Lettori fissi

giovedì 7 marzo 2024

IL MARX "VERDE" DI KOHEI SAITO






Mi sono già occupato delle tesi del marxista giapponese Kohei Saito nella prima puntata dell'articolo "La cassetta degli attrezzi. Postille a Guerra e rivoluzione", uscito il 18 gennaio scorso su questo blog (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/la-cassetta-degli-attrezzi-postille.html). In quell'occasione avevo discusso un suo libro dal titolo Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2022). Poco dopo, l'editore Fazi ha dato alle stampe l'edizione italiana di un testo precedente, L'ecosocialismo di Karl Marx (Karl Marx's Ecosocialism), un saggio che ha avuto uno strepitoso successo in Giappone (mezzo milione di copie!) e che, grazie alle sue tesi provocatorie, presumo ne avrà altrettanto a livello mondiale. Ho quindi ritenuto opportuno dedicargli questo secondo intervento nel quale, da un lato, ribadisco le perplessità formulate nel primo, dall'altro tento di approfondire alcuni dei temi affrontati da Saito che mi sono parsi tutt'altro che privi di interesse.  


Saito mette le mani avanti, riconoscendo che, se ci si limita a considerare la produzione marxiana "canonica", sembrano più che fondate le critiche rivoltagli sia dagli ecologisti che da coloro che lo accusano di eurocentrismo (1): il filosofo di Treviri, il che vale a maggior ragione per Engels, aveva ancora, infatti, una visione unilateralmente ottimistica della funzione storica del capitalismo, al quale riconosceva il merito di avere accelerato, non solo il progresso economico, ma anche quello civile dell'umanità, contribuendo a emanciparla dai vincoli sociali e ideologici che impastoiavano il mondo precapitalista. Dalla lettura di opere come il Manifesto emerge un Marx “produttivista”, entusiasta dello sviluppo delle forze produttive innescato dalla crescita dell'economia capitalistica, persino disposto a perdonare i crimini del colonialismo nella misura in  “risvegliavano” dal sonno millenario le statiche civiltà orientali. Un punto di vista sostanzialmente condiviso dal successivo movimento marxista.


Saito ha l’indubbio merito di avere messo in discussione questa lettura, dimostrando come nelle opere della maturità (soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni 60 dell’Ottocento) la visione di Marx si sia progressivamente allontanata da questa concezione unilateralmente ottimistica del potenziale emancipatorio del capitalismo. Posto che il filosofo giapponese non è l’unico ad avere messo in luce come nel lavoro teorico di Marx si intreccino diversi “regimi narrativi” (2), l’originalità (ma al tempo stesso l’azzardo) della sua tesi consiste nel rintracciare in un uno di questi  regimi narrativi una vera e propria svolta, in ragione della quale Marx sarebbe arrivato a considerare le “crisi ecologiche” come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Il rischio di anacronismo è chiaro, non solo e non tanto perché il paradigma ecologico era a quei tempi di là da venire, ma anche perché i riferimenti in tal senso che possono essere rintracciati nel Capitale (3) non sembrano svolgere un ruolo fondamentale nell’economia complessiva dell’opera maggiore. Eppure Saito nega che Marx abbia trattato il tema ecologico solo in modo sporadico e marginale. Vediamo su quali basi documentali.


La fonte primaria del suo ragionamento sono i quaderni di estratti, citazioni, commenti di lettura accumulati da Marx nel corso della sua esistenza. Non solo i già noti Quaderni di Parigi e Quaderni di Londra, ma l’enorme mole di inediti venuta via via alla luce con la pubblicazione (tuttora incompiuta) dei MEGA, un terzo dei quali sono stati redatti negli ultimi 15 anni di vita dell’autore. Questi estratti, sostiene Saito, non sono meno importanti dei testi “canonici”, in quanto documentano una serie di aspetti che nelle opere principali vengono accennati ma non approfonditi. Questa tesi poggia in particolare sul fatto che il secondo e il terzo volume del Capitale sono rimasti incompiuti e sono stati pubblicati postumi, dopo che Engels ne aveva rivisto e assemblato le stesure provvisorie. Secondo Saito, il “ritardo” accumulato da Marx nella stesura definitiva dell’opera fondamentale, va messo in relazione con i ripensamenti maturati negli ultimi anni di vita, ripensamenti che si rispecchiano negli appunti dei quaderni, i quali ci aiutano a comprendere cosa avrebbe scritto Marx se fosse riuscito a portare a termine la versione definitiva del Capitale. E’ evidente che questo approccio sottende l’esistenza di una divaricazione fra l’intenzione originaria di Marx e l’interpretazione che ne diede Engels redigendo la versione “ufficiale” dell’opera. Tuttavia non è questo il tema che qui mi interessa per cui, prima di entrare nel merito degli aspetti del lavoro di Saito che ritengo più interessanti, preferisco richiamare l’attenzione su due punti: il primo è la sua rilettura dei Quaderni economico filosofici, in quanto è un buon esempio dell’approccio che il nostro adotta laddove tenta di “mixare” un testo “ufficiale” con gli appunti coevi dei quaderni; il secondo riguarda le fonti scientifiche che avrebbero  suo avviso influenzato la svolta “ecologista” dell’ultimo Marx.


I Manoscritti economico filosofici, secondo Saito, non andrebbero letti come un’opera indipendente bensì come una parte degli appunti di studio di Marx raccolti nei Quaderni di Parigi. Questo approccio consente a suo avviso di superare la sterile contrapposizione fra marxisti “umanisti” e marxisti ”scientisti”. Com’è noto, i primi rivalutano il pensiero del “giovane Marx”, impegnato nella critica della sinistra hegeliana, per affermare  la centralità del concetto di lavoro alienato (4) in polemica con le interpretazioni materialistico-meccaniche del suo pensiero; i secondi (vedi, fra gli altri, Althusser) sostengono al contrario che, dopo L’ideologia tedesca, Marx avrebbe completamente abbandonato lo schema antropologico- hegeliano del 1844 per orientarsi verso una problematica “scientifica” (cioè verso la critica dell’economia politica, senza più indulgere a civetterie con la dialettica hegeliana). Ma in questo modo, argomenta Saito, i primi sottovalutano i successivi sviluppi del pensiero economico di Marx, mentre i secondi ignorano che è proprio la critica marxiana alla filosofia giovane-hegeliana che consente di cogliere il vero punto di partenza della sua critica dell’economia politica. Per superare il dualismo fra analisi sociologica e analisi filosofica, scrive Saito, occorre capire che, fin dall’inizio, Marx ha studiato l’economia politica analizzando le forme sociali delle categorie economiche e, nel contempo, ha studiato la filosofia e le scienze naturali per acquisire la base scientifica necessaria ad analizzare le qualità materiali della realtà. In tal senso non esiste dunque una sostanziale cesura fra il “giovane” Marx e il Marx “maturo”, e i quaderni (sia quelli giovanili che quelli dell’ultimo quindicennio di vita) vanno riletti in stretta connessione con la formazione della sua critica dell’economia politica e non come un grandioso progetto materialista di spiegazione dell’universo (il riferimento critico alla engelsiana dialettica della natura è qui implicito).


un ritratto del giovane Marx



I quaderni dell’ultimo Marx, si riferiscono alle opere di studiosi come il chimico Justus von Liebig,  l'economista Henry Carey e il fisico Carl Fraas, tutti impegnati, ancorché a partire da punti di vista diversi e a volte divergenti, a denunciare il rischio dell’esaurimento dei suoli provocato dall’agricoltura di rapina praticata da proprietari terrieri e imprenditori agricoli esclusivamente preoccupati di ottenere il massimo profitto nel più breve tempo possibile. Non ho qui lo spazio, né lo ritengo indispensabile, per descrivere nei dettagli le loro teorie. Basti ricordare che, per Liebig, la questione di fondo era la mancata reintegrazione delle sostanze nutritive dovuta al supersfruttamento dei suoli, laddove Fraas attribuiva maggior peso all’influenza del clima, in particolare alle mutazioni climatiche indotte dalla deforestazione selvaggia, ma giungeva alle stesse conclusioni. Ad attirare l’attenzione di Marx, sostiene Saito, fu soprattutto la settima edizione (1862) della “Chimica organica applicata all’agricoltura e alla fisiologia” di Justus von Liebig. Le tesi del chimico tedesco lo indussero infatti a riconsiderare la tesi (condivisa da Engels) secondo cui la fertilità del suolo può essere accresciuta all’infinito con il concorso del capitale, del lavoro e della scienza. Ma Saito insiste soprattutto sul fatto che l’interesse di Marx per questo lavoro, come per quelli di Carey e Fraas, non era meramente scientifico-naturalistico bensì di tipo squisitamente economico. Marx, ragionando sulle teorie di Ricardo sulla rendita fondiaria, ne condivideva l’analisi del meccanismo di tale categoria economica, ma ne rigettava la tesi sulla legge dei rendimenti decrescenti, nella misura in cui essa, da un lato avrebbe legittimato la teoria di Malthus, dall’altro avrebbe indotto ad ammettere che anche una futura società socialista sarebbe stata inevitabilmente minacciata dal problema dell’insufficienza dei mezzi di produzione. 


Viceversa le opere dei tre autori appena citati consentivano, secondo Marx, di indagare le cause dei rendimenti decrescenti non come manifestazione “assoluta” (trans storica) dei limiti naturali all’aumento della produttività, bensì come causa specificamente moderna (capitalistica) del fenomeno. Le loro opere, che Marx definiva “inconsapevolmente socialiste”, mettevano infatti in luce che il miglioramento del suolo operato dal capitalismo non mira a una produzione sostenibile nel lungo periodo ma all’utile monetario immediato, per cui investe capitale e lavoro solo nelle terre più redditizie, che finiscono così per esaurirsi, mentre le altre vengono lasciate incolte. Inoltre Liebig puntava il dito contro lo squilibrio fra città e campagna generato dall’industrialismo moderno (squilibrio che interrompe il ciclo delle sostanze nutritive, nella misura in cui gli scarti organici della città non tornano alla terra sotto forma di concime ma vanno dispersi nell’ambiente). Senza contare che questo antagonismo fra centri e periferie si manifesta su scala mondiale sotto forma di rapina delle risorse naturali e della forza lavoro dei paesi periferici. 


In poche parole, Marx usa le analisi scientifiche di autori come Liebig, Carey e Fraas, per dimostrare che un'economia di mercato è incapace di realizzare una gestione razionale della terra come condizione di esistenza e riproduzione delle generazioni umane che si susseguono, e per affermare la necessità di un’agricoltura non mediata dal valore. Basta tutto ciò per avvalorare la tesi di Saito sulla presunta  svolta “ecologista” (pur mettendo fra parentesi l’anacronismo associato all’uso di tale termine) dell’ultimo Marx, svolta che non sarebbe stata incorporata negli ultimi due volumi del Capitale solo perché la morte gli avrebbe impedito di portarli a compimento? Gli ecologisti obietterebbero che Saito non riesce a dimostrare che Marx abbia preso seriamente in considerazione la questione della scarsità delle risorse naturali, dal momento che pensa che il problema esista solo nel capitalismo mentre verrà superato nel socialismo attraverso il ibero sviluppo della produttività. Per capire se, come e in che misura, Saito riesca a fronteggiare tale obiezione, nella seconda parte dell’articolo discuterò il modo in cui egli affronta due temi: la questione del processo lavorativo come ricambio organico uomo-natura, e la visione marxiana del rapporto uomo-natura nella società socialista.



* * *


Saito parte dal presupposto che, per cogliere il contributo di Marx alla problematica ecologica, occorra partire dal rapporto fra quest’ultima e la categoria marxiana di reificazione, il che implica spostare l’attenzione della critica dell’economia politica dalle forme sociali ed economiche alle dimensioni materiali del mondo. Il concetto di materiale (stoff), argomenta, è una categoria centrale del progetto critico di Marx, tanto è vero che nel Capitale e altrove si ribadisce a più riprese 1) che la produzione umana non può ignorare la proprietà e le forze naturali; 2) che il lavoro non può creare sostanze naturali ma può solo modificarne la forma, il che implica 3) che le forme economiche non possono esistere senza la base materiale. Le teorie postmoderniste che si concentrano su categorie quali “lavoratori della conoscenza”, “lavoro immateriale” ecc. (5), e che descrivono la società tardo capitalista come un mondo economico, sociale e culturale disincarnato, integralmente riconducibile alle leggi dell’informazione, del linguaggio, della semiotica, non colgono il fatto che gli esseri umani non possono trascendere la natura, con la quale realizzano da sempre, e continueranno a realizzare finché esisteranno come specie, una unità mediata dal lavoro.


Tutto ciò emerge chiaramente nelle parti del Primo libro del Capitale in cui Marx analizza il lavoro in generale, cioè l’aspetto trans storico e universale della produzione umana. La specificità del lavoro umano è il suo carattere teleologico di attività che persegue un fine consapevole (vedi la nota metafora dell’ape e dell’architetto, con la quale Marx illustra la differenza fra l’attività umana e quelle di tutte le altre specie animali). Tale specificità, su cui l’ultimo Lukács ha costruito una parte significativa delle sue riflessioni (6), non basta però a liquidare il sottostante carattere del lavoro come ricambio organico fra uomo natura. Marx, scrive Saito, analizza il processo lavorativo come ricambio con la natura, ossia come interazione metabolica materiale di tre momenti della produzione che hanno luogo all’interno della natura: materie prime, mezzi di produzione e attività lavorativa, il che dimostra, aggiunge, come egli conoscesse e utilizzasse il concetto di metabolismo ancor prima di avere letto i lavori di Liebig (prima cioè del 1851). 


Tuttavia i marxisti ortodossi tendono a sorvolare su queste categorie, considerando le parti del Capitale che se ne occupano come una sorta di inciso storico-antropologico, sostanzialmente marginale rispetto all’analisi marxiana della produzione capitalistica. Viceversa Saito sostiene che si tratta di concetti che non permettono solo di comprendere le condizioni naturali universali (trans storiche) della produzione umana, ma anche di indagare le loro radicali trasformazioni storiche in seguito allo sviluppo del modo di produzione moderno e della crescita delle forze produttive. 


E’ qui che nel ragionamento di Saito entrano in gioco i concetti marxiani di alienazione e reificazione. Nelle relazioni sociali pre capitalistiche esiste una unità naturale del lavoro con i suoi presupposti materiali, mentre il processo di interscambio materiale uomo-natura assume una forma del tutto diversa non appena esso può avvenire solo sulla base della radicale scissione insita nel rapporto lavoro salariato-capitale. In precedenza, i lavori concreti divenivano immediatamente sociali malgrado la varietà dei rispettivi contenuti, nella misura in cui la loro allocazione era organizzata prima di svolgere il lavoro concreto, al contrario nelle società di mercato la distribuzione avviene a posteriori, dopo l’esecuzione del lavoro, così gli oggetti d’uso diventano merci in quanto si tratta di prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro, senza alcun accordo sociale, e il loro interscambio dev’essere mediato dal mercato, cioè dal valore di scambio. E’ a questo punto che si produce quel capovolgimento per cui i rapporti sociali fra lavori privati appaiono come rapporti fra cose, ma questa, scrive Saito, non è una “illusione” (7) che nasconde l’essenza delle relazioni umane fondamentali, bensì un fenomeno oggettivo dal momento che i produttori non possono relazionarsi fra loro se non attraverso la mediazione del mercato. Detto altrimenti: il lavoro come ricambio organico uomo-natura è un’attività trans storica, ma si trasforma quando riceve una specifica funzione capitalistica come processo di valorizzazione.


Kohei Saito



Ciò significa che il metabolismo uomo-natura regredisce a fenomeno secondario eclissato dalle “leggi” dell’economia capitalistica? No risponde Saito, perché la sostanza presupposta (stoff), ancorché modificata dalle forme economiche, conserva una propria indipendenza nella realtà, l’indifferenza della determinazione economica formale non è del tutto svincolata dalle caratteristiche materiali dei suoi depositari, e le proprietà naturali materiali non possono essere integralmente sussunte sotto il capitale. E’ da questa irriducibilità della materia alla potenza manipolatoria del capitale che scaturisce la contraddizione antagonistica fra modo di produzione capitalistico e ambiente naturale, perché gli effetti distruttivi delle modifiche all’ambiente che la società capitalistica apporta a quest’ultimo, in modo consapevole e inconsapevole, non possono essere controllate. Ma soprattutto – e qui Saito si differenzia dalle posizioni dell’ecologismo ingenuo – è inutile sperare che una ipotetica “vendetta della natura” induca il capitalismo ad autoregolare i propri comportamenti. Infatti il capitale, spinto dal suo insopprimibile impulso all’accumulazione illimitata, può continuare a trarre profitto dallo sfruttamento delle ricchezze naturali a tempo indeterminato, rendendo gran parte della Terra un luogo inospitale per l’umanità, e ciò almeno finché non si verifichino condizioni tali da configurare  la possibilità di una estinzione della vita umana. In altre parole, la contraddizione si risolve solo con il superamento del modo di produzione capitalistico. Vediamo ora come Saito cerca di attribuire a Marx l’idea che quella abbiamo appena descritta fosse la contraddizione fondamentale del capitalismo, e come descrive il presunto contenuto “ecologista” della visione marxiana della futura società socialista. 


Come abbiamo visto, per sostenere la propria tesi, Saito fa riferimento agli appunti inediti di Marx  venuti alla luce con la pubblicazione dell’edizione MEGA, ai quali attribuisce il carattere di abbozzi  per una revisione del testo definitivo del Capitale, testo che avrebbe sancito un ribaltamento radicale del suo giudizio positivo in merito al potenziale emancipativo del modo di produzione capitalistico. Tuttavia il filosofo giapponese segue anche un’altra linea interpretativa, che potremmo definire come una sorta di linea rossa che, a suo avviso, congiungerebbe i testi giovanili con alcune riflessioni dell’ultimo Marx sollecitate dal dibattito fra socialdemocratici e populisti russi (8) in merito alla possibilità di una transizione diretta al socialismo delle comunità contadine russe (obscina). 


In buona sostanza, Saito sostiene che Marx non avrebbe mai abbandonato la sua intuizione del 44 relativa all’esistenza di una unità originaria tra uomo e natura nelle società precapitalistiche. Analizzando le relazioni sociali feudali, scrive Saito per esempio, Marx mette in luce come esse si fondassero sul dominio personale e politico, che dipendeva a sua volta dalla tradizione e dai costumi, e dal quale non era esente una certa quota di contenuto affettivo. Viceversa i moderni braccianti sono liberi dal dominio politico diretto, sono soggetti giuridici liberi ed eguali, il che non implica tuttavia che essi godano di una vita migliore dei servi della gleba. Dal matrimonio d’amore con la terra, commenta Saito, si passa al matrimonio d’interesse e tanto la terra quanto l’uomo decadono allo status di valori commerciali (9). Il dominio non sparisce ma al posto del dominio personale subentra un dominio impersonale e reificato. Tutta la produzione non è più diretta alla soddisfazione di bisogni personali concreti bensì alla valorizzazione del capitale, per cui si potrebbe dire che l'alienazione moderna scaturisce dal totale annientamento del lato affettivo della produzione. 


Al pari di molti marxisti “eretici” sudamericani (10), Saito è convinto che certi interventi dell’ultimo Marx, come la Critica al programma di Gotha, la polemica con il traduttore russo del Capitale e la lettera alla Zasulic, oltre ai quaderni di appunti del suo ultimo decennio di vita, siano assai più vicini all’umanesimo delle opere giovanili che al Marx “produttivista” e ammiratore del progresso tecnologico, sociale e culturale associato allo sviluppo capitalistico delle forze produttive. Seguendo le tracce degli autori di scienze naturali citati in precedenza, e le loro argomentazioni in merito ai limiti naturali dell’aumento della produttività agricola, e sulla scorta di un intenso programma di ricerca antropologica basato sull’analisi delle società premoderne di autori come Morgan e altri, Marx avrebbe ripreso concetti risalenti alle sue ricerche giovanili, a partire dall’idea della necessità di ricostruire il rapporto morale dell'uomo con la terra, ancorché a un livello superiore rispetto a quello proprio delle società precapitalistiche, dopo la loro distruzione da parte  del capitalismo. Del resto la presenza, nei suoi rari accenni alle caratteristiche della società post capitalista, di formule come “appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo” e come il permanere del regno della necessità, inteso come riconoscimento del fatto che la produzione di beni materiali è fondamentale in qualsiasi società, anche nel comunismo, dimostrerebbe, secondo Saito, il fatto che per Marx la società a venire non sarà altro che un'organizzazione e una regolazione collettiva e consapevole del rapporto fra uomo e natura. 



Brevi note conclusive 


A conclusione di quanto sin qui scritto, non posso che ribadire il giudizio che avevo espresso dopo la lettura di Marx in the Anthropocene: la pur imponente mole di indizi - non di prove: uso questa distinzione mutuata dalla terminologia giudiziaria per sottolineare che una tesi radicale come la sua avrebbe avuto bisogno di argomenti più inoppugnabili – esibiti da Saito non basta a sostanziare l’idea secondo cui Marx sarebbe arrivato, negli ultimi anni di vita, a considerare l’antagonismo fra capitalismo e ambiente come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Intendiamoci: non è mia intenzione negare che nell’ultimo Marx si trovino elementi che contraddicono certe sue precedenti esternazioni nei confronti del ruolo progressivo del capitalismo (sviluppo delle forze produttive, emancipazione dai ristretti orizzonti civili e culturali delle società premoderne, ecc.), del resto ho sostenuto io stesso questa tesi in più occasioni (vedi i libri citati in nota 5) sulla scia di molti marxisti sudamericani (vedi nota10). Ma ciò non giustifica l’ipotesi che la “questione ecologica” (sempre mettendo fra parentesi l’evidente anacronismo associato all’uso di questo termine) sarebbe divenuta per lui più importante di quella del conflitto capitale/lavoro. Il che non impedisce naturalmente di utilizzare le sue analisi relative ai danni devastanti arrecati agli esseri umani e alla natura dalla ricerca illimitata di profitto, interpretandole tuttavia più correttamente come intuizioni anticipatorie e non come atti fondativi della problematica ecologista. 


Più complessa la questione relativa alla valorizzazione di certe caratteristiche delle società premoderne (assenza di proprietà privata, democrazia comunitaria, relazioni umane non alienate, ecc.) come “modello” (sia pure da replicare a un livello superiore) della futura società socialista. Anche qui non mancano a Saito alcune pezze di appoggio per sostenere la propria tesi, ma anche qui si espone al rischio di anacronismo, ma soprattutto al rischio di ignorare l’enorme mole di problemi accumulatisi in più di un secolo di tentativi concreti (non ideali!) di costruire una società socialista. 


Personalmente condivido in toto la sua sensibilità nei confronti del tema del lavoro come dimensione trans storica del ricambio organico uomo-natura, sensibilità che lo accomuna all’ultimo Lukács e gli consente di cogliere quello che è a mio avviso l’unico vero principio del materialismo radicale. Ciò detto, considero irrealistico imaginare che su tale principio si possa fondare l’ipotesi del socialismo come un “ritorno” a relazioni armoniche uomo-natura di tipo pre moderno. L’armonia in questione, se e quando potrà essere raggiunta, sarà l’esito di un lungo percorso storico costellato di mediazioni e contraddizioni. Contraddizioni di cui l’esperienza cinese rappresenta un esempio significativo: per strappare centinaia di milioni di esseri umani alla miseria lo stato-partito cinese ha dovuto imboccare la via di una industrializzazione a tappe forzate che tutto era meno che ecologicamente sostenibile, tuttavia, dopo avere ottenuto risultati strabilianti sul fronte della crescita – inattingibili sia per una società ispirata al paradigma neo liberale sia per una società ispirata al paradigma della decrescita – il socialismo con caratteristiche cinesi sta ora rettificando il tiro e investe risorse ed energie sempre più ingenti per migliorare sia il benessere degli esseri umani che gli equilibri ambientali.        




NOTE


(1) Un autore che rimprovera a Marx, ma ancor più ad Engels, di avere una visione eurocentrica della storia è Hosea Jaffe (vedi, in particolare, Davanti al colonialismo, Jaka Book, Milano 1995 e Abbandonare l’imperialismo, Jaka Book, Milano 2008). Restando in campo marxista, si possono trovare accenti analoghi, anche se meno radicali, in alcune opere di Samir Amin. Personalmente mi sono occupato del tema in un post dedicato alla raccolta di scritti di Marx ed Engels India Cina Russia (il Saggiatore, Milano 1960); vedi “L’eurocentrismo ‘funzionale’ di Marx ed Engels” https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/02/leurocentrismo-funzionale-di-marx-ed.html


(2) Dobbiamo l’analisi più convincente e raffinata dell’esistenza di differenti regimi narrativi nell’opera di Marx a Costanzo Preve: cfr. La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.


(3) Saito esibisce numerose citazioni del Capitale a sostegno delle proprie tesi in Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2022), ne ho a mia volta rilanciate alcune nel post "La cassetta degli attrezzi. Postille a Guerra e rivoluzione", uscito il 18 gennaio scorso su questo blog, (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/la-cassetta-degli-attrezzi-postille.html).


(4) Nei testi giovanili, scrive Saito, Marx distingue quattro diversi tipi di alienazione: 1) il prodotto del lavoro si manifesta ai lavoratori come un oggetto estraneo con un potere indipendente dai produttori 2) ciò avviene perché le attività dei produttori appartengono ad altri con conseguente perdita di sé (il lavoro si riduce a mero mezzo per la propria sussistenza; 3) da 1 e 2 deriva che i lavoro alienato aliena all’uomo il genere (nel senso cioè che nega la libera creatività umana che può produrre qualcosa di indipendente dai bisogni fisici); da 1 2 e 3 deriva infine 4) dallo straniarsi dell’uomo dall’uomo emerge una antagonistica e atomistica competizione per la sopravvivenza. Evidentemente tutto ciò può essere superato solo superando la proprietà privata.


(5) Cfr. A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. La polemica contro la retorica dell’immateriale degli autori postmodernisti è stato uno dei leitmotiv di tutti i miei lavori recenti: cfr. in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011; Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013; Il socialismo è morto. Viva il socialismo,Meltemi, Milano 2019; Guerra e rivoluzione (2 voll.), Meltemi, Milano 2023.


(6) Cito qui di seguito ampli stralci dal primo volume di Guerra e rivoluzione laddove discuto le riflessioni dell’ultimo Lukács (cfr. Ontologia dell’essere sociale - 4 voll. - Meltemi, Milano 2023) sulla categoria marxiana del lavoro: “Il contributo di Marx alla comprensione del fenomeno sociale, sostiene Lukács, può essere colto solo se si capisce che, per lui, il lavoro è la categoria centrale in cui tutte le altre determinazioni sono presenti in forma embrionale. Per Marx, il lavoro non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico, ma è “ l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale”. È perciò che il lavoro è il modello di ogni prassi sociale, e solo tenendone conto si giustifica  la definizione del marxismo come “filosofia della prassi”. Ragionando sui Manoscritti economico-filosofici, Lukács scrive che “in essi per la prima volta nella storia della filosofia le categorie dell’economia compaiono come quelle della produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica”, e subito dopo aggiunge: “ma la economia come centro dell’ontologia marxiana non significa affatto che la sua immagine del mondo sia fondata sull’‘economismo’ ”. Il lavoro, tuttavia, non può essere considerato isolatamente, perché, se è vero che la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono dal lavoro, è altrettanto vero che tutte le categorie in questione non nascono “in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente”. Questo passaggio rispecchia l’impegno di Lukács nel separare il materialismo dialettico da quello meccanicistico. Infatti, se si assume che nel lavoro “la coscienza diviene qualcosa di diverso del semplice adattarsi animale all’ambiente, diviene cioè un’entità in grado di compiere trasformazioni nella natura che altrimenti, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”, occorre parimenti ammettere che la coscienza non può essere considerata un epifenomeno. (...) 

Per Lukács , mentre ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza influisce profondamente sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, al tempo stesso non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro in quanto ricambio organico fra uomo e natura (…). Porre la centralità del lavoro come ricambio organico uomo–natura a fondamento di ogni visione materialistica dell’essere sociale, è una scelta che comporta conseguenze impegnative sul piano filosofico, politico e ideologico. In primo luogo, implica riconoscere la eccezionalità della società capitalistica rispetto a tutte le forme sociali che l’hanno preceduta, in quanto essa è l’unica che occulta il fondamento concreto-ontico del lavoro per poterlo ridurre, da un lato, a merce forza-lavoro, dall’altro lato, a fonte del valore di scambio. Ciò viene rimosso da quelle interpretazioni del pensiero marxiano che mirano a  svalorizzarne gli elementi “metafisici”, contrapponendovi la “scientificità” delle categorie della critica dell’economia politica, sviluppate dal Marx “maturo”. 

Come si vede, e come apparirà ancora più chiaro nel proseguo dell’articolo, l'approccio di Saito è chiaramente debitore del contributo filosofico di  Lukács.


(7) Qui Saito si allinea a Gramsci e Lukács nella misura in cui rifiuta la concezione dell’ideologia come “falsa coscienza”. L’incapacità di riconoscere la realtà materiale dei rapporti sociali dietro le “fantasmagorie” della merce non è frutto di “illusione”, ma è un fattore costituivo, materiale dell’egemonia delle classi dominanti.


(8) In merito a tale dibattito vedi quanto ho scritto nel post citato alla nota (1). vedi anche P. Poggio, L’Obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976.


(9) Qui è riconoscibile il debito di Saito nei confronti di Karl Polanyi (La grande Trasformazione, Einaudi, Torino 1974) autore che Saito evoca più volte anche nel libro citato in nota (3).


(10) Basti pensare ad autori come J. C. Mariategui (Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici, Einaudi, Torino 1972; E. Dussel, L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009; A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Suenos, Quito 2015.


  



domenica 18 febbraio 2024

LA SFIDA DI SANDERS NON SPAVENTA IL CAPITALISMO









Leggendo il titolo del nuovo libro di Bernie Sanders, Sfidare il capitalismo (Fazi Editore), mi sono detto: vuoi vedere che l’anziano senatore populista-socialista (così si autodefinisce), emulo della tradizione di un movimento operaio otto/novecentesco che, pur non avendo mai assunto posizioni “bolsceviche”, ha espresso leader radicali come Eugene Debs, ha finalmente rotto gli indugi. Magari, dopo due campagne presidenziali in cui, dopo avere inutilmente tentato di ottenere la nomination dando l’assalto all’establishment democratico, ha finito per fungere da galoppino delle candidature “eccellenti” di Hillary Clinton e Joe Biden, si è deciso a lavorare per un’alternativa antisistemica alla diarchia repubblicano-democratica, fedele esecutrice degli interessi dell’impero a stelle e strisce.


Purtroppo ho invece dovuto constatare che, rispetto a qualche anno fa, la sua attuale posizione può essere definita, citando un noto titolo di Lenin, come un passo avanti e due (se non tre!) passi indietro. Ma procediamo con ordine. Se invece di leggere il libro seguendone l’indice, qualcuno fosse tentato di “saltare” alcuni capitoli, lasciandosi attrarre dai passaggi che affondano impietosamente il dito nelle piaghe più purulente che affliggono il corpaccione dello zio Sam, l’illusione di svolta radicale evocata dal titolo sembra giustificata. Vediamo alcuni esempi. 


Dopo avere descritto l’intollerabile tasso di disuguaglianza (pari a quello record degli anni Venti) raggiunto negli ultimi decenni, Sanders denuncia la situazione agghiacciante di un sistema sanitario da incubo: il 44% degli adulti fatica a pagarsi le cure mediche (c’è gente che evita di sorridere per non mostrare i buchi di una dentatura falcidiata dall’assenza di cure dentistiche, mentre più di 60 000 persone all’anno muoiono perché non possono acquistare farmaci salvavita né farsi ricoverare); 85 milioni di americani sono privi di assicurazione, anche perché solo i dipendenti regolarmente assunti godono dell’assicurazione fornita dal datore di lavoro, (che “pesa” negativamente sulla retribuzione complessiva!); sebbene la spesa sanitaria pro capite sia il doppio che in ogni altro paese, il sistema si colloca in fondo alla classifica dei paesi più industrializzati, al punto che i tassi Usa di mortalità infantile e materna sono pari a quelli dei Paesi del Terzo Mondo; l’aspettativa di vita è scesa negli ultimi anni del 2% anche se, com’è facile prevedere, i ricchi vivono molto più a lungo degli altri cittadini. 


Passiamo allo stato della democrazia (se così è ancora lecito definirla): i finanziamenti che le lobby industriali e finanziarie (e altri gruppi di pressione) possono elargire liberamente e senza limiti (dopo una controversa sentenza della Corte Suprema, intitolata Citizen United, che equipara i lasciti dei gruppi di pressione a quelli degli individui) sono ormai di entità tale da predeterminare gli esisti elettorali (nell’ultima campagna presidenziale Biden ha ricevuto 230 miliardi e Trump 135, per inciso: su questo scarto dovremo ragionare più avanti). In altre parole: o si è abbastanza ricchi per “comprarsi” una carica pubblica, oppure è possibile farsela comprare da uno o più sponsor che passeranno all’incasso quando si tratterà di votare provvedimenti che ne coinvolgono gli interessi. Uno degli effetti di questa corruzione sistematica che viene esercitata alla luce del sole (senza dovere ricorrere al sistema italico delle mazzette sottobanco) è il crescente distacco degli elettori, i quali partecipano sempre meno alla competizione politica ritenendo giustamente che il loro voto non possa in alcun modo influire sulle decisioni che li riguardano. A favorire la tendenza all’astensionismo, contribuisce anche la diffusa consapevolezza che il mito degli Stati Uniti come patria della “stampa libera” (1) che consente a tutti di farsi un’opinione “obiettiva” sui programmi e sugli obiettivi di partiti e uomini politici è oggi privo di fondamento: il 90% di tutti i media sono posseduti da otto grandi conglomerati privati che, a loro volta, sono in gran parte controllati dai tre maggiori gruppi finanziari di Wall Street. Insomma: da qualunque parte ci si giri, arrivano conferme del fatto che gli Stati Uniti sono ormai proprietà privata di un pugno di oligarchi, una situazione, rivela Sanders, che fa sì che gli americani che giudicano positivamente il sistema capitalista siano scesi sotto il 60% (percentuale che scende sotto il 50% per la fasce di età fra i 18 e in 34 anni). 


Proseguiamo il giochino di estrarre certe parti del libro isolandole dal contesto generale: dopo le denunce dei mali del sistema, vediamo quali obiettivi si propone Sanders per porvi rimedio, senza accennare, per ora, alla strategia politica con cui pensa di realizzarli. Si tratta di obiettivi decisamente radicali, soprattutto nel contesto dell’ubercapitalismo (termine che Sanders usa come sinonimo di turbocapitalismo) a stelle e strisce, rispetto al quale appaiono a dir poco rivoluzionari. Il nostro propone, fra le altre cose, di varare un Medicare for All (in pratica si tratterebbe di estendere a tutti il sistema Medicare attualmente in vigore per gli over 65, realizzando in pratica una forma di assistenza sanitaria gratuita e universale); di rilanciare un movimento sindacale che decenni di repressioni inaugurati dalla guerra di Reagan contro i controllori di volo hanno ridotto al lumicino; di attuare politiche economiche finalizzate a realizzare la piena e buona occupazione, accorciando drasticamente la settimana lavorativa a parità di salario; di rifinanziare il welfare tassando i ricchi e tagliando la spesa militare; di promuovere la democrazia d’impresa anche adottando forme di proprietà diffusa (cooperative e altro). Insomma un’utopia che richiama i sogni ottocenteschi (cucinati in salsa neokeynesiana) di un Robert Owen e dei suoi esperimenti di comunità produttive autogestite. A chi l’onere di guidare la lotta per realizzare questa formidabile impresa trasformativa:  a un rifondato partito socialista? Nemmeno per sogno: alle soglie della sua terza campagna elettorale, Sanders resta ostinatamente ancorato alla folle idea di cambiare dall’interno il codice genetico del Partito Democratico. Vediamo con quali argomenti.


In primo luogo va precisato che Sanders è ben consapevole del fatto che, oggi come oggi, i Democratici sono ben lontani dal condividere la sua visione politica. Ammette che quel partito commise un errore (??!!) enorme quando Clinton si schierò al fianco di Wall Street per approvare accordi di libero scambio come il Nafta; riconosce che sotto l’amministrazione Obama, pur nel momento in cui le responsabilità degli oligarchi della finanza americana nell’innescare la crisi del 2008 (la più devastante dalla grande crisi del 29), neppure un solo alto dirigente di Wall Street ha rischiato l’arresto né tantomeno ha subito un procedimento giudiziario, al contrario: sulle imprese “troppo grandi per essere lasciate fallire” sono piovuti enormi quantità di denaro pubblico sottratto alle risorse che avrebbero potuto migliorare la condizione dei cittadini; riferisce, dal punto di vista di osservatore privilegiato che gli garantisce il suo status di senatore, che il problema della disuguaglianza non viene mai discusso nelle aule del Congresso e che i democratici, non meno dei Repubblicani, continuano a frenare sull'uso della politica fiscale per migliorare la situazione del Paese; sa che nessuno dei  suoi “colleghi” condivide l’idea che i diritti economici dovrebbero essere considerati a tutti gli effetti diritti umani, in assenza dei quali non può esistere libertà individuale (anche se Sanders non arriva a sostenere che, proprio per questo, vengono prima dei diritti civili e dei diritti individuali osannati dalla sinistra “politicamente corretta”); sa che molti lavoratori americani si sentono traditi dal Partito Democratico, al punto  che, parlando con i leader dei sindacati locali, ha scoperto che un’ampia maggioranza dei loro iscritti vota repubblicano (così come sa che questa scelta non è dettata, come sostengono certi esponenti delle sinistre radical chic, da sentimenti razzisti, sessisti, omofobi ecc.). E allora? Come giustificare la scelta di restare in quel partito, sia pure da “indipendente”?


Trump e Biden a confronto




Cominciamo con il dire che le idee di Sanders in merito a cosa dovrebbe essere un partito che fa gli interessi dei lavoratori sono talmente confuse da fargli dire che presidenti come Roosevelt, Truman, Kennedy e Johnson “si identificavano con chiarezza nel partito della classe lavoratrice”. Passi per Roosevelt, anche se le sue politiche economiche “progressiste” erano finalizzate a tamponare la Grande Crisi (che peraltro venne risolta solo grazie alla Seconda guerra mondiale) assai più che a difendere gli interessi della classe operaia (né le politiche del Terzo Reich e del regime mussoliniano furono, sotto molti aspetti, meno “avanzate” sul piano meramente economico, e un magnate fascista come Henry Ford fu particolarmente “illuminato” in tema di regime salariale), ma Truman è davvero troppo: come dimenticare che fu colui che fece sganciare le atomiche sul Giappone, che scatenò la Guerra di Corea e che, in nome della dottrina di contenimento della “minaccia comunista”, diede il via alla caccia alle streghe maccartista: tutto a favore dei lavoratori americani? (decisamente più “progressista” di lui fu il suo successore repubblicano Eisenhower, se non altro perché attuò una politica fiscale fortemente progressiva). Infine Kennedy mandò i proletari americani (soprattutto quelli più poveri e di colore) a farsi ammazzare in Vietnam per difendere gli interessi imperialistici degli Stati Uniti: un altro paladino dei lavoratori? 


Franklin Delano Roosevelt



Quanto appena detto potrebbe far sorgere il dubbio che Sanders sia francamente anticomunista. Detto che una volta che osò esprimere un apprezzamento nei confronti di Fidel Castro fu oggetto di attacchi talmente duri che da allora ha evidentemente deciso di sgombrare preventivamente il campo dalle accuse di “antiamericanismo”, io credo che vada piuttosto classificato come esponente di un utopismo sociale tanto ingenuo quanto ambiguo. Dopo avere citato il detto del reverendo King, secondo il quale “Il regno della fratellanza non si trova nel comunismo né nel capitalismo bensì in una sintesi superiore”, Sanders ci dice infatti che “il vero cambiamento si produce solo dal basso mai dall’alto in basso”, che “è compito dei progressisti chiedere che il Partito Democratico sia l’alternativa” e che “é necessario trasformare completamente il PD partendo da basso”; infine che ciò andrebbe fatto sviluppando “un nuovo senso della morale” (non vi pare di aver già sentito qualcosa di simile?) e assumendo a modello Paesi come la Norvegia, la Svezia, la Finlandia, e la Danimarca (sulle cui storie recenti non sembra essere molto aggiornato, visto che sono piuttosto i loro governi a ispirarsi sempre più al modello americano, come conferma la loro entusiastica adesione alle strategie aggressive della NATO). 


Eppure il nostro è fermamente convinto che, grazie alle campagne elettorali del 2016  e del 2020 – che definisce le due campagne presidenziali più progressiste della moderna storia americana per il fatto di essere riuscito a finanziarle con le piccole donazioni di milioni  di elettori invece che con le regalie delle lobby, nonché per il fatto di essere riuscito a far circolare le proprie idee attraverso i social media e centinaia di comizi locali invece che con l’appoggio dei media mainstream) –, il suo sogno di far cambiare pelle dall’interno al Partito Democratico si sia rivelato attuabile, arrivando ad affermare che “le nostre idee e il nostro movimento erano diventate il futuro del PD”. Ignoro come possa sostenere una simile tesi, visto che è costretto ad ammettere che l’establishment Democratico, quando lui ha cercato di contrattare il proprio appoggio a Biden, gli ha risposto un secco no su proposte come l’istituzione del Medicare for All, come la cancellazione del debito studentesco e l'istituzione di università pubbliche gratuite, e come l’introduzione di forti tasse progressive sui patrimoni dei super ricchi. Ha invece detto sì a una serie di altri provvedimenti, a partire dall’introduzione di un salario minimo dignitoso, ma nessuno di essi è mai stato effettivamente  realizzato. 


Eppure Sanders non si pente di avere interrotto la propria campagna per appoggiare Biden, anche se molti dei suoi sostenitori non erano d’accordo. E qui devo confessare che, malgrado la simpatia che provo nei confronti del personaggio, le motivazioni che adduce suonano, rispettivamente, speciosa (la prima) e opportunistica (la seconda). La prima consiste nel rilanciare il messaggio democratico che recita “noi non siamo un granché ma i repubblicani sono peggio”, messaggio, scrive Sanders, “ in cui c’è più di un granello di verità”. Specioso perché, come abbiamo visto, è lo stesso Sanders a dimostrare che le politiche dei democratici non sono meno aliene agli interessi dei lavoratori di quelle dei repubblicani: i 230 miliardi che Wall Street ha dato a Biden a fronte dei 135 elargiti a Trump - vedi sopra – parlano chiaro, così come parla chiaro il fatto che gli elettori poveri abbiano voltato loro le spalle. Quanto alla presunta minaccia che Trump rappresenterebbe per la democrazia, suona falsa di fronte al fatto che lo stesso Sanders ci dice che la democrazia americana è morta da un pezzo, uccisa dalla corruzione esercitata dal denaro. Resta, ed è davvero l’unico, l’argomento relativo ai sentimenti razzisti, sessisti ed omofobi del magnate repubblicano. E tuttavia Sanders dovrebbe rendersi conto che, insistendo su quest’unico tasto, offre un assist perfetto alla propaganda repubblicane contro il “capitalismo woke” (2), propaganda che suona credibile alle orecchie di quei lavoratori che vedono come le aziende impegnate a tutelare i diritti di donne, gay, lgtbq, ecc. siano le stesse che ignorano il loro diritto a un salario e a un lavoro decenti. 






iPassiamo alla motivazione opportunistica. Credo che molti di coloro che mi leggono abbiano avuto modo di ascoltare qualche ex deputato o senatore comunista descrivere i propri rapporti di simpatia e amicizia nei confronti di qualche collega democristiano o addirittura di destra. Niente di male, si dirà, quando si frequentano per anni gli stessi palazzi del potere, è normale che nascano simili rapporti anche fra persone di opposte sponde ideologiche. Ma il punto è appunto questo: quando si frequentano per anni, cioè quando il comune status di politico di professione rischia di cancellare le differenze ideologiche, l’opportunismo è l’esito inevitabile. Vale anche per Sanders? Eccome, sentite come descrive il suo rapporto con Biden: anche se abbiamo visioni politiche molto diverse conosco Biden da anni e lo considero un amico e una persona assolutamente rispettabile (…) Un uomo rispettabilissimo con cui collaborerò per portare avanti le nostre idee progressiste (...) Mi piaceva come persona, era un tipo per bene (…) abbiamo sviluppato una sorta di cameratismo. Queste parole al miele spese per uno dei peggiori presidenti della storia americana, l’uomo che ci sta trascinando verso la Terza guerra mondiale, che appoggia senza se e senza ma i regimi criminali di Zelensky e Netanyahu, che appartiene alla corrente Neocons e incarna gli interessi della lobby militare-industriale, sono rivelatrici: o Sanders pensa così di giustificare una scelta che i suoi sostenitori hanno accettato obtorto collo, o non ha la minima consapevolezza dell’attuale scenario geopolitico, oppure, a voler essere cattivi, è solidale con Biden perché anche lui avverte i primi sintomi di demenza senile.


L’ultima è ovviamente una battuta. Credo che ci troviamo di fronte a un mix delle motivazioni sopra descritte, al tempo stesso ritengo che il silenzio di Sanders sui temi internazionali sia particolarmente inquietante. Nulla dice sull’imperialismo americano e sul fatto che il benessere dei lavoratori americani, finché è esistito, è stato reso possibile dalla ricchezza accumulata a spese dei lavoratori di altri Paesi (soprattutto del Terzo Mondo). Pensa sia giusto recuperare quel benessere senza sottilizzare sui mezzi (nel qual caso non sarebbe diverso da Trump)? E’ consapevole del fatto che, se vuole sfidare il capitalismo, dovrà fare i conti in primo luogo con il proprio Paese, e con la sua ferma determinazione a conservare a qualsiasi costo il dominio acquisito con il crollo dell’Urss? Qual è, a suo avviso, il nemico principale del suo progetto: gli oligarchi a stelle e strisce oppure le potenze emergenti come Cina e Russia che sfidano la loro egemonia? Laddove scrive “ho pensato alla bellezza del nostro paese e alla capacità del nostro movimento di realizzare tutte le sue promesse” lascia aperte le porte al dubbio che speri di restaurare il mito della “unicità” americana con il corollario dell’ american way of life. Si rende conto che ciò non è possibile se non, appunto, sfidando le speranze e le aspettative degli altri popoli? 


Note


(1) Forse mi è sfuggito (nel qual caso chiedo venia), ma nelle pagine in cui critica il mito della libertà di stampa, mi è parso che Sanders non citi mai la feroce persecuzione che il suo governo ha messo in atto contro Julian Assange, reo di avere documentato i crimini di guerra americani in Iraq. Se è così credo sia davvero grave.


(2) Sul capitalismo woke, come viene definito l’attivismo a sostegno delle cause politicamente corrette da parte di alcune grandi imprese americane (soprattutto del settore high tech) vedi quanto ho scritto su queste pagine: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/09/a-proposito-del-cosiddetto-capitalismo.html  



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