagnato dagli stati più potenti (Stati Uniti su tutti) che se ne servono per ristrutturare l’ordine mondiale, e l’obiettivo della globalizzazione non è liberare il capitale dal giogo degli stati, bensì da quello della democrazia. Il neoliberismo non vuole distruggere lo stato, vuole costruire uno stato forte ma non democratico. La battaglia ideologica contro lo stato nazione va di pari passo con quella contro il socialismo e ha l’obiettivo di spezzare il legame fra stato e democrazia. Così il tradizionale nazionalismo di destra cede il passo al cosmopolitismo liberale e allo pseudo internazionalismo di sinistra. L’ondata populista non è stata tanto l’esito della controffensiva di settori capitalistici arretrati che tentano di rianimare l’ideologia nazionalista, quanto della reazione popolare  agli effetti della globalizzazione. Ma la crisi della globalizzazione ha gettato nel panico le sinistre convertite al cosmopolitismo, che hanno reagito etichettando come fasciste le idee “sovraniste”. Così la parola patria oggi incute terrore negli eredi di una cultura politica che, fino agli anni Settanta, era ancora consapevole del fatto che tutte le rivoluzioni socialiste sono state rivoluzioni nazional-popolari. Le sinistre hanno adottato un internazionalismo che somiglia all’ideale cosmopolita di un mondo pacificato e unificato dagli scambi economici. Questa ideologia rispecchia valori e interessi del ceto medio riflessivo e delle sue aspirazioni di mobilità fisica e sociale, un ceto che ignora interessi e bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale che vive inchiodata al luogo di nascita. Viceversa per i comunisti la difesa della sovranità nazionale è un fattore imprescindibile: la patria è sinonimo di res publica, di una società concreta di uomini e donne che lottano per l’autogoverno dei cittadini, l’indipendenza nazionale e la sovranità popolare. I comunisti sono consapevoli che la lotta di classe non si svolge solo all’interno dei singoli Paesi, è anche lotta fra popoli oppresse e nazioni dominanti, e questa verità non vale oggi solo per i rapporti fra potenze imperialiste e Paesi ex coloniali, ma anche per quelli fra Paesi del Nord e del Sud Europa, per i quali la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada per riacquistare il controllo politico sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone. Ecco perché i comunisti non possono che essere contro  questa Europa, contro questo mostruoso esperimento politico che mira a mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberalismo moderno, von Hayek, l’uomo che sognava di spezzare il rapporto biunivoco fra politica e territorio neutralizzando, assieme alla sovranità nazionale, i conflitti sociali e la possibilità di offrire loro rappresentanza democratica. La Ue funziona come una sorta di polizia economica che sfrutta l’euro e il principio di concorrenza per sterilizzare appunto i conflitti sociali. Il sistema dei trattati è una costituzione materiale che  agisce come una costituzione senza stato e senza popolo e rimpiazza la democrazia con la governance. L’impianto filosofico che ispira questo esperimento è l’ordoliberalismo che,

contrariamente al liberismo classico, non dà per scontata la capacità dei mercati di autoregolarsi, ma affida a un potere politico forte il compito di garantire la stabilità dei prezzi (a partire da quello della forza lavoro!). Per i Paesi del Sud Europa, l’ingresso nella Ue ha voluto dire milioni di posti di lavoro e migliaia di imprese in meno, deindustrializzazione e declassamento al ruolo di subfornitori delle imprese tedesche. Una relazione asimmetrica che è stata, non solo accettata, ma addirittura promossa dalle nostre élite: i vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa e Prodi, la hanno voluta per promuovere, con la scusa del “vincolo esterno”, le riforme neoliberali: tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro e implementazione nella nostra Costituzione (attraverso il famigerato articolo 81) del Fiscal Compact, cioè del divieto costituzionale di adottare politiche economiche keynesiane. Ecco perché i comunisti dei Paesi euromediterranei dovrebbero adottare il principio del  delinking (sganciamento) teorizzato da Samir Amin: solo riconquistando la sovranità nazionale sarà possibile ridare spazio al conflitto redistributivo, invertire la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzando banche ed imprese in crisi e ri-nazionalizzando i servizi pubblici, e adottare politiche fiscali progressive. 







Perché il comunismo non è antistatalista, ma mira a far sì che le classi subalterne si facciano stato

Il rifiuto delle sinistre nei confronti della nazione va di pari passo con il rifiuto nei confronti dello stato. Il ripudio dell’esperienza storica del socialismo, e l’ideologia “orizzontalista” comune a  tutte le componenti della sinistra radicale, fanno sì che il vecchio principio marxista, secondo cui la macchina statale borghese non può essere ereditata e usata così com’è da parte delle classi subalterne, si sia trasformato nel dogma secondo cui lo stato in quanto tale non può più essere usato. Per questa ideologia neoanarchica lo stato, qualsiasi classe o forza politica ne detenga il controllo, è sempre e comunque un nemico, per cui il concetto di presa del potere è sparito dal suo orizzonte culturale. La logica del controllo subentra alla logica della conquista, e alla volontà di costruire un’alternativa globale al modo di produzione capitalistico e alle istituzioni dello stato borghese subentra una sorta di “democrazia dell’opinione” che diffida del potere ma non aspira a governare, non mira ad abolire il capitalismo bensì ad addomesticarne la ferocia. Ne è prova il ruolo svolto da Terzo settore, Ong e volontariato, i quali collaborano attivamente allo smantellamento del welfare in sintonia con la logica ordoliberale del “capitalismo sociale”. Ne è prova quel patetico surrogato dell’utopia comunista che è l’ideologia “benecomunista”, mentre dà per scontato che un partito rivoluzionario che pretenda di essere avanguardia politica dei movimenti non solo non serve, ma è controproducente. Insomma: siamo di fronte a un’ideologia che potremmo sintetizzare con la formula “cambiare il mondo a partire dal basso, (o addirittura a partire da sé!) senza prendere il potere”, che potremmo ironicamente accostare al detto di Cristo “il mio regno non è di questo mondo” (purtroppo la storia insegna che il detto cristiano che invita a tenersi alla larga dal potere non ha particolarmente contribuito a cambiare i rapporti di forza fra potenti e sudditi). Contro questa visione va rivendicata la necessità di conquistare il potere, o meglio, per dirla con Gramsci, di guidare le classi subalterne a farsi stato - stato che non va abolito in quanto tale, ma del quale occorre abolire il carattere di classe. 


Post Scriptum

Due parole sul perché ho scelto di schierarmi con Il Partito Comunista guidato da Marco Rizzo piuttosto che con un altro dei tanti partiti e movimenti italiani che si dichiarano tali. In primo luogo perché, attraverso un serrato confronto che ho avuto con questi compagni dopo avere concluso la mia esperienza nei gruppi sovranisti di sinistra, ho verificato che sono quelli con cui ho maggiori affinità su una serie di temi che considero discriminanti, poi perché sono di gran lunga i più lontani da quella cultura di sinistra della quale ho appena finito di descrivere le caratteristiche che mi inducono a valutarla come un avversario politico. Caratteristiche che, viceversa, hanno contaminato fino a snaturarne le origini una formazione come Rifondazione Comunista. Probabilmente esistono altre forze politiche che in futuro potranno contribuire alla rinascita di un forte partito comunista nel nostro Paese, ma non penso che la mia scelta sia in contraddizione con l'imnpegno di superare le ragioni che ancora ci dividono.           


NOTE SUL MARXISMO SINIZZATO A mò d’introduzione Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) ...

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